Gli elisir del diavolo
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Anteprima del libro
Gli elisir del diavolo - Ernst T.A. Hoffmann
Puglisi
Prefazione del redattore
Volentieri ti condurrei, o benigno lettore, sotto quegli scuri platani, dove per la prima volta lessi la singolare storia di Frate Medardus. Con me tu siederesti su quella panca di pietra mezzo nascosta fra gli arbusti profumati e fiori dai colori accesi; come me, con grande nostalgia volgeresti lo sguardo ai monti azzurri, le cui bizzarre forme si ergono oltre la valle soleggiata che ci si schiude davanti a sfondo del pergolato. Ma se ora ti volti, a una ventina di passi appena dietro di noi tu scorgi un edificio gotico, dal portale riccamente ornato di statue. Tra le cupe fronde dei platani, le immagini dei santi sembrano guardarti con occhi chiari e vivi; sono i vigorosi affreschi che sull'ampio muro fanno bella mostra di sé. Il rossore del sole domina i monti, si alza la brezza vespertina, ovunque è vita e movimento. Voci meravigliose corrono sussurrando e mormorando tra gli alberi e i cespugli: e lo stormire lontano sembra unirsi e crescere sino a un canto e a un concerto d'organo. Uomini gravi, paludati in ampie vesti, s'aggirano silenziosi sotto i sentieri fronzuti del giardino, lo sguardo pio rivolto al cielo. Forse che le sacre immagini si sono ridestate a vita, discendendo dall'alto frontale? Aleggiano intorno a te i misteriosi brividi delle meravigliose storie e leggende che lì sono raffigurate, ti sembra che tutto si svolga sotto i tuoi stessi occhi, sei pronto a prestarvi fede. In tale stato d'animo leggeresti la storia di Medardus, e volentieri ti sentiresti disposto a ritenere le singolari visioni del monaco per qualcosa di più che non sia lo smodato gioco della fantasia surriscaldata. E poiché, benigno lettore, hai ora visto un convento, e dei monaci, mi sia permesso di aggiungere che il bellissimo giardino dove ti ho condotto è il giardino del convento dei Cappuccini in B.
Una volta, trattenendomi alcuni giorni in quel convento, il venerabile Priore mi mostrò, a titolo di curiosità, le carte lasciate da Frate Medardus e conservate nell'archivio, e solo a gran fatica potei vincere gli scrupoli del Priore a permettermi di prenderne visione. Veramente, opinava il vecchio, quelle carte avrebbero dovuto essere bruciate. Non senza il timore che tu, benigno lettore, possa condividere il parere del sant'uomo, ti offro ora il libro che da quelle carte ebbe origine. Ma se ti decidi a percorrere con Medardus, quasi ne fossi il fedele compagno, tenebrosi chiostri e celle, e il variopinto, il più variopinto mondo, e a sopportare con lui la sua vita di orrori, misfatti, follie, buffonate, forse ti diletterai alle molteplici visioni della camera oscura che a te si offriranno. Potrà anche darsi che quanto in apparenza non ha forma, a un più acuto esame non tardi a rivelarti la sua sostanza. Tu riconoscerai il germe nascosto che, concepito da uno scuro destino, sbocciato e cresciuto in rigogliosa pianta, lussureggia e si dirama in mille viticci, sino a che un solo fiore, diventato frutto, a sé trae tutti i succhi vitali e uccide il germe stesso.
Dopo che con grande attenzione ebbi letto le carte del cappuccino Medardus (e non mi riuscì facile, poiché la buon'anima aveva una calligrafia ecclesiastica assai minuta e illeggibile), parve a me che ciò che comunemente noi designamo con il nome di sogno e immaginazione potrebbe ben essere la simbolica conoscenza del filo segreto che si snoda attraverso la nostra vita, allacciandola in tutte le sue condizioni, mentre è da ritenersi perduto colui il quale con quella conoscenza crede d'essersi conquistata la forza di strappare violentemente quel filo, e di potersi misurare con l'oscura potenza che domina i nostri destini.
Forse tu, benigno lettore, condividerai queste mie opinioni, e per ragioni che hanno un certo qual peso, di tutto cuore te lo auguro.
