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Il Miraggio
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E-book308 pagine4 ore

Il Miraggio

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Info su questo ebook

Una storia d'amore a cavallo tra '800 e '900, tra passione, romanticismo e i miraggi artistici dei protagonisti.  

Lucio D'Ambra, pseudonimo di Renato Eduardo Manganella (Roma, 1º settembre 1880 – Roma, 31 dicembre 1939), è stato uno scrittore, regista e produttore cinematografico italiano.
D'Ambra è stato anche giornalista, critico letterario e teatrale, drammaturgo e direttore artistico di compagnie di teatro (Ettore Petrolini ridusse in un suo spettacolo la sua pièce Ambasciatori) nonché sceneggiatore per il cinema (iniziò la carriera al tempo del muto per approdare poi al cosiddetto metacinema e al cinema futurista).
Accademico d'Italia e autore di romanzi ebbe come segretario lo scrittore e poeta Tullio Colsalvatico e fu in rapporti con il filosofo e critico Adriano Tilgher, con il quale polemizzò a lungo.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita19 mar 2019
ISBN9788832544497
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    Anteprima del libro

    Il Miraggio - Lucio D'Ambra

    Lucio D'Ambra

    Il Miraggio

    The sky is the limit

    UUID: e84581ac-4a28-11e9-80f5-17532927e555

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    Indice

    A mia moglie, Virginia Adele Manganella.

    Parte prima

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    Parte seconda

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    Parte terza

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    A mia moglie, Virginia Adele Manganella.

    Mia cara Lilla, questo romanzo, cui io metto in fronte il tuo nome come un auspicio di grazia e come un usbergo di gentilezza, è tuo di diritto. Tu non mi sei stata solamente consigliera, ma collaboratrice. Ti ricordi le nostre passeggiate pei boschi di Quisisana e lungo i quais della via Caracciolo, al tramonto, durante il mio lavoro? Ragionavamo insieme di questo romanzo, apprendemmo insieme ad amarlo prima che fosse scritto. E quante volte nelle nostre fantasticherie non ci sembrava che l'irrequieto e doloroso Giuliano Farnese, o la dolce ed austera Beatrice, o l'appassionata e delusa Claudina Rosiers fossero stati fra i nostri amici più cari e più intimi? Il sole tramontava e Posillipo sembrava un azzurro frammento di paradiso caduto nel liquido zaffiro del mare, un giorno in cui un dolce poeta ed un'amica amorosa, nella primavera del loro amore, avevan impetrato dagli dei clementi un po' di paradiso in terra.

    Questo romanzo, dunque, ha per te un valore d'affetto. Toltogli questo, è probabile che nessun altro ne resti per coloro che lo leggeranno. Nè di ciò mi dolgo, poichè solamente mia ne sarebbe la colpa. Io vorrei però che a questo libro si riconoscesse un sol pregio: quello di essere stato scritto sotto la norma severa di un convincimento profondo. Questo mio convincimento, derivato dalla lezione della vita e da quella dei romanzi, consiste nel fatto che l'arte non può essere altro che specchio fedele della vita e che nell'arte senza la sincerità non v'è salvezza di sorta. Le fastose porpore e gli ori e i broccati dello stile, l'opulenza delle imagini, l'armonia della linea non possono oggidì costituir da sole l'opera d'arte, ma solamente la fatica sterile se pur prestigiosa del virtuoso. Il pensiero non può mancare a un libro odierno e il lettore dovrebbe, dopo sfogliato l'ultimo foglietto, ricavarne un insegnamento o una norma.

    Se a questo io son riuscito con questo mio romanzo altri diranno. Io ho voluto far dell'arte il riflesso della vita, e questo con una sincerità illimitata. Oh, il godimento che lo scrittore prova quando sinceramente scrive quel che sinceramente ha sentito o veduto! Non si hanno più allora i dubbii e le inquietudini e gli scoraggiamenti cui tanti scrittori van soggetti durante l'esecuzione di un loro lavoro. Essendo stato sincero, lo scrittore può reputare d'avere adempiuto al massimo dei doveri di chi prende in mano una penna. Mon verre n'est pas grand, diceva Musset, mais je bois dans mon verre. E questa che sembra modestia è invece il più grande orgoglio. Ma è un orgoglio benedetto quando si tratta di accingersi a compiere una più o meno modesta opera d'arte.

