Il cammino di Le Puy, le magnifique chemin: Quattrocentoventi chilometri a piedi nel cuore della Francia, attraverso valli rigogliose e paesaggi mozzafiato
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Mai stati normali. Neppure da piccolo. Forse è questa la loro cifra, il segreto della loro benedizione. Che, poi, non ho mai capito cosa si intenda per normali. Simili agli altri, creati con lo stampo, con caratteri comuni, frequenti, riconoscibili. Se è così, posso dirlo con certezza: la normalità non fa per loro. E nemmeno per me.
Tra le foto dell'album dei ricordi ce n'è una in particolare che ben rappresenta questa anomalia, questa strana diversità. Un tavolo lunghissimo, foderato da un drappo rosso scuro. Sopra, in piedi, un bambino vestito da Arlecchino. Un costume nuovo, appena comprato, indossato per l'occasione. Lo sguardo stralunato, smarrito, di chi si è svegliato un attimo prima e non sa dove si trova, perché quella festa, perché tutte quelle persone guardino il suo incedere pesante e incerto.
Avrò avuto cinque anni, portavo ancora le scarpe ortopediche. Nella foto si notano più del vestito sgargiante. Due blocchi di cemento, due carrarmati ai piedi. Anche il rumore era lo stesso. Colpi secchi, cupi, che rimbombavano nello spazio chiuso, come un martello che conficca un chiodo nel legno. Quando camminavo si voltavano tutti. Le sentivo addosso le punture dei loro sguardi. Mi trafiggevano la carne, procurandomi un dolore lancinante.
Quei piedi sformati li ho scoperti via via sempre più forti e impavidi, instancabili nella marcia, pronti a sfidare le pareti verticali, i salti di roccia e i più aspri dislivelli. Maestri d'acrobazia e di equilibrismo, perfetti e precisi nel seguire la traccia laddove un minimo errore avrebbe potuto essere fatale.
Una città di mare, il golfo d'acque turchine e le colline sullo sfondo, a far da corona. Il porto industriale, i moli affannati di traffici e il centro storico, la piazza affacciata sull’azzurro, i palazzi nobiliari e i caffè d’inizio Novecento. Un appartamento, la cena con un'amica. Parliamo di pellegrinaggi, intrecciando racconti, attizzando emozioni. Basta un po' di legna secca, qualche ricordo, qualche incontro speciale e il fuoco subito divampa.
- Hai mai fatto il cammino di Le Puy?
- No. È in Francia, vero?
- È bellissimo, sai. Dovresti farlo.
Mi limito a fissare su un pizzino qualche nome, un sito dove reperire informazioni, luoghi da attraversare e da visitare. Finisce così, con un pezzo di carta in tasca e nessuna voglia di dargli seguito.
A casa, distrattamente, do un’occhiata al nuovo sito, lo confronto con un altro che conosco. Poi, un pomeriggio, decido che è ora di mettersi a studiare francese. Tiro fuori vecchi cd, provo a farli funzionare. Non ci capisco nulla, non conosco la grammatica e tantomeno le parole, sto per abbandonare. Mi armo di pazienza. Riempio di vocaboli le pagine di un'agenda, comincio a masticare la pronuncia. Poco alla volta prendo coraggio.
Cerco qualche guida, non trovo granché, solo elenchi asciutti di località, chambres e gîtes d’etape, di scarsa utilità. Scarico le tracce per il navigatore, analizzo i profili altimetrici, mi metto a contare le tappe e i giorni. È un lavoro lungo, fatto di limature e affinamenti successivi. Come lo scultore, tolgo via uno strato dopo l'altro, fino a far affiorare l'opera in tutta la sua bellezza. Fisso le settimane, prenoto l'aereo. Ecco, adesso tutto è a posto. Posso partire.
Buona lettura!
