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Passeggiate per l'Italia, vol. 1
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E-book292 pagine4 ore

Passeggiate per l'Italia, vol. 1

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LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2013
Passeggiate per l'Italia, vol. 1

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    Passeggiate per l'Italia, vol. 1 - Mario Corsi

    The Project Gutenberg EBook of Passeggiate per l'Italia, vol. 1, by

    Ferdinando Gregorovius

    This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with

    almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or

    re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included

    with this eBook or online at www.gutenberg.org

    Title: Passeggiate per l'Italia, vol. 1

    Author: Ferdinando Gregorovius

    Translator: Corsi Mario

    Release Date: September 10, 2009 [EBook #29955]

    Language: Italian

    *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK PASSEGGIATE PER L'ITALIA, VOL. 1 ***

    Produced by Emanuela Piasentini, Barbara Magni and the

    Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net

    (This file was produced from images generously made

    available by The Internet Archive/Canadian Libraries)

    FERDINANDO GREGOROVIUS

    Passeggiate per l'Italia

    La

    Campagna romana

    I Monti Ernici—I Monti Volsci

    Idilli delle spiagge romane—Il Circeo

    Le sponde del Liri—Il Castello

    degli Orsini

    in

    Bracciano.


    Versione dal tedesco


    Ulisse Carboni—Libraio Editore

    ROMA

    Via delle Muratte, 77

    1906



    I diritti sulla presente traduzione sono riservati

    Stab. Tip. della Società Poligrafica Editrice

    Roma, Piazza Pigna, 53.


    PREFAZIONE

    Questo volume, al quale altri faranno seguito, fa parte di un'opera geniale, ma poco nota fra noi, del Gregorovius, «Wanderjahre in Italien», che nel testo tedesco comprende ben cinque volumi, editi dal Brockhaus di Lipsia. Di essa apparvero già in Italia, molto tempo addietro, frammenti, capitoli isolati, ma—non sappiamo veramente per quale motivo—mai se ne tentò l'intera traduzione.

    Ingiusto essendoci sembrato l'oblio, cui si erano condannate queste bellissime pagine, abbiamo pensato di presentarle al pubblico italiano in una fedele ed integra versione.

    Questo primo volume comprende le escursioni del grande storico della Roma medioevale per la terra latina, per la campagna romana, la marittima e per il Lazio fino alle sponde del Liri, escursioni fatte, per la maggior parte, fra il 1858 ed il 1860. Non sono fuggevoli impressioni alla Stendhal, non sono note modeste o superficiali da touriste e tanto meno vuote e patetiche chiacchierate: se in Gregorovius il sentimento del bello era profondo, se, dinanzi all'opera d'arte creata dall'uomo od a quella plasmata dalla natura, egli si entusiasmava e diveniva spontaneamente poeta, innanzi tutto e soprattutto, egli era uno storico ed in ogni cosa vedeva quindi e sentiva il passato. Anche in un'opera di personali impressioni non poteva perciò spogliarsi del suo abito di ricercatore e ricostruttore di epoche trascorse: e in queste pagine, infatti, è tutto il Gregorovius della «Storia del medio evo», è il Gregorovius che fruga fra le rovine e fra i vecchi manoscritti che raccoglie, riunisce, esamina e ricostruisce.

    Leggendo queste pagine si sente che Gregorovius è nel suo dominio: egli conosceva infatti Roma ed i suoi dintorni, come pochi anche oggi la conoscono e l'amava con affetto sconfinato e ammirazione profonda di figlio: ne conosceva i monumenti, i ruderi, gli abitanti, le abitudini, il linguaggio, la vita comune, la storia grande e tragica, la politica, le leggende, la fede. Le sue osservazioni, di un'esattezza severa, scrupolosa, sono quindi spontanee e pensate insieme, costanti e continue. La vita di mezzo secolo fa, sotto il dominio papale, molto diversa invero da quella di oggi, ma forse più caratteristica, rivive nelle pagine di questo bel libro e vi rivive intera, in tutta la sua bellezza, ricordando, più di quello che oggi ricordi, tutto un passato di lotte, di guerre, di gesta e di tragedie. Accanto al Lazio della metà del secolo xix si leva, in questo libro mirabile, per quanto non scevro di difetti e d'ingenuità, il Lazio del medio evo. Libro di rievocazione storica potrebbe dunque chiamarsi questo: sia che l'Autore ci presenti il pittoresco aspetto della campagna romana, le selvagge solitudini dei monti Ernici e Volsci, la poesia profonda delle rovine infiorate di Ninfa, o il pauroso squallore di Astura dinanzi al limpido Tirreno e le ville sepolte nelle paludi pontine, l'omerico Circeo, o il cupo maniero degli Orsini, il passato ritorna sempre in queste pagine e vi ritorna nella sua vera luce, maestoso, terribile, in tutto il suo profumo di cosa lontana.