    Molte delle ultime pagine di questo romanzo, mia cara Lilla, sono state scritte in giorni per noi angosciosissimi, tu lo ricordi. Il nostro piccolo Diego malato, mia madre colpita gravemente dalla furia del male. Eppure mia madre pretese ch'io portassi a termine questo libro, e quante di queste pagine io ho scritto in un'ansia crudele, interrompendomi ogni momento per passare nelle stanze contigue al mio gabinetto da lavoro a udirvi il respiro della cara inferma, a seguirvi gli alti e bassi del male, trepidando. Forse esse si risentiranno di questa febbre durante le quali furono scritte? Non so. Comunque tu, cara e dolce Lilla, vorrai gradire tutto il libro come un'affermazione d'affetto e un nuovo monile di tenerezza e di devozione che ha voluto significare in questa pagina il tuo

    Roma, 18 febbraio 1900.

    Renato.

    Parte prima

    I

    Seduto su un'ampia poltrona di cuoio a lato del suggeritore, col gomito poggiato sul bracciuolo di legno e la bella testa bruna sorretta dalla mano, giocherellando col bastone tenuto dalla sinistra, Giuliano Farnese assisteva faticosamente alla prova che procedeva senza inciampi, senza interruzioni, monotona, eterna, disilludente. Il palcoscenico era rischiarato da qualche raggio di sole che, filtrando a traverso il lucernario del teatro, indorava il pulviscolo ondeggiante su le lunghe file di poltrone ricoperte di velluto celeste, batteva e si rifrangeva su i lumi metallici della ribalta. Tutta la scena era rischiarata da quel sole invernale che diffondeva intorno una letizia insolita, come quella che spande nelle sognatrici anime dei pescatori, nelle chiare e bianche albe primaverili, su le spiaggie. Nell'alto del teatro qualcuno sbatteva il velluto di qualche poltrona. Su l'arcoscenico un operaio martellava, rialzando e piegando una stoffa: e questi due rumori cupi, insistenti, fastidiosi, distraevano il pensiero ed irritavano i nervi. Farnese, indifferentemente, seguitava a segnar geroglifici su la polvere delle tavole, geroglifici che poi cancellava col piede, ascoltando la sua prosa ripetuta prima dal suggeritore, poi dagli interpreti, scoloritamente, senza ispirazione e senza voglia.

    Pochi attori erano sul palcoscenico del teatro Nazionale, quel giorno, pochissimi necessitandone alla nuova commedia di Farnese. Il sole, che sfolgorava raggi pallidi e tiepidi in quel pomeriggio di marzo, invitando all'esodo verso le vie luminose e verso le grandi piazze piene di luce e di vita, aveva sbarazzato il palcoscenico di tutti i piccoli attori ignoranti e tronfii, di tutte le minuscole attrici civette e mestieranti, che tumultuavano di chiacchiere, di risa e di frastuoni nei giorni in cui la pioggia grondava o la commedia in prova richiedeva un gran numero di commedianti. Erano rimasti sul palcoscenico solo gli attori principali, fra cui due attrici di prim'ordine; nel fondo, disteso sopra una tavola, un neofita della scena che recitava da poche sere, appassionato del teatro come di un'amante, ascoltava le parole ed osservava i movimenti, senza quasi batter ciglio, nel silenzio ora generale, finchè il secondo atto finì, con una scena ardentissima di passione, eseguita con foga magnifica da Claudina Rosiers. Solamente allora Farnese pronunziò un elogio. Il direttore del teatro, Savarese, stemperava i colori dei suoi complimenti meridionali per l'altra attrice seduta sotto una quinta. Allora Claudina Rosiers, d'una bellezza delicata e morbida, s'avvicinò a Farnese sorridendogli per la lode.

