Il pedante gabbato (ed altri scritti comici)
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Il pedante gabbato (ed altri scritti comici) - Cyrano de Bergerac
CYRANO DE BERGERAC
IL PEDANTE GABBATO
ed altri scritti comici
Risus in ore Cyrani
L'uomo che ride in queste duecento pagine è Cirano di Bergerac, colui che tutti dicono di conoscere, e pochi sanno veramente chi sia. Mascherato con tanto di parrucca e di naso posticcio, fra un'accolta di allegra e perfida gente, egli ha vissuto, per una lunga serie d'anni, sui palcoscenici del mondo intiero, la vita dell'eroico buffone. Ma la celebrità della sua parrucca e della sua infallibile spada di legno non ha toccato la sua persona; la quale, fatta di carne ed ossa, e morta da quasi tre secoli, a malgrado degli sfolgoranti lumi di tutte le ribalte è rimasta per moltissimi oscura.
Ristampando oggi tradotte le più interessanti opere di Cirano è necessario dunque avvertire che quell'altro famosissimo Cirano, intorno alle cui gesta si sono assiepati i martelliani di un finto capolavoro e i pregiudizi di una moltitudine, deve essere dimenticato. I buoni borghesi che con perseverante entusiasmo hanno festeggiato il naso di quest'eroe, il suo naso «famongomadano e scarabombardone, da una mano e meza e da quattro sole co' tacconi» (come avrebbe detto il Marino), ogni qual volta protendeva la punta paffuta oltre la cuccia del suggeritore, sono ora pregati di ravvedersi. C'è qui ancora un naso, e un naso notevole benchè nobilmente arcuato anzi che fatto a polpetta; ma un naso che appartiene a una solidissima testa; e che nonostante il comico, flora e fauna, di cui è popolato, racchiude in embrione, come un piccolo mondo, quanto di più serio produsse in Francia, con le sue fucine letterarie e filosofiche, il secolo decimosettimo.
Si capisce subito che noi non intendiamo seguire Gautier quando, argomentando a minori ad maius circa la corrispondenza dei correlativi, vorrebbe attribuire al naso di Bergerac le sue grandi qualità di soldato e di scrittore, l'intrepidezza del suo carattere e dei suoi pensieri, l'acutezza della sua spada e del suo ingegno, la robustezza del suo braccio e della sua prosa. Certe teorie, come vedremo, vanno bene nella luna. Il naso può servire, secondo noi, di segnacolo alla leggenda, ma non alla storia; può essere il lucente culmine su cui si incontrano le simpatie di alcuni uomini verso un altro uomo; ma non il punto che compendia i giudizi dei posteri intorno a un poeta. Nessuno ha mai pensato di stabilire un rapporto ideale fra il naso di Socrate, che era camuso, e la filosofia socratica; fra la bazza di Dante e la Divina Commedia. Sarebbe impresa pazza incominciare proprio con Cirano di Bergerac; e noi rinunciamo volentieri a simili iniziative.
Bisogna tuttavia convenire che la natura, dotando il volto del nostro autore di un ornamento così poco comune nella forma e nelle proporzioni, contribuì largamente a creare intorno alla sua figura quell'atmosfera pregna di ridicolo che si respira a pieni polmoni nelle sue opere. Diremo, per cominciare, che l'episodio più importante di una biografia ciranesca (attingendo alle frammentarie e incerte notizie lasciate dai suoi contemporanei) ha come fulcro precisamente il naso. Semplici nomi e date ci insegnano che Savinien de Cyrano de Bergerac nacque a Parigi (egli non era quindi guascone) il 6 marzo 1619, dal nobiluomo Abel de Cyrano e da Esperance Bellanger. Della sua fanciullezza si trova qualche cenno nella prefazione del buon abate Lebret agli «Stati e Imperi della Luna». Sembra che suo padre lo mandasse per tempo a studiare presso un onesto parroco di campagna il quale suscitò subito nel piccolo Cirano la più profonda avversione. Degli anni che corrono fra il 1631 e il 1637 ignoriamo tutto, salvo che egli, ritornato a Parigi, seguì nel Collegio di Beauvais le lezioni del pedante Granger, quello stesso che divenne poi il protagonista, l'eroe e la vittima della sua commedia Il pedante gabbato. A 19 anni, nel 1638, si arrolò nella Compagnia delle Guardie, e partecipò in qualità di secondo a molti duelli acquistando fama di valoroso. Nel 1639 fu all'assedio di Mouzon e s'ebbe un'archibugiata che lo passò da parte a parte; un anno dopo, all'assalto di Arras, fu ferito alla gola da un tremendo colpo di sciabola. Queste due ferite lo ridussero così male in arnese che non soltanto dovette abbandonare la milizia, ma rinunciare ad ogni specie di bagordi, al vino e ai cibi troppo saporosi. Cercò dunque consolazione negli studi, già cari al suo cuore; e fra il '40 e il '43 seguì, con Molière, Chapelle, Bernier, Hemant, Lamothe De Vayer, gli insegnamenti del celeberrimo Gassendi.
