I Delitti Della Costellazione Azzurra
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I Delitti Della Costellazione Azzurra - Paolo Carbonaio
Paolo Carbonaio
I delitti della Costellazione Azzurra
EDIZIONI SIMPLE
Via Weiden, 27
62100 Macerata
[email protected] | www.edizionisimple.it
Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.
Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.
Copyright © Paolo Carbonaio
Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.
Edizione Digitale: luglio 2012
ISBN: 978-88-6259-586-5
Il seguente E-BOOK è stato realizzato con T-Page
a Filippo,
il mio gatto ermetico
compagno di tante notti al computer
"O quest’uomo è morto,
o il mio orologio si è fermato."
Groucho Marx
Personaggi:
RICCARDO RUGGERI: scrittore e narratore
CESARE ALTAMURA: il commissario
ILARIA BONAVENTURA: poliziotta e moglie di Altamura
RINALDO FLIP: poliziotto
DOTTOR LO SALVO: il medico legale
FILIPPO: il gatto di Ruggeri
AMANDA COLZA: la padrona della Pensione Amanda
CASIMIRO PACCINI: l'amico di Amanda
MARTA COLANDREA: la zia di Riccardo Ruggeri
GIUSEPPINA DONATI: una vicina di casa della Colandrea
UBALDO DE LIUDEVITZ: un inquilino dello stabile della Colandrea
GABRIELE FIRPO: un rigattiere
MARIO LAVARINO: un rigattiere
AMINTORE TOMADINO: un antiquario
16 settembre 1858 – Oceano Atlantico
La preparazione
Doveva stare molto attento per non farsi sentire dalla guardia in coperta, nonostante il rumore del mare e del vento. Quella era la notte perfetta per ciò che voleva fare e non intendeva rimandare. Anche gli scricchiolii dello scafo lo proteggevano, mentre, inginocchiato accanto alla spessa trave del paramezzale, continuava a scavare il legno con la lama robusta e affilata che si era procurato nella cala del mastro carpentiere.
Dopo un'ora di lavoro, la cavità gli sembrò adatta a contenere la giusta quantità di polvere: l'esplosione avrebbe aperto una falla sufficiente ad allagare il locale in breve tempo, una falla non tale da far affondare immediatamente la nave ma sufficiente per impedire agli uomini di scendere sottocoperta, nel punto più basso dello scafo, per tentare di turarla.
Pulì la cavità dei trucioli e la rivestì con una pezza di tela catramata per isolare l'umidità del legno. Poi infilò dentro il sacchetto della polvere, vi praticò uno strappo e inserì la treccia intrisa anch'essa di polvere, adattandola alla forma del paramezzale, fino alla sua superficie superiore. Da qui, con un secondo sacchetto, iniziò a spargere altra polvere, procedendo verso poppa e la scaletta che portava dalla sentina al ponte superiore. La miccia era abbastanza lunga da consentirgli di raggiungere la sua cabina.
Arrivato al primo gradino, si liberò del sacchetto e dei suoi avanzi di polvere e tornò indietro per raccogliere alcuni sacchi di zavorra. Li sistemò a fianco e sopra il punto scavato del paramezzale. Avevano due compiti da svolgere: attutire il rumore dello scoppio e obbligare l'esplosione a sfogare verso il basso, direttamente sul fasciame della carena, nel punto più immerso dello scafo.
Terminata l'operazione, ritornò sulla scaletta, tolse di tasca l'acciarino e con un gesto secco accese la miccia. Dopo un ultimo sguardo veloce alla montagnola dei sacchi di zavorra, diede fuoco alla polvere e iniziò a salire velocemente. Fra poco, avrebbe dovuto riassumere il suo ruolo e occuparsi delle operazioni d'abbandono della nave.
D'ora in poi, la sua vita sarebbe cambiata radicalmente. Sarebbe diventato ricco, e la ricchezza dava il potere, quello che aveva cercato tutta la vita, solcando gli oceani e privandosi anche delle cose più semplici, come stare una sera davanti al fuoco con la sua adorata moglie. Ma la sua era anche una vendetta, una rivalsa contro quegli incapaci burocrati della Compagnia che lo avevano privato dell'orgoglio di comandare uno dei nuovi bastimenti a vapore, relegandolo a bordo di quel vecchio brigantino.