    Giuliano Farnese, figura snella ed alta, colorito bruno e baffi castani fieramente rialzati come quelli d'un medioevale capitano di ventura, occhi azzurri, leggera barba a punta sul mento; insieme elegante delicato e forte; un gentiluomo, un poeta ed un moschettiere. Claudina Rosiers, alta e bionda, coi capelli d'oro e gli occhi bruni, con la bocca di un carminio acceso e dalle labbra tumide, maturi frutti d'amore; le luci degli occhi pallide a volte, a volte sfolgoranti, a volte truci svelavano l'anima dell'attrice, composta di sogno e di idealità, di ardore e di entusiasmo, di impassibilità e di crudeltà. Talora, sollevata in un cielo invisibile, le luci pallide dei suoi occhi interrogavano i misteri del sogno, inseguivano azzurre chimere, vedevan passare tumultuanti scorribande di illusioni; ma altre volte, invece, foschi e pure ardenti quegli occhi investivano la persona guardata di un ardore spirituale e fisico, di un incendio afrodisiaco; ed ancora altre volte, infine, quelle pupille bruciavano di minaccia, come sitibonde di dolore e di massacro, come regine della sofferenza; e al pari di quegli occhi, anche l'anima dell'attrice a volte era azzurra e perduta nel sogno e nella fantasia, a volte incendiata da un desiderio violento, a volte bramosa di fine e di lutto.

    — Per ora, diceva ella a Farnese cui si era avvicinata con deferenza, per ora siamo avviati bene e siamo appena alla metà del lavoro di preparazione. Non vi pare? La Chimera deve avere un grande successo e l'avrà: un successo più largo, più grande, più intenso di quelli già magnifici che hanno portato il vostro nome alla gloria. Quando Savarese ebbe da voi una risposta affermativa alla sua richiesta di una commedia nuova, venni anch'io ad udirne la lettura, in casa vostra e senza conoscervi, ricordate? Come fui ardita! Ma non sono forse l'entusiasmo e l'ardire che sostengono nell'arte, mio caro maestro? E poi, era una commedia che mi riserbava una grande interpretazione ed era sopra tutto un'opera vostra! Come resistere? Venni, accompagnata da Savarese, e venni prevenuta molto bene; eppure, ogni mia aspettativa fu sorpassata. Ah, sento ancòra l'entusiasmo di quella lettura, mio caro Maestro!

    La grande attrice lo chiamava «Maestro» per un'affermazione continua della sua ammirazione. Farnese, dapprima, se n'era schermito ridendo e protestando, ma l'attrice non aveva voluto e saputo rinunziare al piacere di quell'omaggio continuo, a confermargli sempre che ogni sua opera aveva avuto su lei un'influenza decisiva, e che la sua arte, il suo cuore ed il suo pensiero erano quasi stati creati ed alimentati da quelle opere.

    — Anch'io vi vidi allora e v'udii recitare per la prima volta, rispose Giuliano Farnese. Anch'io attendevo una magnificenza, ma ogni mia aspettativa fu sorpassata.