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Anteprima del libro
Il cammino di Le Puy, le magnifique chemin - Nicola Soloni
Rumiz
Sommario
Prologo
6 luglio, arrivo a Le Puy-en-Velay
7 luglio, Le Puy-en-Velay – Saint-Privat-d’Allier, 24 chilometri, 6 ore
8 luglio, Saint-Privat-d’Allier – Saugues, 20 chilometri, 5 ore
9 luglio, Saugues – Saint-Alban-sur-Limagnole, 33 chilometri, 8 ore e 30’
10 luglio, Saint-Alban-sur-Limagnole – Aumont-Aubrac, 15 chilometri, 4 ore
11 luglio, Aumont-Aubrac – Nasbinals, 26 chilometri, 6 ore e 30’
12 luglio, Nasbinals – Saint-Chély-d’Aubrac, 16 chilometri, 5 ore
13 luglio, Saint-Chély-d’Aubrac – Saint-Côme-d’Olt, 16 chilometri, 4 ore e 45’
14 luglio, Saint-Côme-d’Olt – Estaing, 18 chilometri, 5 ore
15 luglio, Estaing – Le Soulié per Golinhac, 21 chilometri, 5 ore e 30’
16 luglio, Le Soulié – Conques, 15 chilometri, 4 ore
17 luglio, Conques – Livinhac-le-Haut, 25 chilometri, 7 ore
18 luglio, Livinhac-le-Haut – Figeac, 24 chilometri, 6 ore
19 luglio, Santuario di Rocamadour, 8 chilometri, 2 ore
20 luglio, Figeac – Espagnac-Sainte-Eulalie, 27 chilometri, 7 ore e 15’
21 luglio, Espagnac-Sainte-Eulalie – Marcilhac-sur-Célé, 15 chilometri, 4 ore e 30’
22 luglio, Marcilhac-sur-Célé – Saint-Cirq-Lapopie, 28 chilometri, 7 ore e 30’
23 luglio, Saint-Géry – Cahors, 21 chilometri, 5 ore e 30’
24 luglio, Cahors – Escayrac, 27 chilometri, 6 ore e 30’
25 luglio, Escayrac – Lauzerte, 18 chilometri, 5 ore
26 luglio, Lauzerte – Moissac, 27 chilometri, 7 ore e 15’
27 luglio, Tolosa
Una manciata di consigli
Nota dell’autore
Prologo
Mai stati normali. Neppure da piccolo. Forse è questa la loro cifra, il segreto della loro benedizione. Che poi, non ho mai capito cosa si intenda per normali. Simili agli altri, creati con lo stampo, con caratteri comuni, frequenti, riconoscibili. Se è così, posso dirlo con certezza: la normalità non fa per loro. E nemmeno per me.
Tra le foto dell’album dei ricordi ce n’è una in particolare che ben rappresenta questa anomalia, questa strana diversità. Un tavolo lunghissimo, foderato da un drappo rosso scuro. Sopra, in piedi, un bambino vestito da Arlecchino. Un costume nuovo, appena comprato, indossato per l’occasione. Lo sguardo stralunato, smarrito, di chi si è svegliato un attimo prima e non sa dove si trova, perché quella festa, perché tutte quelle persone guardino il suo incedere pesante e incerto.
Avrò avuto cinque anni, portavo ancora le scarpe ortopediche. Nella foto si notano più del vestito sgargiante. Due blocchi di cemento, due carrarmati ai piedi. Anche il rumore era lo stesso. Colpi secchi, cupi, che rimbombavano nello spazio chiuso, come un martello che conficca un chiodo nel legno. Quando camminavo si voltavano tutti. Le sentivo addosso le punture dei loro sguardi. Mi trafiggevano la carne, procurandomi un dolore lancinante.
Ma non c’era verso di cambiare. Avevo un piccolo difetto e quelle scarpe erano la cura. Ero nato con i piedi piatti. L’arco plantare non esisteva. Mancava all’appello, semplicemente. Occorreva porvi rimedio, fin dai primi passi. Quando ho smesso di gattonare e mi sono tirato su le avevo già addosso. Ho imparato a deambulare con quelle. Ogni tanto andavamo con mia madre al distretto sanitario, quando non ci stavo più dentro e avevo bisogno di un paio più grande.
Con due piedi così avrei potuto fare il poliziotto, sarei stato perfetto, mi avrebbero preso immediatamente, senza concorso. Invece sono diventato escursionista e pellegrino, amante delle montagne e dei cammini. Le Dolomiti sono state il mio terreno d’elezione: sentieri d’ogni sorta, semplici e impegnativi, vie ferrate, alte vie, settimane trascorse passando da un rifugio all’altro. Ho attraversato la Val d’Aosta, la Corsica lungo il GR 20, di recente l’isola d’Elba, ho calpestato il deserto di Palestina e i ghiacciai del Monte Rosa, sono stato a Santiago per diverse strade, percorrendo più di tremila chilometri in quattro mesi. Andando, come si dice in castigliano.