    Chi seguirà oggi lo storico tedesco nelle sue dotte escursioni, troverà probabilmente i dintorni di Roma molto diversi da quello che presentemente sono: Gregorovius visitò la nostra terra in un tempo che è, per gli avvenimenti accaduti, già lontano da noi, per quanto neppur mezzo secolo ce ne separi. Egli percorse questa regione in un momento di fermentazione e quando ancora tante barbarie non erano state commesse sotto il vano e pomposo pretesto di progresso, di miglioramento. Oggi molto, per opera della nuova gente e per le nuove necessità della vita, è mutato e ciò conferisce al libro un interesse ed un sapore ancora maggiore. Ciò, anzi, ci ha indotti soprattutto a tentare questa nuova e completa edizione delle «Escursioni per l'Italia» di Ferdinando Gregorovius cui non dubitiamo che il pubblico sarà per far lieta accoglienza.

    Luglio 1906.

    L'Editore.


    LA CAMPAGNA ROMANA

    (1856)


    La campagna romana.

    (1856).

    La regione nota sotto il nome di Campagna romana varia di estensione a seconda del modo come ne vengono tracciati i confini. Nel senso più preciso della parola, si chiama Campagna di Roma la regione deserta e grandiosa che si stende intorno alle mura della città de' Cesari e che è bagnata dal Tevere e dall'Aniene. Il suo perimetro si può tracciare ad un dipresso con i punti seguenti: Civitavecchia, Tolfa, Ronciglione, monte Soratte, Tivoli, Palestrina, Albano e Ostia. In senso più vasto, la campagna si stende sino al regno di Napoli, avendo per confini il Liri o Garigliano; di là da questo fiume sino al Sarno, che si getta nel mare presso Pompei, vi è l'altra campagna, la quale forma la bella provincia (Campania) che ha per capoluogo Capua.

    La campagna di Roma non è dunque altro che l'antico Lazio, separato dal paese dei Tusci per mezzo del Tevere. Dopo Costantino il Grande cessò di esser chiamata Lazio ed assunse il nome di Campagna, comprendendo nel medio-evo una buona parte del così detto «Ducatus Romanus».

    Sin dai tempi feudali questa regione era divisa in due parti, la Campagna propriamente detta nell'interno e la Marittima, che si spingeva lungo il mare sino a Terracina. La natura l'ha del pari distinta in due parti, in pianure e montagne. Le pianure sono tre, quella intorno alla città, solcata dall'Aniene e dal Tevere e coronata dai monti della Sabina, di Albano e di Ronciglione e bagnata dal mare; quella più vasta, circoscritta da una parte dai monti Volsci e Albani, e dall'altra dal mare, la quale comprende le paludi Pontine; ed infine quella interna, formata dalla valle del Sacco, che fiancheggiato dai monti Volsci, dagli Equi e dagli Ernici, dopo breve tragitto sbocca nel Liri, presso Isoletta, sotto Ceprano.

