Il concilio “tradotto” in italiano. Vol. 1 Vaticano II, Episcopato italiano, recezione
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Anteprima del libro
Il concilio “tradotto” in italiano. Vol. 1 Vaticano II, Episcopato italiano, recezione - Roberto Baglioni
Abbreviazioni»).
CAPITOLO I
LA RECEZIONE NELLA CHIESA
1. ‘Recezione’: polisemia e interdisciplinarietà
1.1 Termine polivalente
«Tema pericoloso?», si domandava Y. Congar all’inizio di un articolo del lontano 1972. «In ogni caso – rispondeva – è un tema che raramente è stato affrontato (anche se importantissimo) sia dal punto di vista dell’ecumenismo, sia dal punto di vista di una ecclesiologia completamente tradizionale e cattolica»¹. In realtà il tema della recezione, così come l’uso del termine, non è affatto una scoperta recentissima, anche se in campo teologico ottiene il diritto di cittadinanza solo intorno agli anni Settanta. Congar stesso, difatti, faceva già riferimento a un importante studio di A. Grillmeier di poco precedente² – e con il quale praticamente iniziava la ricerca teologica più recente sul tema – ma subito ricordava l’utilizzo che veniva fatto del termine ‘recezione’ da parte degli storici del diritto, quando il diritto romano faceva il suo ingresso nella società ecclesiale o civile dell’epoca moderna. Si parlava qui, a titolo di esempio, della Germania del XV secolo.
Di per sé il termine ‘recezione’ rimanda ai vocaboli latini ‘receptio’ e ‘recipere’, e designa fondamentalmente l’atto di accogliere e/o accettare qualcosa che il soggetto considera un bene per sé³, e che gli viene dato
, donato
o semplicemente comunicato
. Una dinamica di dare e ricevere, quindi. Per cui non è lontano da questa accezione il termine ‘tràdere’, e cioè ‘consegnare-dare-affidare’, di cui si serve, tra le altre, la dottrina teologico-fondamentale della Tradizione. Anche consultando un dizionario della lingua italiana o un dizionario teologico, ci rendiamo conto ben presto della complessità e della «polisemìa»⁴ di questo termine: «oggi ricevere è diventato ormai troppo generico, a indicare ogni movimento di cose o parole che arrivano a noi, anche se poi il soggetto che riceve resta solo un destinatario passivo, che non fa nulla nel momento di ricevere o dopo»⁵.
Senza allontanarci troppo dall’argomento di questa ricerca, è chiaro che si sta ponendo qui una questione di metodo, che era bene chiarire sin da principio. Dicendo recezione si vorrebbe sottolineare «un senso forte nel ricevere; ossia la capacità di fare azione, di fare passi incontro, anche quando il movimento sembra partire da altri, quelli che mandano o danno»⁶. Interrogandoci sulla recezione del Vaticano II nei documenti dell’Episcopato italiano, infatti, avremmo potuto risolverla semplicemente evidenziando in essi tutte e singole le citazioni di Costituzioni, Dichiarazioni e Decreti, e cavarcela con una sorta di statistica delle presenze. Sembra più che evidente che avremmo in tal caso già presupposto – a priori, e forse ingenuamente – che cosa si volesse intendere con recezione. Si è scelto, invece, di procedere in altra direzione, premettendo queste prime pagine, con il tentativo di dare risposta a queste domande: che cosa intendiamo con recezione? A quale realtà rimanda? C’è un significato univoco e sempre valido in generale, e nell’ecclesiologia in particolare? Chiaramente ci siamo imposti subito dei confini, espressi anche nella scelta del titolo di questo capitolo, poiché il fenomeno della recezione è una realtà che entra nel campo di molte altre scienze oltre alla teologia, come la storia, l’estetica, la letteratura, la politica e la sociologia⁷, e il diritto, come sopra si accennava.
Ciò che a noi interessa, quindi, è lo studio della recezione nella Chiesa, per acquisire dei risultati che ci consentano di concentrarci in seguito e meglio sull’argomento specifico di questa ricerca. E ciò presuppone che ci si intenda pure sulla valenza precipua della recezione nella teologia della Chiesa, espressa – nel caso in esame – da un concilio ecumenico, e ricevuta da un episcopato locale attraverso la stesura di documenti programmatici
.
