L'imbroglio. Marco Berardi il re della Sila
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Se così fosse, il Principe di Cerchiara, Fabrizio Pignatelli, lo avrebbe sconfitto e avrebbe assolto il delicato compito assegnatogli dal vicerè, che non aveva accettato la creazione di un regno nel regno con tanto di proclami e moneta.
Ma i suoi briganti hanno bisogno di certezze: dov’è finito il loro Re Marcone?
Una ricerca affannosa a ripercorrere i luoghi nei quali ha agito la banda-esercito all'inseguimento di verità possibili: Re Marcone si è unito ai pirati turcheschi? Sta tentando di riorganizzare i ribelli albanesi? È andato ad incontrare Marco Sciarra o è ritornato con la sua Giuditta a San Sisto per difendere i precetti valdesi?
Sullo sfondo un viceregno assai complesso, la caoticità delle città rispetto alle tranquille montagne silane, il brulichio delle contrapposte dispute teologiche, scomuniche, condanne di eresia, stragi, cacciate degli ebrei, gli eccessi di una amministrazione vicereale, l’avidità dei feudatari, gli interessi di una Curia bramosa di poteri e averi.
E soprattutto il grande affascinante mistero di Re Marcone.
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Anteprima del libro
L'imbroglio. Marco Berardi il re della Sila - Tommaso Orsimarsi
Sommario
Nota dell’autore
Capitolo I
Verso Cosenza
Capitolo II
Nella città pericolosa
Capitolo III
Ritorno nella selva
Capitolo IV
La ricerca
Capitolo V
Tra vita e morte
Capitolo VI
Sotto il tetto
Capitolo VII
La luce e il buio
Capitolo VIII
La verità
Capitolo IX
Le consegne
Capitolo X
Tutto è compiuto
Collana
Romanzi
diretta da
Alberico Guarnieri
TOMMASO ORSIMARSI
L’IMBROGLIO
MARCO BERARDI IL RE DELLA SILA
Proprietà letteraria riservata
© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Edizione eBook 2016
ISBN: 978-88-6822-428-8
Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672
Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it
E-mail: [email protected]
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
I secoli passarono
e Spartaco riemerge dalla tomba
alle fresche sorgenti del Silaro
prende il nome di Berardi Re dei Monti.
(Leonida Rèpaci)
Nota dell’autore
L’imbroglio, Marco Berardi il re della Sila
, ambientato nella Calabria del sedicesimo secolo, ripercorre la storia leggendaria di Marco Berardi attraverso le vicende di alcuni banditi a lui fedeli. Nella battaglia a campo aperto di Crotone, Re Marcone (Marco Berardi) è misteriosamente scomparso. Voci imperanti, però, lo vogliono esamine appeso in una gabbia al campanile della chiesa di San Francesco d’Assisi di Cosenza. Se così fosse, il Marchese di Cerchiara, Fabrizio Pignatelli, avrebbe assolto al compito di sconfiggerlo affidatogli dal vicerè. Ma i disorientati banditi che, nella confusione della battaglia, avendolo perso di vista, erano bisognosi di certezze e si chiedevano dove fosse il loro condottiero Re Marcone. E, soprattutto, se continuare a lottare il potere vicereale e l’inquisizione o arrendersi definitivamente. Verifiche e ricerche li vedranno, così, impegnati a ripercorrere i luoghi nei quali aveva agito la banda-esercito. Una per una saranno sviluppate varie ipotesi che lo vedrebbero unito ai pirati turcheschi piuttosto che impegnato a riorganizzare i ribelli albanesi, partito ad incontrare Marco Sciarra o ancora a San Sisto pronto a sortire nella Sila.
Il lavoro, più che fornire nuove congettura sulle vicende, ha il proposito di armonizzare le varie leggende conosciute, non smentendone nessuna. Leggende che lo vedono difendere i precetti valdesi, amministrare la giustizia nella selva silana, attaccare Crotone, pendere da un campanile, riposare in uno degli altari della chiesa di San Francesco d’Assisi.
E poi, davvero consegnò la spada al Marchese Pignatelli che la rifiutò sdegnato? Fu vero che coniò una moneta silana? E che dire degli arditi proclami?