Agli anni dopo il '43 risale appunto l'episodio del combattimento di Cirano con la scimmia di Briocci. Era questo Briocci un burattinaio che aveva la sua baracca sulla sponda della Senna, in capo al Ponte Nuovo, e ogni sera offriva per pochi soldi spettacoli straordinari alla marmaglia del vicinato. Un giorno d'estate − a quanto narra un anonimo − Cirano, passando il ponte, si fermò dinnanzi al teatro. C'era, pigiata sull'uscio, una gran folla di lacchè, di sguatteri e di monelli, i quali, aspettando l'inizio della rappresentazione, si divertivano a far sberleffi verso una scimmia arrampicata sopra un trabiccolo. La scimmia di Briocci era famosa in tutto il quartiere. Grossa come un omicciattolo, panciutella, vispa e ardita, essa portava in capo un cappellaccio alla brava, con un pennacchino di coda di gallo e una coccarda di seta. In dosso, come le scimmie del re Doladodosol, aveva un collarino alla spagnola, bracchetta in punto e calzini alla sevigliana. Briocci le aveva messo al fianco anche uno spadino smussato, e le aveva insegnato a menar qualche colpo. Cotesta scimmia rispondeva alle beffe dei lacchè sbuffando e ostentando certa sua mal celata calvizie. Ma vedendo comparire improvvisamente Cirano con quel naso nocchioluto e sbrozzoloso a foggia di limoncello, essi lasciarono in pace la bestia e cominciarono a gridare: «Ohè! Chi te l'ha rincricato? Ahò! Ti sei messo il naso delle feste? Ohò! Indietro, con quel paravento!» − e a ridere come ride la gente del volgo quando si diverte da vero. Cirano fu colpito in pieno da questa ventata di ilarità. Attonito si guardò intorno, come l'intrepido Castelforte allorchè, nel quarto atto del Pedante gabbato, s'affaccia alla finestra per fulminare gli schiamazzatori notturni. Poi, preso da un sacro furore, sguainò la spada e la roteò minacciosamente, in ogni verso. Accadde allora ciò che doveva accadere: monelli e lacchè se la dettero a gambe. Uno solo rimase, e si precipitò su Cirano, e gli allungò una botta di quarta. Ma Cirano, cieco d'ira, non vide chi fosse se non quando l'ebbe inchiodato contro le tavole della baracca; ed era la scimmia di Briocci.
Questo combattimento, degno di Don Chisciotte, è quanto di più ciranesco si possa immaginare; e io trovo che la povera vittima di tanto inutile sdegno avrebbe dovuto essere immortalata con un'onorevole sepoltura, un abbondante epitaffio e una diffusa necrologia. Invece quasi tutti i biografi di Cirano sono d'accordo nell'attribuire la scimmia di Briocci alla fantasia di un maligno, e nell'affermare che il nostro autore non si macchiò mai di un così orrendo delitto. Contro simili affermazioni militano le opere stesse di cui oggi ci occupiamo e sopratutto Il viaggio negli Stati e Imperi della Luna, dove alle scimmie in genere, e a quelle vestite alla spagnola in specie, sono dedicate pagine tanto gustose. In ogni modo, vero o falso che sia, questo episodio eroicomico è l'unico, di tutta la vita di Cirano, che possa essere ricostruito in ogni minuto particolare sulla testimonianza di un contemporaneo, sia pure anonimo. Tutto il resto è incerto e sommario; anche le date hanno un valore approssimativo. Si parla senza precisione di un viaggio in Polonia e in Inghilterra. Si sa che fra il '48 e il '53 Cirano scrisse la maggior parte delle sue opere, compresa l'Agrippina, pesante tragedia di stile classico che, rappresentata nel '54, gli procurò fama di ateo pericoloso, e lo schema della Fisica, che sviluppato e compiuto più tardi da Rohault, accompagnò per quasi un secolo la gioventù francese nello studio della scienza.
Si giunge così agli ultimi giorni della sua breve esistenza. Sembra che nel 1654, mentre era al servizio del Duca di Arpajon, a Marais o a Severac, per un misterioso accidente, un trave gli cadesse sul capo spalancandogli d'un tratto la via del sepolcro. Rifugiatosi presso M. des Boiscelairs per sfuggire a persecutori reali e immaginari, visse ancora quattordici mesi, tormentato da due monache le quali pretendevano di convertirlo al bigottismo. Seccato, e desideroso di morire nella pace delle proprie idee, egli si fece alfine trasportare in campagna, in casa di un suo cugino, dove spirò, dopo cinque giorni, nel settembre dei 1655. Le sue spoglie ancora intatte riposano in una chiesa di Charonne.