    Claudina Rosiers aveva da quattro mesi solamente esordito sul teatro con un successo strepitoso. Prima d'allora, quasi tre anni innanzi quella data, ella aveva recitato in una primaria compagnia drammatica, troppo sollecitamente e tragicamente disciolta dal colpo di rivoltella d'un grande attore. In quel tempo aveva recitato a fianco di una delle più care glorie della scena italiana, la signora Virginia Marini. L'eccellenza di questa attrice l'aveva persuasa a considerare sè stessa, la sua arte, la sua forza. Dopo questo esame, conscia della sua piccolezza, ella — esempio mirabile ed inimitato — lasciò le scene e per tre anni con le sue poche economie, viaggiò modestamente all'estero, vide ed udì attori ed attrici, assimilò il buono, respinse quanto le sembrava cattivo, studiò ininterrottamente ed enormemente, fatica ignorata e per questo più nobile. Poi si presentò a Savarese, dopo una lunga e triste odissea di rifiuti, in un momento in cui gli bisognava una grande attrice: il direttore dapprima sorrise, poi consentì ad udirla recitare ma sempre con un sorriso ironico a fior di labbra; però, dopo quell'audizione, stupito, meravigliato, gonfio di entusiasmo, avendo da vecchia volpe astuta annusato l'affare, scritturò l'attrice a condizioni per lei eccellenti; cominciò subito una rèclame esorbitante, così sfacciata, così insistente, che avrebbe potuto riuscire veramente fatale alla esordiente. Invece, la sera della sua prima rappresentazione a Milano, al teatro Manzoni, Claudina Rosiers ebbe decretato un trionfo portentoso, uno di quei trionfi tanto più solenni, quanto più giungono dopo aver vinto ostacoli altissimi di diffidenza, tanto più giocondi e festosi, quanto più non insperati ma inattesi. Ella aveva recitato in quella sera del novembre 1895 uno di quei fastidiosi pasticci ad effetto, che solo dal genio di un'attrice possono avere anima e bellezza, Adrienne Lecouvreur. Nella scena in cui Adriana, vedendo Maurizio di Saxe ch'ella ama, preso alle civetterie della duchessa di Bouillon, durante una rappresentazione di salone, recita gli stessi versi del Racine e finisce per insultare la sua rivale, dirigendole l'imprecazione della incestuosa regina raciniana, ella ebbe uno di quegli applausi inebrianti che in una vita d'artista nessun'altra gioia potrà mai far dimenticare. Il pubblico si era trovato innanzi alla potente espressione di un ingegno che, se ancòra un po' corretto e levigato, poteva divenire splendidissimo; la critica aveva trovato una terra vergine da sfruttare, gli eleganti e i damerini giovani e vecchi avevano intraveduta la possibilità di nuove conquiste, avevano trovato un nuovo campo di caccia. Tutto questo aveva concorso ad un successo che dalle poltrone era asceso alle gallerie, dai palchi aveva echeggiato negli atrii del teatro, era stato alimentato ancora più nei saloni e nelle redazioni dei giornali, nei clubs e nei caffè. In quei quattro mesi aveva percorso tutta l'Italia, precedendo, accogliendo e seguendo l'attrice illustre, divenuta così prontamente un astro fulgente su quell'orizzonte teatrale dove brillano e scintillano tante stelle di cartapesta, illuminate d'un falso bagliore dai riflettori elettrici dei successi effimeri e passeggeri.

    Farnese guardava l'abito indossato dall'attrice in piedi innanzi a lui. Era un abito di saia azzurro cupo, con dei galloni ed i rivolti di amoerro bianco, una lunga gala di merletti veneziani, un alto collo di velluto turchino, alla Maria Stuarda. Su la chioma bionda aveva un cappello di feltro con due maestose piume bianche, una delle quali discendeva in molle curva sul piccolo orecchio roseo, come da un feltro di spadaccino del secolo xvii.

    — Vi piace? domandò l'attrice quando si avvide dell'attenzione dello scrittore.

    — Mi piacete, egli rispose.

    — Parlo dell'abito, non di me, replicò sorridendo l'attrice.

    — Innanzi ad una bellezza, spiegò il romanziere, non si bada al piccolo particolare squisito, al trascurabile ornamento delicato. In San Pietro, nella cappella della Pietà, non ammirate prima i mediocri affreschi di Lanfranco, ma il divino gruppo di Michelangelo.

    — Dimenticate le proporzioni, replicò l'attrice con un sorriso che scoprì le due file di piccoli denti candidi.

    — Perchè ho fatto un confronto fra Michelangelo e voi, un affresco di Lanfranco ed il vostro estetico abito di quest'oggi? Mio Dio, le proporzioni si possono sottintendere sempre! E poi.....