PARTE PRIMA
Capitolo I
Gli anni della fanciullezza e della vita claustrale
Mia madre non mi ha mai rivelato in quali condizioni mio padre vivesse nel mondo; ma se mi richiamo alla mente tutto quanto già fin dai miei primi anni lei mi diceva di lui, devo ben credere che fosse un uomo dotato di profonde cognizioni, e prudente nel praticare gli uomini. Appunto da questi racconti di mia madre, da alcuni apprezzamenti su certi antecedenti che solo più tardi potei comprendere, io seppi come, da una vita agiata che li aveva condotti al possesso d'ingente ricchezza, i miei genitori piombassero nella più nera miseria; e che un giorno mio padre, da Satana allettato a scellerata protervia, commise un peccato mortale che, quando negli anni di poi la grazia divina lo illuminò, volle espiare recandosi in pellegrinaggio al Sacro Tiglio nella lontana e gelida Prussia.
Nel corso dell'arduo viaggio, per la prima volta dopo molti anni di matrimonio, mia madre sentì che questo non sarebbe rimasto sterile come aveva temuto mio padre, il quale ad onta delle sue misere condizioni, se ne rallegrò moltissimo, poiché si sarebbe ora avverata una visione, secondo la quale san Bernardo gli aveva assicurato consolazione e perdono del suo peccato, allorché gli fosse nato un figlio. Giunto al Sacro Tiglio mio padre si ammalò; e quanto più assiduamente lui, noncurante della sua debolezza, proseguiva le gravose pratiche di devozione che gli erano prescritte, tanto più il suo male prendeva il sopravvento; morì poi purgato dai suoi peccati e con l'animo in pace nell'istante stesso in cui io venivo al mondo.
Coi primi albori della coscienza sorgono in me le dilettevoli visioni del convento e della magnifica chiesa al Sacro Tiglio. Ancora mi circonda il mormorio della cupa foresta, ancora le mie narici aspirano il profumo delle rigogliose e lussureggianti erbe, dei variopinti fiori che furono la mia culla. Non animali velenosi, non dannosi insetti trovano nido nel sacrario degli uomini di Dio; né ronzio di mosca, né canto di grillo disturba quella religiosa quiete, interrotta solo dal pio salmodiare dei sacerdoti che, assieme ai pellegrini agitando i dorati turiboli esalanti il profumo dell'incenso bruciato in olocausto, passano in lunga teoria. Ancora vedo, nel mezzo della chiesa, il tronco di tiglio rivestito d'argento, sul quale gli angeli deposero la miracolosa immagine della Santa Vergine; ancora dalle pareti, dal soffitto del tempio, mi sorridono le multicolori effigi degli angeli e dei santi.
I racconti che mia madre mi fece dello splendido convento, dove l'insanabile suo dolore trovò misericordioso conforto, tanto sono penetrati nell'animo mio, ch'io credo d'avere tutto veduto, tutto vissuto, sebbene non sia verosimile che il mio ricordo arrivi tanto lontano, poiché già dopo un anno e mezzo mia madre lasciava la sacra dimora. Così mi sembra d'avere visto un giorno coi miei stessi occhi, nella chiesa deserta, la singolare figura di un uomo grave; questi non sarebbe stato altri che il pittore straniero il quale si presentò in tempi remoti, quando ancora la chiesa si stava costruendo; nessuno comprendeva la lingua che parlava, e in breve tempo, con mano esperta, decorò il tempio di bellissime pitture, per poi scomparire non appena terminata l'opera. Così la mia memoria ritorna a un vecchio pellegrino, vestito alla forestiera, dalla lunga barba grigia, che sovente mi portava in braccio, e nella foresta cercava ogni specie di muschi e pietre dai vividi colori, e giocava con me; quantunque io sia convinto che solo dalla descrizione fattami da mia madre la sua immagine mi sia rimasta impressa in mente con tanta vivacità. Una volta portò con sé un bellissimo bambino che non conoscevo, il quale era press'a poco della mia stessa età. Accarezzandoci e baciandoci sedevamo sull'erba; gli feci dono di tutte le mie pietruzze colorate, e lui sapeva disporle sul suolo nelle più svariate figurazioni, dalle quali tornava però sempre a risaltare la forma della croce. Mia madre era seduta accanto a noi su una panca di pietra, e in piedi dietro a lei il vecchio guardava affabile e grave ai nostri giochi infantili. Quand'ecco che tra i cespugli sbucarono alcuni giovani, i quali, a giudicare dal vestire e da tutto il loro atteggiamento, al Sacro Tiglio non erano venuti che per curiosità e diporto. Uno d'essi, non appena ci ebbe scorto, esclamò:
— Oh, guarda, una sacra famiglia, ecco qualcosa per la mia cartella! — E veramente prese carta e matita e si accingeva a ritrarci, quando il vecchio pellegrino sollevò il capo e incollerito gridò:
— Sciagurato che ti fai beffe di noi, tu vorresti essere un artista, senza che mai nel tuo petto abbia bruciato la fiamma della fede e dell'amore; ma le opere tue rimarranno morte e inutili al pari di te, e come un proscritto finirai scoraggiato nella solitudine e morirai nella tua stessa meschinità!