È strano che un uomo il quale cessò a vent'anni di essere uno spadaccino per vivere una vita di meditazione, di studio e di sofferenza, un uomo che non ha lasciato del proprio valore come soldato se non vaghi ricordi, affidando invece ad opere che ancora rimangono la testimonianza della propria genialità di scrittore, abbia potuto essere per tanto tempo scambiato per un lontano parente di D'Artagnan. Lo stesso Gautier, noncurante di sottomettere la propria fantasia alle necessità di una critica penetrante e castigata, nel suo saggio su Bergerac, non fa che confondere il seicento cui l'opera di Cirano è per tanti e profondi vincoli collegata, con il seicento senza dubbio più pittoresco, più ricco di elementi artistici e di aspetti romanzeschi, che si compendia nelle ardite imprese e nei patetici amori dei tre moschettieri. Tempi eran quelli di vita smodata e violenta, di passioni tumultuose, di traboccante spensieratezza. Gli uomini parevano invasi da una incomposta febbre che li rendeva inquieti, temerari e crudeli. Il tragico e il comico, il sublime e il ridicolo, si confondevano dietro grandi e agitati velari di sangue, d'oro, di profumi, di musiche. Eccessivo il piacere, ricercato per vie difficili e contorte, pagato ad ogni prezzo; eccessivo il dolore, assaporato fino in fondo, con una specie di voluttà che era nello stesso tempo diabolica e mistica. Trionfavano nell'amore i misteriosi e caldi occhi di donne senza nome, dotate di un cuore troppo grande o troppo piccolo, pronte a dedizioni cieche e a non meno cieche vendette, eccelse o infami; trionfavano le scale di seta e le serenate al chiaro di luna con accompagnamenti di stoccate e di schioppettate, le ronde sotto i conventi e gli agguati lungo le vie maestre, i duelli senza scampo, con fragor di lame e ciuffi di parrucche che volavan d'ogni parte e zampilli di sangue, morti fulminee e inverosimili ressurrezioni. Non esisteva più il Purgatorio; tutti s'erano dimenticati delle ridenti oasi dove le brame sostano, si placano e tacciono rassegnate. Il mondo pareva diviso in due parti soltanto: in Paradiso e Inferno.
Ma sotto questo superficiale rimescolio l'acque torbide, sotto gli abiti di questa immensa mascherata di intere generazioni, un'umanità infinitamente più ilare e infinitamente più triste che non fossero le cortigiane e i cicisbei, i buffoni e gli schermidori, i briganti e le streghe, partecipava con vero spasimo al lento compiersi di lungamente attese tramutazioni spirituali dalle quali doveva sorgere un nuovo ordine dell'universo. Balenavano sulle rovine del vecchio mondo scolastico, con abbaglianti sfolgorii, le grandi verità scientifiche e filosofiche dell'evo moderno. All'età delle nuove idee succedevano in quegli anni i tentativi diretti a ricondurre la molteplicità delle scoperte a un certo numero di concetti fondamentali semplici e stabili. Galileo, Campanella, Descartes, Gentile, Spinoza, Liebniz occupano con la vasta latitudine del loro genio tutto il secolo. Il problema dell'essere sta in prima linea, non ancora conciliato con la nuova spiegazione meccanica della natura. Il problema del rapporto fra il corporeo e lo spirituale, fra il mondo e Dio, a quello dell'unità e della molteplicità della materia, attendono d'essere risolti.
Cirano di Bergerac, nonostante la sua terribile sciabola e il suo tremendo naso, nonostante le sue ferite gloriose e il suo sarcasmo infrenabile, appartiene appunto a questa umanità e non a quell'altra; è preso nel cerchio magico delle verità nuove e non nel vortice delle passioni mondane. Uscito giovane da un collegio di gesuiti, la vita turbolenta di Parigi lo sfiora senza travolgerlo. Le donne e il vino, «ces deux charmantes choses qui sourient si gracieusement à nos jeunes fantaisies» non esercitano sul suo spirito che un mediocre fascino. La milizia costituisce per lui un adattamento necessario alla vita; non è e non diventa mai uno scopo e un fine. Infatti egli divide il proprio tempo fra le armi e gli studi. Lebret ce lo descrive mentre lavora in un corpo di guardia con la tranquillità di un uomo che si sente in perfetta solitudine. Quando si decide ad abbandonare il mestiere di soldato, si vale della propria fama di spadaccino per essere accolto ad ogni costo nel cenacolo dei discepoli di Gassendi. Così, a poco a poco, la sua vita assume un contorno preciso e una direzione sicura. Di militante in lui non rimangono se non le sue idee e i suoi sentimenti. Il suo coraggio non si manifesta più in assalti di scherma, ma in dispute accalorate e nella continua abitudine di sostenere fino in fondo, e apertamente, pensieri e opinioni che