Cuori comunicanti
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Anteprima del libro
Cuori comunicanti - Giacomo Mazzotti
37
Capitolo 1
Inizio e maturità
All’ombra delle gesta più celebrate degli antichi eroi, scorre una storia che nessuno ha mai raccontato, una storia che svela sfumature sorprendenti e scorci invisibili di quella che noi conosciamo come mitologia greca.
Io sono qui per raccontarvela.
Dunque, c’era una volta. No, non è questo il modo di iniziare, pensereste subito all’ennesima favola del principe azzurro e della principessa rinchiusa nella torre.
Della favola possiede in vero le creature: draghi, elfi, grifoni e tutto il resto.
Questa è una storia che precede le aquile solitarie, i satiri dei boschi e i draghi del fuoco.
La leggenda si perde nella notte dei tempi, là dove i ricordi si confondono con la nebbia delle origini, tra echi di terre lontane e oltre il clangore delle armi dei popoli mortali che fiorirono nei tanti cuori della terra.
Per raccontarvela devo incominciare dall’inizio, ma non un inizio qualsiasi: l’inizio di ogni cosa.
All’inizio del mondo non vi erano dei, titani o immortali.
Non esistevano astri.
Non esisteva la terra.
Non esisteva alcuna cosa del creato.
Era presente soltanto il buio, senza tempo e senza forma.
Tifoni di particelle si scontrarono, mentre terrificanti correnti raccolsero frammenti appena nati che fluttuavano nelle tenebre.
Ruggiti di distruzione e fulmini improvvisi illuminarono il teatro del vuoto che s’incarnò in forma.
Le nubi tremavano, scuotendosi nel fuoco e nel vento, dalla tenebra alla luce.
A poco a poco, con un rantolo che avvinghiava tutte le forme di vita nascenti, una nube senza forma aprì gli occhi, respirò e iniziò a essere il caos.
Una forza misteriosa e sovrumana fece in modo che tutti gli elementi del caos si unissero, e da questi, nacquero la terra e il Tartaro.
In meno di un respiro sorse il cielo, i mari, i monti, la luce del giorno e della notte.
Infine sorse l’aria che circondava la terra dandole la vita.
In un secondo tempo la terra ed il cielo si unirono, e fu così che nacquero le personificazioni di questi elementi: Urano il cielo e Gea la terra.
Urano e Gea ebbero numerosi figli: i titani, i giganti e i ciclopi.
Il dispotico Urano, che avrebbe voluto governare per sempre sulle creature terrene e ultraterrene, si trovò di fronte a una progenie di grande forza, che più volte tentò invano di sottrargli il potere.
Le battaglie si susseguirono senza sosta.
Nei primi scontri sconfisse i ciclopi e i giganti, esiliandoli a vagare senza meta.
La madre Gea provò a convincere gli oziosi titani a ribellarsi, ma ottenne in cambio solo indifferenza.
In fondo la progenie oziosa non era stupida o impulsiva, e preferiva di gran lunga vivere sottomessa al padre piuttosto che vivere imprigionata.
Erano tutti codardi ad eccezione di uno: Crono.
Costui perseguiva l’idea di un mondo libero dalla tirannia paterna, un regno immaginario dove potesse decidere la sua vita e quella dei sudditi non più condizionati dalla paura del cielo.
Per secoli il titano seppe aspettare con pazienza, studiando tutte le mosse del padre. Presto Urano avrebbe perso la sua arroganza, frutto di una sicurezza mai scalfita da un degno combattente.
Con il tempo le energie di Urano si affievolirono, egli stesso comprese la gravità del momento, eppure non se ne preoccupò data l’inerzia dei suoi figli.
Fu in quel momento che il figlio prediletto rispose alle antiche suppliche della madre, e attaccò il padre come un demonio.
Rimase interdetto dalla forza del figlio, tanto da dover arrancare.
Tutto s’intrecciava in flussi mortali, generando temporali impetuosi che si scagliarono con inaudita violenza sulla terra.
In una girandola di colpi bassi e potenti, i duellanti usarono armi poderose, e questo comportava la distruzione di qualsiasi cosa.
A questo punto, titani come Atlante, Iperione, Gaia e tanti altri, abbandonarono il torpore e si unirono alla causa.
Al culmine dello scontro, la madre venne meno a un’antica promessa e diede al figlio un’arma leggendaria.
Quest’arma si abbatté sul padre, e per Crono fu la vittoria.
La madre abbracciò il figlio vittorioso, tuttavia nello stesso istante capì che tutto quello che Urano era stato, Crono lo era appena diventato.
