Beauty mania-Quando la bellezza diventa un'ossessione: Quando la bellezza diventa un'ossessione
Di Renee Engeln
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L'ossessione culturale per l'aspetto esteriore è ormai diventata un'epidemia che pregiudica la capacità delle donne di farsi strada nel mondo e vivere vite felici e significative. Se si parla di bellezza, le giovani di oggi si trovano ad affrontare una sconcertante serie di contraddizioni.
Non vogliono essere delle Barbie, ma imparano che quello è l'aspetto che devono avere. Si indignano per il trattamento che i media riservano alle donne, e poi sono ossessionate da riviste e programmi tv che le sminuiscono. Criticano l'assurdo ideale di bellezza della cultura moderna e girano video in cui smascherano i ritocchi fatti con Photoshop, ma si sentono costrette a emulare le stesse immagini che biasimano e usano ogni trucco per sembrare più magre. Sanno perfettamente che ciò che vedono non è reale, però scaricano app per migliorare i propri selfie...
Eppure queste ragazze sono capaci di combattere per ciò in cui credono. Sono pronte a ribellarsi alla cultura che le vuole malate di bellezza e a creare un mondo diverso... hanno solo bisogno di capire come.
La psicologa Renee Engeln illustra le scioccanti conseguenze che l'ossessione per l'apparenza ha sulla salute fisica e mentale delle ragazze, sul loro portafoglio e sulle loro ambizioni, dalla depressione ai disturbi dell'alimentazione, dai danni ai processi cognitivi allo spreco di tempo e denaro.
Affiancando agli studi scientifici le testimonianze di donne di ogni età, dimostra che per sviluppare appieno il loro potenziale devono emanciparsi dalle imposizioni culturali che alimentano desideri e atteggiamenti distruttivi, a partire dai commenti velenosi sulle altre donne e dal sarcasmo ai danni di chi è sovrappeso. E infine suggerisce idee e soluzioni praticabili per superare le attitudini negative, accettare se stesse e per trasformare la propria vita.
Renee Engeln
Pluripremiata docente di psicologia alla Northwestern e alla Loyola University, ha scritto diversi saggi che sono apparsi su prestigiose riviste accademiche e tiene regolarmente conferenze in tutti gli Stati Uniti. Spesso intervistata dai maggiori quotidiani nazionali, dal New York Times, al Chicago Tribune all'Huffington Post, nel 2013 ha tenuto un TED Talk all'Università del Connecticut che ha avuto più di 300.000 visualizzazioni. Attualmente vive a Evanston, nell'Illinois.
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Beauty mania-Quando la bellezza diventa un'ossessione - Renee Engeln
PARTE PRIMA
La malattia della bellezza
1
SARÒ BELLA?
Parlando con le bambine mi capita spesso di porre una tipica domanda da adulti: «Cosa vuoi fare da grande?». Adoro la miriade di risposte diverse (l’insegnante, la scienziata, l’astronauta, la veterinaria, la pittrice, la presidente…) ma, al di là della vita che sognano, so che con ogni probabilità desiderano essere magre e belle.
Cominciano a pensare al corpo che ritengono ideale a un’età sorprendentemente precoce: il 34 percento delle bambine di cinque anni si autoimpone delle limitazioni alimentari di tanto in tanto, e il 28 percento vuole che il proprio corpo somigli a quello delle donne viste nei film e in televisione.¹ Per avere un termine di paragone, tra gli importanti traguardi di sviluppo per i bambini di quell’età figurano l’uso corretto di forchetta e cucchiaio e la capacità di contare almeno fino a dieci. Parliamo di individui che stanno imparando a muoversi nel mondo e che, tuttavia, si preoccupano già del proprio aspetto e della magrezza.