Sconcertati, i giovani si affrettarono a ritirarsi. Il vecchio pellegrino disse a mia madre:
— Vi ho portato oggi un mirabile bambino, affinché accenda in vostro figlio la scintilla dell'amore, ma debbo nuovamente portarlo via, né voi, come io del resto, lo vedrete mai più. Vostro figlio ha avuto il dono di molte eccelse doti, sennonché il peccato del padre bolle e fermenta nel suo sangue. Potrà tuttavia elevarsi a combattere valorosamente per la fede: fate dunque di lui un sacerdote.
Sull'animo di mia madre, le parole del pellegrino produssero un'impressione profonda, incancellabile; ciò nonostante stabilì di non forzare in alcun modo la mia inclinazione, bensì di aspettare con calma, verso qual parte la sorte mi avrebbe avviato, poiché lei non avrebbe saputo concepire educazione più elevata di quella che era in grado di darmi. I miei ricordi di un'esperienza manifesta e personale s'iniziarono dal giorno in cui mia madre, durante il viaggio di ritorno in patria. sostò al monastero delle Cistercensi, la cui Badessa, che aveva conosciuto mio padre, l'accolse affabilmente. Dall'epoca dell'episodio col vecchio pellegrino, che effettivamente mi è rimasto scolpito nella memoria, tanto che mia madre non lo completò che per quanto riguarda le parole corse tra il pittore e il vecchio. sino al momento in cui per la prima volta lei mi condusse dalla Badessa, si estende una completa lacuna: la mia mente non ne ha conservato la minima impressione. Mi ritrovo poi a un punto in cui mia madre, come meglio poteva, mi riparava e rassettava gli abiti. In città aveva comperato dei nastri nuovi e, tagliati i miei capelli inselvatichiti, si dava gran pena per acconciarmi, e intanto mi esortava a comportarmi garbatamente e con ogni timor di Dio in presenza della signora Badessa. Finalmente per mano alla mamma salii la larga scalinata di pietra, ed entrai nell'alta sala della volta ad arco, ornata di sacre immagini, e là trovammo la Principessa. Era una bella donna, di alta e maestosa statura, cui l'abito dell'ordine conferiva una dignità che incuteva rispetto. Contemplandomi con occhio grave che mi penetrò sino in fondo al cuore, lei interrogò:
— Questo è vostro figlio? —
La sua voce, l'aspetto tutto, unitamente all'ambiente nuovo, la sala dall'alto soffitto, i dipinti, ogni cosa mi prendeva al punto che, colto dal senso di un brivido interiore, amaramente mi misi a piangere. Guardandomi più mite e benigna, la Principessa mi parlò: — Che cos'hai, piccino, hai paura di me? Come si chiama vostro figlio, buona donna?
— Franz — rispose mia madre, al che la Principessa con ineffabile malinconia esclamò:
— Francesco! — e mi alzò e mi strinse forte a sé, ma in quell'istante un dolore repentino al collo mi strappò uno strillo acuto, tanto che la Principessa spaventata mi lasciò andare, e mia madre tutta confusa da quel mio modo di fare subito accorse per condurmi via. La Principessa non volle permetterlo; si scoprì che mentre lei così mi serrava a sé, la croce di diamanti che portava sul petto mi aveva graffiato il collo, con tanta forza che il punto era tutto arrossato e già vi affiorava il sangue.
— Povero Franz — disse la Principessa, — ti ho fatto male, ma vogliamo diventare ugualmente buoni amici. — Una suora recò dei confetti e un vino dolce, e io, fattomi ormai più ardito, non mi feci pregare a lungo, ma francamente gustai quelle leccornie che la bella donna, la quale ora s'era seduta e m'aveva preso in grembo, mi metteva in bocca. Dopo che ebbi assaggiato le prime gocce del dolce liquore finora a me interamente sconosciuto, ritrovai il mio fare giulivo e quella particolare vivacità, che, a testimonianza di mia madre sin dai primi anni, era stata propria del mio carattere. Con gran gioia della Principessa e della suora che si era trattenuta nella stanza, ridevo e chiacchieravo. Sino a oggi ancora mi è rimasto incomprensibile, come venisse in mente a mia madre d'invitarmi a raccontare alla Principessa delle belle cose, della grandiosità del luogo ove ero nato, e come mai io, quasi ispirato da una potenza superiore, le descrivessi i bei quadri dell'ignoto pittore forestiero, con tale vivezza, da lasciar credere che ne avessi riportato un'impressione profonda. E mi infervoravo tutto nella meravigliosa storia dei santi, come se già la storia ecclesiastica mi fosse nota e familiare. La Principessa e la stessa madre mia mi guardavano attonite, ma più io parlavo, più cresceva il mio entusiasmo, e quando infine la Principessa mi domandò: — Dimmi, caro piccino, come mai conosci tutte queste cose? — senza neppure esitare un istante risposi come il bellissimo fanciullo che un giorno un pellegrino forestiero aveva condotto con sé, mi avesse spiegato le immagini che erano in chiesa; e avesse poi costruito altre immagini, con pietre di vario colore, e non solo ne aveva rivelato il senso, ma mi aveva altresì raccontato molte storie di santi.