Crono era ormai il più grande, e nessuno avrebbe mai sconvolto il suo regno.
Nessuno.
Alla fine rimasero solo i titani.
Passarono gli anni, e tra i titani cominciarono a manifestarsi rivalità e malcontento. Le discordie e i battibecchi dividevano le creature.
In un secondo momento tornarono dall’esilio i ciclopi e i giganti, che distrussero i monoliti e gli antichi monumenti della religione titanica.
Per questo misfatto, il potente titano Crono li relegò nel Tartaro.
Grazie alla cacciata dei cugini nel mondo infernale, Crono poté riunire a se tutti i suoi simili per incoronarsi re. Quell’incoronazione diede inizio ad un impero, un impero destinato a durare per secoli.
Aimè, il re, proprio come suo padre, era destinato a cadere per mano dei figli che lui stesso e Rea generarono: Zeus, Poseidone, Ade e Efesto.
Crono udì dalla profezia dell’oracolo che i suoi figli avrebbero condannato la razza dei titani, così decise di inghiottirli ed imprigionarli dentro di sé.
Rea osservò immobile i suoi figli mentre venivano divorati, ma quando anche per l’ultimo arrivò il momento di essere imprigionato, ella non poté sopportarlo.
Decise così di escogitare un trucco per salvare il piccolo Zeus.
Rea chiese alle ninfe di nascondere suo figlio.
Le ninfe portarono Zeus ben oltre la portata del vigile sguardo del padre. Tra le ninfe Zeus crebbe forte e bello, e col passare del tempo, concepì insieme a sua moglie Era, un’infinità di figli.
Dal cibo delle ninfe era nato Dioniso.
Dalla bellezza delle alte montagne nacque Afrodite.
La foresta più selvaggia fece sorgere Artemide.
Dalla musica di Era si elevò Apollo.
I campi coltivati generarono Demetra e dallo splendore dell’oro sorse Hermes.
Dopo molti anni di esilio insieme alle ninfe montane, Zeus ottenne i pieni poteri per liberare i suoi fratelli.
Il destino di Zeus si compì quello stesso giorno in cui egli rivelò la propria esistenza al titano, suo padre e despota del mondo.
Tempo prima, il regno del folle Urano crollò sotto i colpi di Crono, che giurò alla madre di portare giustizia in un mondo martoriato da guerre e devastazioni.
Purtroppo la mente di Crono venne corrotta da una mortale sete di potere, che gli fece perdere completamente il senno.
Con un potente veleno, Zeus sciolse le catene dei fratelli e li liberò.
I suoi fratelli erano stati liberati dalla prigione interiore e cominciò una grande guerra, una guerra che scosse il mondo dalle fondamenta.
La guerra tra dei e titani plasmò il mondo allora conosciuto.
I titani sapevano di dover vincere quella guerra, perché la loro sconfitta, avrebbe posto fine al glorioso regno dei titani.
Nonostante la caduta di molti titani, la battaglia proseguì per anni, finché per porre fine a quel conflitto, Efesto consegnò ai suoi fratelli delle armi potentissime, delle corazze con la forza di cielo e terra: le armature olimpiche.
A guerra finita i titani si risvegliarono tra i supplizi degli inferi, confinati negli abissi del Tartaro.
Benché il Tartaro fosse immenso, non era abbastanza grande per contenerli tutti, perciò gli dei segregarono i titani più forti sulla terra.
Atlante, Gaia e Crono vennero rinchiusi sulle montagne, custoditi dalle arpie e dalle aquile solitarie.
Dalla distruzione che si creò durante la guerra, Ares emerse dalla terra.
Dopo la guerra, Zeus capì che il male scaturito da quello scontro, se fosse rimasto libero, avrebbe avvelenato il mondo mortale e divino.
Per imprigionare i sentimenti di odio che si sparsero per il mondo, Zeus chiese a Efesto di creare un vaso in grado di contenere i mali.
Fu così che nacque il vaso di Pandora.
Efesto forgiò il vaso con un potere che superava gli dei stessi: il metallo delle armature olimpiche.
Mentre la ceramica del vaso si cuoceva, Efesto capì che il metallo era il potere più sicuro con cui sigillarlo.
Il vaso era pronto.
Serviva soltanto un custode che difendesse il vaso nei secoli a venire, e dalla ceramica del vaso, la chiave d’un tratto prese vita: una fanciulla, Pandora.
Per confinare tutti i mali nel vaso, il padre degli dei chiamò a sé tutta la pece e la sigillò all’interno del vaso. Racchiuse tutto quanto nel recipiente sperando che quei torti non potessero infettare il suo regno.