Nella fascia compresa tra i cinque e i nove anni, il 40 percento delle bambine dice di desiderare un corpo più snello,² e quasi un terzo delle alunne di terza elementare sostiene di avere costantemente paura di ingrassare.³ Quest’ansia non dipende da motivi di salute, bensì dalla consapevolezza che, nella nostra cultura, è importante essere carine e che la magrezza è considerata un elemento essenziale della bellezza.
Leigh*, una deliziosa e sveglissima bambina di sette anni dall’indole curiosa, venne nel mio ufficio con la madre, che aveva accettato di essere intervistata per questo libro. Dato che anche Leigh voleva partecipare, cominciai da lei. La madre rimase nella stanza ma si spostò dietro la figlia, in modo da influenzarne il meno possibile le risposte.
Leigh era seduta su una poltrona troppo alta per lei, e faceva dondolare le gambe mentre parlavamo. Aveva un’espressione leggermente scettica, sembrava non sapesse come valutare la situazione (noiosa quanto una visita dal medico o piacevole perché poteva divertirsi con i giocattoli sulla mia scrivania), ma in ogni caso era rilassata.
«Leigh, secondo te com’è una bella donna? Riesci a immaginarne una molto carina?» le chiesi.
Lei socchiuse gli occhi e annuì. «Ha i capelli lunghi e lisci e si trucca tanto. Porta i tacchi alti. È magra. Ha braccia e gambe magre.» La descrizione ricordava i requisiti di un casting per modelle. Dopo aver illustrato nel dettaglio la magrezza delle varie parti del corpo di quella donna immaginaria, Leigh fece una pausa. «Non so quanto sia grande la sua testa» osservò poi aggrottando la fronte.
Fu un momento triste e al contempo affascinante: affascinante perché l’idea di descrivere la testa di una donna la confondeva; triste perché la bambina riteneva già che la bellezza femminile fosse qualcosa di misurabile.
Le domandai se per una ragazza fosse importante essere bella. «Si ricevono più complimenti e cose così» rispose, senza sollevare lo sguardo dal cubo di Rubik in miniatura con cui stava armeggiando.
Già nelle prime fasi dello sviluppo, i ragionamenti di molte bambine sono offuscati dal desiderio di essere più belle. Di certo io, a quell’età, non facevo eccezione. Ricordo che, quando avevo cinque anni, i nonni mi portarono ai Cypress Gardens, un ibrido tra orto botanico e parco tematico in Florida; oltre che dagli splendidi fiori, i Gardens erano popolati da giovani donne affascinanti vestite da bellezze del Sud. Indossavano abiti leziosi e vaporosi dai colori pastello e impugnavano delicati ombrellini. Ho ancora diverse foto che mi ritraggono, in pantaloncini e maglietta, in posa accanto a loro mentre strizzo gli occhi per il sole. Ero troppo piccola per chiedermi perché una donna venisse pagata per passeggiare nei giardini ed essere bella, o perché non esistessero corrispettivi maschili. Ero troppo piccola per chiedermi come ci si sentisse a portare quegli abiti pesanti e pieni di crinoline nell’afa della Florida, anche se avevo i capelli sudati e appiccicati alla fronte. Ero troppo piccola per capire perché tutte le donne fossero giovani, bianche e magre.
Da allora i tempi sono cambiati: oggi l’ossessione culturale per la bellezza permane e gli standard sono persino più alti. Poco tempo fa una mia parente ha accompagnato a Disney World la figlia di sei anni che, quando ha visto Cenerentola e Biancaneve, ha protestato: «Quelle non sono vere principesse, sono signore normali vestite da principesse. Si vede, sono brutte».
Le bambine di oggi crescono con la convinzione che la bellezza sia un requisito femminile fondamentale e che l’obiettivo sia approssimarsi alla perfezione. Persino le donne scelte per interpretare le principesse suscitano in loro il pensiero: Bah. Ho visto di meglio.
Per fortuna, malgrado fosse consapevole degli irraggiungibili standard da principessa, Leigh sembrava a suo agio con il proprio aspetto.
