Fede e bellezza
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Fede e bellezza e un romanzo di Niccolo Tommaseo, scritto in Corsica tra il 1838 e il 1839 e pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1840 e, in versione definitiva, nel 1852.
Diviso in sei libri, il romanzo narra le vicende dell’amore e del matrimonio di Giovanni e Maria. Conosciutisi a Quimper, in Francia, i due si innamorano e cominciano a confidarsi il loro passato, soprattutto le loro esperienze amorose. Superati conflitti e tentazioni i due si sposano, e anche durante il matrimonio continuano a confidarsi ogni piu piccolo moto dell’anima. Nel finale Giovanni rimane ferito durante un duello con un francese che ha insultato l’Italia; riesce a guarire, ma solo per assistere dolorosamente alla malattia di Maria e alla sua morte, a causa della tisi.
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Anteprima del libro
Fede e bellezza - Niccolò Tommaseo
978-963-526-490-2
Libro primo
Scendevano il fiume. Le rive, or accostate, or ritraendosi in seni ameni, or lasciando all’acque quiete ampio letto, mostravano qui l’ombre rade e là conserte, qui l’erboso declivio, là ’l poggio sassoso, segnato di sentieretti che s’inerpicano lenti per l’erta. L’erbe che facevano sdrucciolevoli gli scogli dappiede, col verde vivo avvivavano il luccicare de’ fiori sopra tremolanti: e sotto il ciel placido e fosco parevano gli alberi spandere il flusso marino; e scossa ad ora ad ora da un buffo di vento gocciolava la pioggia: sotto la pioggia vogavano taciti affannosamente pescatori, uomini e donne, a cercare nell’alto il vitto alla povera famigliuola. Gli era di giugno, ma rigido il tempo e mesto: se non che una modesta pace, una letizia raccolta spirava nell’aria, simile alla malinconia di timida giovanezza. Il canto lontano del gallo chiamava a destarsi la natura dormente: e molti uccelli con le vispe lor voci facevano alla primavera restia dolce invito. Maria guardava alle nubi, all’acque dell’Odet, a Giovanni: egli sotto le nebbie di Bretagna pensava all’Italia.
Sbarcarono a dritta: e lasciat’ire il barchetto a Benodet, si raccolsero in una casuccia abbandonata, e misero fuori un desinarino di verdura, ova, frutte; e il sedile ch’era lor mensa e la terra sparsero di fiori gialli, bianchi, celesti, colti sui massi sporgenti. Finito, sedettero sull’orlo dell’acque, che ’l cielo era un po’ serenato, e dopo breve silenzio, Maria cominciò:
Voi volete da me la mia vita: e io l’ho promessa. Ma, v’avverto, né il bene né il male (e il male è grande) vi potrò dire intero. Che mai sono i fatti senza gli affetti? E come narrare gli affetti? Pure dirò.
Comincio da cosa ch’ho già detta, e ambisco ridire: ch’i’ ho vensett’anni. Sui trentasette, se ci s’arriva, chi sa se saremo tanto sinceri? Quant’io senta di dovere a Dio dell’essere nata di donna senese, non saprei dire. I dolci suoni della favella materna, a me già ’mbevuta d’altra lingua e travolta nel vano vivere di Francia, venivano potenti, come ad uomo intirizzito ne’ ghiacci di Russia verrebbe non la memoria ma il vivo calore del sol di Toscana. D’una canzoncina semplice, che mia madre cantava con voce languida ma sicura, cantava nelle purissime sere d’estate lavorando accanto alla finestra, di faccia a un tabernacolino ornato di fiori, due versi di questa canzoncina dicevano:
Delle viole a ciocche
d’ogni stagion ce n’è.
Io quando in Francia, ne’ teatri, ne’ balli, nelle chiuse stanze amorose, mi s’offriva un fiore alla vista, pensavo sovente alla canzone toscana, al roseo candor di mia madre, alla Vergine: e quindi una tenerezza dolorosa, un rimorso desiderato.
