Milano giallo e nera
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Info su questo ebook
Negli ultimi anni la cronaca locale non ha risparmiato nulla agli abitanti della città, passata dagli eccessi patinati della “Milano da bere” agli scandali di Tangentopoli, dall’inarrestabile scalata della ’Ndrangheta alla comparsa di fenomeni delinquenziali inediti connessi con l’immigrazione clandestina. In questo scenario malavitoso, non si salvano neppure i minori, vittime ma anche carnefici. Si pensi al fenomeno baby-gang, o alle bande di strada divise da insanabili rivalità che si combattono all’arma bianca. E ancora attentati kamikaze, cliniche degli orrori, decine di delitti efferati rimasti spesso irrisolti…
Andrea Accorsi e Daniela Ferro hanno raccolto in questo libro i casi esemplari che, dagli anni Ottanta a oggi, hanno trasfigurato Milano, un tempo considerata “Capitale morale” del Paese, ma ormai divenuta una città senz’anima, ostaggio di una spirale di violenza e dell’inarrestabile deriva criminale.
Hanno scritto di Andrea Accorsi e Daniela Ferro:
«Gli autori tracciano il loro oscuro labirinto narrando con oggettività vicende inquietanti.»
Laura Laurenzi, la Repubblica
«Una carrellata di fatti oscuri e crudeli, operati da famiglie che hanno utilizzato ogni genere di sopraffazione per difendere il proprio nome e potere.»
Panorama.it
Tra gli episodi narrati in questo libro:
Colpo miliardario nel caveau
Il delitto della settima strada
Il buon medico ucciso dall’ex collega con un dardo
Voleva essere Bin Laden
Il tassista massacrato per aver investito un cagnolino
Sala di torture nel garage
La clinica degli orrori
Il vigile Rambo
Il giallo dell’omicidio fuori dal tempo
Andrea Accorsi
(Legnano, 1968), giornalista professionista e ricercatore, lavora come capo servizio cronaca in un quotidiano nazionale. Studioso di storia del giornalismo e di criminologia, ha scritto una decina di libri e saggi, tra cui ricordiamo Bande criminali e - insieme a Daniela Ferro - Milano criminale, Il grande libro dei misteri di Milano risolti e irrisolti, 101 personaggi che hanno fatto grande Milano, Le famiglie più malvagie della storia, Gli attentati e le stragi che hanno sconvolto l'Italia e Milano giallo e nera.
Daniela Ferro
(Milano, 1977), giornalista pubblicista e docente, per Newton Compton ha pubblicato Le grandi donne di Milano.
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Milano giallo e nera - Daniela Ferro
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Degli stessi autori
Gli attentati e le stragi che hanno sconvolto l’Italia
Le famiglie più malvagie della storia
101 personaggi che hanno fatto grande Milano
I fatti narrati nel presente saggio fanno riferimento a varie inchieste
giudiziarie, alcune delle quali sono ancora in corso.
Tutte le persone coinvolte o citate a vario titolo, anche se condannate
nei primi gradi di giudizio, sono da ritenersi penalmente innocenti
fino a sentenza definitiva.
Prima edizione ebook: luglio 2013
© 2013 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-5811-5
www.newtoncompton.com
Andrea Accorsi - Daniela Ferro
Milano giallo e nera
Tutti i crimini che hanno sconvolto
Milano negli ultimi trent’anni
logoncNewton Compton editori
RINGRAZIAMENTI
Gli autori ringraziano l’ispettore capo Luca Donadini della questura
di Milano per le informazioni e i chiarimenti utili alla stesura di
alcuni capitoli.
Introduzione
Colpi milionari pianificati con estrema pazienza e rara meticolosità da autentici maestri del crimine, e improvvisi accessi di violenza dagli effetti devastanti che si impossessano delle classiche persone qualunque
. Attentati kamikaze fai-da-te, compiuti in nome del più cieco fanatismo, e cliniche degli orrori nelle quali, come in alcune imprese di pompe funebri, a dominare sembra sia una inestinguibile sete di guadagno, che spinge a passare anche sulla pelle di morti e moribondi, oltre che su qualunque remora di carattere morale o deontologico. E ancora delitti, tanti delitti dai contesti più diversi e impensati, per i quali non sempre il colpevole ha pagato il suo conto con la giustizia.