Trieste ai giorni nostri
Riccardo: la zia Marta
La processione avanzava lenta sotto un cielo spento e lo scalpiccio sulla ghiaia del vialetto era il lamento delle prefiche intente alla rappresentazione della sofferenza.
Alla testa del corteo, sbirciavo le schiene grigie dei portantini e sentivo su di me gli sguardi curiosi dei merli nascosti tra i rami dei cipressi, appena mossi da una brezza umida di pioggia imminente.
Raggiunta la fossa, la sfilata si dilatò per poi riunirsi attorno al prete, già intento a salmodiare le parole di commiato dai vivi e d’accoglimento tra i beati. Un silenzio di pietra amplificava la sua voce, costringendo all’immobilità i presenti con le loro maschere di desolato dolore.
Un merlo fece capolino da un cipresso e il suo morbido verso mi riportò alla mente le parole di Empedocle: Dio è un pensiero che corre veloce per l’Universo.
Stavo frugando nella memoria per avere la conferma che era stato proprio Empedocle a pronunciarle, quando qualcuno mi offrì della terra umida su di una paletta rugginosa.
Attorno, silenzio assoluto.
Sei il parente più prossimo. Tocca a te
, lessi nello sguardo professionale e contrito dell’addetto. Cerca di darti una mossa, non vedi che sta per piovere?
. Imbarazzato, ne raccolsi un pugno che lanciai da seminatore impacciato sulla cassa.
Mi sentivo un estraneo e faticavo a mostrare il dolore richiesto dalla perdita di una persona cara.
Con garbo, qualcuno mi obbligò a indietreggiare per fare posto ad altri, ansiosi di continuare la semina. Strette di mano di carta velina e mormorii di comprensione si susseguirono ancora per una decina di minuti, finché il cimitero si spopolò con l’ultimo dei dolenti che si allontanava a capo chino.
La cerimonia era conclusa e il mondo vivo che rumoreggiava oltre i grigi muri del cimitero si era riappropriato dei suoi interpreti.
Grosse gocce di pioggia iniziarono a martellare la fossa, dove gli spalatori si affrettavano a raccogliere gli attrezzi per correre alla ricerca di un riparo ed io, rimasto solo e lasciato un ultimo pensiero di commiato a zia Marta, della quale non ricordavo più nemmeno l’esistenza, insaccai la testa nel collo dell’impermeabile e mi avviai all’uscita del camposanto.
La pioggia scrosciante lavava le pietre squadrate delle lapidi e con esse il mio sconcerto.
Sapevo di avere una zia Marta
, lo sapevo da sempre, ma l’ultima volta che l’avevo vista, e conosciuta, portavo i pantaloni corti. Poi, le nostre strade si erano divise e nemmeno l’abitare nella stessa città le aveva riunite. Tra la sua famiglia e la nostra erano nati screzi irreparabili e così avevo perso una zia. Della zia Marta avevo quindi, dopo quarant’anni, un vaghissimo ricordo. Così come, quasi invisibili, mi stagnavano nella mente le facce di tanti altri parenti e dei compagni di scuola. Fantasmi.
La zia era una parente acquisita di una cugina di mia madre, una lontana parente acquisita. Un nome inciso su di un ramo secondario e dimenticato del mio albero genealogico. Tanto che, se qualcuno mi avesse informato che era morta, avrei considerato la notizia come un’informazione senza singolare interesse: si nasce, si muore, che novità! Siamo miliardi!
Di partecipare, poi, al suo funerale, non me lo sarei mai aspettato. Né mi sarei aspettato di farlo come unico parente vivo e unico erede. Ma gli eventi erano andati diversamente e alla cerimonia avevo dovuto interpretare la parte dell’attore principale, tolta naturalmente la parte indispensabile che spettava alla zia.
A rifare capolino nella mia vita era stata lei stessa, da viva ovviamente. Mi aveva scritto una lettera, una paginetta fitta di una scrittura ordinata e tondeggiante, forse più adatta a una ragazzina che a una vegliarda ultra novantenne. L’avevo ricevuta dopo ben due settimane da quando era stata spedita.
Caro Riccardo,
Iniziava.