    Di questa stupenda regione del Lazio voglio intrattenere i miei lettori, fra cui alcuno conoscerà certo e ricorderà (se per recarsi da Roma a Napoli avrà preso la strada per Frosinone e S. Germano in luogo dell'altra per Terracina) le bellezze della valle del Sacco e delle montagne che la circondano. Nella mia descrizione moverò da queste due città, da Genazzano cioè, luogo di pellegrinaggio ben noto, situato all'ingresso della valle, e da Anagni, antica residenza di più papi nel medio evo. Ho vissuto tranquillamente a Genazzano alcune settimane, e ne ho approfittato per conoscere la Campagna latina e per visitare le sue città ed i luoghi più importanti, di cui la conoscenza poteva servirmi per la mia storia di Roma nel medio evo. Mi trovavo nel campo preciso di quella storia, nel paese d'origine di quella grande famiglia Colonna, la quale di là sorse così imponente e, come già ho detto, in una delle residenze dei papi medioevali, tra i quali basterà nominare Bonifacio VIII, per eccitare un sentimento più vivace per quella località. Non si spaventi il lettore, io non ho intenzione di opprimerlo con nomi e con eccessive ricerche, per quanto questo paese meriterebbe una nuova e più chiara descrizione di quelle del Nibby e del Gell, come la meriterebbero pure Anticoli, Alatri, Veroli, Soni ed Arpino, patria questa di Cicerone e di Mario, e tutti quei monti e quelle valli, belle e selvagge, colà situate, note sotto il nome di Ciociaria.

    Si va da Roma a Genazzano per la via Labicana, uscendo da Porta Maggiore, dove in altri tempi cominciavano la via Labicana e la via Prenestina. Di queste due resta solo la prima, ampia strada che anticamente sboccava sotto Anagni nella via Latina, attraversava la valle del Sacco (Trerus) e poi il Liri presso Ceprano (l'antica Fregella). Il viaggiatore che esca oggi da Roma per questa venerabile porta, si trova dinanzi ad un nuovo spettacolo, perchè là sorge la stazione provvisoria della prima strada ferrata degli Stati della Chiesa, che porta a Napoli; la costruzione molto meschina è a ridosso dell'arco gigantesco dell'acquedotto di Claudio. Si direbbe che l'invenzione più recente della civiltà abbia timore di levarsi a fianco delle rovine colossali dell'antica Roma, sebbene il genio moderno di gran lunga sorpassi quello dell'antichità, sì che un Plinio, o un Traiano proverebbero oggi uno stupore pari a quello del pastore del Lazio che vede per la prima volta passare precipitosa e sbuffante una locomotiva. Eccettuata la più bella strada ferrata del mondo, quella che va da Napoli a Pompei, non ve n'ha altra che possa offrire un contrasto più vivo fra due epoche della umana civiltà, quanto questa che corre lungo gli archi coperti di musco dell'acqua Claudia, attraverso alla triste campagna, fra le antiche tombe e le torri solitarie dell'età di mezzo.

    A tre miglia da Roma s'incontra Tor Pignatara, dove è la tomba di Elena, madre di Costantino; sei miglia più in là, un ponte sul ruscello Marrana (Aqua Crabra), quindi Torre Nuova con i suoi pini maestosi, castello di proprietà del principe Borghese, dove gli archeologi pretendono sia esistita la villa Popinia, di Attilio Regolo, cosa che noi non contrasteremo, accontentandoci di accoglierla con un sorriso. Il lago Regillo invece è veramente l'antico «Lacus Regillus» e l'ombra di Tarquinio viene a confermarcelo e a dissipare i nostri dubbi. Oggi non ha più acqua ed il cratere vulcanico è rimasto secco: è piccolissimo, tanto che viene chiamato il Laghetto. Dopo si trova la prima stazione, Osteria della Colonna, che è una taverna isolata al sedicesimo miglio, costruita ai piedi di una collina che si stacca dai monti Albani, in cima alla quale sta il villaggio di Colonna, nel medio evo culla della famiglia di questo nome. Passata Osteria, la prima stazione che s'incontra è «ad Statuas», oggi S. Cesareo; essa pure è una trattoria, perduta in mezzo alle vigne, in un terreno accidentato, mal rinomato un tempo per le frequenti grassazioni commesse dai briganti. In questo luogo i banditi eran soliti attendere il passaggio delle diligenze, ad una curva della strada, pronti a saltar fuora, come dicevano, al momento opportuno. Da S. Cesario si scopre, fra bellissimi vigneti, il piccolo villaggio di Zagarolo, antico feudo dei Colonna, ai quali apparteneva tutto il territorio dei dintorni. Questo borgo dovrebbe essere, o almeno lo si crede, l'antico Pedum, che Orazio nomina nella sua quarta epistola, diretta all'amico Albio Tibullo:

    Albi, nostrorum sermonum candide judex.