Negli ultimi anni le cronache milanesi non hanno risparmiato proprio nulla agli abitanti di una città passata dagli eccessi patinati della Milano da bere
e dagli scandali di Tangentopoli alla sotterranea e inarrestabile scalata della criminalità organizzata d’importazione (sia straniera che nazionale, in particolare quella calabrese) e alla comparsa di fenomeni delinquenziali inediti, connessi con l’immigrazione incontrollata.
Nello scrivere questo libro a quasi dieci anni di distanza dal precedente Milano criminale, ci siamo imbattuti in una città e in un contesto sociale e civile profondamente mutati. In peggio. Nelle periferie degradate come nei loft più esclusivi del centro, si ritrova una violenza strisciante pronta a esplodere alla minima scintilla, sia essa un perverso appetito sessuale, la ricerca di paradisi artificiali indotti da droghe o un banale incidente in strada. È come se sul capoluogo, ritrovatosi alle prese con nuovi nemici e problemi da affrontare con le proprie forze, come avvenuto tante altre volte in passato, aleggiasse un’angosciante cappa di diffidenze, tensioni e ostilità reciproche.
In questo scenario criminale non si salvano neppure i minori, vittime ma anche essi stessi protagonisti in negativo – si pensi alle baby gang, o alle bande di strada divise da insanabili rivalità che si combattono all’arma bianca, all’ombra del Duomo come nelle sterminate realtà urbane d’America – né le forze dell’ordine, con i popolari ghisa
sempre più esposti ad atti sanguinosi nei loro confronti, ma anche alle polemiche per il loro operato, che in qualche caso è costato la vita di innocenti.
Questo libro ripercorre, fra i tanti, soltanto alcuni episodi esemplari di una metropoli che appare sempre più senz’anima e alla deriva, lontana anni luce dallo stereotipo di capitale morale del Paese. Lo stragismo, il brigatismo, i sequestri di persona che hanno contraddistinto gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso hanno lasciato il posto a sempre più marcati contrasti sociali, a causa dei quali un pugno di giovani riesce a tenere in scacco un intero quartiere per ore, e a efferati omicidi, in cui una bimba di pochi anni può perdere la vita nei giardinetti sotto casa per essersi trovata per caso nel mezzo di un sanguinoso regolamento di conti.
Mentre in un’aula di tribunale, sotto l’incalzare di testimonianze sempre più sconcertanti, finiscono nella polvere le icone politiche e dello spettacolo imposte dalla civiltà mediatica, c’è chi arriva a evocare il demonio per giustificare i propri atti efferati a spese delle persone più care e vicine (amici, colleghi, datori di lavoro, perfino figli e fidanzate). In alcuni delitti, poi, il confine tra ragione e follia si fa talmente sfumato da risultare impercettibile; lasciandoci così senza certezze definitive sul quadro psicologico e sulle motivazioni che possono spingere a uccidere, in raid impossibili da prevedere e quindi da prevenire, tanto un ex psichiatra di mezza età armato di balestra, quanto un giovane clandestino che accusa i morsi della fame e nelle prime ore di un giorno qualsiasi va a seminare morte e terrore per le strade, portandosi un piccone in spalla.
In una simile realtà, sembra allora naturale che i figli possano essere sospettati della morte violenta del padre o della madre; che anche dietro la propria donna delle pulizie
si celi un’insidia mortale; o che per amore, oltre che uccidere, si possa abbandonare la famiglia e fuggire con un delinquente, prestandosi alle sue attività criminali.
Colpo al cuore
Quella domenica sera, quando è entrata nella banca dove avrebbe dovuto dare il cambio al collega, la guardia giurata Vincenzo Carbone non credeva ai suoi occhi. Puntuale, dopo aver attraversato mezza città sotto la pioggia, l’uomo si era presentato in quella che era la sede del suo lavoro, la filiale della Banca provinciale lombarda in piazza Diaz, a pochi passi dal Duomo, per fare il turno di notte. Del collega, però, nessuna traccia.