Sonarono a vespro, la suora aveva preparato un cartoccio pieno di confetti, che mi diede e che io tutto lieto misi in tasca. Alzandosi la Badessa disse a mia madre:
— Buona donna, io considero vostro figlio come mio alunno, e da ora in poi vigilerò su di lui. — La mestizia che l'aveva invasa toglieva a mia madre la parola, e versando calde lacrime, lei baciava le mani della Principessa. Già eravamo sulla soglia, pronti ad uscire, quando lei ci raggiunse, ancora una volta mi sollevò da terra e, avendo cura di scostare la croce, mi strinse a sé, e sciogliendosi in pianto, sì che le calde stille mi bagnavano la fronte, esclamò: — Franz! conservati pio e buono! — Intimamente commosso non potei fare a meno di piangere anch'io, senza pur sapere perché.
Con l'appoggio della Badessa il modesto alloggio di mia madre, che s'era stabilita in una piccola fattoria non lungi dal monastero, tosto acquistò un po' più di dignità. Era finita la miseria, io andavo meglio vestito e profittavo delle lezioni del parroco, e quando lui officiava nella chiesa del monastero, cantavo nel coro.
Come a un sogno beato la memoria torna tuttora a quei tempi felici della mia fanciullezza! Come una lontana terra di bellezza, dimora di letizia e della non mai turbata serenità dell'ingenuo animo infantile la patria appare nei regni del ricordo; ma se io volgo lo sguardo addietro, si apre l'abisso, che per sempre da essa mi ha diviso. Preda di un'ardente nostalgia, sempre più e più io mi sforzo di riconoscere gli esseri amati che come circonfusi del rossore purpureo dell'aurora vedo aggirarsi laggiù, e mi pare d'udirne le care voci. Esiste dunque abisso che le vigorose ali dell'amore non possano sorvolare? Non vive esso nel pensiero, e il pensiero conosce forse limiti? Ma vedo sorgere tenebrose figure, e sempre più fitte si raggruppano, sempre più strette si addossano, m'ingombrano la vista e mi opprimono l'animo con le tribolazioni del presente, e quella nostalgia stessa che mi empiva d'indicibile e voluttuoso dolore, si muta in insanabile tormento, che lentamente mi uccide.
Il parroco era la bontà in persona, sapeva attirare il mio spirito indomito, e tanto aveva l'arte di adattare i suoi insegnamenti alla mia indole, che ne traevo diletto e facevo rapidi progressi. Mia madre m'era cara sopra ogni cosa, ma la Principessa la veneravo come una santa, e i giorni in cui m'era dato vederla erano per me una festa. Ogni volta mi proponevo di brillare doverosamente dinanzi a lei con le cognizioni acquisite, ma quando poi lei giungeva, e con bontà mi rivolgeva la parola, allora non ero più capace d'aprire bocca, e non sapevo fare altro che guardarla e ascoltarla. Ogni sua parola mi si imprimeva profonda nell'anima, e vi rimaneva per tutta la giornata; quando le avevo parlato, perdurava in me quello stupendo stato d'animo di solennità, e la sua figura mi accompagnava nelle susseguenti passeggiate.