«Leigh» la chiamai, distraendola per un istante dalle calamite giocattolo, «se qualcuno ti chiedesse come sei fatta, cosa risponderesti?»
Rifletté per qualche secondo e disse: «Be’, sono alta più o meno come le altre bambine della mia età. Ho i capelli ricci e rossi e gli occhi verdi, e oggi ho un vestito blu scuro e scarpe azzurre».
«Ottima descrizione. Che aspetto ha il tuo corpo secondo te?»
Leigh replicò subito: «Ho le braccia magre e le gambe molto muscolose. Il resto è normale».
«Ti piace il tuo corpo?»
Lei annuì e diede una risposta meravigliosa. «Corro, mi arrampico e salto un sacco. E poi nuoto e tirando calci le mie gambe diventano forti.»
«È più importante che il tuo corpo sia in grado di fare delle cose o che sia bello?»
«Che faccia delle cose» ribatté senza esitare. La madre, alle sue spalle, sorrise sollevata.
«Credi che la penserai sempre così?» le domandai.
Leigh ci rifletté per un secondo. «Non lo so.»
«Io spero di sì» dissi.
«Anch’io» replicò lei, con lo sguardo basso e le gambe immobili.
Mi chiesi cosa le sarebbe successo quando si fosse addentrata nel territorio accidentato dell’adolescenza. Non mi piaceva affatto l’idea che, molto probabilmente, in futuro non sarebbe più stata così entusiasta del proprio corpo. Le statistiche non sono incoraggianti: circa il 90 percento delle giovani donne non ha alcun problema a indicare una parte di sé di cui non è soddisfatta e il 50 percento esprime quella che i ricercatori definiscono una valutazione negativa complessiva del proprio aspetto.⁴ L’impressione di non essere abbastanza, che accomuna tante teenager, è strettamente legata alla delusione che provano guardandosi allo specchio.
La malattia della bellezza
Studio da anni le difficoltà femminili rispetto alla bellezza e posso affermare senza ombra di dubbio che le ragazze e le donne che faticano a sentirsi a loro agio nel proprio corpo non sono una bizzarra sottocultura americana né una minoranza ossessionata dalla vanità. Si tratta delle nostre figlie, sorelle, studentesse, amiche, compagne, delle persone a cui vogliamo bene. Si tratta delle leader del futuro, stanche di chiedersi se un giorno saranno abbastanza attraenti, stremate dalla bellezza e sostanzialmente malate.
Le donne si ammalano di bellezza quando la loro energia emotiva si concentra così tanto su ciò che vedono guardandosi allo specchio da rischiare di cancellare gli altri aspetti delle loro vite. È un processo che comincia molto presto, non appena alle bambine viene insegnato che la principale valuta di scambio femminile è risultare piacevoli agli occhi del prossimo. Se ne parla soprattutto in rapporto alla giovinezza, eppure è un malessere che riguarda ogni fascia di età, che non si supera crescendo, ma con impegno e perseveranza.
La malattia della bellezza è alimentata da una cultura che si concentra più sull’aspetto delle donne che su ciò che possono dire, fare o essere. È rafforzata dalle immagini che vediamo e dalle parole che usiamo per descrivere noi stesse e altre donne, e anche da chi ci offende, insulta, critica o elogia esclusivamente per come ci presentiamo.
È un malessere che fa soffrire, che trova terreno fertile nella depressione e nell’ansia, e che finisce per aggravarle. A livello pratico ci sottrae tempo, energie e denaro, ci allontana dalle persone che vorremmo essere e dalle vite che vorremmo condurre. Ci costringe a guardarci allo specchio anziché esplorare e affrontare il mondo.