Appena entrato nell’androne della banca, Vincenzo lo aveva chiamato («Salvatore! Sono io, sono arrivato. Salvatore, dove sei?») ma la sua voce era rintronata per gli ambienti vasti e vuoti dell’istituto senza ricevere risposta. Vincenzo si era allora messo a cercare Salvatore, girando per uffici e corridoi. Nulla. Anche i bagni della banca erano vuoti. Forse il collega si era assentato per qualche imprevisto, lasciando la banca incustodita. Si trattava di un’evenienza insolita, inconciliabile con le consegne ricevute: non lasciare gli uffici prima dell’arrivo del cambio. Ma, tutto sommato, si trattava di un’evenienza plausibile.
Col passare dei minuti, però, anche questa possibilità perdeva consistenza. E nella mente di Vincenzo Carbone andavano insinuandosi nuovi dubbi. Forse il collega era stato colto da un malore, e giaceva in un locale dove la sua voce non poteva raggiungerlo. Di certo, c’era qualcosa che non andava per il verso giusto. Restava solo da capire che cosa.
Impugnata la pistola di ordinanza, Carbone decise di guardare meglio e, per la prima volta quella sera, scese nei sotterranei della banca, scavati nel ventre del centro storico di Milano. In apparenza, era tutto in ordine, anche se neppure qui c’era traccia di Salvatore. Poi, improvviso, un presentimento. La guardia si precipitò al caveau, e lo aprì con le chiavi di cui era in possesso. La scena che gli si spalancò davanti era di quelle che non si dimenticano più.
Il pavimento del caveau della banca era ricoperto d’acqua, mentre le pareti, rivestite di cassette di sicurezza, erano piene di buchi
: decine, forse centinaia di cassette erano state forzate e ripulite. Guardando meglio nell’acqua sporca, si potevano scorgere arnesi da scasso e altri attrezzi da lavoro, ma anche oggetti di valore: titoli, libretti bancari, fogli, tanti fogli, perfino qualche gioiello e pezzi di bigiotteria che brillavano sotto la superficie liquida di quella improvvisata piscina. Su una parete, un enorme buco non lasciava dubbi: vi si scorgeva un passaggio nel quale, un po’ a fatica, una persona sarebbe potuta scivolare da quello stanzone all’esterno, ovvero nel parcheggio sotterraneo della banca.
Vincenzo Carbone corse al telefono e chiamò il 113. I poliziotti non poterono fare altro che constatare che il caveau della banca era stato ripulito con metodo da una banda formata sicuramente da diversi uomini, bene attrezzati e con ben chiaro in mente come portare a termine il colpo. Un colpo che, in attesa di un inventario preciso che avrebbe richiesto giorni di tempo, appariva fin da subito favoloso, eccezionale, roba da diversi miliardi di lire. Insomma, quel 20 maggio del 1984 era destinato a lasciare un segno nella cronaca milanese.
Nel parcheggio sotterraneo della banca, addossato alla parete dove sbucava il cunicolo che conduceva fino al caveau, l’attenzione degli agenti fu calamitata da uno strano catafalco. Si trattava di una carotatrice
, una sorta di gigantesco trapano impiegato nell’edilizia, pesante oltre una tonnellata e capace di tagliare nel muro ed estrarre un cilindro di cemento largo 40 centimetri e profondo più o meno la stessa misura. Non era la prima volta che i bucanieri
milanesi ricorrevano a un simile strumento: sei anni prima, in via Moscova, una carotatrice aveva permesso di violare un’agenzia della Banca popolare commercio e industria.
