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Nella selva oscura. Racconti naturalistici vissuti sul campo
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E-book191 pagine2 ore

Nella selva oscura. Racconti naturalistici vissuti sul campo

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Info su questo ebook

«Quella volta che…» Comincia spesso così una condivisione di ricordi, davanti a un fuoco, con in mano una tazza di tè, di brodo caldo o di “succo d’uva”. Si raccontano volentieri aneddoti e vicende “di campo” e la giusta atmosfera favorisce l’affiorare delle nostre piccole o grandi disavventure. Pensandoci bene, amando il nostro lavoro (e un naturalista non può non amare il suo lavoro) qualsiasi circostanza è buona per rispolverare di buon grado gli eventi passati; così facendo impariamo a ricordare. Nella selva oscura è un omaggio a quanti si dedicano con passione allo studio della natura e alla divulgazione scientifica.

“Un giorno qualcuno mi chiese di spiegargli in che cosa consistesse esattamente il mio lavoro. Io risposi che la professione del naturalista più che spiegata va raccontata. Il naturalista, difatti, è un esploratore che osserva con la curiosità di un bambino, analizza con la mente dello scienziato e si emoziona con l’animo del poeta. Non si tratta semplicemente di una professione, è una predisposizione”.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2020
ISBN9788855129664
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    Anteprima del libro

    Nella selva oscura. Racconti naturalistici vissuti sul campo - Aldo Martina

    Aldo Martina

    Nella selva oscura

    Racconti naturalistici vissuti sul campo

    Copyright© 2020 Edizioni del Faro

    Gruppo Editoriale Tangram Srl

    Via dei Casai, 6 – 38123 Trento

    www.edizionidelfaro.it

    [email protected]

    Prima edizione digitale: aprile 2020

    ISBN 978-88-6537-666-9 (Print)

    ISBN 978-88-5512-966-4 (ePub)

    ISBN 978-88-5512-967-1 (mobi)

    In copertina:

    In copertina: La foresta di Paneveggio, foto di Aldo Martina

    Dello stesso autore: Sentieri selvaggi

    http://www.edizionidelfaro.it/

    https://www.facebook.com/edizionidelfaro

    https://twitter.com/EdizionidelFaro

    http://www.linkedin.com/company/edizioni-del-faro

    Il libro

    «Quella volta che…» Comincia spesso così una condivisione di ricordi, davanti a un fuoco, con in mano una tazza di tè, di brodo caldo o di succo d’uva. Si raccontano volentieri aneddoti e vicende di campo e la giusta atmosfera favorisce l’affiorare delle nostre piccole o grandi disavventure. Pensandoci bene, amando il nostro lavoro (e un naturalista non può non amare il suo lavoro) qualsiasi circostanza è buona per rispolverare di buon grado gli eventi passati; così facendo impariamo a ricordare. Nella selva oscura è un omaggio a quanti si dedicano con passione allo studio della natura e alla divulgazione scientifica.

    Un giorno qualcuno mi chiese di spiegargli in che cosa consistesse esattamente il mio lavoro. Io risposi che la professione del naturalista più che spiegata va raccontata. Il naturalista, difatti, è un esploratore che osserva con la curiosità di un bambino, analizza con la mente dello scienziato e si emoziona con l’animo del poeta. Non si tratta semplicemente di una professione, è una predisposizione.

    L’autore

    Aldo Martina, naturalista, ha lavorato per diversi enti, sia pubblici che privati, in ambito faunistico e nella didattica ambientale. Da diversi anni risiede in Primiero (Trentino), alle pendici delle Pale di San Martino; ama girovagare, soprattutto nei boschi, con binocolo e macchina fotografica. E' autore per le Edizioni del Faro di: Nella selva oscura. Racconti naturalistici vissuti sul campo e Sentieri selvaggi. Un anno in Val Canali, tra Villa Welsperg e le Pale di San Martino. Per Bertelli Editori ha scritto Cervi e uomini. Un racconto tra esperienza e passione, sulle tracce di un animale unico. Ha presentato i suoi libri in importati eventi sociali ed istituzionali, quali la Fiera della Piccola e Media Editoria a Roma (Più Libri Più Liberi), il Salone Internazionale del Libro a Torino, il Museo delle Scienze di Trento (MUSE) oltre a librerie e biblioteche di Roma, Trento e provincia.