Quella della bellezza non è una malattia canonica. I suoi sintomi non emergono da una radiografia o da un esame del sangue; come per altre patologie è però possibile osservarne gli effetti generalizzati e devastanti. Alcuni sono evidenti, come i disturbi alimentari e la richiesta sempre più alta di interventi di chirurgia plastica; altri sono più subdoli, come le ore che una ragazza può impiegare per scattare il selfie perfetto da postare sui social media. Anche se la malattia della bellezza non è diagnosticabile da un medico o da uno psicologo, posso assicurarvi che qualsiasi operatore sanitario che lavora a stretto contatto con le donne l’ha incontrata. Tutti noi l’abbiamo incontrata.
Se siete una donna, è molto probabile che l’abbiate sperimentata sulla vostra pelle. Ne avete patito gli effetti se avete pensato di restare a casa anziché partecipare a un evento importante perché non vi sentivate abbastanza belle. Se durante una riunione vi siete distratte perché stavate paragonando il vostro corpo a quello di un’altra donna presente. Se avete deciso di non andare in piscina con i vostri figli perché la sola idea di mostrarvi in pubblico in costume era insostenibile. Se non volete più preoccuparvi per il vostro aspetto ma non riuscite a staccarvi dallo specchio, sapete bene cosa significa essere malate di bellezza.
I sintomi si riflettono nei pensieri e nei comportamenti, ma la malattia riguarda anche la cultura in cui viviamo: una cultura affetta da questa patologia dà un peso maggiore al selfie senza veli di un’attrice che ad avvenimenti di portata mondiale. Trova sempre, a tutti i costi, il modo di commentare l’aspetto di una donna, per quanto sia irrilevante in una determinata circostanza. Insegna alle ragazzine che imparare a truccarsi è più importante che studiare scienze o matematica. Se state lottando contro la malattia della bellezza, sappiate che la colpa non è vostra, ma di una cultura malata che genera individui malati.
Lo specchio tiranno
Dopo aver messo un annuncio sui social media per trovare donne da intervistare, una ragazza mi mandò il contatto della sorella, Artemis*, che riteneva fosse la candidata ideale. Per una donna cresciuta nella nostra cultura malata di bellezza, una riflessione sul proprio aspetto può equivalere a un pugno nello stomaco. Artemis, liceale diciassettenne, conosceva bene quella sensazione: era originaria dell’Asia meridionale ma, siccome entrambi i genitori erano nati negli Stati Uniti, definiva la propria etnia «semplicemente americana». Frequentava l’ultimo anno di superiori a Cincinnati, nell’Ohio.
Non era possibile incontrarci di persona e quindi fissammo un appuntamento telefonico. La chiamai a casa un pomeriggio di agosto: era appena tornata da una vacanza in famiglia e doveva ancora disfare le valigie. Iniziammo a parlare, mentre il condizionatore del mio ufficio ronzava in sottofondo.
«Perché secondo tua sorella sei la persona giusta con cui discutere di immagine corporea?» le chiesi.
«Ho qualche sospetto…» disse nel tono sarcastico tipico degli adolescenti, senza rispondere alla mia domanda. Artemis trascorse gran parte della telefonata in piedi davanti a uno specchio a figura intera con il cellulare premuto contro l’orecchio, a elencare i molti aspetti del suo corpo che le provocavano ansia. Nel corso della conversazione io camminai avanti e indietro nel mio ufficio, tentando di capire come una ragazza in salute fosse diventata tanto insoddisfatta del proprio aspetto.
Artemis si era resa conto per la prima volta che il suo fisico era importante in seconda media. La sorella le aveva prestato un vestito corto e smanicato; lei l’aveva provato e si era guardata allo specchio. «L’ho messo e ho pensato che non mi stava bene. Perché non ero… perché ero troppo grassa per indossarlo.» Sottolineò il ricordo con un secco: «Già».
Fu il primo già di una lunga serie: Artemis immaginava qualcosa di terribile per il proprio futuro e poi scoppiava a ridere. Non sempre capivo dove finisse l’ironia e cominciasse il vero divertimento, ammesso che ci fosse.