    Il madrigale era stato interrotto dalla voce del Savarese che chiamava all'ordine per il terzo atto. Gli attori erano tornati verso il centro della scena, interrompendo i loro chiacchiericci. I trovarobe preparavano l'arredo scenico, segnavano le porte con due sedie corrispondenti, i divani con una lunga fila di sedie logore e scolorite. Un campanello elettrico — e col sordo mormorio del suggeritore la prova ricominciava. Le scene seguivano le scene e Farnese pure avvezzo agli inganni delle commedie in prova, avvertiva deficienze dove non ve ne erano, vedeva tutto pallido, fiacco, slavato. Sebbene egli sapesse come solo la ribalta illuminata e la sala colma fossero sufficienti a dare ingegno a quelli attori che ora sembravano poveri filodrammatici, pure temeva la loro negligenza, paventava un'interpretazione debole e frusta, visioni fosche d'insuccesso gli attraversavano il pensiero. Ma Claudina Rosiers faceva la sua entrata e subito la scena diveniva elettrica, l'orgoglio dell'autore vibrava di nuovo fiducioso, gli altri attori anche si investivano meglio della parte, procedevano più vivi e più veri. Savarese, grosso e acceso nel volto senza barba nè baffi, sorrideva dai piccoli occhi furbi e dalle labbra tumide di vecchio ebreo, presentendo l'affare ed il successo fruttifero. Ma un attore di primissimo ordine, Gray, che in quel momento non recitava, seduto su una delle due sedie che simulavano i battenti di una porta, seguiva con l'occhio sospettoso Claudina Rosiers, ardente nei suoi movimenti passionali; ed a volte gli occhi dell'attore brillavano di un riflesso sinistro. Gray era innamorato di Claudina ed aveva già confessato all'attrice la sua passione, deferentemente, offrendole la sua mano. Ma l'attrice aveva ricusato, ringraziandolo tuttavia dell'onore che le tributava: ella voleva darsi all'arte conservando il suo libero arbitrio, non voleva essere diminuita dai vincoli e dagli affanni di un marito e di una famiglia. Il suo discorso era stato così fermo e reciso che Gray non aveva saputo insistere; ed allora con voce piena di lacrime s'era fatto promettere che, se un giorno ella avesse mutato idea, avrebbe tenuto conto della sua sfortunata passione e l'avrebbe prescelto agli altri. Il giovane aveva sofferto per quella rinunzia, ma il pensiero che quella donna ch'egli non poteva avere non sarebbe nemmeno appartenuta ad altri lo consolava in quell'eterno orgoglio e in quel mascherato egoismo del maschio, che sono tanta parte di una passione virile. Quando però le prove della nuova commedia di Giuliano Farnese erano cominciate, la più atroce gelosia s'era aggiunta nell'animo dell'attore a quel rassegnato sconforto. Egli sapeva che Farnese aveva avuto molte buone fortune, sapeva quanto Farnese piacesse a Claudina Rosiers, sapeva quanto Claudina Rosiers piacesse a Farnese; e le sue buone amiche s'erano date premura di metterlo in guardia contro Farnese, ammonendolo perchè fosse vigile, comunicandogli le dicerie che correvano sul grande scrittore, le sue glorie raccolte nel giardino di Citera, le sue squisite arti seduttrici. Da allora Gray non aveva avuto un minuto di pace; il più piccolo atto di cortesia convenzionale sembrava al geloso la conferma, l'accusa, la prova della colpa di Claudina e della sua propria sventura. Con la sua gelosia illogica e senza diritti era divenuto insopportabile alla giovane donna, che di conseguenza lo sfuggiva come meglio e quanto più poteva; ma il geloso vedeva in ciò mille altre prove del suo infortunio e della relazione dell'adorata con lo scrittore.

    Egli intanto, quel giorno, seguiva con lo sguardo Claudina Rosiers, finchè finito anche il terzo atto con una deliziosa scena di amore e di passione, si era andata a sedere, ancòra tutta vibrante, vicino allo scrittore che applaudiva ai suoi interpreti. Allora Gray si era perduto fra i fondali, scoppiando in lacrime come un bambino contrariato. Fortuna per lui che non vide il gesto con cui Farnese prese fra le sue la piccola mano di Claudina Rosiers ancòra ansimante e sconvolta!