Questa volta, però, i banditi si erano mostrati più accorti, e per attutire il rumore assordante provocato dalla macchina perforatrice, le avevano costruito tutt’intorno un gigantesco cubo di truciolato e gomma piuma: una scatola nera di due metri per due che, evidentemente, aveva svolto a dovere la sua funzione. Perforare il muro giallo del caveau, infatti, aveva richiesto non meno di sei ore di lavoro, un tempo troppo lungo per non correre il rischio che qualcuno, anche un passante distratto, non si insospettisse dei rumori e chiamasse la polizia. Così, invece, nessuno si era accorto di nulla. E dopo aver asportato l’enorme tappo di cemento dalla parete, i manovali della mala erano passati alla lancia termica, alimentata con bombole a ossigeno, per fondere l’ultimo ostacolo, una intercapedine di metallo che li separava dal tesoro: il caveau della Provinciale lombarda.
Una volta dentro, doveva essere sembrato un gioco da ragazzi forzare quante più cassette di sicurezza possibile, arraffando denaro contante, oro, i gioielli più preziosi e scartando il resto. La presenza dell’acqua si spiegava con la necessità di raffreddare la carotatrice mentre era in azione: i banditi avevano pescato quell’acqua con pompe e lunghi tubi dai bagni delle impiegate, al secondo piano dell’edificio. Mentre per alimentare la macchina era bastato collegarla al quadro elettrico generale, al primo piano.
Questi ultimi dettagli, però, mettevano in evidenza il fatto che i banditi erano penetrati nella banca prima di dare l’assalto al caveau. E i sistemi di sicurezza? E le guardie in servizio?
I primi si scoprì che erano stati disattivati. Con tutta probabilità, grazie alla complicità delle stesse guardie. Fu così che nella mente degli investigatori prese ad addensarsi un sospetto, che cambiava radicalmente la posizione della guardia scomparsa: da possibile ostaggio dei banditi a loro complice.
Salvatore di cognome faceva Vitiello, aveva quarant’anni e una famiglia da mantenere. Una rapida verifica a casa sua permise di collocare un altro tassello di colpevolezza sul suo conto. L’uomo, infatti, risultava scomparso da domenica mattina, insieme alla sua Ford Fiesta. «Non so niente, non mi ha detto niente...», andava ripetendo la moglie negli interrogatori in questura¹.
In teoria, i banditi avrebbero potuto costringere lo sceriffo
a collaborare, magari sotto minacce. Ma col passare delle ore, questa ipotesi perdeva sempre più terreno: una volta messo a segno il colpo e dopo essere fuggiti col bottino, i banditi avrebbero dovuto disfarsi di lui, dal momento che non gli serviva più. Invece Vitiello mancava ancora all’appello. La realtà era un’altra: la sua complicità era stata decisiva per rendere possibile un colpo così ardito e ben congegnato, ma che non poteva essere realizzato senza il contributo di complici all’interno dell’istituto di credito. Dopo aver preso la sua fetta di bottino, la guardia giurata si era dileguata, piantando in asso moglie e figli.
I turni di lavoro dell’istituto privato di vigilanza per il quale lavorava, il Città di Milano, mostravano come Vitiello fosse smontato da un primo turno alla Provinciale lombarda di piazza Diaz alle sei di pomeriggio di sabato. Avrebbe dovuto rimontare domenica mattina alle otto. Nel mezzo, gli aveva dato il cambio un altro collega, di nome Pasquale. Dal momento che il lavoro dei banditi era durato parecchie ore, sembrava impossibile che le due guardie non si fossero accorte di quello che stava succedendo. Senza contare i dettagli degli allarmi staccati e degli allacciamenti per la carotatrice all’interno della banca.
«Non mi sono accorto di nulla – raccontò Pasquale, cinquantasette anni, alle spalle una vita di lavoro con l’unica prospettiva della pensione, ormai prossima –. Dal monitor ho notato quella cosa strana contro la parete del caveau, ma ho pensato che fosse stata messa lì dalla banca»². Una spiegazione che, in quel momento, non convinse nessuno. Nel giro di poche ore, dopo un sopralluogo nella banca e un lungo interrogatorio condotto dal sostituto procuratore Maria Luisa Dameno, il collega di Vitiello venne arrestato con l’accusa di essere stato complice degli scassinatori.
Salvatore Vitiello si era scelto con cura i turni di lavoro di quel piovoso weekend di fine primavera, così da farli coincidere con il periodo che i banditi avrebbero impiegato per riuscire a violare il caveau della banca, svuotarne le cassette di sicurezza, caricare il maltolto e allontanarsi. Un tempo stimato in almeno quindici ore.