Era stata fatta giustizia, e da quella stessa giustizia nacque Atena, la giustizia fatta dea.
Successivamente il vaso venne nascosto e sigillato con il potere di Efesto.
Era stato confinato nelle profondità della terra insieme alla mappa del tempo: un artefatto che fu costruito da Crono per far scorrere il tempo.
Qualche tempo dopo, Pandora si rese conto che il potere del vaso era troppo grande per una persona sola, così la giovane donna decise di portare il vaso alla reggia maestra di Crono.
La reggia maestra era il castello di Crono, caduto in rovina poco dopo la guerra.
Dopo aver portato il vaso e la mappa fuori dalla terra, Pandora nascose i due oggetti all’interno del castello.
La dimenticanza di quel luogo e il lento scorrere del tempo scandito dalla mappa, avrebbero nascosto il vaso, la mappa e Pandora stessa.
Dopo aver punito i titani, Zeus liberò dal Tartaro i ciclopi, che erano stati imprigionati dagli stessi titani.
In cambio i ciclopi donarono a Zeus il potere dell’elemento elettrico: il fulmine d’oro. A Poseidone donarono il tridente, il fulmine blu. Ad Ade donarono l’ascia, il fulmine rosso, e ad Efesto, i ciclopi donarono il martello per costruire armi eccezionali.
Grazie a questi doni gli dei innalzarono la casa degli dei, il cui nome era Olimpo.
Sorto dalle profondità degli inferi, radicato in un fiume di anime, e insieme ad esso, si elevò anche il grande potere degli dei immortali.
All’apice della montagna vi costruirono il grande Dodekatheon: la sala dei dodici dei olimpici.
Più tardi Zeus insieme alla folgore, divenne il re del cielo.
Poseidone, il re del mare.
Efesto usò il martello per costruire una fucina olimpica nella terra dei mortali, e Ade, diventò il re degli inferi.
Da quel momento i quattro dei diventarono rivali, costantemente in disaccordo e sempre sul piede di guerra per combattersi fra loro.
Le stagioni nacquero quando Persefone, la regina degli inferi, mangiò il frutto di Ade: la melagrana. La bacca costrinse Persefone a vivere sulla terra durante le stagioni calde e a vagare negli inferi in quelle fredde.
I primi abitanti del mondo dopo i titani furono i draghi.
Un tempo furono i veri padroni della terra, prima ancora che l’uomo prendesse vita.
Quelli erano antichi, i più antichi fra gli antichi, i primi in assoluto ad essere creati.
Principalmente rossi in armatura, scuri e striati come serpenti, neri come la tenebra dei vampiri ed infine verdi come le praterie, abitavano per lo più la maggior parte della terraferma.
A guardia di queste magnifiche creature vi erano quattro potenti maghi chiamati incantatori, che con le loro vesti e i poteri esprimevano le caratteristiche dei draghi a cui erano abbinati.
Quando anche il drago e l’incantatore cominciarono ad invecchiare, gli dei crearono l’uomo a loro immagine, che col passare del tempo, avrebbe alimentato l’immortalità degli dei con i sogni e le preghiere.
Gli dei crearono uomini in grado di trasformarsi in bestie feroci e li classificarono nei rispettivi regni elementali di fuoco, acqua, terra e aria.
Crearono terre nude e selvagge, prive di civiltà e di costruzioni.
Cominciando a costruire e a edificare si civilizzò, e in pochi secoli, la terra divenne un luogo prospero per la vita.
In varie occasioni i quattro fratelli scesero sulla terra per procreare con i mortali.
I frutti di queste unioni erano per metà dei e metà umani: semidei, e molti di loro divennero grandi eroi come Ercole, Perseo e Teseo.
Dopo aver creato un mondo nuovo, gli dei, proprio come il loro padre, tornarono dall’oracolo per dare un’occhiata al futuro del nuovo mondo.
L’oracolo vide una cosa orribile: la distruzione dell’obelisco primario da parte di un guerriero scartato.
L’obelisco primario era un bastione, una torre che s’innalzava dall’ade fino al dodekatheon per sostenere la montagna.
Questa faccenda mise gli dei olimpici in allerta, preoccupati per la sorte dell’Olimpo, chiesero ai draghi di sorvegliare l’uomo durante il corso della vita.
La storia della guerra divenne leggenda, la leggenda divenne mito, e per quattordici secoli, dei titani si persero ogni conoscenza: si cominciò a dubitare perfino che fossero esistiti.