Quale inesprimibile sentimento mi penetrava quando, mentre agitavo il turibolo dinnanzi all'altare maggiore, dal coro si sprigionava il tempestoso concerto dell'organo, e la fuga dei suoni gonfiandosi come una cateratta mi trascinava con sé; quando nell'inno riconoscevo quella voce che penetrava sino a me al pari di un luminoso raggio, e m'empiva l'animo dell'intuizione di una potenza suprema, della divinità. Ma il più bel giorno, del quale per settimane pregustavo la gioia, e non potevo volgervi la mente senza un'interiore delizia, era la festa di san Bernardo, che essendo il santo dei Cistercensi, nel monastero veniva solennemente festeggiato con una indulgenza plenaria. Già il giorno precedente, dalla città vicina e da tutti i luoghi circostanti fluiva la folla, e si accampava sulla vasta prateria fiorita adiacente al monastero, cosicché il lieto tramestio non aveva fine mai, né giorno né notte. Non rammento che in quella bella stagione (il giorno di san Bernardo viene d'agosto) il tempo si sia mai mostrato inclemente alla festa. Frammisti in una variopinta moltitudine, qui si vedono passare devoti pellegrini cantando inni, là garzoni esultanti se la spassano con le villanelle; sacerdoti assorti in pia contemplazione, le mani devotamente giunte, con lo sguardo errante nelle nuvole; famiglie di borghesi sdraiati sull'erba, che vuotano le ceste traboccanti di provviste e fanno merenda. Gioconde canzoni, canti religiosi, i fervidi sospiri dei penitenti, le risate di chi se la gode, lamenti, gioiose grida, giubilo, celie, preghiere, riempiono l'aria in un concerto singolare e assordante. Ma ai primi rintocchi della campana del monastero, improvvisamente lo schiamazzo si placa: fin dove l'occhio giunge, tutti, stretti in fitte schiere, sono caduti in ginocchio, e solo iI cupo mormorare della preghiera interrompe il mistico silenzio. Dileguata appena l'eco dell'ultimo rintocco, la pittoresca folla torna a vagare, e nuovamente sale al cielo il clamore del giubilo che per alcuni minuti s'era sopito. Il Vescovo in persona, il quale risiede nella vicina città, il giorno di san Bernardo celebrava solennemente la messa cantata, coadiuvato dal clero del convento, e su una tribuna eretta a fianco dell'altare maggiore e parata di ricchissimi e rari drappi, la sua orchestra privata eseguiva la musica. Oggi ancora non sono del tutto spente le sensazioni che allora mi vibravano in petto, e ogni qual volta io rivolgo l'animo a quei tempi beati, troppo presto, ahimè, scomparsi, esse rivivono con giovanile freschezza. Con particolare vivezza m'è rimasto impresso un Gloria, che fu più volte eseguito poiché la Principessa prediligeva questa composizione fra le altre. Quando il Vescovo aveva intonato il Gloria, e l'onda irruente del coro si propagava per tutto il tempio: Gloria in excelsis Deo!, non pareva, invero, che una gloria di aureolate nubi si aprisse sull'altare maggiore? e che per divino prodigio i cherubini e i serafini degli affreschi si ridestassero a vita in un'orgia di colori, e muovessero le gagliarde ali al volo, sollevandosi e abbassandosi e Iddio lodando col canto e col mirabile suono delle arpe? In quegli istanti io mi perdevo nell'attonito stupore di una estatica pietà, che su dorate nubi mi trasportava nella lontana e ben nota terra natia, e nella foresta aulente udivo le soavi voci degli angeli, e come di tra alti steli liliali mi si faceva incontro il bellissimo fanciullo e sorridendo mi domandava:
— Dove sei stato finora, Franz? Ho tanti bei fiori variopinti, voglio donarteli tutti, se tu rimarrai presso di me e sempre mi amerai.
Dopo la messa cantata le monache, precedute dalla Badessa, la quale aveva la mitra in capo e la verga d'argento in mano, in solenne processione sfilavano per gli anditi del monastero e per la chiesa. Quale santità, quale dignità, quale sovrumana grandezza spirava da ogni sguardo della straordinaria donna, guidava ogni suo gesto... Era la Chiesa trionfante stessa, che al popolo pio e credente prometteva grazia e benedizione. Se voleva il caso che l'occhio suo si posasse su di me, mi pareva di dovermi gettare nella polvere dinanzi a lei.
Terminata la funzione, il clero e i musicisti della cappella del Vescovo sedevano a mensa in una grande sala. Numerose persone amiche del monastero, officianti, commercianti della città partecipavano al convito; e poiché il maestro della cappella vescovile m'aveva preso a benvolere e gradiva avermi d'attorno, anche a me era concesso essere presente. Se prima l'animo mio, ardente di mistica devozione, s'era tutto rivolto a soprannaturali regioni, ora mi accostava la vita mondana, e mi afferrava con le sue vaghe immagini. Giocosi racconti di ogni specie, celie e facezie fiorivano tra le squillanti risa dei convitati, e intanto si badava a che le bottiglie non rimanessero mai piene, sino a quando scendeva la sera, e già erano pronte le carrozze per il ritorno.