    Ai colleghi, naturalisti e biologi da campo

    Nella selva oscura

    Racconti naturalistici vissuti sul campo

    Prefazione

    Viaggiare, vedere, pensare e ricordare è vivere, è sapere.

    Luigi Robecchi Bricchetti

    «Quella volta che…»

    Spesso comincia così una condivisione di ricordi, davanti a un fuoco con in mano una tazza di tè, di brodo caldo o di un bicchiere di succo d’uva.

    Ci si racconta volentieri di aneddoti e vicende di campo e la giusta atmosfera favorisce ulteriormente il recupero dalla memoria delle nostre piccole o grandi (dis)avventure.

    Ma, pensandoci bene, amando il nostro lavoro (e un naturalista non può non amare il suo lavoro) qualsiasi circostanza è buona per rispolverare di buon grado gli eventi passati, così facendo impariamo a ricordare. Poi magari ci accorgiamo che non siamo appagati dalla sola ricostruzione mnemonica e sentiamo l’impellente necessità di scrivere, anche solo per perfezionare il ricordo. Ed è allora che realizziamo come le vicende vissute, perfino quelle riposte nel box temporale più remoto, abbiano in effetti contribuito ad arricchire il nostro sentimento professionale, anche se sul momento non ne eravamo necessariamente consapevoli. Il naturalista professa e racconta la sua materia innanzitutto per passione, che non è forse un sentimento? È anche per questo motivo che credo vadano raccontate le esperienze fatte sul campo, non solo per noi stessi, ma perché altri vi possano trovare suggerimenti, spunti, diversità o pura compartecipazione emozionale, al di là di un fuoco e una tazza di tè.

    Perciò no, non credo che riportare per iscritto le proprie vicende sia solo un esercizio mentale, né penso che una rivista scientifica sia il solo ambito in cui i naturalisti debbano comunicare; personalmente, e so di non essere l’unico, ho da sempre divorato i diari o i reportage dei naturalisti del passato e del presente. Chi fra di noi giura di non aver mai letto gli scritti di Durrell o di Lorenz è autorizzato a chiudere questa mia raccolta. Per concludere, ho scelto di raccontare alcune reminiscenze che credo abbiano avuto in qualche modo degli effetti sulla mia attività professionale, sia nella componente scientifica che in quella emozionale, imprescindibili in un naturalista da campo. Perciò le racconto, e se avrete voglia di leggerle fino in fondo, potranno forse fungere per qualcuno, amici e colleghi, da innesco per le vostre. Se sarà così, il mio proposito sarà stato più che appagato.

    La successione dei racconti è in sostanza cronologica e si basa su eventi realmente accaduti, perciò ogni riferimento a persona o cosa non è affatto casuale. E ne sono lieto.

    Gli inizi

    La curiosità, per il naturalista

    è un fenomeno che si localizza in gioventù.

    Danilo Mainardi

    Il primo laboratorio

    C’ è un flash, come una memoria che si materializza, quando penso ai primi contatti con la Zoologia accademica.

    Era il settembre 1983, ancora non sapevo che avrei scelto, di lì a poco, di studiare Scienze, non quelle Politiche come auspicava un professore del mio Liceo, avendomi conosciuto come infaticabile contestatore (indole per altro mai sopita), ma quelle Naturali. Fu una scelta quasi scontata, ma a saperlo ero solo io. Fin da bambino come tanti altri, nutrivo un forte interesse per gli animali e la natura ma in me questo era alimentato oltremisura dai racconti africani dell’amatissimo zio Peppe e poi anche dalle letture salgariane.

    Zieddu, come lo chiamavamo affettuosamente, non amava raccontare ai nipoti della Guerra d’Etiopia (1935-36) né della lunga prigionia in Kenya (1941-1945) però, quando si trattava di ricordare aneddoti su leopardi, pitoni, gazzelle o leoni, cambiava tutto e noi rimanevamo in silenzio ad ascoltare poi, di corsa a sfogliare i libri sugli animali africani che lui stesso ci regalava, e che io ancora custodisco gelosamente.