Col tempo i mortali crebbero con la convinzione che gli olimpici avessero creato il mondo.
Io sono nato con questa convinzione.
Per quanto assurdo possa sembrare, è qui che entro in scena io.
Per puro caso e per la volontà di un maestro, il fato decise che avrei fatto parte di questo racconto.
Mi chiamo Jack e sono un leone nativo del regno del fuoco.
In quei giorni, nella città di Felidia, si stava svolgendo un importante torneo.
Il vincitore sarebbe stato nominato caposquadra, e insieme ai suoi discepoli, avrebbe dovuto difendere la città dagli invasori.
Io ero già passato da una terra all’altra per apprendere i segreti degli elementi e mi sentivo abbastanza forte da sfidare il torneo annuale del caposquadra.
Grazie alla mia tenacia riuscì ad arrivare allo scontro finale insieme a Rex, un giaguaro tutto muscoli.
Prima che la finale del torneo iniziasse, il re si alzò in piedi e si congratulò con noi.
Avevamo combattuto contro i tori della Colchide e avevamo vinto.
Eravamo gli unici ad aver superato la prova su mille cavalieri scesi in campo con noi.
Con la fine del torneo ci saremmo affrontati a duello per il titolo di caposquadra.
<< Che la finale del torneo abbia inizio. >>
Dopo che il re annunciò la finale del torneo, lo scontro tra me e Rex cominciò.
Quella fu la prima volta che avvertì la magia in me, il mio spirito era sul grande sentiero.
Dopo essere stato atterrato, il grande giaguaro capì che possedevo una forza incredibile.
Rex possedeva la forza brutale che gli consentiva di combattere, eppure di una cosa ero certo: lui non era un predestinato e dentro di sé non racchiudeva il potere della forza di Leonis.
Ormai allo stremo delle forze, il nemico si lanciò per il colpo finale, ma all’improvviso il mio pugno si incendiò, e quando il colpo lasciò la mia mano, si trasformò in un leone di fuoco.
Era il colpo del fendente selvaggio.
Quando il sole tramontò, il re mi riconobbe come caposquadra e mi conferì lo scrigno con dentro l’armatura del leone.
Era sconfitto, eppure Rex non volle darmela vinta così facilmente.
Non riuscì a dormire quella sera.
Volevo a tutti i costi aprire lo scrigno, ma il mio maestro me l’impedì.
Si congratulò con me per la vittoria, poi percepì qualcosa.
Stavamo correndo verso il palazzo quando il mio compagno sconfitto ci sbarrò la strada.
<< Spostati Rex. Hai perso e non puoi avere quello che mi sono conquistato. >>
Egli non si spostò, e avanzando verso di me, pretese che gli consegnassi lo scrigno.
<< Consegnami l’armatura, e tu Chirone, battiti per il tuo protetto. >>
Queste erano le condizioni dettate da un ex compagno, che però il centauro non si prestò a seguire.
Egli mi disse che se avessi voluto arrivare al palazzo, avrei dovuto sconfiggerlo ancora.
Qualche ora prima ero riuscito a batterlo facilmente, eppure dopo poche ore, era lui a prevalere.
Era il momento di usare l’armatura.
Non dovevo esitare ad aprire lo scrigno, era un mio diritto.
Lo scrigno si aprì, e da esso uscì una luce, che poi si rivelò essere l’armatura del leone.
Mi alzai nel cielo insieme ad essa, poi si scompose e la indossai.
Finalmente gli anni dell’addestramento erano finiti, e con essi raggiunsi il mio obiettivo e sicuramente la potenza degli astri mi avrebbe reso invincibile.
Rex era certo di avermi sconfitto, e a questo punto doveva solo recuperare l’armatura.
Lui era ignaro del fatto che l’avessi indossata e che la forza che percepiva fosse la mia.
A conti fatti se ne rese conto.
Sapeva che ero vivo, e quando mi vide, esplose di rabbia.
<< Sei riuscito a indossarla, maledetto! >>
Questa era la prova che Chirone stava cercando: il suo allievo era un protetto di Felidia, nessun altro avrebbe potuto indossare quella corazza.
Nonostante avessi la corazza a proteggermi, fui colpito ugualmente.
L’armatura divenne pesante, m’impediva ogni movimento.
Non riuscivo a capire: poco prima la mia forza riuscì ad attraversare il vento più veloce di una cometa e con l’onda d’urto riuscì a colpirlo anche da lontano.
Stranamente divenne un peso anziché un sollievo.
Non sapevo come mai, ma Chirone doveva spiegarmelo.
