Nell'Arco di una Vita
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Elegante, un po’ sornione, serio e giocoso al tempo stesso, viveva concentrato nel suo laboratorio ma sempre aperto sul mondo, teso a coglierne ogni più piccola vibrazione. Conoscerlo, nell’esatto momento in cui si era deciso a raccontare la sua storia, è stata un’esperienza unica. Il foulard al collo, gli occhi accesi, il ritmo tra le dita, ci ha affidato i suoi trionfi e le sue debolezze, i suoi esperimenti e le sue cadute, il suo metodo e le sue speranze.
Un'autobiografia che cerca di mettere un po’ – non troppo – d’ordine tra i suoi ricordi. Da quando, bambino, saliva sullo sgabello per affrontare il contrabbasso, molto più alto di lui, a quando ha escogitato un metodo empirico per misurare la trasmissibilità del legno, da quando suonava con gli amici su e giù per la riviera romagnola a quando si è guadagnato la fiducia di Rostropovich, realizzando per lui un archetto elastico e balzante come la sua intelligenza, come la sua passione.
Giovanni Lucchi, archettaio, nato a Cesena nel 1942, è morto a Cremona all’improvviso, nell’agosto 2012, poco dopo aver scritto questa breve e intensa autobiografia. Racchiusi tra le pagine troviamo i suoi ricordi, i suoi principi, i suoi progetti, che oggi diventano la sua eredità. Un tesoro prezioso per continuare sulla strada che ha tracciato con intelligenza, con creatività, con grande passione.
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Anteprima del libro
Nell'Arco di una Vita - Giovanni Lucchi
9788890868320
Prefazione
I mestieri, come le vocazioni, sono
, cioè non si scelgono, salvo quelle volte in cui devi lavorare per sopravvivere. Giovanni Lucchi si occupava di vibrazioni, ma non poteva essere diversamente perché lui era
le vibrazioni, le impersonava.
Per questa ragione, suonare uno strumento ad arco o fabbricare archetti era semplicemente il naturale prolungamento del suo stato esistenziale ed emotivo. Vibrava, senza posa, anticipava le più sofisticate teorie della fisica, persino quella, nuovissima, delle stringhe, che sembra confezionata apposta per lui. A occhio e croce, quell’infinitamente piccolo prefigurato dagli studiosi dovrebbe somigliare a una specie di brodo primordiale dove invisibili corde si agitano, creando tutto ciò che si vede intorno a noi. Sono talmente piccole che non le possiamo scorgere nemmeno con gli strumenti più avanzati, ma pare ci siano davvero e determinino le caratteristiche di ogni particella, dalla massa al colore, dal sapore alle cariche elettriche e a chissà quante altre cose. Se non ci fossero quei minuscoli filamenti vibranti, il cosmo sarebbe un museo delle cere o forse non sarebbe affatto. La vita stessa nasce da queste vibrazioni incessanti e non può perpetuarsi se qualcuno non le replica tutti i giorni, nella propria specifica dimensione.
Allo stesso modo funzionava l’universo di Giovanni Lucchi, per questo egli capiva le vibrazioni meglio di chiunque altro e sapeva creare oggetti capaci di estrarre le più belle da ogni strumento. L’archetto, in fondo, è come lo zero in matematica. Non serve a nulla senza lo strumento, ma se non c’è, anche uno Stradivari diventa una banale mistura di legno, colle e accessori. Lui lo sapeva e sulle vibrazioni aveva investito tutta la sua vita, anzi tutto il suo essere musicista, spostando la storia dell’archetto, e dunque della musica, di qualche tacca in avanti, avvalendosi del suo personale metodo scientifico. Perché lui stesso era un ibrido, un artista e uno scienziato insieme.
Gli bastava uno stimolo, anche insignificante, per stabilire nessi laddove altri vedevano solo fenomeni inconciliabili, estranei, lontani. Raccontava che l’idea del LucchiMeter gli era balenata guardando un documentario in televisione, dove si parlava della misurazione delle profondità marine attraverso le onde del sonar. Tanto era valso a fargli superare la lotteria del pernambuco
, quella specie di roulette russa che poteva fare di un capolavoro artistico una catastrofe acustica, invalidando decine o anche centinaia di ore di certosina applicazione. Un po’ come se Leonardo avesse dipinto la Gioconda su un tappeto di polvere e alla fine della giornata il vento avesse spazzato via tutto. Già, perché prima dell’invenzione di quella macchinetta che misurava in anticipo l’elasticità del legno, nulla era possibile sapere fino a quando corde e crini si incontravano, emettendo giudizi inappellabili. Troppo tardi per rimediare. Ma lui, che era ansioso (anche l’ansia non è altro che una speciale vibrazione), non poteva aspettare tanto, perché l’ansia dell’attesa è la peggiore. Bisognava rimediare in fretta.
Era un grande osservatore. Sapeva che l’osservazione è già scienza, e per questo, qualunque cosa avesse scelto di fare, il risultato non sarebbe cambiato, avrebbe generato mutazioni, perché era sostenuto da una fede incrollabile nelle possibilità
, dell’uomo e della materia. Tutto si poteva affrontare e risolvere, bastava trovare la strada, e c’era sempre una strada.
Ultimamente si era messo in mente che doveva esserci un modo per contrastare persino le bizze del suo cuore. Ora vado a casa e ci penso
, diceva ai familiari.
E se avesse avuto più tempo, ne sarebbe senz’altro venuto a capo. Il cuore è una creatura della stessa specie cui apparteneva Giovanni, un muscolo che vive di ritmi e di pulsazioni, che si agita e che si placa, secondo periodicità e leggi talvolta insondabili. Una lotta tra professionisti della vibrazione, e per una volta l’archettaio è stato sconfitto. Dal cuore.
Sì, era proprio un filosofo vecchia maniera Giovanni Lucchi, uno di quegli eruditi che esistevano prima che la scienza si differenziasse e si specializzasse. Ovunque posasse lo sguardo, la materia cominciava a vibrare in modo originale e si disponeva a nuove avventure.
Come tutti i filosofi che guardano lontano, però, rischiava di inciampare in un sassolino, anzi sarebbe meglio dire nella materia animata, che non risponde alle stesse leggi dell’altra e nemmeno si lascia imbrigliare. Ma, anche in questo caso, non mancò di fortuna: sulla