Avevo compiuto i sedici anni quando il parroco dichiarò ch'io ero ormai preparato a sufficienza per affrontare gli studi teologici superiori nel seminario della vicina città: occorre dire che mi ero finalmente deciso per lo stato ecclesiastico, cosa che riempiva mia madre d'intima allegrezza, poiché vedeva così spiegarsi e avverarsi le misteriose allusioni del pellegrino, le quali in certo modo si sarebbero accordate con la singolare visione di mio padre che io ancora ignoravo. Attraverso la mia risoluzione lei vedeva ora purificata e salva dai tormenti della dannazione eterna l'anima di mio padre. Anche la Principessa, che solo in parlatorio m'era concesso vedere, lodò altamente il mio proposito e ripeté la promessa data, di sostenermi con tutto il necessario fino a che avessi conseguito una dignità ecclesiastica. Malgrado la città fosse così vicina che dal monastero se ne scorgevano le torri, tanto che anche i mediocri camminatori solevano scegliere a mèta di passeggiate gli ameni e ridenti dintorni del monastero, l'addio dalla mia cara mamma, dall'eccelsa donna che in cuor mio profondamente veneravo, come pure dal mio buon maestro, mi riuscì oltremodo grave. È altresì certo che alla pena del distacco, ogni palmo che allontani dalla cerchia dei propri cari sembra eguagliare le più remote lontananze. La Principessa era particolarmente commossa, e la voce le tremava di mestizia, mentre con elevate parole mi ammoniva. Mi fece dono di un grazioso rosario e di un libriccino da messa illustrato di leggiadre miniature. Mi diede poi una lettera di raccomandazione per il Priore del convento dei Cappuccini della città, esortandomi ad andarlo a trovare senza por tempo in mezzo, ché avrebbe potuto validamente assistermi in ogni cosa, sia col consiglio che in pratica.
È cosa certa che difficile sarebbe trovare un sito più ameno di quello ove è situato, alle porte o quasi della città, il convento dei Cappuccini. Il rigoglioso giardino con la vista sui monti mi appariva sotto una novella luce di bellezza, ogni volta che m'aggiravo per i lunghi viali, sostando ora presso l'uno, ora presso l'altro gruppo di fronzuti alberi. Appunto in quel giardino incontrai, allorché la prima volta entrai al convento per consegnare la lettera di raccomandazione della Badessa, il priore Leonardus. La sua innata cordialità si accrebbe ancora quando ebbe letto la lettera, e tante cose lusinghiere seppe raccontare dell'augusta donna che in altri tempi aveva conosciuto a Roma, da rendermelo caro sin dal primo istante. Era attorniato dai frati, e facile riusciva intuire i rapporti tra il Priore e i monaci, e tutte le claustrali abitudini e regole di vita: la pace e la serenità di spirito che si palesava nell'aspetto del Priore si propagava a tutti i frati. Neppure la minima traccia di malcontento si scorgeva, né di quella scontrosità ostile che rode l'animo e che abitualmente si legge sul volto dei monaci. Ad onta della rigida regola dell'ordine, per il priore Leonardus gli esercizi religiosi erano più una necessità dello spirito rivolto a celesti cose, che non ascetica penitenza per il peccato inerente all'umana natura, e sapeva accendere nei frati questo senso della devozione a tal punto che in tutto quanto la regola richiedeva, si espandeva tanta serenità e cordialità, da generare un'elevata mistica esistenza in seno alle miserie di questo mondo. Il priore Leonardus aveva financo saputo creare, nell'ambito della convenienza, certi mondani rapporti, i quali non potevano altro che giovare ai frati. Cospicue donazioni, che da ogni parte fluivano al convento ovunque tenuto in gran considerazione, rendevano possibile ospitare in date circostanze gli amici e protettori del convento. In questi giorni, al centro del refettorio, si apparecchiava una lunga tavola, a capo della quale il priore Leonardus presiedeva gli ospiti. I frati occupavano le strette tavole collocate lungo le pareti; e conformemente alle regole, si servivano delle loro semplici stoviglie, mentre sulla mensa degli ospiti brillava la linda grazia di porcellane e cristalli. Il cuoco del convento eccelleva nell'ammansire ghiotti cibi di magro, che pure apparivano gustosi ai convitati. Questi procuravano il vino, cosicché i conviti al convento dei Cappuccini erano diventati un'amabile, cordiale unione di elementi sacri e profani che nei loro reciproci effetti non erano già senza profitto per i partecipanti. Poiché coloro i quali erano inceppati in profani godimenti, se ne staccavano per entrare fra quelle mura, ove tutto proclamava un'esistenza claustrale diametralmente opposta; e stimolati da una scintilla caduta nell'anima loro, non potevano fare a meno di ammettere che anche per vie diverse da quelle che essi battevano si potesse conseguire pace e felicità, in modo che, quanto maggiormente lo spirito si solleva al di sopra delle terrestri sfere, già quaggiù può offrire alla creatura umana un'esistenza più alta.