Vivevamo in Pisa, dov’era accasata una sorella di mia madre, a lei cara: mio padre, capitano nelle guardie del Buonaparte e suo concittadino, sempre lontano da lei, non le aveva dato che il tempo d’innamorarsene tanto da sospirarlo sempre e tremare per esso. Le sue lettere che venivano or di ponente, ora di settentrione, e narravano gli orrori della guerra con parole di festa; eccitavano in me la voglia di vedere luoghi diversi, d’udir cose nuove. La fantasia cavalcava allegra col padre, il cuore gemeva sereno colla madre, e prendeva qualità da quella pia mestizia mansueta.
Caduto Napoleone, mio padre ottenne a stento un impieguccio in Bastia: ivi raccolse la sua famigliuola. Di que’ tre anni ho poche memorie: solo mi rammento che il tragitto sul mare mi parve infernal cosa; e che a’ poggi arridenti a Bastia avevo sempre gli occhi nel passeggiar con mia madre la sera lungo le onde con lento mormorio leggermente spumanti.
Il diciassette, ch’i’ avevo ott’anni, mia madre morì. Non ne provai gran dolore, ma come uno stordimento; e corto: perché mio padre sentendosi inabile a educarmi egli stesso, mi rimandò in Pisa; dove la zia, di più gaio umore, e non più rattenuta dalla soave severità di mia madre, mi venne moltiplicando i trastulli. Pure, a giorni, le gioie semplici e meste mi tornavano care: la pioggia sui fiori, la luna sull’acque, un bello stellato tra le snelle colonne e gli archi leggiadri del cimitero di Pisa.
Mia zia, bella donna e piacente, era maritata ad un uomo piacente e già fortunato in amore, e cercatore tuttavia delle gioie del mondo, nelle quali s’aggiravano continuamente. Ell’aveva, come suol dirsi, fatte di molte passioni: ma nessuno poteva dir nulla di lei. Il mondo chiama onesta la donna che con gli ornamenti della persona ad arte vestita, ad arte ignuda, con gli atti, gli sguardi, le parole accennanti ad amore, s’ingegna di suscitare quanti può desideri, ma non degna saziarli perché i desideri suoi sono altrove. Io bambina, in quegli atti modestamente inverecondi, in quelle reticenze lecitamente libere, in quell’ebro danzare sull’orlo del grato pericolo, mi compiacevo, ma con non so che ripugnanza secreta, e dicevo in cuore: mia madre non era così.
Un giorno in campagna, di primavera, dopo il desinare, al margine d’un laghetto cinto di qua d’arboscelli verdeggianti, di là di gran piante tuttavia spogliate, vidi mia zia che credendosi sola seco, baciò avidamente con occhi inebriati il marito: e quell’imagine, che pur mi parve deforme, ritornava frequente al pensiero, e l’intorbidava. Ad un loro figliuolo, bel bambino di tredici anni, io di dieci, cominciavo a sentirmi così dolcemente affezionata come i suoi genitori eran tra sé: sempre insieme; innocenti ma troppo bramosi già l’un dell’altra, e contentissimi del piacerci.
Mio padre veniva ogni anno a vedermi: ma e’ si figurava la mia educazione secondo il suo desiderio, sì per avere mio zio in grande stima com’uomo di mondo (parola che a molti significa cose belle), sì perché non avrebbe saputo far meglio. Né, uomo, corso, e soldato, e’ temeva o pure imaginava gli effetti d’un’attitudine sbadata, d’uno sguardo languido, in cuor di fanciulla. Gli uomini che pigliano la vita indigrosso e senza tanti dàddoli, sarebbero i meglio educatori e mariti del mondo se avessero sempre che fare con anime non isteriche. Ma l’esser mio padre contento di me, me lo faceva più caro: e con brama aspettavo l’autunno per rivederlo, e sentirgli nelle serate già lunghette e già rigide, raccontare al fuoco de’ suoi viaggi e delle battaglie, gli assedi e gli assalti, le proprie ferite e le morti de’ suoi. Questa qui nel petto, sull’Adige; questa sul cranio in Germania; questa alla mano in Dalmazia
. Poi ci raccontava delle dolci pianure e delle affettuose donne di Lombardia, poi de’ dirupi assassini e de’ fucili infallibili di Montenegro, poi di que’ Tirolesi santi che tanto forti cose fecero per rompere il giogo di Francia. E narrando passava dal mare alle selve, dal gelo agl’incendi.