Una prima intuizione circa l’importanza di questo tema ce la possono offrire le parole di L. Sartori: «Non si tratta di una cosa secondaria; esprime anzi un aspetto e un dinamismo fondamentali nella vita della Chiesa. Senza la ricezione si troverebbero di fronte l’uno all’altro il credente singolo (o anche la singola comunità o gruppo) e il magistero dei pastori, col rischio della conflittualità; la vita di fede sarebbe tesa tra due poli che potrebbero diventare contrapposti e incomunicanti»⁸. Ci pare che in queste poche righe ci siano offerti in anticipo, ed espressi in una sintesi formidabile, tutti – o quasi – gli strumenti almeno terminologici su cui focalizzare la nostra attenzione nelle pagine che seguono. È in gioco la vita di fede; vi sono coinvolti tutti i soggetti: singolo credente, comunità e pastori. Come pure la trasmissione del deposito e il magistero vivo. Un ruolo importantissimo lo occupa la comunicazione e l’esigenza di comunione. E, infine, non è remoto il rischio di conflitti che minano alla base questo circolo vitale. Un dinamismo fondamentale
, insomma, che coinvolge la vita della Chiesa intera.
1.2 Tema teologicamente interdisciplinare
Insieme alla premessa riguardo alla complessità della recezione in generale, occorre aggiungere che essa resta, «in quanto fenomeno religioso, una realtà molto complessa e di indole interdisciplinare»⁹ anche all’interno della stessa teologia. Esiste una connessione intima e indissociabile tra i fondamenti teologici della recezione nella Chiesa e i suoi processi concreti, vitali e, in qualche maniera, sempre attivi nei vari livelli della comunità ecclesiale¹⁰.
Ma è altrettanto vero che «si parla di recezione come fenomeno religioso in contesti molto differenti nei quali, a prima vista, non è possibile verificare una nozione comune di recezione, se non in senso analogico e molto impreciso»¹¹. Per non parlare della tendenza manifestata negli ultimi decenni ad estendere sempre più il significato di questa parola a fenomeni che non presentano un denominatore comune.
Focalizziamo ancora di più la nostra attenzione restringendola al campo teologico, all’interno del quale possono aiutarci alcuni esempi. Nel diritto canonico si pone la questione della recezione riguardo alle fonti, quando elementi di diritto civile o della consuetudine entrano – possiamo anche dire: sono ricevuti – nella legislazione ecclesiastica. Così come si può parlare di recezione quando delle norme provenienti da una Chiesa di rito orientale vengono recepite nel codice latino, o nel caso in cui questo venga riformato dopo aver accolto le indicazioni di un concilio, come avvenne per il Codice promulgato nel 1983¹².
Nel campo dell’esegesi «si giunge alla formazione del canone
della Scrittura e alla fissazione del textus receptus nei libri canonici e nelle loro pericopi solamente attraverso la recezione»¹³. Ma nella stessa disciplina teologica si può parlare di recezione o di non-recezione riguardo al metodo. Non si fa esegesi oggi come la si faceva due secoli fa, e non è per nulla scontato che il procedere dell’esegeta segua – o recepisca – il cammino tracciato da un documento magisteriale¹⁴ o da una commissione pontificia.
Non si può non menzionare il campo della liturgia, nella sua varietà legata alle culture locali e nel suo svilupparsi attraverso la storia. Un rito locale può recepire le indicazioni del magistero universale del Papa, ma allo stesso tempo integrare in sé usi e costumi di un popolo, situato nel tempo e nello spazio.
«Gli storici e i patrologi hanno davanti a sé un campo sconfinato, appena iniziato a dissodare: basti pensare alla recezione dei simboli e/o delle regole di fede, della configurazione di nuove istituzioni ecclesiastiche, dello sviluppo della liturgia e dei sacramenti, dei molteplici ministeri ecclesiastici, incluso il riconoscimento pratico del primato romano e dell’elemento conciliare»¹⁵.
Tutto questo per dire che il concetto di recezione può essere inteso in senso ampio¹⁶, facendo venir meno l’esigenza di ricorrere ad una «concettualità critica e univoca»¹⁷, e con il conseguente rischio di incorrere in non poche ambiguità e contraddizioni. Dal rischio di questa deriva, o confusione, non è lontana l’ecclesiologia. A. Maffeis pone in nota questa sintesi del lavoro di Routhier su La réception d’un concile: «L’autore, senza rinunciare alla definizione critica del concetto di recezione, che impedisca il suo utilizzo per indicare tutto, riconosce tuttavia la polisemia
del termine e la complessità della realtà ecclesiale cui si riferisce»¹⁸. Si impone pertanto, nel procedere nel nostro studio, l’adozione di una nozione, almeno descrittiva, «sopra la quale esista un consenso fondamentale tra gli ecclesiologi, che permetta di adottarla come base per una ulteriore riflessione teologica»¹⁹.