Nel romanzo abuserò del termine brigante
, pur sapendo che questo ha caratterizzato il fenomeno solo dal diciannovesimo secolo, mentre all’epoca dei fatti il termine indicava, in Calabria, solo un soldato a piedi. Le ragioni che mi spingono ad usare il termine brigante sono da ricercare nel sentimento radicato che si nutre verso questo particolare bandito, generato da tre componenti principali : quella sociale, quella politica e quella religiosa.
Il brigante Berardi è, dunque, qualcosa in più di un semplice bandito e i numeri che lo circondano parlano di cifre a tre zeri, sia che si parli dei suoi seguaci che dei ducati di taglia messa sulla loro testa, tanti per essere solo dei criminali coalizzati intorno a torti subiti e in cerca solo di vendetta e bottino.
Inoltre, il brigante non è ancora scomparso nella memoria collettiva da quando lo si è visto ritagliarsi un posto di prestigio nelle pagine della stampa ottocentesca, estera e nazionale.
Partendo da ciò si può affermare che Marco Berardi è di sicuro, come venne spesso apostrofato, il primo brigante della Sila in epoca moderna.
E, se come detto, a generarlo sono le stesse cause, studiando il personaggio Berardi e la terra di Calabria si possono trovare quelle risposte che da più fronti sono richieste quando si parla del brigantaggio di tutti i tempi.
La ricorrenza dei 150° anniversario dell’Unità d’Italia ha visto tanti trattare di brigantaggio e questione meridionale, senza che si sia giunti ad una posizione unitaria, scevra da appartenenze, orgoglio, e ragion di Stato, pregiudicando quella serenità di giudizio che non ha permesso di far comprendere se il brigantaggio post unitario sia stato una semplice manifestazione delinquenziale o la prima guerra civile dell’Italia unita.
Può dunque un romanzo tentare di fornire queste risposte?
Tanto più che il romanziere Nicola Misasi diceva che il brigante è un prodotto naturale di una terra aspra e non rappresenta né il male né il bene assoluto.
La narrativa può dunque porsi come consegnataria di una verità e, in quanto generata da esperienza umana, forse può compiere un’operazione di confronto illuminato, facendo scaturire la verità proprio nelle mani stesse del lettore.
E questo si propone il mio lavoro.
La stessa situazione politica del tempo, gli effervescenti fenomeni religiosi, le precarie condizioni sociali di indigenza e l’isolamento, daranno spunti necessari per un confronto doveroso tra fatti e personaggi diversi, ma che seguono le stesse logiche, le stesse ragioni degli uomini. Le scuse ufficiali, dunque, da subito, al metodo semiotico che uso irreverentemente.
Ne L’Imbroglio
emergeranno fatti storici, personaggi reali, descrizioni di luoghi che con naturalezza passeranno dalla narrazione dei cruenti fatti della strage di Guardia e San Sisto alle amenità delle pinete silane, dall’allevamento dei bachi e la lavorazione della seta alla Cosenza cinquecentesca, dalle rime della poetessa Isabella Morra, agli scoiattoli silani. Dalle abbazie calabresi ai giacimenti d’argento di Longobucco, ai conclavi del periodo. Dalle nefandezze commesse dall’inquisitore Malvicino alle teorie economiche innovative di Antonio Serra.
Il tutto da un punto di vista che vede il focus del romanzo a volte in ambito internazionale, a volte indagato con la lente d’ingrandimento.
Il viceregno, l’inquisizione, le difficoltà di difendere i confini di un regno immenso sul quale il sole non tramonta mai e tanto altro, senza partire da assunti o preconcetti.
La narrazione resta comunque, sempre, semplice e facilmente comprensibile a chi non conosce tutti i meccanismi e i fatti che si intrecciano.
L’uso dei diversi piani letterari, poi, rende leggibile il romanzo da diverse prospettive: quella ricercata delle conoscenze messe in campo e quello della lettura di un romanzo storico calandosi piacevolmente nei contesti del tempo.
Del resto chi, guardando un orologio, si ferma alla semplice conoscenza dell’ora, poco si cura, come invece fa l’appassionato, dei complessi meccanismi che generano quel segnare il tempo, ma ambedue le categorie liberamente potranno indagarne contenuti più o meno profondi a seconda delle conoscenze o degli interessi.