    Fu appena dopo il diploma di maturità che varcai per la prima volta l’entrata di quello che divenne il mio edificio prediletto della Città Universitaria: l’Istituto di Zoologia Federico Raffaele. Già solo a vederlo, nelle sue linee architettoniche umbertine, fa pensare alle imprese dei naturalisti ed esploratori italiani dell’Ottocento, purtroppo poco note ai più.

    Di quella volta ben ricordo Giuseppe, allora assistente di Zoologia, cui rivolsi la fatidica e risolutiva domanda: «Volendo studiare gli animali selvatici, è meglio fare Scienze Biologiche o Scienze Naturali?»

    Pochi mesi dopo entrai di nuovo in quell’edificio, ma da matricola. Avevo scelto. Certo avrei dovuto affrontare tutta una serie di esami che sentivo non particolarmente invitanti, peraltro fondamentali in un corso di laurea in Scienze, ma c’era anche Zoologia che, con tutte le materie equipollenti, fungeva da super stimolo.

    Mentre calavano le prime ombre della sera (ricordate l’incipit di Nick Carter in Super Gulp: i fumetti animati in TV?), mi trovavo alla prima esercitazione di Zoologia degli Invertebrati e subito mi si aprì un mondo. Ricordo che a cena ne parlai con entusiasmo ai miei genitori che non erano stati particolarmente convinti della mia scelta di studi, fatta per passione, non certo per ponderata convenienza. Di quel laboratorio ricordo esattamente l’istante preciso in cui ammirai, attraverso le lenti del microscopio binoculare, le geometrie ricamate dei foraminiferi. Non ho mai lavorato su questi microrganismi, ma furono loro a farmi desiderare il primo di una lunga serie di giocattoli (tuttora lontana dall’essere completata): lo stereo-microscopio, parimenti noto con il nome meno accattivante di microscopio da dissezione. In un certo senso i naturalisti non finiscono mai di crescere, per fortuna. Comunque, il possesso di questo strumento, dati i costi, rimase per anni un sogno nel cassetto – un tarlo, tanto per rimanere in tema. Ma alla fine riuscii a farlo mio ed è diventato uno dei miei strumenti di lavoro, certamente non tanto quanto il binocolo, ma questa è un’altra storia.

    I primi anni dell’Università coincisero anche con qualche viaggio in Europa, e un’estate approfittai di quella grande idea che va sotto il nome di Interrail. Compagno di viaggio Pierfrancesco, per gli amici Vasco, non quel Vasco, che allora era ancora uno sconosciuto; con quel nome si voleva invece celebrare l’arguzia e la scaltrezza del mio compagno di scuola, infatti il nomignolo completo era Vasco te Sgama, storpiando in romanesco il nome del famoso esploratore portoghese.

    Ebbene con Vasco facemmo un bel giro per la Scandinavia, e a ogni tappa infilavo la visita al locale museo di storia naturale e a qualsiasi altro luogo che descrivesse la natura dei paesi freddi.

    Restai affascinato in modo particolare dallo Skansen Park di Stoccolma, tanto che mi ci recavo in pellegrinaggio quotidianamente. Si tratta di un museo all’aperto dove, meraviglia tra le meraviglie, sono ricostruiti diversi insediamenti tipici del periodo preindustriale, e tutti resi perfettamente abitabili. Ricordo che tra queste case, fattorie, locande circolavano liberamente oche selvatiche di varie specie, comprese le eleganti canadesi e le simpatiche faccia bianca, insomma un luogo tutto da esplorare.

    Fui sorpreso dall’indole naturalistica degli scandinavi, svedesi e finlandesi in particolare: in giro per città grandi e piccole, vedevo spesso spazi pubblici con esposizioni temporanee, opere artistiche di varia matrice, o anche semplici monumenti raffiguranti la fauna selvatica autoctona.