Forse tu non ti ricordi più di me, eri un bambino quando ti ho conosciuto, ma in questi anni mi sono sempre tenuta informata su di te. Sei l’unico parente ancora in vita che mi rimane.
Avevo sorriso, sollevato per essere stato favorito dalla sorte.
Ora, ho pensato di scriverti, non solamente per salutarti, per sapere come ti vanno le cose e congratularmi per la tua attività di scrittore, ma anche perché mi è capitato un fatto singolare.
Ho bisogno dell’aiuto di qualcuno fidato e tu, anche se siamo lontani parenti e non ci vediamo da tanti anni, sei l’unico al quale posso rivolgermi.
Provai subito l’angoscia di un coinvolgimento indesiderato.
Ormai ho 94 anni e, anche se godo di una discreta salute, so che presto non ci sarò più e prima che sia troppo tardi ho pensato di fare un po’ d’ordine tra le mie cose e lasciare a te quel poco che ho.
L’angoscia si dissolse immediatamente e la lettura si fece più attenta.
Ho cominciato a sistemare la casa iniziando dalla soffitta. È inutile che tu, quando sarà il momento, ti trovi pieno di cianfrusaglie inutili. Sono cose senza importanza, se non per me che, alla mia età, vivo di ricordi.
Previdente vecchina, pensai, chiedendomi se la soffitta e l’appartamento li aveva in affitto, oppure erano di sua proprietà.
Ho fatto portare via quasi tutto, compreso un vecchio piccolo baule che apparteneva alla mia famiglia da anni, ma prima ho voluto controllare il contenuto. Nel baule c’erano dei vecchi abiti, alcuni libri e strumenti di navigazione, proprietà di un mio lontano parente, ufficiale di marina.
Interessante, per me che amavo i vecchi libri. Sperai che non li avesse dati via e lo stesso valeva per gli strumenti, ma dalle sue parole mi pareva proprio che queste cianfrusaglie, come le chiamava lei, non le avrei mai viste.
Continuai a scorrere la lettera.
E ora, caro Riccardo, viene la parte interessante. Tra le pagine di uno di questi libri ho trovato un diario e delle lettere, quelle che lo zio navigante scambiava con la moglie, e, tra queste lettere, alcune che vorrei farti leggere. Sono carte che non sapevo di avere, erano nascoste bene, e confermano che una vecchia leggenda tramandata da anni nella nostra famiglia non è pura fantasia, ma molto probabilmente un fatto vero. Una storia che mi è stata raccontata da mio padre, al quale l’ha raccontata suo padre. Se la storia è vera, comprendo il perché di certi fatti che stanno accadendo da un po’ di tempo, fatti che mi preoccupano moltissimo.
Immagino che tu mi crederai una vecchia rimbambita per l’età, ma ti assicuro che non è così.
Non ero uno scettico di natura, ma il dubbio mi aveva preso già dall’inizio.
Ora non voglio dirti di più e ti prego di trovare il tempo per venire a casa mia. Vieni appena puoi o telefonami, sono sempre in casa. Sono molto ansiosa di parlarti e impaurita!
La lettera finiva con affettuosi saluti e, sotto, c’erano l’indirizzo di casa e il numero di telefono.
L’avevo riletta almeno dieci volte, cercando di capire, fra le righe, se era frutto delle fantasie di un’anziana col cervello a zonzo, oppure se, effettivamente, il suo contenuto era reale e la zia affidabile e la cosa migliore da fare era quella di telefonarle subito. Forse, ascoltandola, avrei capito qualcosa di più. Non potevo recarmi subito da lei: dovevo assolutamente finire un articolo e spedirlo per e-mail al giornale di Roma che lo attendeva per andare in stampa. Assentarmi da casa mi era impossibile.
Per tutto il resto del giorno la cercai al telefono, ma inutilmente. Non rispondeva nessuno, nonostante la zia avesse scritto che restava sempre in casa.
La sera, con l’articolo già sulle ali di Internet, decisi che non potevo indugiare ancora e mi diressi a casa sua.
Riccardo: la signora Donati
Erano le otto di sera quando raggiunsi Via del Lazzaretto Vecchio, dove abitava la zia e persi una buona mezz'ora alla ricerca di un parcheggio. Ma, quando suonai al suo campanello, il portone rimase chiuso e muto il citofono. Ero seccato. Forse dormiva da brava vecchina davanti al televisore, oppure sotto la sua trapunta e insistere sarebbe stato inutile, se non maleducato. Forse la zia era sorda e non sentiva il telefono, ma il fatto che non rispondesse mi preoccupava.