Nel corso della lettura si avrà a volte la sensazione di trovarsi davanti alle bancherelle di terrecotte calabresi
sulle quali è riprodotta la figura del brigante e scene contadine calabresi senza tempo, che invitano alla leggenda.Come loro l’esercito Berardi, fatto da fuoriusciti, contadini e mercenari mostrerà gli armonici e variegati colori e soprattutto la loro inevitabile fragilità.
Prego infine il lettore di porre attenzione alle tre figure femminili, Isabella Morra, Maria e Giuditta, di diversa estrazione sociale, religiosa e culturale, eppure abbandonate e vittime allo stesso tempo delle loro passioni, che accoglieranno il loro inevitabile destino come il prezzo da pagare per averle abbracciate.
Capitolo I
Verso Cosenza
Scese fino Cosenza perché non voleva crederci.
Come era possibile che fosse proprio Re Marcone, il re della Sila.
Quando era stato catturato? E da chi?
Gli uomini del marchese Fabrizio Pignatelli, inviato da Napoli dal vicerè non l’avevano scovato, avevano sì sbaragliato la sua banda in quella battaglia a campo aperto di Crotone, ma non erano riusciti a catturarlo. Ora, però, in tutta la Sila risuonava l’eco che Re Marcone era appeso al campanile della chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza.
Giovanni l’aveva seguito da subito, da quando il suo padrone mezzo morto l’aveva scacciato in malo modo dalle sue terre e gli aveva aizzato contro i suoi mastini.
Quei cani erano gli stessi che inseguirono a San Sisto i disgraziati ribellatosi ai soldati del barone Castagneto che, stanchi di vedere il loro credo religioso sopraffatto e vilipeso, avevano scelto di rifugiarsi nelle serre costiere, credendole sicure.
Alcuni furono raggiunti e giustiziati sul posto e il loro sangue si raffreddò sul fogliame arso, più tosto che sul lastricato del paese. Molti fuggirono nella Sila rimandando l’appuntamento con la morte, combattendo una causa magari diversa da quella che li aveva fatti fuggiaschi, ma che parlava anch’essa di giustizia e libertà.
A quell’evento seguì poi la strage degli occitani di Guardia Fuscalda.
Giovanni non era un occitano né un malfattore né un fuggiasco. Da piccolo, rimasto orfano, era stato portato in una tenuta della Sila, maltrattato e sottomesso ad un fattore che, per bisogno, lo lasciava in vita, trattandolo come una delle bestie della masseria, con la differenza che nessuno avrebbe obiettato se per un motivo qualsiasi fosse scomparso dalla faccia della Terra.
E che la sua vita non valeva nulla se ne era accorto all’età di quattordici anni quando fu incolpato di aver mangiato di nascosto strutto di maiale. Con una tenaglia gli strapparono le unghie dei piedi e poi con lo stesso arnese gli mozzarono una parte di lingua, perché aveva osato anche lamentarsi.
Creduto morto, si era trascinato qualche metro più avanti, rotolando in un fosso, dove rimase sofferente, consapevole che la sua ora era arrivata. Oramai non sentiva più dolore, era ridotto ad un ammasso di carne che a stento lasciava intravvedere sembianze umane. Non trovato sul posto dove l’avevano abbandonato al suo destino, gli sgherri del padrone gli avevano aizzato contro i cani per ripagarsi della fossa che in tutta fretta gli avevano dovuto scavare.
Lo avrebbero sotterrato come si fa per una carogna d’animale e solo per non essere sopraffatti dal fetore della putrefazione.
Prima dei cani, però, mezzo morto, l’aveva trovato Re Marcone. Una volta fatto curare l’aveva accolto nella banda-esercito trattandolo come un fratello.
Il fattore, saputo che il giovane era oramai sotto la protezione del Re della Sila, aspettandosi una vendetta certa, fece sapere che la masseria era al servizio degli uomini di Marcone, ma non ebbe il tempo di dimostrarlo a nessuno perché, come Giovanni, ebbe la lingua mozzata e le unghie strappate da quei briganti.
Aveva avuto quello che meritava.
Su di lui aveva operato la legge della Sila. La legge dell’occhio per occhio.
E la legge, sull’altopiano, era Re Marcone.
Giovanni, con quella bocca sanguinante, quelle unghie strappate, era certamente apparso a Marcone come uno dei tanti torturati, straziati, abbandonati al proprio dolore dall’inquisitore Malvicino, che aveva visto nelle carceri di Cosenza e dal quale vituperio non era stato indenne.