1.3 Un bene spirituale da far proprio
Quasi tutte le pubblicazioni degli scorsi decenni si ispirano alla definizione proposta da Y. Congar, che intendeva con ‘recezione’ «il processo per cui un corpo ecclesiale fa sua nella verità una determinazione che esso non s’è data da se stesso, riconoscendo così, nella misura dichiarata, una regola che conviene alla sua vita»²⁰. Si tratta, dunque, di un vero e proprio processo, dove è coinvolto un corpo ecclesiale, in ciò che concerne la sua stessa vita. L’azione fondamentale è l’assunzione – «fa sua» – di una generica «determinazione» che viene dal di fuori
. Non entriamo qui nella questione della esogeneità
della recezione nella Chiesa – tematica che affronteremo più avanti – ma possiamo sottolineare ed anticipare che di una certa alterità
si tratta²¹: il soggetto o la comunità che riceve, si può intendere come altro
nel caso non solo di aree culturali o ecclesiali diverse, ma anche nel caso di una distanza temporale, come quella che intercorre tra gli anni del Concilio e i decenni successivi.
Di dieci anni successiva, ma molto simile a quella di Congar, è la definizione di J.M. Tillard, nella quale ad essere riconosciuta come propria da parte del corpo ecclesiale ricevente
è «una regola di fede, una precisazione dottrinale, una norma che un’istanza della Chiesa ha determinato». E precisa con chiarezza: «Non si tratta di un puro e semplice acconsentire, ma di un accogliere, che giustifica l’armonia fra ciò che viene proposto e ciò che si sa
della fede (spesso più per istinto che per conoscenza esplicita)» ²².
Nelle posizioni che qui stiamo quasi esclusivamente elencando emerge via via un altro aspetto imprescindibile riguardo alla attività
o passività
della comunità che riceve, vale a dire il sensus fidelium. In questi termini si comprende meglio il posto che occupa il dato della fede implicato nella recezione. C’è recezione, infatti, quando il popolo di Dio accetta e accoglie una decisione o dichiarazione in quanto «vi scorge un’armonia tra quanto gli viene proposto e il sensus fidelium dell’intera Chiesa [...]. In questa accettazione l’intera Chiesa è coinvolta in un processo continuo di discernimento e di risposta»²³. Questa almeno è la posizione della Commissione internazionale anglicano-cattolica romana, espressa nel Rapporto finale di Windsor del settembre 1981. E B. Sesboüé aggiunge, con riferimento esplicito alle determinazioni dei concili: «La verità ultima di un concilio si sprigiona, in questa prospettiva, mediante un processo di va-e-vieni fra l’autorità dottrinale e il sensus fidelium che si trova nel popolo cristiano»²⁴.
Di grande interesse è pure la definizione della Commissione episcopale francese per l’unità dei cristiani, secondo cui la recezione «è un dato di fatto che si constata immediatamente. Generalmente supera il quadro di una generazione, perché entra progressivamente nella vita e nel pensiero della Chiesa. Manifesta il significato concreto che il popolo di Dio riconosce e insieme conferisce alla definizione, nel suo modo di farla passare nella carne e nel sangue della vita ecclesiale»²⁵.
Tra gli interventi più recenti sul tema della recezione, va assolutamente segnalato quello di G. Routhier. Prendiamo quella che lui propone come definizione semplice
: la recezione è «un processo per il quale un gruppo ecclesiale si appropria, assimila e integra un bene spirituale che non ha lui stesso prodotto ma che gli è offerto, fino a riconoscerlo come suo bene proprio e a farne una determinazione per la sua vita»²⁶. Sulla base di questa definizione – sembra più che ovvio – occorre che ci si intenda sul bene spirituale di cui si vuole studiare e verificare la recezione. Difatti qui non si parla più e non tanto di una regola di fede
o una norma
ben precisi: si parla di un «bene spirituale»²⁷.
Ora, dando per buona la semplificazione di Routhier, e acquisita la ricchezza delle altre definizioni – ricchezza che prima correvamo il rischio rimanesse una semplice ambiguità semantica –, sarà necessario entrare nel vivo di ciascuno di questi aspetti, prima ancora di individuare con chiarezza il bene spirituale Concilio Vaticano II.
2. La recezione, realtà sempre presente nella Chiesa
Siamo forse più coscienti, dopo la premessa del precedente paragrafo, dell’«enorme difficoltà di trovare ancora oggi un’esauriente impostazione del tema della recezione
»²⁸, fermo restando i successi già ottenuti nella riflessione sulla sua realtà teologico-ecclesiologica, e sui quali, peraltro, sarà opportuno soffermarci più avanti.