Quei piedi sformati li ho scoperti via via sempre più forti e impavidi, instancabili nella marcia, pronti a sfidare le pareti verticali, i salti di roccia e i più aspri dislivelli. Maestri d’acrobazia e di equilibrismo, perfetti e precisi nel seguire la traccia laddove un minimo errore avrebbe potuto essere fatale.
Ne scrivo non per orgoglio o per autoaffermazione, ma per ringraziamento. Alla vita, al suo grande mistero. Come possa una magagna, una fastidiosa imperfezione trasformarsi in pregio, in punto di forza lo sa solo lei. Quale alchimia, quale magica miscela d’ingredienti renda reale e concreto l’inimmaginabile. Eppure, è quello che è successo. E che magari capita di frequente, solo che non abbiamo gli occhi per vederlo e il coraggio di crederci.
Una città di mare, il golfo d’acque turchine e le colline sullo sfondo, a far da corona. Il porto industriale, i moli affannati di traffici e il centro storico, la piazza affacciata sull’azzurro, i palazzi nobiliari e i caffè d’inizio Novecento. Un appartamento, la cena con un’amica. Parliamo di pellegrinaggi, intrecciando racconti, attizzando emozioni. Basta un po’ di legna secca, qualche ricordo, qualche incontro speciale e il fuoco subito divampa.
- Hai mai fatto il cammino di Le Puy?
- No. È in Francia, vero?
- È bellissimo, sai. Dovresti farlo.
Non aspetta la risposta, si alza e va verso il computer. M’invita ad avvicinarmi, mi mostra una sequenza di fotografie, scatti presi lungo la via. Vedo strade polverose, prati e boschi, case e paesi di pietra, chiesette isolate. Un mondo sospeso tra la realtà e il sogno.
- Hai ragione. È davvero bello. Peccato, non parlo il francese.
- Nemmeno io. L’inglese scolastico è sufficiente.
Problema superato. Ma c’è ancora la promessa. Già, la promessa. Quella pronunciata davanti a Michele, a Troia. Mi trovavo sulla Francigena del Sud, quasi a metà della fatica, trecentocinquanta chilometri da Roma e qualcuno in più fino a Leuca e al santuario di Finibus Terrae. Michele mi accoglie, mi spiega le regole dell’ostello. Prima di partire m’interroga. Vuol sapere cosa mi spinge ad andare. Forse vuole misurare la mia determinazione, pareggiarla alla sua. Gli rispondo secco che questo è l’ultimo cammino. Come ogni stagione, anche quella dei pellegrinaggi ha una fine, deve pur averla. Non mi crede. Vagheggia un futuro diverso, quasi mi conoscesse da una vita. Si è pellegrini sempre, sentenzia grave.
Non rivelo all’amica l’impegno solenne, né la profezia dell’hospitalero. Mi limito a fissare su un pizzino qualche nome, un sito dove reperire informazioni, luoghi da attraversare e da visitare. Finisce così, con un pezzo di carta in tasca e nessuna voglia di dargli seguito.
A casa, distrattamente, do un’occhiata al nuovo sito, lo confronto con un altro che conosco. Poi, un pomeriggio, decido che è ora di mettersi a studiare francese. Tiro fuori vecchi cd, provo a farli funzionare. Non ci capisco nulla, non conosco la grammatica e tantomeno le parole, sto per abbandonare. Mi armo di pazienza. Riempio di vocaboli le pagine di un’agenda, comincio a masticare la pronuncia. Poco alla volta prendo coraggio.
Cerco qualche guida, non trovo granché, solo elenchi asciutti di località, chambres e gîtes d’étape, di scarsa utilità. Scarico le tracce per il navigatore, analizzo i profili altimetrici, mi metto a contare le tappe e i giorni. È un lavoro lungo, fatto di limature e affinamenti successivi. Come lo scultore, tolgo via uno strato dopo l’altro, fino a far affiorare l’opera in tutta la sua bellezza. Fisso le settimane, prenoto l’aereo. Ecco, adesso tutto è a posto. Posso partire.
Aveva ragione, Michele. Si è pellegrini sempre.