Nel venticinque era il mese del venire di lui, quando giunge la nuova della sua malattia. Passano otto giorni; nessuno ne parla: domando, rispondono freddo, confuso: ogni dì sento qualcosa (e non so che cosa) mutato intorno a me. Prendo mio cugino in disparte, lo scongiuro mi dica la verità: mio padre era morto. Il buon giovanetto me lo disse piangendo. Oh di quanta consolazione in quel momento mi fu il suo dolore! Lo gridarono del non avermi mentito, come se fosse potuta starmi sempre nascosta la mia disgrazia. Allora conobbi il mio stato: cominciai a sentirmi forestiera in casa i miei zii. Piangevo spesso: e quando non potevo piangere, mi sentivo più malata dentro, che mai. Scansavo mio cugino: ma se ci abbattevamo insieme, suo padre o sua madre lo richiamavano, o venivano a sedersi tra me e lui, freddi e taciti. I’ ero una povera orfana; e’ non avevano più né riguardi né speranze. Intesi: sentii il dover mio; scrissi a una sorella di mio padre, vecchia e povera, ch’era in Aiaccio, mi raccettasse, mi facesse da madre: non le sarei a carico, lavorerei; se del lavoro non potessi, anderei a servire: ma mi levasse di Pisa. Rispose cordialmente la povera vecchia, venissi; la mi mandava la benedizione di mio padre (ch’era morto nella fede de’ padri suoi): mi mandava pochi franchi ch’ella aveva potuto mettere insieme. E si scusava come di colpa, del non potere di più. Scrisse insieme a mio zio, richiedendomi. Egli, come gli uomini di mondo sanno, voll’escirne a onore, e propose d’accompagnarmi. Quando mio cugino lo seppe, venne con le lacrime agli occhi a pregar me, rimanessi: io mi sedetti di faccia a lui ritto in piedi; e lo guardavo, e non gli potevo rispondere, perché le mie parole sentivo dentro piene di pianto. A un tratto mi levai con le mani sugli occhi, e uscii singhiozzando.
I’ avevo sedici anni, egli diciannove: il cuor mio non batteva a male, ma batteva. Egli semplice, e pio più di me; tanto affettuoso, quant’io passionata. Venne il momento delle dipartenze: pioveva. I’ sedevo stordita senza sapermi risolvere: mia zia venne a abbracciarmi, e più commossa che intenerita, mi disse: Addio, poverina. Quanto mi fece male questa parola! A mio cugino che piangeva in silenzio, chiesi perdono se in cosa l’avessi offeso, lo ringraziai dell’amor suo, gli presi la mano per baciargliela. Oh l’aveste veduto, con che tenerezza abbandonata mi stese le braccia e mi baciò! A quella vista mia zia pianse anch’essa, e tornò ad abbracciarmi, e disse: Maria, figliuola mia, il cielo ti benedica.
Sulla soglia di quella casa lasciai la mia pace, la mia gioventù. Se avessi potuto prevedere i patimenti e i falli di questi undici anni di vita! A Bastia ci fermammo tre giorni. Volli, di nascosto di mio zio, visitare la casa dov’eravam dimorati: ci stava una francese, che mi mandò via.
Una sera che lo zio era a crocchio, uscii sola per vedere dal poggio alla Croce il cimitero dov’erano sepolti mio padre e mia madre. Salii l’erta ansando. La luna dava sul colle desolato, sulle rade tombe, e sull’umili croci. Cercai col pensiero sotterra tra’ cadaveri ignoti le due spoglie care; mi parve di ritrovarle; e inginocchiata pregai. Ritta in piedi, guardai la marina spumante, la città queta, il cielo sereno; diedi un ultimo sguardo al poggio della morte: e scesi ora incespicando ne’ cardi, ora sdrucciolando a passi spessi per la rapida china.
Sull’alba si partì per Aiaccio. Com’è fuggevol cosa in cuor giovanetto il dolore! Quella novità del cammino, que’ poggi che l’un sull’altro si rizzano o si riposano, e dopo molto addossarsi e ondeggiare si confondono a’ fianchi alteri del monte da cui paiono usciti; le vallette che in fondo al verde, giù in fondo, mostrano il biancheggiar de’ villaggi; le tenui acque stillanti; e la selva di Vizzavona che sale con le grandi orme e scende pe’ fianchi della forte montagna, e gode vestirli dell’ampie ombre de’ frassini o delle spesse e diritte cime de’ pini, mi distraevano malcontenta da’ miei dolci pensieri.