Nell’articolo del P. Congar sopra citato, che fu in qualche modo pionieristico, egli distingue nettamente tra la nozione di recezione
, o la riflessione su di essa, da quella che è invece la realtà della recezione. Questo perché, difatti, qualora la nozione di recezione fosse stata eliminata, quando non espressamente rifiutata, così non poté avvenire della sua realtà, «giacché – scriveva l’illustre ecclesiologo – la vita si impone sulle teorie»²⁹.
2.1 La recezione nella Scrittura
Una esposizione classica sulla recezione di un concilio ecumenico, avrebbe dovuto cominciare da una disamina storica dei sinodi e dei concili, visto che da molti è ritenuto che il concetto abbia inizialmente la sua origine nella pratica conciliare³⁰. Tuttavia la Chiesa è vissuta durante le prime generazioni senza porsi il problema della recezione di un concilio o di un sinodo. E così, per intenderci, come la realtà-Chiesa precede ogni riflessione teologica su se stessa, sulla sua natura e sulla sua missione, così pure la realtà della recezione nella Chiesa ha la propria protologia teologica, che emerge e la regge dall’interno, nei suoi molteplici processi storici. «Nulla di strano, dunque, nel fatto che la recezione abbia trovato eco negli scritti del Nuovo Testamento, i quali non si limitano a darne un’attestazione puramente formale, bensì la presentano quale realtà che appartiene essenzialmente all’essere e all’operare della Chiesa»³¹.
Sin dalle sue origini il mondo cristiano ha vissuto la recezione attraverso quello che la Scrittura esprime con i termini affini ‘lambánein’³², o anche ‘para-lambánein’, e ‘déchesthai’³³, vale a dire ‘ricevere-prendere-accogliere’: tanto pregnanti nel loro contenuto teologico da costituire da sempre un concetto centrale all’interno della teologia biblica. Si pensi al vocabolario giovanneo, laddove – addirittura – lambánein diventa sinonimo di ‘fede’ (pisteúein) quando si tratta di ‘accogliere’ la persona di Gesù. Come ricorda W. Beinert: «l’affermazione basilare della fede, che trova il suo fondamento nella Bibbia, è la seguente: Dio rivela completamente se stesso agli uomini nell’offerta della vita di Gesù di Nazaret, per concedere loro la salvezza, se essi accettano l’offerta di questa comunione di vita con il Dio uno e trino»³⁴. Il soggetto che riceve
entra, in questo caso, in un atteggiamento spirituale, che implica disponibilità e una disposizione interiore di apertura. Ben altro, quindi, che un atto di mera comunicazione di dottrine o norme disciplinari: «Chi crede nell’evento Cristo, accoglie la persona del Verbo di Dio fatto uomo e, ricevendo la vita divina (Gv 1,11-12), entra in comunione con Dio (1Gv 1,1-4)»³⁵.
«La comunità dei primi discepoli del Risorto ebbe viva consapevolezza di avere ricevuto I’euaggelíōn toû Theoû e/o toû Christoû e di essere testimone e araldo di questo messaggio di salvezza escatologica per renderlo efficacemente presente e perché esso fosse ricevuto da tutti i popoli e da tutte le generazioni»³⁶.
Negli Atti degli Apostoli, appena costituita la Chiesa e manifestata al mondo con l’effusione dello Spirito Santo, si fa riferimento al processo di recezione nella sua duplice dimensione di dono e accoglienza personale: la buona novella proclamata nella Chiesa – dono dall’alto – è accolta dall’uomo per l’atto di fede³⁷. «Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone» (At 2,41).
A una tale recezione si riferisce anche Paolo con la sua domanda retorica ai cristiani di Corinto: «Che cosa possiedi che tu non l'abbia ricevuto?» (1Cor 4,7). «Tutto ciò che possiede il cristiano lo ha ricevuto nell’auto-comunicazione suprema di Dio donata attraverso Cristo nello Spirito. Questo messaggio di grazia (euaggelíōn) ha ricevuto anche Paolo e lo trasmette fedelmente alle sue comunità cristiane con le rinunce personali più radicali»³⁸.
Ci aiuterà, in questo modesto approfondimento biblico, indugiare proprio sulla comunità di Corinto, guardando la quale stiamo già
fotografando un esempio particolare di recezione nella Chiesa antica. Sono anche i testi più datati che ne parlano³⁹: 1Cor 11,23ss., sull’istituzione dell’Eucarestia; ma soprattutto 1Cor 15,1ss., sul Vangelo che Paolo ha trasmesso ai Corinzi. Rileggiamo prima questa seconda pericope:
Vi proclamo poi, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l'ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le