6 luglio, arrivo a Le Puy-en-Velay
Le poltrone di pelle nera sono occupate, tutte. Turisti solitari e giovani coppie, famiglie, bambini che armeggiano con i cellulari. Il primo fine settimana di luglio è da bollino rosso, lo sapevo, non occorreva l’evidenza.
L’aeroporto è un trampolino gremito, una babele pronta a catapultarsi altrove, via dal quotidiano, dalle preoccupazioni. Via purché lontano, in ferie finalmente. Gironzolo su e giù senza speranza, poi il miracolo, scorgo un cantuccio vuoto, mi fiondo prima che qualcun altro ne prenda possesso. Pilucco un panino e una banana davanti alla grande parete a vetri spalancata sulla pista di atterraggio. La luce potente, abbacinante, del meriggio infuocato.
Nessuna corsa stavolta, sono arrivato in largo anticipo. Anche gli altri viaggiatori. Attorno vedo facce distese, rilassate. Il peggio è alle spalle, adesso godiamoci l’estate. Una piccola, lasciata sola, gioca col tablet e intanto sorveglia i bagagli, accucciata sulla poltrona come una cagnolina che aspetta il padrone. Sul tabellone delle partenze compare il gate, è ancora presto, non c’è motivo di mettersi subito in fila.
L’aereo decolla puntuale. Dal finestrino osservo batuffoli di cotone, nuvole di zucchero filato che danzano sulle vette e mani candide, graffi di neve indurita sui versanti. Un’ora appena e mi ritrovo a Lione. In perfetto orario per l’appuntamento.
Ho conosciuto Christine su Blablacar, le ho chiesto un passaggio. Come d’accordo la cerco nella hall, dovrebbe tenere un foglio col mio nome, non c’è, esco nel parcheggio, mi dirigo all’altro terminal, forse non ci siamo intesi. Niente. Le scrivo dei messaggi, provo a chiamarla, il cellulare risulta spento. Che vuoi che sia, penso, mentre mi sta montando su l’ansia, sono inconvenienti, imprevisti che capitano in ogni viaggio. Specie quando sembra che tutto vada per il meglio, pare facciano apposta. C’è un autobus che porta a Saint-Étienne e di lì un treno, prenderò quelli. Raggiungo la fermata, interrogo i passanti per conferma, siedo sulla panchina e aspetto.
D’un tratto sento squillare il telefono: è lei, sono in ritardo, stanno arrivando, poi non capisco nulla, le chiedo di ripetere, lentamente, le sue parole sono sassi, il primo contatto con la lingua parlata è una sberla e fa davvero male. Eccola, è scesa dall’auto e mi sta salutando. Assieme a lei il marito e altre due ragazze, pescate lungo il tragitto.
Hanno voglia di chiacchierare. Provo ad ascoltarli ma non è cosa, masticano suoni incomprensibili che mi scivolano addosso, come pioggia sottile. Il francese si rivela ostico più del previsto, non riuscirò mai a comprenderlo. Mi sento perduto, come farò nel cammino? I compagni notano le mie difficoltà, cercano di venirmi incontro. Quando ci fermiamo per un problema meccanico il marito di Christine si avvicina, sorride e scandisce piano:
- Je suis retraité.
La mia faccia diventa un punto interrogativo.
- Je ne travaille pas.
M’illumino. Dai, potevo arrivarci. Non lavora, è in pensione. Commerciava fuochi d’artificio, aveva clienti e fornitori italiani. La moglie, più giovane, lascerà l’impiego tra un paio d’anni. Questo è il primo cammino che compiono insieme. Il suo sguardo guizza sotto gli occhialini rotondi. Raccolgo le poche parole che ricordo, le unisco a puzzle.
- Jusqu’où allez-vous?
Christine mi mostra la guida tascabile, le tappe e gli ostelli. Sono diversi dai miei. Ci troveremo lungo la via allora, dans le chemin. Quando l’ultima passeggera scende e restiamo soli osservo:
- Nous sommes trois pèlerins maintenant.
Tre pellegrini che il cammino ha fatto incontrare. Si voltano, ammiccano. Domando se conoscono Ultreia, la canzone che mi aveva insegnato Regine molti anni fa. Intono la prima strofa: Tous les matins nous prenons le chemin... E scateno l’inimmaginabile. Iniziano a seguirmi, felici. Poi Christine ha un’idea, estrae il cellulare, la cerca su Youtube. Cantiamo col sottofondo musicale, ad una voce sola: Ultre…e…ia, ultre…e…ia et su…se...ia. Deus a…diuva nos. Un secondo video, un terzo, un altro ancora. Sempre la stessa nenia, a ciclo continuo. Finché non ci resta più fiato.