Il potere dell’armatura non era universale, mi avrebbe aiutato solo se ben usata.
L’animo era confuso, per questo non mi avrebbe aiutato, solo l’avere coscienza del mio potere mi avrebbe salvato.
Stava infierendo su di me quando arrivò un soffio di vento.
Le foglie si posarono sulla corazza e s’incenerirono.
<< Sei un povero pazzo. Non hai capito che non puoi sconfiggermi. >>
Mi rialzai e lo colpì, lasciandolo poi da solo con la sua rabbia.
L’addestramento era concluso, ma non era finita: mi aspettava la parte più dura: come Chirone, anch’io avrei dovuto addestrare.
Il giorno dopo gli aspiranti allievi uscirono dall’accademia, ed erano impazienti di essere assegnati ai rispettivi maestri.
Lo scopo del torneo era di selezionare i migliori guerrieri, questi avrebbero dovuto capeggiare una squadra di giovani allievi.
Le squadre scelte avrebbero dovuto difendere Felidia dai nemici, come i lupi.
I lupi venivano definiti dagli antichi come una razza infetta e pericolosa, incapaci di provare qualsiasi emozione.
Si narrava che il primo clan di licantropi non riuscisse a trattenere la rabbia, e questo impediva loro di riprendere la forma umana.
Da sempre uniti negli scontri e negli agguati notturni per infierire sulle vittime fino all’ultimo respiro.
Combattevamo una guerra impura, senza onore e senza fine.
Ancora oggi la rabbia e la fame erano le uniche cose che li spingevano ad uscire dai loro territori.
Varie mute di lupi vivevano nelle zone più buie e fitte della foresta, tuttavia il nucleo principale si trovava sul monte Canidor: l’ultima cosa che un uomo potrebbe vedere.
In quella zona gli uccelli non volavano e gli animali circostanti erano stati mangiati oppure erano scappati.
La stessa aria che si respirava era un’esalazione velenosa, spossata da fiamme, cenere e polvere.
Dopo la creazione i lupi si rintanarono nei luoghi oscuri del nord.
Tornando alla cerimonia, gli studenti che terminarono la preparazione in accademia quell’anno furono centosessanta, un numero così elevato da abbinare a dieci capisquadra compreso me, per un totale di sedici allievi a testa.
Per abbinare i discepoli ai rispettivi maestri, il re fece pescare loro un numero da un calice d’oro e poi fece la stessa cosa con i maestri.
Io pescai il numero dieci, e compresi che i ragazzi che pescarono lo stesso numero, sarebbero stati gli allievi che avrei dovuto addestrare.
I sedici che pescarono il dieci, avevano passato gli ultimi cinque anni a studiare gli incantesimi basilari sui volumi di magia senza mai averne visto uno vero.
Questo voleva dire che dovevamo cominciare con le nozioni di base.
Per presentarci ci spostammo fuori dalla città, dove c’era la calma necessaria.
<< Ciao a tutti, il mio nome è Jack e da qui in poi sarò il vostro maestro.
Nel tempo che passeremo insieme non vi butterò giù da letto e non vi allaccerò l’armatura, però vi incoraggerò ad essere costanti e ad andare fino in fondo. Resterete sorpresi di quello che siete capaci di fare.
Qui non siamo più all’accademia: ci troviamo nella piana del Serengeti.
Questo territorio è caratterizzato da un’immensa ricchezza faunistica.
In questa terra sono presenti i mastodontici sette: l’elefante, il rinoceronte, il bufalo, la tigre, il giaguaro, il leone e il leopardo.
Detto questo, posso assicurarvi che qualsiasi animale che mangia, dorme o che si rotola nel suo stesso sangue, proverà ad uccidervi. È a questo che serve l’addestramento pratico.
Siete pronti per l’addestramento? >>
Alla fine del mio discorso di apertura, la squadra saltò con un si generale.
Convinti delle loro possibilità, si presentarono.
La presentazione riguardava per la maggior parte delle formalità come il nome, il voto finale, esperienze e sogni da realizzare.
Tutto sommato mi sembrava una squadra equilibrata, piacevole, simpatica.
Le capacità avrei dovuto constatarle con una prova pratica, una prova che si poteva fare solo con un gruppo numeroso, una cosa che si chiamava esercitazione di sopravvivenza.
Quell’anno i diplomati erano davvero tanti, ma solo pochi sarebbero passati al livello successivo e dichiarati membri di una squadra, gli altri avrebbero fatto ritorno in accademia.
In poche parole solo otto su sedici avrebbero superato la difficilissima serie di esami.