La banda aveva aperto le danze già sabato mattina, o al più tardi nel pomeriggio. Per far arrivare alla parete del caveau la pesante trivella necessaria per perforarla, si erano serviti dell’entrata da via Paolo da Cannobio: una discesa carreggiabile che portava al parcheggio dei dipendenti e al caveau sotterraneo. Si trattava di un ingresso che, in orario d’ufficio, era aperto al pubblico: prima fra tutte, la Banca provinciale lombarda aveva inaugurato fin dal 1959 quel comodo accesso alle sue cassette di sicurezza con tanto di slogan, L’auto in banca
, ben visibile in neon proprio all’ingresso. Una garanzia di comodità e di riservatezza per i clienti, che però aveva enormemente agevolato i banditi nel trasportare il pesantissimo strumento fino al muro del caveau.
Dopo aver bucato il muro spesso mezzo metro, per i banditi si erano aperte le porte del paradiso. Entrati nel salone del caveau a uno a uno, per ore si erano messi a scassinare con martelli e punteruoli quante più cassette di sicurezza possibile. In tutto, ne avevano violate più di duecento su un totale di milleduecento, arraffando mazzette di banconote, monete d’oro e antiche, gioielli e i pezzi più pregiati di argenteria custoditi dalla banca. Infine, se l’erano filata indisturbati, lasciando dietro di sé gli attrezzi da lavoro, comprese la carotatrice e la lancia termica (strumenti del valore di quasi cento milioni di lire), ma portandosi via le punte della trivella, cioè i pezzi più costosi.
Poche, pochissime le tracce lasciate: sette paia di scarpe e stivali, numerosi guantoni da operaio, alcuni indumenti, lampade portatili. C’erano poi bottiglie d’acqua Panna e incarti di tavolette energetiche marca Enervit, ad alto potenziale calorico, perfette in casi di intensa e prolungata fatica muscolare o sportiva
, come recitava la pubblicità. I banditi avevano consumato quell’acqua e quelle tavolette per tenersi in forze nel corso di una lunga notte trascorsa all’opera con poca aria e alla luce delle torce elettriche.
Il lunedì seguente, in banca cominciò la mesta processione dei derubati, invitati a presentare denuncia dei beni sottratti per ricostruire un inventario definitivo. Saltò fuori anche un particolare che aprì un giallo nel giallo.
Il venerdì precedente il colpo, alla Provinciale lombarda si era presentata la Guardia di Finanza, su ordine del sostituto procuratore di Bergamo Antonio Mafferri. Le fiamme gialle avevano proceduto a una perquisizione e avevano quindi sigillato alcune cassette di sicurezza, sia nella sede centrale di Bergamo che nelle filiali di alcuni capoluoghi lombardi, fra le quali quella milanese di piazza Diaz. Obiettivo – pare – alcuni documenti utili a un’inchiesta sulle bische clandestine.
La successiva visita della banda del buco
avrebbe dunque potuto essere una colossale messa in scena per far sparire documenti compromettenti. Infatti, come capita di frequente, nelle cassette di sicurezza della banca non erano custoditi solo denaro e oggetti di valore. Nei mesi seguenti le indagini appurarono che fra le cassette forzate ve n’erano perfino alcune intestate a magistrati milanesi: motivo per cui l’inchiesta passò di mano alla procura di Brescia.
In ogni caso, il colpo venne interpretato dagli inquirenti come una semplice coincidenza. Del resto, i malviventi avevano scassinato solo tre delle cinque cassette sigillate dai finanzieri il giorno prima; senza contare che organizzare un simile colpo, considerati anche gli strumenti reperiti, aveva certamente richiesto molto più tempo delle poche ore trascorse dal blitz della Guardia di Finanza.