Mia zia m’accolse con quell’amorevolezza semplice che sul primo non solletica le tenerezze, ma ogni momento più rassicura, e adagia l’anima nostra nella conoscenza e nella fede dell’anima altrui. Cominciavo a trovarmi tranquilla: quando venne in Aiaccio la vedova d’un cugino di mio padre, la qual viveva in Parigi, e si spacciava per ricca: donna sotto la quarantina, ma giovereccia ancora, e, se non galante, vispa. Saputo di me, profferse menarmi seco: e che la provvederebbe a raffinare la mia educazione, e che a Parigi potevo fare la mia felicità, e che in Aiaccio sarei stata infelice. E qui di molte massime sui bisogni del cuore, di molte lodi, di molte carezze; e compiangermi, e poi consolarmi, e dipingermi Parigi come il luogo di tutte le beatitudini. M’ero già affezionata a mia zia; e a quella vita beata di chiesa e casa, e di solitudine laboriosa e mestamente serena. Ma il tanto dire della Francese, il pensiero che la sorella di mio padre, vecchia, potrebbe da un giorno all’altro mancare, e il desiderio secreto di cose nuove, mi vinsero. La mia povera zia non voleva: ma, vistomi ferma, si rassegnò con dolore represso, come s’essa ci perdesse, non io. Volle ch’io non partissi senza qualche franco di mio (dicev’ella): vendé ’l vezzo delle sue nozze, la tabacchiera del suo marito, e altri argenti di casa. E perch’io ricusavo: Maria, mi disse, non mi date questo dolore, Maria. Vo’ siete la figliuola del povero mio fratello. Maria, ricordatevi di vostra madre: raccomandatevi al vostr’Angelo che vi custodisca. E in ogni occorrenza pensate che vo’ avete ancora una madre. Se intanto venissi a mancare, raccomando l’anima mia alla vostra memoria.
Oh sia benedetta la sua memoria! Ell’ebbe virtù di destare in me, ne’ momenti più crudeli, una tenerezza consolata che mi fece meno angosciosi la vergogna e i rimorsi.
A Parigi, disposta già dall’esempio di mia zia di Pisa, pigliai subito il far del paese. Mia cugina (così chiamavo io madama Blandin) teneva presso la piazza Vendôme parecchi begli appartamenti, e dava a dozzina a gente ricca: la sera musica o ballo in casa o fuori, o al teatro. Gli ammaestramenti di galanteria non mancavano; e i libri più caldi, i vestiti meno accollati; e osservazioni sguaiate sulla parte più materiale della bellezza in donna e in uomo; e sbertare ogni atto modesto come monacelleria, e sogghignare d’ogni inverecondia come d’amabilità, e lungo dire e ridire i fatti scandalosi della giornata, e discorrere a tutto pasto del sentire la vita. Codesto m’ubriacava, non mi metteva ribrezzo: che mia zia senza volerlo mi ci aveva, ripeto, già preparata. M’accorsi ben presto che la Blandin alle massime accordava gli esempi: perché in Francia le donne dopo i trentacinque o cominciano o si rifanno da capo. Io tutta occupata a penetrare il mezzo secreto che involgeva gli atti suoi; conosciutili, non trovavo nella coscienza mia la forza di detestarli; e più che disistimar lei, avvilivo me stessa. Ma perché allegra, e di maniere a momenti leggiadre con dignità, ed ingegnosa, e colta, e carezzevole, e condiscendente a ogni mia voglia, l’amavo. Ella procacciarmi ogni più ambìto diporto, temere per me l’aria e il sole, ma non lo sguardo e la parola dell’uomo; ella misurarmi i cibi, scegliermi gli abbigliamenti, acconciarmi i capelli; e, ornata che m’aveva con lunga cura da impazientire fin la mia vanità giovanile, e, vagheggiatami, e lodata con molte parole in me l’opera sua, quasi contenta baciarmi. Non più bella, dico, ma libera gli atti, e dolcemente roca la voce; e negli occhi non so che d’imperioso, di supplichevole, di luccicante, di lubrico, che ad affissarvisi faceva paura. Le labbra amorose, ma sovente contratte da un pensiero inquieto: bellissimo il mento; colorite in cima le gote, ma tra le tempie e la mascella le invadeva un pallor livido come di morto. Io raffrontavo nel pensiero questa testa lusinghiera e tremenda alla fronte senza pieghe, senz’ombra, alla fronte italiana di mia madre, agli occhi di lei potenti sotto le chine palpebre, alle forme gracili, al lieve sorriso che dalle labbra non mosse lampeggiava negli occhi amorosi. La raffrontavo allo sguardo pronto e breve di mia zia di Pisa, che non chiedeva gli sguardi altrui né in elemosina né in tributo; all’impeto sincero de’ suoi movimenti spiranti ilarità serena, non torba allegria; a quella grazia non pensata, non intenta a allettare, ma certa di piacere, e lieta della certezza, lieta senz’orgoglio feroce, senz’insidia lasciva. Questi paragoni mi facevano alquanto pensosa, ma i’ ero già troppo più parigina ch’io non credessi.