Tutto questo serviva a capire chi avesse il potenziale per proseguire.
Il giorno dopo ci sarebbe stata la prova e ognuno si ripeteva nella testa una cosa: << devo passare a qualsiasi costo. >>
In effetti, avevano tutti un motivo per proseguire e soprattutto per non tornare indietro.
Al nostro ritrovo osservai la meridiana.
Erano le nove.
Per le tredici dovevano sfilarmi di mano un rotolo di candele.
Se non ci fossero riusciti, oltre a saltare il pranzo, sarebbero tornati all’accademia a stomaco vuoto.
Nel mio rotolo c’erano solo otto candele, perché come dicevo prima, solo la metà sarebbe passata.
Otto di loro dovevano prendere una candela, gli altri otto dovevano necessariamente fallire, ma se solo l’avessi deciso, sarebbe potuto toccare a tutti.
Dovevano stimolare il loro istinto di aggressività e potevano usare tutto ciò che conoscevano.
<< Pronti, via. >>
Al via, io rimasi nello spiazzo e tutti andarono a nascondersi.
Io assunsi la posizione dell’albero in meditazione in attesa che qualcuno facesse la prima mossa.
Una gamba sollevata non era solo un’attesa, era un invito a venire.
I più scaltri del gruppo rimasero nascosti per timore che fosse una trappola, tuttavia due soggetti al quanti avventati uscirono dai cespugli.
Andrea e Filippo saltarono fuori per prendere le candele per primi.
Da due neo diplomati non potevo aspettarmi tanto, infatti i loro attacchi erano prevedibili e noiosi.
Dopo averli fermati, mi misi di nuovo in posizione e tutti rimasero a osservare.
I due capirono che in difesa non avevo punti deboli.
Si rialzarono e si misero a lanciare coltelli.
Io li presi tutti nonostante avessi gli occhi chiusi.
Visto il fallimento, si cimentarono in un attacco frontale secondario.
Considerando i livelli di preparazione non sarebbero durati un minuto.
Niente da eccepire sull’impegno, eppure la loro tecnica non era sufficiente per battermi.
Non mi accorsi che Andrea mi saltò alla schiena e Filippo cercò di colpirmi, tuttavia si colpirono a vicenda.
Mi ero mimetizzato con l’ambiente, un trucco che conoscevano tutti: il guerriero bersagliato diventava invisibile per spostarsi e contrattaccare.
In questo caso lasciai credere ai due allievi di essere stato preso alle spalle di proposito per poi sparire.
Quando i due si rialzarono, videro il rotolo di candele a terra.
Non appena le presero, si ritrovarono a testa in giù con una corda alla caviglia ed io ripresi comodamente il rotolo.
Questo era il momento giusto per gli altri di uscire allo scoperto.
Ora che tutti era fuori volevo applicare il gioco inverso, in altre parole, tutti fuori ed io nascosto.
Un altro ragazzo di nome Filippo era stufo e non voleva più fare parte del mio gioco.
Avrebbe fatto meglio a lamentarsi solo se fosse riuscito a prendere la candela.
Il suo attacco andò tutt’altro che bene.
Con un secondo colpo riuscì quasi a prenderla, senza riuscirci però.
Arrivò una ragazza con i capelli corti e biondi, ovviamente desiderosa di essere la prima a prendere il trofeo.
Assunse la posizione del palmo d’aria, una tecnica molto potente.
Io in un certo senso mi spaventai, solitamente i principianti non possedevano l’energia necessaria per usare il flusso.
Era come pensavo: un attacco debole e con poca energia.
La ragazza era distrutta e cadde a terra.
Non sapeva usare la tecnica e poteva costarle caro un azzardo così.
Le diedi un petalo di rosa bianca per farle recuperare le forze e la lasciai lì a riposarsi.
L’ombra sulla meridiana segnava le tredici e potei emettere il verdetto finale: nessuno sarebbe tornato in accademia, ma non avrebbero fatto parte di una squadra.
Non erano abbastanza qualificati da diventare un gruppo, erano solo una banda di teppistelli.
Michele non accettò la provocazione e partì alla carica.
Venne fermato, tuttavia quel gesto dimostrò grinta da vendere, e allo stesso tempo, confermò l’immaturità per far parte di un gruppo.
Probabilmente pensavano che essere guerrieri fosse uno scherzo.
Non capirono il significato della prova e purtroppo il loro destino dipendeva da quello: il lavoro di squadra.
Se la metà di loro lo avesse fatto, avrebbero conquistato una candela a testa, ma nessuno di loro aveva quello spirito di sacrificio di chi sapeva mettere la squadra al primo posto senza pensare al guadagno personale.