    In un successivo viaggio, questa volta in moto, fui invece meno sopportato da Carlo, Andrea e Luigi S., che per metà della vacanza dovettero subire le mie manie naturalistiche. D’altra parte quello era per me un periodo di intensa fibrillazione zoologica. Raggiunsi il culmine nella puszta ungherese, quando li spronai alla ricerca di cicogne e falchi cuculi.

    Poco dopo, in Romania, misero però definitivamente in minoranza le mie idee, e così mi fu bocciata l’eccitante, almeno per me, proposta di dormire in tenda nel cimitero transilvano di Sighisoara, paese natale del conte Vlad Dracul, l’Impalatore, che ispirò il Dracula di Bram Stroker.

    Era il 1988, un anno prima della caduta di Ceausescu, e il paese era soggetto a numerose limitazioni sociali e politiche, per di più di notte era tutto buio (scoprimmo in seguito che si trattava di una sorta di coprifuoco), e i miei amici rifiutarono la mia proposta per evitare, dicevano, di incorrere in problemi di tipo legale. Francamente non sono mai stato molto convinto che fosse quello il vero motivo. Chissà.

    Penne, piume e odor di canne (non quelle)

    Fra i tanti ricordi voglio riportarne uno sensoriale, e parlo di quello che fra tutti i nostri sensi è il più trascurato: l’olfatto.

    Nello specifico mi riferisco a un odore che si sente permanentemente in un ben determinato ambiente ed è dovuto a processi biochimici che avvengono in condizioni, diciamo, stantie.

    Certe persone, di ben altro indirizzo, lo definiscono semplicemente puzza, una come tante altre, ma a me quel ricordo olfattivo evoca invece emozionanti immagini di nebbie e beccaccini, di piro piro, di ardeidi e anatidi vari.

    Sì, avete capito, è l’odore di palude. È bello arrivare in palude la mattina presto, quando l’umidità si taglia con un coltello e l’odore del fragmiteto si diffonde associato a rumori di calpestii d’acqua e suoni di trombette.

    Cominciai a esplorare le acque ferme alla Riserva Regionale Tevere-Farfa e lungo le sponde dei laghi costieri del Parco Nazionale del Circeo con Gianni, compagno dei primi anni di studi, e con le compagne di allora, Valeria e Martina, di cui mettemmo a dura prova la pazienza nelle lunghe ore di appostamento, sbinocolando nel freddo silenzio della bruma, alla ricerca di tutto ciò che fosse ricoperto di penne e piume.

    Indipendentemente dalla stagione, il sabato mattina lo consacravo, anche in solitaria, alla palude e ai canneti. Consueto pasto di mezza mattina, rigorosamente consumato in capanno, cracker e uova sode, di gallina ovviamente; attento a non far il benché minimo rumore, neanche masticando, conscio che il martin pescatore, prodigio di natura e arte, poteva essere lì accanto, non visto.

    Se dovessimo eleggere un uccello a simbolo rappresentativo di un habitat, nel caso delle aree umide sarebbe per me la garzetta, poiché fu il primo ardeide che osservai in flemmatica e attenta caccia, nelle acque basse lungo le anse del Tevere.

    A distanza di anni è rimasto inalterato l’interesse che provo ogni qual volta mi capita di incontrare questi uccelli, aironi o garzette, di cui non mi stanco mai di osservare le movenze. La spietata eleganza nel loro atteggiamento predatorio mi ricorda i kata, le antiche figure del karate.

    Anche la loro particolare voce, inaspettatamente sgraziata a dispetto della bellezza nel piumaggio e del portamento, li rende ai miei occhi ancor più fascinosi.

    A questi uccelli, come a pochi altri, è spettato nella storia, per loro sfortuna, un posto d’onore, almeno per quel che riguarda gli usi e costumi degli uomini e delle donne a cavallo di due secoli. Le loro penne, le aigrettes, furono infatti un elemento sostanziale nell’ornamento dei cappelli delle eleganti signore della Belle Époque come anche degli ufficiali e dei reali d’occidente e d’oriente. Le mode sono passate, le garzette e gli aironi, per fortuna, sono rimasti.

    Proprio per le distanze non sempre favorevoli, decisi a un certo punto, mettiamola così, di regalare un utile accessorio

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