Incurante della confusione e dell'educazione, pigiai ancora sul campanello.
«È inutile suonare.» mi sentii dire alle spalle. «La signorina Colandrea non c'è più.»
Era una signora anziana, piccolina, che mi osservava dal basso mentre si stringeva attorno alla faccia il cappuccio di un impermeabile. L'aria della sera era frizzante per la Bora, dopo la pioggia che aveva imperversato tutto il giorno.
«È partita?» le chiesi, ricordando la data della lettera della zia.
La signora mi regalò un sorriso triste, lasciò il cappuccio e si fece il segno della croce.
«Sì, giovanotto, è partita e non tornerà più.» Mi osservò attenta. «Ma lei chi è?»
«Sono suo nipote.» spiegai. «Mi ha scritto pregandomi di venire da lei.»
«Allora lei è Riccardo, il signor Ruggeri, lo scrittore?» esclamò.
Stavo per confermarlo, ma mi bloccai mentre lei mi afferrava la mano, stringendomela debolmente.
«Perché non è venuto subito? Sua zia aveva bisogno di lei! Adesso è troppo tardi!»
«L'ho saputo appena oggi.» mi giustificai. «Ho ricevuto la sua lettera appena questa mattina. Ma perché è troppo tardi? Troppo tardi per cosa?»
«Per aiutarla, giovanotto.» Si fece nuovamente il segno della croce. «La povera Marta è morta, è stata assassinata!»
Restai di sasso e a bocca aperta.
«Morta? Assassinata? Ma….» balbettai.
«Giovedì prossimo, alle dieci del mattino, ci saranno i funerali.»
«Non capisco.» mormorai incredulo. «Chi l'ha uccisa?»
«Non si sa. Forse un balordo per procurarsi della droga. Mi aveva raccontato di essere stata seguita, un paio di giorni prima, mentre andava a ritirare la pensione.» La donna si mise una mano sulla bocca come per bloccare un grido di paura. «Dio mio, c'è certa gente in giro e noi vecchi siamo così indifesi!» Sbirciò l'ora, sollevando il polso. «Ora devo andare, mi voglia scusare.» Mi strinse nuovamente la mano con la leggerezza di una piuma e solo a quel punto pensò di presentarsi. «Io sono la vicina di sua zia, mi chiamo Giuseppina Donati. Abito sullo stesso pianerottolo.»
«Piacere.»
«Le faccio le mie più sincere condoglianze, signor Riccardo.»
Non disse altro, perché aprì il portone scomparendo nella casa, mentre, allo stesso istante ne usciva un signore anziano, elegante, che mi osservò attento, strizzando gli occhi. Aveva uno sguardo inquisitore che mi diede fastidio, come se mi giudicasse uno sgradevole intruso. Mi feci da parte per lasciarlo passare, accennando lo stesso a un segno di saluto col capo, al quale rispose con evidente malavoglia prima di avviarsi, tutto impettito, lungo il marciapiede.
Tornai lentamente alla macchina.
La Bora andava rinforzando ed ero intirizzito dal freddo. Ero anche confuso e non vedevo l'ora di ritrovarmi nel mio studio. Avevo bisogno di pensare e, soprattutto, di capire.
L’assassino: lo strappo
Il miagolio, improvviso nel buio della notte, lo fece sussultare e l’impermeabile si strappò sul chiodo sporgente dal vecchio telaio. Imprecando tra i denti, l'uomo scavalcò il davanzale e saltò nel vicolo scomparendo nell’oscurità.
Alle sue spalle lasciava la Morte, a contemplare appagata la sua ultima preda.
Erano le tre del mattino di una fredda e buia notte di febbraio. La Bora, gelida netturbina, spazzava i vicoli addormentati del Ghetto, sollevando cartacce e polvere che accumulava ostinata sotto gli scarichi delle grondaie e nelle rientranze dei portoni. Anche il foglio piegato, caduto dalla tasca strappata, raggiunse il mucchietto di cartacce, inconsapevole della propria importanza.