Tutte le azioni erano state individuali e questo portò solo disastri.
Concessi a tutti il privilegio di mangiare, tutti ad eccezione dei due appesi all’albero.
Chiunque avesse passato loro anche un solo boccone sarebbe tornato in accademia.
Alla fine del pranzo, quando a Marco e Tommaso rimase un solo raviolo a testa, decisero di darlo ai due appesi all’albero.
Tutti gli altri non erano d’accordo perché dissi loro di non farlo, tuttavia avevo anche detto che dovevano lavorare insieme, e sicuramente avrebbero fallito se loro fossero stati troppo deboli per fare la loro parte.
Lanciarono loro i ravioli, purtroppo io riuscì a prenderli al volo.
Avevo detto loro di non dare da mangiare ai due ragazzi in questione, era chiaro che serviva una lezione sulla disciplina.
Si giustificarono con la scusa di voler provare a essere una squadra vera.
Come inizio non era male, e per questo motivo diventarono tutti membri ufficiali della squadra dieci.
La lezione era finita.
Il giorno dopo li avrei addestrati a dovere.
Prima dovetti spiegare loro come la magia veniva suddivisa.
Tutta la magia si divideva in soli due stadi successivi per l’innalzamento al rango di mago.
La prima parte del primo gradino era quella della stregoneria per formule magiche. La seconda parte del primo step era appannaggio della gestualità con cui il mago produceva l’incantesimo con un semplice gesto della mano o delle dita.
Infine al secondo stadio trovavamo le massime espressioni: coloro che operavano con semplice pensiero.
Il gruppo mi chiese se ne ero capace.
Lo sapevo fare, ma solo con le mani.
Le mani da sole potevano dire molto più delle parole: potevano accogliere, abbracciare, perdonare e in certi casi fare delle magie.
Alzando due dita della mano destra mostrai il fuoco che si creò al contatto.
Come seconda cosa spiegai che i flussi della magia erano controllati dai quattro elementi naturali.
Questi erano gli elementi che stavano alla base delle tecniche che i guerrieri esperti conoscevano.
L’energia di ogni individuo rientrava in una di queste categorie, per esempio i felini cadevano sotto l’elemento del fuoco.
Si aveva grande rispetto per chi sapeva padroneggiare il proprio elemento, ma chi riusciva a usarli tutti era molto potente.
Io li sapevo usare tutti e possedevo anche il fattore c, cioè la possibilità di creare l’elemento dal nulla.
Per dimostrarlo, feci comparire un tavolo dove c’era sopra di esso una candela, un bicchiere d’acqua e un sasso.
La fiamma della candela si alzò.
Il sasso si sbriciolò.
Rovesciando il bicchiere d’acqua, riuscì a riunire l’acqua in una forma compatta.
Quello era il mio livello di flusso, purtroppo non sapevo niente di quello altrui.
Con l’incarico di capitano era mio dovere favorire una piccola scintilla di magia.
Iniziai con il risveglio del fuoco, una cosa di vitale importanza che bisognava assolutamente fare, perché le basi della magia dipendevano proprio da questo. Dentro ogni componente della squadra, come in ogni cavaliere inesperto, era celato un fuoco primitivo che il maestro doveva svegliare, grazie a questo, la squadra poté iniziare a praticare i primi incantesimi della vampa.
Il primo di questi era il respiro del drago.
Il respiro del drago era uno di quegli incantesimi che non poteva riuscire da solo: ci voleva un aiuto da parte della madre al momento della gravidanza.
Durante questo periodo, le donne mangiavano grandi quantità di foglie che andavano a finire in un secondo stomaco.
Nel secondo stomaco le foglie venivano convertite in strati di terriccio che a loro volta stimolavano il calore corporeo, producendo una gran quantità di gas metano.
Dopo il quarto mese il neonato sviluppava delle formazioni cristalline sui denti superiori e metalliche su quelle inferiori.
Il risultato di tutto ciò era che ogni volta che un dominatore del fuoco chiudesse la bocca, producesse anche una piccola scintilla.
Questo faceva incendiare il secondo flusso di gas metano che usciva dal secondo stomaco, creando il famoso respiro di fuoco dei draghi.
Il risveglio del fuoco non serviva soltanto a risvegliare il primo gradino della magia: riusciva a svegliare il felino dormiente, la creatura in cui tutti potevano trasformarsi.
A differenza del risveglio, il processo di trasformazione era molto più complesso: oltre al risveglio della creatura, bisognava avere sulla pelle il morso del felino in cui ci si voleva trasformare.