    Quid nunc te dicam facere in regione Pedana?

    Di qui, continuando a salire per qualche miglio, si giunge a Palestrina, località assai importante, che fu l'antica e gloriosa Preneste dei Romani, dove oggi si può riconoscere ancora per un certo tratto il selciato poligonale dell'antica strada.

    Qui è bene che ci arrestiamo un poco, perchè i miei lettori non abbiano ad accusarmi di accennare soltanto al nome di una città così antica e degna di nota; tuttavia non mi tratterrò a lungo.

    Preneste, che ora sotto il nome di Palestrina ci appare come un gruppo di case nere sul pendio di una collina di tufo, fu anticamente la dominatrice del Lazio, prima di Alba Longa e di Roma, come lo attestano le ciclopiche mura in doppia linea che ancora esistono e che proteggevano altra volta l'antica cittadella. Sorgeva questa sul punto più elevato del monte Prenestino, in una località per natura fortissima e quasi inespugnabile, dove nel medio evo fu costruito un castello. L'origine dell'antica città rimonta ai tempi favolosi, ai tempi di re Cecolo, che Virgilio (Eneide, VII, 678) pone alla testa di una legione, di cui facevano parte le genti dell'Anio, dell'Ernica e della «ricca» Anagni.

    Preneste fu signora del Lazio sino al giorno in cui i Romani la sottomisero. Più tardi la si trova spesso menzionata nella storia; Pirro la conquistò e vi si arrestò prima di muovere contro Roma; maggiore importanza ebbe ai tempi di Silla, quando il giovane Mario cercò di sottometterla; e allorchè Silla divenne padrone della città, dopo un lungo e faticoso assedio, vi fece trucidare tutti gli abitanti maschi, li rimpiazzò con i suoi veterani ed ingrandì talmente il tempio della Fortuna, uno dei più famosi santuari del Lazio, da comprendere quasi tutto lo spazio dell'odierna città che venne innalzata sulle fondazioni del tempio di Silla. Augusto portò nuovi coloni a Preneste, e tanto lui quanto Tiberio suo successore si recarono di frequente e volentieri a villeggiare nella villa imperiale che possedevano in quella città, dove trovavano pura e salubre l'aria. La villa Claudia fu anche nei secoli seguenti, durante l'estate, dimora prediletta degli imperatori, e la città si mantenne florida per lungo tempo ancora e non perdette il suo splendore che all'epoca delle invasioni barbariche, in cui prese il nome di Palestrina.

    Secondo un atto del 970, che esiste tuttora, papa Giovanni XIII fece donazione del feudo di Palestrina alla senatoressa Stefania. La nipote di questa, Emilia (Imilia nobilissima comitissa), sposò verso il 1050 il padrone di Colonna e, a quanto pare, il loro figlio, Pietro de Colonna, inaugurò la dominazione della sua gente sulla città di Palestrina. Ciò che è incontestato si è che dal xii secolo questa famiglia cominciò a diventare potente in quel territorio e ad estendere a poco a poco il suo dominio dai monti Latini a quelli dei Volsci, degli Equi e degli Ernici. Palestrina fu tolta nel 1298 ai Colonna da Bonifacio VIII, loro acerrimo nemico, o con un assedio, o in seguito ad una capitolazione accettata dai due cardinali della famiglia, Iacopo e Pietro, e dai loro congiunti, che vi si erano rinchiusi; il papa, divenuto padrone della città, furiosamente ne fece abbattere le mura e le case, ad eccezione della cattedrale di S. Agapito, e, dopo aver sparso di sale le rovine, vi fece passare sopra l'aratro. Tuttavia Palestrina risorse, ma per essere distrutta di nuovo, nel 1436, dal patriarca Vitelleschi. Venuto questi in guerra con i Colonna, s'impadronì della sfortunata città e tutta la distrusse, non facendo eccezione neppure per la cattedrale. Due anni appresso anche il castello, che sorgeva in cima al monte, fu atterrato.