Mi lasciano all’entrata del centro storico. Saldo il conto e li saluto. Rimonto la viuzza gradinata verso la cattedrale, arranco tra palazzi antichi, pietre scure incrostate dal tempo. Con la mappa sottomano vado a colpo sicuro al Relais du pèlerin Saint-Jacques.
Ora è sera, manca poco alle dieci. Si sta bene, c’è un’aria fresca che gonfia le vele ai pensieri e li spinge al largo. Provo a fare il bilancio della giornata.
Magnifica l’accoglienza all’ostello. Jean-Michel è la gentilezza fatta persona. Mi riceve con un sorriso ottimista, m’invita a sedere, fa gli onori di casa, chiede se abbisogno di qualcosa.
- Un verre, s’il vous plaît.
Acqua ne tengo, un bicchiere è più che sufficiente. Lui attraversa la stanza, apre il frigorifero e torna con una bottiglia piena. Inutile dirgli che non serve. La generosità è così, non ammette repliche. Vuol sapere in quale città vivo, dove sto andando. Con tono pacato scandisce le regole dell’albergue, ogni tanto si ferma e domanda se ho capito. Provo a ripetere, annuisce. Mi raccomando l’ora di chiusura, alle undici in punto il portone viene sprangato, non saresti il primo ad essere chiuso fuori. Non preoccuparti, sarò puntuale.
Jean-Michel è un hospitalero vero. Disponibile, premuroso, garbato, sa ascoltare e consigliare, ha una risposta per ogni richiesta. Basta la sua presenza, non occorre altro. Basta a dare la cifra del pellegrinaggio. Che è alienazione, separazione.
Il cammino è un altrove, un fuori luogo e un fuori tempo. C’è un abisso profondo che lo divide dal quotidiano. Non è soltanto questione di geografia, di paesi nuovi, stranieri. È tutto il resto. Cambiano le cose da fare, le priorità. Rovesciamento di valori, rimescolamento di bisogni. Ciò che fino a ieri era vitale ora non lo è più; d’altro canto, ciò di cui nemmeno ti accorgevi adesso ti si para davanti, reclama la tua attenzione. È un mondo sottosopra, una realtà dove le logiche conosciute e praticate scompaiono a favore di altre, diverse, inusuali, e proprio per questo sconvolgenti. Ti rendi conto d’un tratto di stare sospeso sopra l’abisso e ti chiedi con trepidazione se hai la spinta giusta per saltarlo, il coraggio, la fortuna di riuscirci. Non sai se hai preso una buona rincorsa e ti ritrovi a mezz’aria, come uno di quei motociclisti pazzi che sfidano la sorte lanciandosi nel vuoto a superare automobili accoccolate l’una accanto all’altra, una filza interminabile, mentre il pubblico sta lì, il fiato sospeso e lo sguardo all’insù, ipnotizzato dallo spettacolo.
Oltre l’abisso c’è l’altruismo appassionato di Jean-Michel. Ammettilo, non è l’esatto opposto di quanto sperimenti nella quotidianità? Non sono anche le tue reazioni verso gli estranei imbastite d’indifferenza, diffidenza, cinismo e sospetto? Nel cammino no, manco a pensarlo. Ed è questa la sua grandezza, la sua magia.
Oltre l’abisso c’è l’odore nauseabondo del deposito bagagli. Scarpe e zaini non possono entrare nel dormitorio, sono raccolti in questo bugigattolo a metà scala, il soffitto basso, un tavolino, una panca, una serie di nicchie numerate e il francobollo di una finestra. Entro e vengo investito da una zaffata maleolente. Un puzzo tremendo, da voltastomaco, di piedi e scarpe, sudore e polvere. L’odore della fatica, dello sforzo intenso di chi ha macinato chilometri sotto il solleone. Inconfondibile, lo puoi sentire soltanto qui. E capisci subito dove ti trovi, sai di alloggiare in un caravanserraglio. L’odore della terra e della strada, lo stesso che avrò anch’io da domani, che mi si appiccicherà alla pelle, alla maglietta e ai pantaloncini, che mi accompagnerà lungo la via.