La Banca provinciale lombarda dovette smentire ufficialmente e «nel modo più completo» che fossero state forzate cassette di sicurezza intestate o comunque appartenenti al finanziere bergamasco Carlo Pesenti, presidente dell’Italmobiliare, che controllava l’ottantacinque percento della banca, o all’Istituto opere di religione, la banca del Vaticano³. Fonti confidenziali della Guardia di Finanza riferirono di una inchiesta in corso sulla gestione della Provinciale lombarda, avviata dopo un’indagine della Banca d’Italia che aveva individuato irregolarità e consegnato un rapporto alla procura di Bergamo.
Negli ambienti della Provinciale lombarda, si fece notare che oggetto dell’inchiesta della magistratura erano alcuni movimenti bancari risalenti ad alcuni anni prima, esattamente al 1976. In quegli anni la banca di Pesenti era nell’occhio del ciclone a causa della denuncia, firmata dall’ex capo del servizio titoli dell’istituto di credito, Emilio Duchi, insieme ad alcuni azionisti, contro il finanziere bergamasco, che veniva accusato di truffa e false comunicazioni in bilancio. Secondo gli autori della denuncia, Pesenti avrebbe controllato il suo impero grazie a un autofinanziamento (illegale) di duecento miliardi di lire concesso dalla Provinciale lombarda, che come accennato era controllata dallo stesso Pesenti. La denuncia, però, non aveva avuto alcun seguito. Nel marzo del 1977, Duchi fu trovato morto in un albergo sulla riviera ligure. L’uomo era imbottito di barbiturici e la morte venne attribuita a un suicidio.
Ma quello che più appassionava l’opinione pubblica non erano tanto quelle voci senza fondamento e quei fatti vecchi di anni. Nella mente di tutti campeggiava la curiosità di conoscere i nomi degli autori del colpo miliardario. Una curiosità che venne appagata poche settimane dopo.
La pista da seguire, in fondo, aveva già un punto preciso da cui muovere: Salvatore Vitiello, la guardia infedele che – ormai non vi erano più dubbi – aveva letteralmente spalancato le porte agli scassinatori durante il suo turno di guardia e poi si era reso uccel di bosco, riparando con ogni probabilità all’estero. Con la sua fuga, Vitiello aveva attirato su di sé un ulteriore indizio di colpevolezza. Ma il piano originale, in realtà, era un altro.
Una volta compiuto il furto, Vitiello avrebbe dovuto essere legato e stordito, così da simulare un’aggressione subita dopo aver preso servizio. Nessuna fuga, dunque. Ma la banda era stata costretta a rivedere i suoi piani da un imprevisto. Domenica mattina, con il grosso dei banditi già al lavoro da ore dentro il caveau, in banca si era presentato il direttore, venuto a controllare alcuni documenti. Vitiello non aveva potuto fare altro che farlo accomodare negli uffici dell’agenzia, cercando di dissimulare al meglio quanto stava succedendo al piano di sotto. Operazione riuscita, visto che il direttore non si era accorto di nulla; ma l’imprevisto aveva comunque spinto la banda a cambiare programma.
Appena il direttore se n’era andato, gli scassinatori decisero di piantare lì gli attrezzi, raccogliere quanto di più prezioso avevano prelevato dalle cassette già forzate e prendere il volo. Se dunque avessero potuto proseguire a svaligiare il caveau, l’importo dei beni rubati sarebbe stato ancora più ingente.Vitiello, insieme a due componenti della banda, si precipitò a Ravenna, dove li attendeva una barca con equipaggio presa a nolo. Il colpo era riuscito a metà, ma ce n’era comunque abbastanza di che vivere da nababbi. Così, mentre la polizia cercava la guardia e gli scassinatori in tutta Italia, il terzetto si concedeva una lunga crociera nel Mediterraneo a bordo di un veliero d’altura, in tutta tranquillità. La crociera si era conclusa nel porticciolo di Cartagena, nel sud della Spagna, dove i tre erano sbarcati con documenti falsi.
Ma tutto questo non era bastato a sviare le indagini. Già, perché dopo aver vagliato diverse ipotesi – come quella di un furto su commissione, messo a segno allo scopo di far sparire documenti scottanti sotto la copertura dell’ennesima impresa della banda del buco
– fin dall’inizio di giugno gli investigatori imboccarono la pista giusta, che del resto era la più semplice. Se Vitiello era coinvolto fino al collo, bisognava partire da lui per risalire a tutti i suoi complici.