    Sorvolo su i saccheggi che in seguito rovinarono di nuovo Palestrina. La città, tale e quale è oggi, non rimonta oltre il secolo xv. I Colonna continuarono a considerarla come loro principale residenza, con Paliano, ed ottennero anzi, nel 1571, da Pio V, il titolo di principi di Palestrina, finchè, per i debiti, nel 1630 dovettero vendere la città a Carlo Barberini, fratello di Urbano VIII, per la somma di 775,000 scudi romani. L'ultimo Colonna signore di Palestrina fu Francesco, morto nel 1636.

    L'attuale città si stende a forma di terrazze sul pendio del monte, ed è di aspetto cupo, eccezione fatta della lunga via principale, dove sono parecchi palazzi. Nel punto più elevato sorge il palazzo Barberini, magnifica costruzione nello stile del secolo xvii, oggi completamente abbandonata. Per la sua forma semicircolare ricorda la pianta dell'antico tempio della Fortuna di Silla, sulla cui area fu appunto costruito. Questo palazzo baronale che risale al periodo del maggior lusso della vita romana moderna, ha gran numero di sale, di camere, di logge, ma non offre nulla che meriti veramente di esser visto, eccettuato un grande mosaico, paragonabile a quello scoperto a Pompei e conosciuto sotto il nome di battaglia di Alessandro. Rappresenta scene campestri e religiose dell'Egitto, con gruppi di sacerdoti, di sacerdotesse, di sacrificatori, di guerrieri, di pescatori, di pastori e di cacciatori, con templi, case rustiche, animali, il tutto eseguito con somma maestria. Pare che non risalga ai tempi di Silla, come è stato affermato; è senza dubbio di un'epoca posteriore, forse di quella dell'imperatore Adriano. Questo capolavoro artistico fu scoperto nel 1638 fra le rovine del tempio della Fortuna, dove ornava probabilmente una nicchia. La famiglia Barberini lo aveva da prima posto nel suo palazzo a Roma, ma più tardi lo restituì a Palestrina, per aderire alle preghiere degli abitanti, i quali si dolevano che la loro città fosse stata privata della sua più bella rarità.

    Ma ciò che è più pregevole nel palazzo di Palestrina, non è la sua antichità, ma la sua posizione, in cima all'altura, dove spira un'aria sempre fresca, pura e balsamica, e dalle cui finestre si gode una vista d'una grandiosità e d'una bellezza veramente uniche. L'occhio di lassù abbraccia la maggior parte del Lazio da un lato e dall'altro una parte dell'antico paese dei Tusci (Etruria), ora patrimonio di S. Pietro; la vasta pianura, di aspetto classico, è limitata dai monti Latini e Volsci, in mezzo ad essa si apre una larga strada in fondo alla quale si scorge luminoso il mare. All'orizzonte si scorgono le linee di Roma, la città eterna, nei vapori turchini, il monte Soratte isolato e solitario, e la catena degli Appennini, e più in là i monti della Sabina, ed a sinistra poi l'ampia e bella valle del Sacco, dominata dalle cime di Montefortino e di Segni; e più lontano le alture della Serra e tutte quelle vette dei monti di Anagni e di Ferentino, che si perdono nell'azzurro vivo del cielo. Se poi ci figuriamo quelle pianure e quelle colline seminate di città, di ville e di villaggi così ricchi di ricordi storici, che richiamano alla memoria i tempi di Roma antica, dell'impero e del medio evo, se si pensa che di lassù si possono contemplare l'Umbria, la Sabina, il Lazio, il paese degli Equi e degli Ernici, l'Etruria, i monti Volsci ed Albani, ed infine il mare, tutto questo riunito in un solo e grandioso panorama, ci si potrà fare allora un'idea della grandiosità ed imponenza dello spettacolo che Palestrina offre. Quando i Colonna, nel medio evo, dalle finestre del loro palazzo o castello miravano i loro possessi, potevano orgogliosamente ben dirsi i più ricchi ed i più potenti signori del Lazio.

    Dinanzi a questo quadro meraviglioso, sotto l'azzurro di quel cielo, in quell'aria sì pura, si prova quasi una voluttà nel ricordarsi che Palestrina ha dato i natali ad uno dei geni più grandi della musica sacra, che assunse ed illustrò il nome della sua città natale.