I monaci, per contro, poiché le cognizioni acquisite della movimentata vita che si svolgeva al di là delle mure claustrali risvegliavano in loro considerazioni di varia specie, ne guadagnavano in prudenza e saggezza. Senza valutare erroneamente le cose di questo mondo, in un costume di vita diverso e improntato a un altro spirito, erano costretti a riconoscere la necessità di una simile rifrazione del principio spirituale, senza di cui tutto sarebbe rimasto morto e incolore.
Spiccava di gran lunga fra tutti, per la perfezione dello spirito come della cultura, il priore Leonardus. Non solo passava per valente teologo, capace di trattare con facilità non meno che con profondità i più astrusi temi, tanto che spesso i professori del seminario presso di lui cercavano consiglio e ammaestramenti; ma la sua educazione rivelava altresì una mondanità superiore a quanto solitamente di un monaco si presume. Parlava compiutamente e con eleganza il francese e l'italiano, e per la sua particolare prontezza di spirito, in altri tempi gli si erano spesso affidate difficili missioni. Già quando lo conobbi era avanti negli anni, ma mentre i capelli bianchi testimoniavano dell'età, gli occhi mandavano tuttora lampi d'un fuoco giovanile, e il piacevole sorriso che gli aleggiava sulle labbra accresceva l'espressione di un'interiore concordia e calma spirituale. Quella medesima grazia che abbelliva i suoi discorsi dominava ogni suo gesto, e persino il disadorno abito dell'ordine si addiceva singolarmente alle armoniche proporzioni del suo corpo. Non ce n'era uno tra i frati, che al convento non fosse giunto di propria elezione, chiamato, anzi, da un bisogno determinato dalla interiore vocazione religiosa; ma anche lo sventurato che nel convento avesse cercato il porto per sfuggire al nulla, presso Leonardus si sarebbe trovato ben presto consolato; la sua penitenza altro non sarebbe stata che il breve trapasso alla pace, e riconciliato col mondo, senza curarsi oltre dei suoi orpelli, vivendo questa umana esistenza tosto si sarebbe elevato oltre l'umana miseria. In Leonardus queste insolite tendenze della vita monacale s'erano radicate durante il suo soggiorno in Italia, dove il culto, e con esso tutta la concezione della vita religiosa, è più sereno che non nella Germania cattolica. Come nell'architettura delle chiese si sono mantenute le forme classiche, così sembra che da quei sereni e commossi templi dell'antichità un raggio sia penetrato sin nelle mistiche oscurità del Cristianesimo, il quale ne è rimasto circonfuso del mirabile fulgore che solevano irradiare gli dèi come gli eroi.
Leonardus mi prese a benvolere; m'impartiva lezioni d'italiano e di francese, ma principalmente furono i libri di vario genere che mi mise in mano, non meno dei colloqui con lui, a formare il mio spirito in modo particolare. Al convento dei Cappuccini io trascorrevo quasi tutto il tempo che gli studi al seminario mi lasciavano libero, e sempre più sentivo crescere in me l'inclinazione a prendere l'abito religioso. Palesai il mio desiderio al Priore; senza che propriamente intendesse distogliermene, lui mi consigliò di attendere ancora un paio d'anni almeno, e in quel periodo, di guardarmi un po' d'attorno nel mondo. Per quanto non mi mancassero le conoscenze d'altro genere, che m'ero procurate per mezzo del maestro della cappella vescovile, il quale m'istruiva nella musica, è certo che in ogni compagnia, e principalmente quando v'era rappresentato il sesso femminile, io mi sentivo sgradevolmente impacciato, e questo fatto, come l'inclinazione alla vita contemplativa in genere, parvero decidere della mia vocazione interiore in favore del convento.
Un giorno il Priore mi aveva tenuto strani discorsi sulla vita profana; era penetrato a fondo nei più scabrosi temi, che tuttavia lui sapeva trattare con la consueta sua levità e grazia di espressione; di modo che, evitando quanto anche solo lontanamente suonasse men che decente, riusciva pur sempre a porre il dito sulla piaga. Infine, prendendomi la mano, mi guardò fisso negli occhi e mi domandò se ero ancora innocente. Mi sentii diventare di brace, poiché mentre così insidiosamente Leonardus m'interrogava, nei suoi più vividi colori mi balzava dinanzi una visione che finora avevo sempre allontanato da me.