Scandagliando la vita privata della guardia, la Mobile scoprì che l’uomo aveva un’amante: Lidia De Cesare, di cinque anni più giovane. Gli agenti la pedinarono per settimane e poterono così accertare che la donna si incontrava spesso con due lodigiani incensurati e insospettabili: Franco Lapenna, trentotto anni, titolare di una ditta di piastrelle, e un suo dipendente, Emanuele Angiuli, di trentadue anni. In quegli incontri i due uomini avevano consegnato alla De Cesare alcune somme di denaro. Risultava evidente che quel denaro era parte del bottino trafugato in piazza Diaz.
In luglio, la svolta. Dopo aver detto ai familiari di essere in partenza per la Germania, Lapenna e Angiuli si misero in viaggio nella direzione opposta, imboccando l’autostrada per Genova. Non sapevano di essere seguiti da un’auto della polizia, che tenne dietro ai due per centinaia di chilometri. Attraversata la frontiera a Ventimiglia, i presunti complici di Vitiello proseguirono il viaggio fino alla Spagna, a Cartagena, dove li attendeva Vitiello.
Abbronzatissimo, un cocktail in mano, Vitiello li accolse all’esclusivo Yacht Club di Cartagena, dove viveva da un mese concedendosi ogni lusso. Ma si trattava di un rifugio provvisorio, una tappa dorata lungo una via di fuga più articolata. Gli amici di Vitiello, infatti, avevano con sé documenti falsi che gli avrebbero consentito di lasciare la Spagna alla volta del Centro America, destinazione Panama. Ma il destino volle altrimenti. Proprio mentre i tre si abbracciavano, felici di ritrovarsi, i poliziotti italiani, coadiuvati dagli agenti spagnoli, si presentarono e li arrestarono.
Poche ore più tardi, sempre in collaborazione con i colleghi iberici, i funzionari della Mobile milanese bloccarono a Madrid, all’hotel Rigoletto, uno dei pezzi da novanta della banda: Claudio Tega, trentadue anni, milanese, con precedenti penali per furto e spaccio di stupefacenti. Sempre nella capitale venne tratto in arresto un quinto complice, Giovanni Vassallo, trentotto anni, di Cologno Monzese, che aveva ricevuto l’incarico di procurare altri documenti falsi indispensabili per lasciare il Paese.Vitiello, Tega e Vassallo avevano con sé delle pistole (nel caso di Vitiello, si trattava dell’arma di ordinanza): per questo motivo, prima di essere estradati in Italia, vennero processati in Spagna per porto abusivo d’armi. La caccia ai banditi non era ancora finita: ne mancavano altri, fra i quali il ricettatore e un esponente di spicco della mala milanese, Adriano Rancati, cinquantun anni, ritenuto il capo della banda.
Nel frattempo, la De Cesare era stata tratta in arresto per falsa testimonianza. L’altra guardia giurata coinvolta nell’inchiesta, invece, era tornata in libertà, seppure provvisoria. In seguito il collega di Vitiello risultò del tutto estraneo alla banda.
Restava poi da recuperare il grosso della refurtiva, che i banditi avevano provveduto a nascondere. Le stime, rimaste approssimative, quantificarono il bottino del colpo in piazza Diaz in non meno di quindici miliardi di lire; qualcuno arrivò ad azzardare un conto finale di cinquanta. Ma di questo tesoro la polizia aveva recuperato solo una piccola parte, appena settantacinque milioni, oltre ad alcuni preziosi.
Ancora una volta, uno spunto prezioso per le indagini lo fornì inconsapevolmente una donna: Antonella De Gregorio, la compagna di Claudio Tega. Pedinandola e identificando le persone con le quali si incontrava, la polizia riuscì a ricostruire quello che riteneva l’organigramma completo della banda e ad arrestare altri suoi componenti. A cominciare dal padre di Antonella, Michele De Gregorio, passando per Giuseppe Centurelli fino al fratello di Vitiello, Vincenzo, accusato di ricettazione. Ma a questa mappa
mancava ancora una pedina.