    — Io non so spiegarmi, le mormorava intanto lo scrittore, come voi possiate creare con verità così meravigliosa e con logica umana così inappuntabile, queste scene d'amore, che io ho sempre creduto impossibili a rendere senza aver sofferto quelle agonie. Come io ho dovuto viverle per scriverle, così immaginavo che, volendo farne una viva rappresentazione, bisognasse averle ugualmente sofferte e forse anche più di me. Ora, invece, terrei una scommessa che voi non avete mai amato.....

    — L'arte mi ha presa troppo presto, rispose l'attrice, e troppo completamente, perchè io avessi il tempo di dedicarmi all'amore. Ho amato, sì, non vi dico di no, ma in fondo quale è quella giovinetta che non ha amato, senza un istante di tregua, dai sedici ai vent'anni? Alcune amano misticamente Gesù, altre amano più umanamente le spalline e gli speroni di un bell'ufficiale dei lancieri. Ognuna, ahimè, si forma il suo grande ideale, e nelle lunghe notti verginali nel lettuccio candido, su l'origliere che unico confidente sa tutti i nostri sogni più intimi, si combinano i bei visi e le belle anime, i mustacci bruni e l'amore eterno, la forza del corpo e la delicatezza del cuore. Poi viene la vita; e a chi porta la realizzazione dell'ideale, a chi porta il contrario. Le une devono temere, le altre devono sperare: come per le une giungerà il redde rationem poichè i sogni realizzati non vivono a lungo quaggiù, così per le altre giungerà il sursum corda, perchè per ognuno è destinato quaggiù almeno un quarto d'ora di felicità. Voi vedete, mio caro maestro, che parlo latino; ma sono frasi raccolte sui giornali e che non sono nemmeno sicura di pronunziare esattamente..... Ah, anch'io avevo il mio ideale a sedici anni; e volevo allora essere una grande attrice e questo si è realizzato, non per la grandezza ma per la professione; volevo esser bella e gli adulatori mi dicono che lo sono; volevo anche essere amata da un uomo illustre, completarlo, esser cosa sua come lui cosa mia, quasi direi, integrarlo. E non vi spaventate di questo parolone: è nella mia parte che devo recitare stasera! Questo ancòra non è. Sarà? Non sarà? Quien sabe? dicono gli Spagnuoli con due dolci e tristi parole che racchiudono un mondo. Anch'io aspetto il mio quarto d'ora, perchè deve venire. Ma il difficile è saperlo attendere pazientemente per coglierlo al suo passaggio. Intanto, mio caro maestro: j'attends mon astre!

    Lo scrittore la guardava sorridendo, mentre ella con uno scoppio di risa riprendeva:

    — Anch'io ho amato, ma l'Ideale, una creatura che la mia fantasia ha creato e che forse non esiste. Un amoretto l'ho avuto. Ho passato la fanciullezza e l'adolescenza nella mia Siena: a quindici anni volevo bene a un giovinetto della mia età, un piccolo, biondo, gracile, che ora ho ritrovato ammogliato e con prole. Allora ci davamo degli appuntamenti sotto la volta di quella meravigliosa Fonte Branda, verso il crepuscolo. Che cosa accadeva? Qualche bacio, mio Dio, e molte promesse di eterna fè! Però qualche sera, se tardavo, non trovavo più al convegno il mio padrone e signore, che, atterrito dalla sera che scendeva, dall'ombra della Fonte e dallo scrosciare dell'acqua, preferiva all'amore mio la tranquillità della sua anima infantile. Ed ecco, mio signore, in quali mani fidavo la tutela di tutta la mia vita..... Insomma, io non ho provato l'amore, ma lo sento; non l'ho conosciuto, ma non lo ignoro.

    Più tardi, come lo scrittore alla fine del quarto atto si meravigliava ch'ella provasse in scena e le rendesse anche con precisione alcune sensazioni fisiologiche, Claudina Rosiers scoprì l'allusione ed il sottinteso; sorrise e disse all'orecchio del Farnese:

    — Voi pensate che questo, almeno, devo averlo provato; non è vero, maestro?