    Più ampio orizzonte ancora si scorge, salendo dal palazzo all'antica rocca: questa sorge proprio sulla vetta del monte Preneste; vi si arriva faticosamente in meno di un'ora, per un ripido sentiero scavato nella pietra calcare. Era un dopo mezzogiorno di agosto, quando io mi ci recai, e sebbene il sole fosse ardentissimo, mi sentivo fresco e leggero, poichè l'aria fresca di quell'altura non lascia sentire la fatica. Su questa cima è un piccolo borgo, S. Pietro, che risale a tempi antichissimi, poichè si fa menzione di un convento o monastero in quel punto sin dal secolo vi. Vicino a quello rimangono le belle rovine del castello medioevale, dei muri quasi abbattuti, delle torri cadenti, invase dalla ginestra selvatica e quasi coperte di edera lussureggiante. Qui fu rinchiuso lo sfortunato Corradino, dopo la battaglia di Tagliacozzo, e di qui egli fu condotto al patibolo a Napoli.

    Bonifacio VIII fece distruggere questo Castrum Montis Prenestini, antica rocca dei Colonna e centro della loro signoria nella Campagna. Si possono leggere anche oggi le lagnanze dei Colonna al papa, in un documento del 1304, dove è scritto: «Egli ha anche demolito la rocca dell'antico monte Prenestino, Rocca nobilissima, che comprendeva splendidi palazzi e mura antichissime costruite dai Saraceni (Saracenico opere), con grandi macigni, al pari delle mura delle città, ed inoltre l'importantissima chiesa di S. Pietro, edificata sull'area di un monastero. Egli ha atterrato tutto ciò, insieme ad altri palazzi ed alle case, in numero di circa duecento». Il celebre Stefano Colonna però fece ricostruire la città e la rocca, ed oggi ancora si può leggere sopra la porta della rocca rovinata e sotto lo stemma dei Colonna, la seguente iscrizione:

    MAGNIFICVS DNS STEFAN DE COLVMNA REDIFICAVIT

    CIVITATEM PENESTRE CV MONTE ET ARCE

    ANNO 1332

    Preneste fu del resto uno dei paesi storici più antichi del Lazio, e pare sia stato dimora attribuita al favoloso re Cecolo, nome che sembra una trasformazione dell'antico re Cocalo di Agrigento, famoso per il mito di Dedalo. La veduta da questo punto dei monti Sabini, che si levano severi e maestosi, è grandiosa ed imponente.

    Non chiederò a' miei lettori di seguirmi fra le rovine dell'antica Preneste disseminate nelle vigne, sotto l'odierna città, dove formano una specie di labirinto di volte e di stanze, e dove ancora si trovano preziosi oggetti di antichità; non chiederò questo a' miei lettori, perchè tali escursioni sono faticose ed in genere quasi inutili.

    Palestrina ha due buoni storici, Cecconi e Petrini, le cui Memorie Prenestine sono molto preziose per lo studio della storia del medio evo romano e della campagna romana.

    Subito sotto la città, la strada s'interna in una gola profonda, in mezzo ai monti popolati di lussureggianti castagni, dove scorre anche un torrente chiuso tra due rocce selvagge che tolgono ogni vista. Dopo tre miglia la strada si apre ad un tratto sopra un ponte grandioso e pittoresco, che varca uno degli affluenti del Sacco, e ci si trova allora dinanzi il cupo e bizzarro villaggio di Cave, costruito su una collina attorniata da vigneti e da giardini, da dove la vista può stendersi sino ai monti Volsci e per la pianura del Sacco.

    Sulla piazza del mercato di Cave sorge una colonna, emblema della famiglia Colonna, antica feudataria del luogo. Nei dintorni crescono alberi di noce di straordinarie dimensioni, i cui frutti raggiungono talvolta la grossezza di un pomo e sono molto apprezzati in tutta la campagna romana.

    Il popolo di Cave è di sangue caldo, pronto all'ira ed incline a maneggiare il coltello, e parla un dialetto che si avvicina molto al linguaggio delle cronache del medio evo, al romanesco, e che ricorda anche il calabrese per la facilità nel

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