Non solo restava da catturare l’imprendibile Rancati. Dalle indagini infatti saltò fuori un altro (presunto) membro della banda, l’ultimo e il più sorprendente: Ugo Ciappina, autentica figura storica della mala milanese. Fin dal dopoguerra, praticamente non c’era stata a Milano una banda di rapinatori divenuta celebre della quale Ciappina non avesse fatto parte, dalla banda dovunque
agli uomini d’oro
di via Osoppo.
Classe 1928, calabrese di origine, già adolescente Ugo Ciappina aveva lavorato come lift d’albergo; ma la sua vocazione era assai diversa. La vera scuola di vita
per lui fu la Resistenza, alla quale prese parte giovanissimo. Quanto bastava per ammantare di confuse ideologie politiche le imprese criminali che avrebbe compiuto fin dall’immediato dopoguerra, quando Ciappina si distinse come gregario della banda guidata da Andrea Joe
Zanotti.
La banda dovunque
aveva preso il nome dall’abitudine di spostarsi continuamente, scegliendo come bersaglio preferito delle sue dure
banche e negozi, senza mai cadere in trappola. Almeno fino a quando, nel 1949, la banda al completo fu arrestata dai carabinieri. Fu così che Ciappina varcò per la prima volta l’ingresso alle patrie galere.
In quei primi anni da bandito, oltre a sposare l’ideologia comunista, Ciappina aveva conosciuto il rampollo di una delle famiglie più in vista, e ricche, di Milano e d’Italia: Giangiacomo Feltrinelli, futuro fondatore dell’omonima casa editrice. Feltrinelli aveva invitato anche lui, fra gli iscritti alla sezione Carrobbio del PCI, a un campeggio nella sua villa a Gargnano, sul Garda. E qui Ciappina aveva trascorso alcuni giorni tra bevute e discussioni politiche, che ne radicarono ancora di più le convinzioni.
Chissà se Ciappina ha ripensato a quei giorni durante gli anni trascorsi a San Vittore. Quel che è certo è che non aprì mai bocca, né allora né mai, finendo così col farsi odiare dalla polizia. E scontando fino in fondo le condanne che si beccò nel corso della sua carriera
criminale. «Mi sont de quei che parlen no», scrisse Giorgio Strehler nella celeberrima Ma Mi del 1962. Una massima alla quale il Ciappina di Porta Vittoria rimase sempre fedele, anche quando gli costò caro.
Tornato in libertà, fu fra le mitiche tute blu
della rapina-capolavoro di via Osoppo del 1958: un colpo perfetto e spettacolare, da sequenza cinematografica, con tanto di automobili e diversivi, ai danni del furgone portavalori di una banca. Quella rapina fruttò una fortuna per l’epoca (seicento milioni di lire fra contanti e titoli) e per compierla non fu versata neanche una goccia di sangue: l’unico a rimetterci fu uno degli agenti di scorta al furgone, che tentò una reazione e si beccò una martellata in testa.
La pacchia durò poche settimane, il tempo di qualche cena al ristorante, serate nei night e di una vacanza sulle nevi per alcuni membri della banda, che con le loro spese fuori misura finirono con l’attirare un po’ troppo l’attenzione su di sé. Ne fece le spese anche Ciappina, che pure, come da suo carattere, anche con le tasche piene di milioni aveva mantenuto un basso profilo, senza dare nell’occhio con spese e lussi, dopo aver raccomandato invano ai compagni di trattenersi dal mettere mano al bottino per almeno due mesi.
Una delle prove schiaccianti a carico della banda di via Osoppo venne dalle divise da operaio impiegate nel colpo, che furono ritrovate pochi giorni dopo nell’Olona, dove i banditi le avevano gettate. Dalle etichette di quelle tute blu, destinate a diventare un’icona nella storia della criminalità milanese, la polizia risalì alla fabbrica che le aveva prodotte e al ragazzo che le aveva comprate, su commissione della