    E staccandosi dall'uomo, mentre Gray ricompariva mogio mogio tra i fondali, disse con l'alterezza di colei che serba immacolato il suo fiore e ne sa il prodigio:

    — Ebbene, no. Io sono vergine!

    Egli rimase a guardare la vergine, ma i suoi occhi non erano più limpidi come poc'anzi; una scintilla impura di cupidigia, accesa dal pensiero di quella occulta primavera, vi brillava torbidamente. La scena cominciava a vuotarsi, dopo che il direttore aveva pronunciato le abituali parole: «Possono andare; domani, prova alle undici». A poco a poco solo Claudina, Farnese e Gray erano rimasti sul palcoscenico, Farnese ancòra seduto su l'ampia poltrona, Claudina in piedi presso lui canticchiando, Gray imbarazzato con la pallida speranza di riaccompagnare Claudina. Un silenzio imbarazzante era fra loro. L'attrice e lo scrittore sentivano il bisogno d'essere ancòra soli, di poter ancòra parlare, di potere ancòra unire le anime loro nella piena confidenza che consola. Gray finalmente comprese l'inutilità della sua attesa, quando Claudina per troncar netto il disagio di quel silenzio, pregò Farnese di accompagnarla dalla sua modista. Il commediante girò su i tacchi, dopo di aver salutato in corruccio, e s'allontanò rapidamente tra le penombre dei praticabili e delle quinte. Con quella intuizione tutta propria dei gelosi, Gray imaginava che qualcosa di decisivo stava per compiersi tra l'autore drammatico e la sua interprete. Tutti gli spasimi della gelosia lo afferravano, quelli spasimi laceranti del geloso che non ha alcun diritto, dell'innamorato senza speranza che vede un altro in procinto di cogliere quel frutto di amore ch'egli credeva dovuto a sè stesso. Brani di commedie gli tornavano nella mente, di quelle commedie in cui egli doveva vivere, innanzi a mille persone, gli spasimi di una gelosia che conosceva così bene! Il povero innamorato doveva trattenere le frasi di collera e di insulto che gli salivano alle labbra verso colei che era stato il suo sogno, che era la sua madonna, ora in procinto di perdere la gloria della sua verginità per il capriccio passeggero ed inutile di uno scrittore alla moda, di un donnaiolo misogino!

    Fuori, il crepuscolo scendeva. In alcune vie più strette i lampioni già erano accesi, nelle vie larghe e nelle piazze la folla passava, reduce dai suoi dolori o dalle sue fatiche quotidiane, pronta a risalire il calvario l'indomani, dopo il breve riposo di una pallida sera. Gray procedeva fra quella folla variopinta ed ignota, quasi senza vederla, attonito pel martirio di quella idea fissa, che riconcentrando ogni sensibilità sul suo fermento, pare che tolga quasi la sensazione della vista e dell'udito. Sotto quanti di quei volti si celava un dolore simile al suo? Quanti sentivano nel cuore la tenaglia crudele dell'amore senza speranza, i laceramenti atroci della gelosia senza diritto? E queste idee facevano risalire nel suo cuore la piena dell'amarezza, che talora però gli consentiva qualche minuto di speranza e di tregua. E se egli fosse ancòra in tempo? Chi sa che Claudina non avesse pregato Farnese d'accompagnarla, senza un fine recondito, forse per sola vanità femminile, per farsi vedere nell'ora di maggior folla con uno scrittore glorioso, con uno dei più grandi autori drammatici... Ma, la modista? E non poteva veramente recarsi da costei? Cosa v'era di strano e d'impossibile? Ma perchè non aveva detto anche a lui di accompagnarla? Veramente era stato lui il primo a prender congedo e ad allontanarsi; ma perchè ella non aveva detto una parola per trattenerlo, ella che sapeva quanto fosse amareggiato dai sospetti più vani e quanto ne soffrisse? E l'onda di amarezza risaliva ancòra e i laceramenti della gelosia

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