Nel corso il mio addestramento ero stato morso da un leone e questo mi permetteva di trasformarmi in quest’ultimo.
Dopo aver risvegliato il fuoco in ognuno dei miei compagni, cominciammo subito ad allenarci sui primi incantesimi.
Avevano studiato scienza e storia della stregoneria, ora era venuto il momento di praticarla.
Le persone usavano il cervello solo al dieci per cento, invece chi apprendeva la magia era in grado di manipolare la materia, perciò nasceva con la capacità di usare l’intelletto al cento per cento, ciò spiegava anche il perché la fisica fosse alla base di tutti i corsi teorici.
Per farla breve, la stregoneria era una combinazione di scienza e magia.
Chiesi al gruppo il perché un oggetto prendesse fuoco.
La risposta mi fece capire l’impegno di chi era desideroso di imparare: << una vibrazione nell’aria fa riscaldare le molecole. >>
Bisognava solo aumentare la velocita della vibrazione, focalizzare le molecole per poi agitarle.
Le dita presero di nuovo fuoco e formarono un cerchio sul terreno simile a un sigillo.
Quello era il cerchio del maestro, usato dai maestri per potenziare l’energia e aiutare gli allievi a padroneggiare nuovi incantesimi.
Una volta entrati, avrebbero accettato di essere addestrati da me.
Ci aspettava un lavoro impegnativo.
Per imparare tecniche potenti servivano due principi fondamentali: la modifica del tipo di flusso e la modifica della forma del flusso.
Per la modifica del flusso, feci apparire una sfera di fuoco e si vedeva che ero già in grado di gestire la forma.
Lo dimostrava il modo con cui facevo vorticare il fuoco a velocità elevata per poi comprimerlo e modificare la forma dell’energia stessa.
Spiegai loro che la potenza del fuoco era generata dall’intensità che il sole aveva sulla terra, più il sole sarebbe stato splendente, più l’incantesimo sarebbe stato forte.
Quel giorno c’erano almeno quaranta gradi, il caldo si faceva sentire.
La temperatura del sole era perfetta per far vedere ai ragazzi come il sole influisse sul potere focaio.
Per la modifica del tipo, gli allievi dovevano immaginarsi quella piccola sfera amplificata per dieci volte.
Per l’attivazione si doveva modificare simultaneamente il tipo e la forma energetica.
Per questo processo invitai tutti a guardarmi con attenzione.
Per prima cosa dovevo infondere energia al corpo, poi cambiare il tipo di flusso con energia calda per l’espansione, infine calcolare il raggio e la potenza del colpo.
Mi era stato sufficiente creare una piccola fiammella sulla mano per espanderla su tutto corpo.
I ragazzi erano sbalorditi e impauriti nel vedere il mio corpo bruciare, eppure il fuoco non mi bruciava né tanto meno mi consumava, quando videro che era effettivamente così, diventarono impazienti di imparare anche loro.
Avvolto dal guscio di fiamme divisi una roccia in tanti piccoli pezzi e li lanciai.
Saltai in aria e lanciai delle meteore contro i frammenti di roccia.
Da un altro punto di vista era interessante come la tecnica era eseguita: gli allievi notarono che i pugni facevano attrito con le onde d’urto e tutt’attorno si creava dell’aria, che trasformandosi in lingue di fuoco, venivano scagliate a distanza.
Loro non avevano idea dell’intensità della loro fiamma, io in quanto maestro, ero tenuto a scoprire la potenza della loro vampa ora che si era risvegliata.
Tirai fuori dalla sacca le stesse candele usate per la prova di sopravvivenza, se venivano strette tra le mani, si determinava la forza dell’elemento.
Io ne presi quattro per far vedere gli effetti che i flussi dei vari elementi avevano sulla cera.
La cera si sbriciolava davanti alla terra.
Si bagnava davanti all’acqua.
Si bruciava davanti al fuoco e si scomponeva davanti all’aria.
Era una sorta di tornasole energetico, fatto con una cera speciale che si nutriva di energia.
Bastava far scorrere il proprio flusso e avrebbero saputo l’intensità della fiamma.
Alcune fiamme erano deboli, altre molto ardenti, eppure tre non bruciarono.
Le candele di Stephanie, Benedetta e Ludovica si scomposero, segno che il loro flusso di base era l’aria.
Era un tipo di energia eccezionale, capace di aprire e tagliare ogni cosa.
L’addestramento cominciava con il fuoco, malgrado ciò, sarebbe venuto anche per loro il momento di dimostrare la