Il maestro di cappella aveva una sorella la quale, se proprio non meritava d'esser detta bellissima, essendo nel pieno suo fiore, era certo una giovane oltremodo attraente. Si distingueva, soprattutto, per il personale, che era di proporzioni perfette; aveva le più belle braccia, il più bel seno, per forma e colore, che veder si potesse. Un mattino, recandomi dal maestro di cappella per la mia lezione, sorpresi la sorella in leggera veste da casa, il seno quasi scoperto; lei s'affrettò bensì a buttarsi addosso lo scialle, ma troppo già avevano colto i miei sguardi avidi. Non potevo pronunciare parola, sensazioni non mai provate si agitavano tempestose in me, cacciandomi il sangue ardente per le vene con tanta furia, che se ne udiva il pulsare. Il petto spasmodicamente compresso sembrava mi si volesse schiantare; finalmente trovai sollievo in un sospirare lieve. Con grande naturalezza la giovane mi venne incontro e mi prese la mano, domandandomi che mai mi succedesse, e, ciò non fece che peggiorare il mio stato; fortuna volle che a liberarmi da quelle pene entrasse il maestro di cappella. Mai ero stato così stonato come quel giorno. Tale era il mio timor di Dio, che più tardi ritenni tutto quanto l'incidente una malvagia tentazione del demonio, e dopo breve tempo mi reputai felice tanto da aver potuto vincere il nemico per mezzo degli esercizi religiosi che non trascurai.
Con l'insidiosa domanda del Priore mi riappariva ora la sorella del maestro di musica, col seno scoperto; sentivo il caldo alitare del suo respiro, la stretta della sua mano; la mia intima angoscia cresceva con ogni momento che passava; e tremavo dinanzi a un certo sorriso ironico col quale Leonardus mi guardava. Non potendone tollerare lo sguardo chinai gli occhi a terra; allora il Priore, con un buffetto sulle gote in fiamme:
— Vedo, figlio mio — mi disse, — che mi avete compreso, e che ancora non siete perduto; il Signore vi protegga dalle seduzioni del mondo! Le gioie ch'esse ci offrono sono di breve durata, e ben si può affermare che sono maledette, perché nell'indescrivibile nausea, nel completo rilassamento, nell'ottusità verso ogni elevatezza che generano, perisce il principio migliore, il principio spirituale dell'uomo. —
Per quanto io mi sforzassi di scacciare dalla memoria la domanda del Priore e la visione che aveva suscitato, non ci riuscivo in alcun modo, e se pure in presenza di quella giovane avevo saputo mostrarmi disinvolto, ora tornavo più che mai a paventarne la vista, ché al solo pensiero di lei mi assaliva un'angustia, un'intima inquietudine che tanto più mi sembrava pericolosa, in quanto, contemporaneamente, nasceva in me una meravigliosa ignota nostalgia, e con questa una bramosia che ben doveva esser peccaminosa. Una serata doveva decidere di questo ambiguo stato d'animo.
Come spesso soleva, il maestro di cappella mi aveva invitato a un trattenimento musicale, da lui preparato insieme ad alcuni amici. Oltre alla sorella erano intervenute parecchie altre signore, e ciò aumentava l'impaccio che già alla presenza di lei sola mi toglieva il respiro. Assai leggiadramente vestita, la trovavo più bella che mai, mi pareva che un'oscura forza irresistibile mi traesse a lei; e così, senza ch'io stesso sapessi come accadeva, le ero sempre vicino e avidamente afferravo ogni suo sguardo, ogni parola sua, anzi tentavo in ogni modo di accostarla, affinché almeno nel passare le sue vesti mi sfiorassero, e ciò mi colmava di un intimo diletto non provato mai. Palesemente lei se n'era accorta, e se ne compiaceva; a momenti mi sembrava di doverla abbracciare, in un impeto di amorosa frenesia, e di stringerla ardentemente a me! A lungo era rimasta seduta accanto al pianoforte, quando finalmente si alzò lasciando sulla seggiola uno dei suoi guanti; subito me ne impossessai, e nella mia follia, caldamente v'impressi le labbra! Una delle altre signore m'aveva visto, e andò dalla sorella del maestro, le bisbigliò qualcosa all'orecchio, e tutte e due mi guardarono con sorrisetti e risatine di scherno! Ero rimasto annichilito, una corrente di gelo mi scorreva