Re Marcone era Marco Berardi, manconese di nascita e di famiglia agiata. Era cresciuto a San Sisto, tra gli occitani, dove aveva imparato a distinguere il male dal bene e dove aveva conosciuto l’amore di Giuditta, la sua donna. Anni prima una stupida contesa con il padre guardiano degli agostiniani, a Cosenza, aveva attirato su di sé ed un suo amico, Pietro Cicala, l’ira degli inquisitori, determinandone la loro carcerazione come eretici e le successiva condanna a morte.
Una contesa futile e marginale, se nel cuore di Marco Berardi non fosse stato fermo il convincimento valdese e se l’intransigenza fanatica dell’inquisizione fosse stata illuminata da quanti all’epoca praticavano i ministeri religiosi nell’umiltà e nella coerenza.
Ma così non era! Una netta frattura emergeva tra i tanti che mettevano in atto alla lettera i principi cristiani e quelli che, negli stessi dettami, cercavano solo le contraddizioni, magari quelle che emergevano a prima vista e che di certo non prendevano spunto dalle tante pagine di studio teologico o dai sentimenti profondi che questi facevano scaturire.
Da una parte religiosi dell’ordine dei Minimi, Gesuiti, Domenicani, ossia ambasciatori della parola di Dio, si immolavano in Oriente e nel Nuovo Mondo, da missionari. Dall’altra l’Inquisizione nel Vecchio Mondo, con il proposito di difendere la stessa dottrina, perseguitava ogni minima forma sospetta di eresia con bolle, come quella di Paolo IV, e contromisure a volte arroccate su posizioni più estreme della stessa eresia.
Marco Berardi e il suo amico Pietro Cicala avrebbero così seguito il destino dei tanti incarcerati per eresia. Torturati fino allo sfinimento, decapitati, bruciati sulla piazza, le loro ceneri erano sparse al vento. Ma di tutti questi supplizi solo l’ultimo si avverò poiché, proprio come polvere offerta al vento, si dileguarono dalle carceri di Cosenza. Marco, nella Sila, dove poteva contare sulla protezione di uomini fidati di una sua tenuta di famiglia e Pietro a Messina, da dove s’imbarcò per l’Oriente, facendo carriera come pirata turchesco, portando spesso lo scompiglio della razzia sulle coste calabresi, che conosceva a dovere. Tutto avvenne mentre tardava ad arrivare l’esecuzione di quella condanna a morte oramai determinata, scomoda forse ai tanti che trovavano ripugnante eseguirla nei confronti di quei due rampolli della buona società.
Ma il Berardi in quelle carceri non aveva lasciato solo uno dei suoi denti, aveva probabilmente lasciato quella candida fiducia verso le cose del mondo, che i vortici impetuosi travolgono fino a confondere tutto.
Era una bestia ferita, spinta a non avere fiducia, come avveniva per quei cani ringhianti che, racchiusi nel buio di un sacco e colpiti ripetutamente senza ragione e senza poter vedere da dove e da chi arrivassero quei colpi, uscivano oramai bestie feroci, rabbiosi contro il mondo intero che li circondava, pronti a servire gli scopi malefici dei padroni.
La differenza, però, tra Marco e quelle bestie era che i colpi secchi ed impietosi non avevano raggiunto il profondo del suo cuore, che ancora pulsava intorno a tanta ferocia, rafforzando quelle convinzioni valdesi che la sua bella e giovane Giuditta suggeriva.
E in quella Calabria, luogo remoto di un regno, c’era il solo posto che avrebbe accolto questa belva dal cuore pulsante: la Sila. E per tutti là comparve, come per incanto provvidenziale, pronto a difendere, con la sua compagnia brigantesca, il debole contro il forte, l’umile contro il prepotente.
Nella Sila diventò la sola giustizia, la legge, combattendo gli spagnoli e l’Inquisizione.
I suoi propositi parlavano di un uomo che doveva essere libero, collaborare con gli altri in piena autonomia per il bene comune. Poi, la terra, doveva essere di chi la coltivava e dal cielo Dio avrebbe guardato tutti con lo stesso occhio, privo dei particolarismi che il potere vicereale ed ecclesiastico concepiva.
Questa sì che era una eresia inaccettabile, in