Oltre s’innalza il mirabile arabesco della cattedrale. Un ricamo di pietra maestoso e solenne, quadrati e cerchi giustapposti a costruire uno spazio regolare, scandito da poderose colonne. Il succedersi metodico dei volumi, l’alternanza ritmata delle forme incantano. Al centro della navata San Giacomo, vecchio e barbuto, cappello di paglia e bisaccia d’ordinanza, osserva severo e ieratico i pellegrini dall’alto del piedistallo.
Sul lato opposto, nella penombra di una cappella laterale si nasconde una pietra dai poteri taumaturgici. Si racconta che la Vergine sia apparsa qui ad una donna malata e febbricitante, facendola miracolosamente guarire. Mi avvicino, m’inginocchio, intorno non c’è anima viva. Allungo la mano, la tocco, l’accarezzo, strofino a burro il palmo. Chiudo gli occhi, avverto il mistero della vicinanza col divino. Mi passano davanti grovigli di emozioni, provo a districarli. Scambio parole e mozziconi di preghiera, azzardo una speranza. La pietra è vetro di parlatorio, come al Santo Sepolcro di Gerusalemme, basta il tatto a dare inizio al prodigio, al dialogo muto tra creatura e Creatore.
Esco, scendo l’ampia scalinata, mi volto. La facciata è un mosaico policromo di stupefacente bellezza. Contemplo rapito la trama ordinata, l’intreccio dell’ordito, il sovrapporsi fitto di lesene archi timpani. Un ventaglio multicolore che fa da quinta, a chiusura della via. È l’ora del tramonto, la pietra si tinge d’oro e d’ambra, risplende come prezioso diadema nella corona turchina del cielo.
In centro c’è movimento: ragazze fascinose in tiro per lo struscio, tavolini al completo. Si chiacchera e ci si gode il fresco, si scolano aperitivi a tinchitè, in fondo è sabato sera. Sto cercando l’imbocco del cammino. Una freccia gialla sul muro di un palazzo marca 205 chilometri a Conques e 1522 a Santiago. A volerlo percorrere per intero occorrerebbero due mesi.
Scovo un ristorantino arabo, do un’occhiata al menu. Massì, prendo un plat à emporter. Dopo un quarto d’ora lo chef si affaccia dalla cucina portando due vaschette, una di couscous e l’altra con l’agnello e le verdure. Rientro in ostello, chiedo un piatto, lo riempio una, due, tre volte. Il couscous sembra moltiplicarsi, non vuol proprio saperne di finire. Sazio e appesantito ringrazio gli hospitaleri – ho modo di scambiare due parole anche con Daniel e Marie-Hélène – ed esco di nuovo. Si è fatta sera.
Con una breve passeggiata raggiungo i giardini. Le macchine fotografiche sono già posizionate sui treppiedi, si regola l’esposizione, la messa a fuoco. Il muricciolo lungo la strada è una tribuna stipata, guadagno l’ultimo interstizio libero. Sono tutti in attesa dello spettacolo.
Il fascino di Saint-Michel-d’Aiguilhe sta nell’orografia e nella storia. Incute un certo timore, ora che ce l’ho davanti, quella piramide di roccia nera, dente aguzzo avvitato in mezzo alla città. Giusto in cima sorge la piccola cappella che le dà il nome, consacrata nell’anno 962. Volevo visitarla nel pomeriggio, ma avevo trovato l’ingresso sprangato. Mi ero fermato a leggere il pannello informativo che ne ricordava le antichissime origini e le straordinarie leggende di cui era stata testimone e palcoscenico.
Una di queste, la più celebre, racconta di una giovane ragazza la cui verginità era stata messa in dubbio dai conoscenti. Lei prega con fervore, si affida alla protezione di San Michele e, quale gesto estremo per provare la sua innocenza, si getta dall’alto della rupe. L’arcangelo interviene e ne frena la caduta. Lei vuole ripetere il salto e viene nuovamente salvata. Presa da un accesso di vanità decide di tuffarsi per la terza volta. Sotto gli occhi della folla, accorsa per assistere al miracolo, la giovane si schianta al suolo.
Nelle calde notti d’estate la pelle glabra di questo superbo monolito diventa schermo di proiezione. Passate le dieci e mezza il faro che illumina la cappella viene spento. Di colpo il brusio s’interrompe. Parte