Nel maggio del vensei prese alloggio in casa della Blandin un giovane conte russo, bello di bellezza russa, colto di coltura russa: colore parigino, sapore sarmatico: un misto d’orgoglio, di vanità, d’albagia. I minori di sé trattati come cose, gli uguali senza tenerezza, i maggiori senz’amore: sfoghi d’ira bestiale, repressi a lungo da vergogna di parer troppo russo, ma scoppianti a volte con impeti più selvaggi. Gli occhi volubili, il guardo secco, i capelli rossigni, aperta la fronte, il naso non russo; la bocca al sorriso indocile, composta al ghigno; i lineamenti grossi, le forme della persona bellissime.
Al primo vedermi parve (e senza affettazione, ché affettato non era) com’uomo sorpreso d’affetto nuovo: quando mi seppe italiana (egli che, solo tra quanti eran lì, d’italiano sapeva assai) ne fu lieto. Mi trattava con rispettosa domestichezza, ai più de’ Francesi non nota, che usciti del complimento, escono d’ogni limite: e le impazienze sue furibonde placava per riguardo di me, e le superbie ammansava. La Blandin non faceva che darmelo per bello, con libertà d’osservazioni materialissime che m’avrebbero messo ribrezzo due mesi innanzi. Cominciava la smania in me d’uscire di quello stato di ragazza nubile, incerto, insidiato, bramoso, accattatore, nel quale la verginità dell’anima è disfiorata dai desideri propri ed altrui; e il pudore è men velo che maschera. Costei ci lasciava soli: e ogni facilità le era buona a impegnare (dicev’ella) l’uomo. Si fu presto ai baci: quindi alle lunghe veglie frementi di silenzi amorosi, di sguardi con penoso ardore protratti, e di lunghissimi abbracciamenti. Una notte passeggiando ci trovammo presso il cimitero La-Chaise; il biancheggiare de’ marmi tra il cupo degli alberi mi spaurì: parevano spettri. Abbassando gli occhi, mi venne osservato il bruno che ancora portavo in certi giorni a memoria di mio padre: e parvemi sentire una voce che, fioca, mi chiamasse. Egli in quel momento, preso da uno degl’impeti suoi che me lo rendevano terribile e caro, mi strinse il braccio di forza. Io spaventata ne’ miei pensieri, mi sferrai da lui con un grido: e, fatti due passi, rimasi stupida e vergognosa. E’ m’interroga: non oso dire il perché di quel grido. Allora conobbi che non c’intendevamo: se n’ebbe a male: tornammo senza parola. Passai la notte piangendo, d’orgoglio, non di dolore: la prima delle tante notti angosciose mie. La mattina lo rividi: gli tesi la mano e quasi le braccia: mi parve d’amarlo.
Un vincolo, e non mio, m’obbligava a lui. Grandi spese facev’egli in casa, ch’era rincalzo alle faccende un po’ dissestate di quella donna. Cosa ch’avrei aborrito di soffrire per me, mi ci adattavo per essa.