Dopo l’episodio del vestito, cominciò a convincersi di non essere magra come «tutte le altre». Negli anni aveva capito che in quel periodo non era affatto grassa, per quanto all’epoca si sentisse «enorme».
Specchiandoci non vediamo la realtà, bensì il risultato di anni di input culturali, commenti di amici e familiari, preoccupazioni interiori. In un certo senso Artemis sembrava consapevole di avere una percezione distorta di sé, eppure riteneva che fosse scorretto da parte mia chiederle una valutazione realistica del suo corpo. Come poteva avere la certezza di essere grassa? Forse non lo era in senso stretto, ma con una rapida ricerca su internet avrebbe sicuramente trovato qualcuno che aveva il suo stesso fisico o che portava la sua stessa taglia e che veniva criticato per via del peso.
Benché l’implacabile desiderio di magrezza sia un elemento importante della malattia della bellezza, esserne affette non significa necessariamente soffrire di un disturbo alimentare. Tali disturbi possono rivelarsi letali e sono più comuni di quanto vorremmo, ma in questo momento l’epidemia più diffusa è rappresentata dalla lotta quotidiana che donne e ragazze portano avanti per sentirsi a loro agio con il proprio aspetto. Ciò nonostante, nella ricerca del corpo perfetto la malattia della bellezza spinge tante di noi sull’orlo dell’abisso di anoressia o bulimia. L’attitudine e i comportamenti con cui Artemis affrontava la perdita di peso la ponevano sicuramente tra i soggetti a rischio: a un certo punto aveva iniziato ad andare a dormire molto presto per saltare la cena, spesso era esausta a causa della fame e non aveva la forza di fare nulla.
«Molte adolescenti che si preoccupano tanto del proprio peso rischiano di sviluppare un disturbo alimentare. Hai mai paura che possa capitarti?» le chiesi.
Anziché rispondere, mi parlò di un’amica che soffriva di anoressia. «È magrissima. Si allena un sacco ed è molto bella. Ma ha sofferto di diversi disturbi alimentari. Non si è ancora ripresa del tutto.»
«Eppure pensi che sia bella, giusto?»
Artemis proseguì con entusiasmo: «È magrissima e super in forma. E a me piacerebbe tantissimo avere il suo fisico. Già».
La vita di Artemis presentava numerosi aspetti positivi: andava bene a scuola, voleva intraprendere una carriera in ambito scientifico e aveva ottimi amici. Tuttavia non era abbastanza, mi spiegò, perché «alla fine il fatto di non essere magra rovina tutto».
Questa cupa affermazione è un perfetto esempio di come agisce la malattia della bellezza: Artemis era convinta che fosse il suo aspetto a definirne la personalità e che il suo fisico sarebbe stato giudicato senza pietà ogni qualvolta fosse uscita di casa. Una cultura malata di bellezza non smette mai di ricordare alle donne che il loro aspetto è oggetto di valutazioni e critiche da parte degli altri. Prendiamo in esame alcuni esempi tratti dalla cultura pop.
•Alla consegna degli Oscar del 2013, il presentatore Seth MacFarlane inaugurò la serata con un’esibizione musicale intitolata We Saw Your Boobs («Vi abbiamo visto le tette»), che consisteva in un elenco di film in cui attrici famose comparivano in topless.
•Il giorno dopo la nascita del primo figlio di Catherine Middleton, duchessa di Cambridge, un tabloid britannico pubblicò un servizio che le consigliava come perdere peso e «tornare in forma». In seguito alla nascita della secondogenita, invece, fu ampiamente criticata perché «troppo in forma»: giornalisti e opinionisti insinuarono che, mostrandosi in pubblico truccata e con un’acconciatura impeccabile, danneggiasse l’immagine delle neomadri.
•Heidi Stevens, famosa giornalista del «Chicago Tribune», dedicò un articolo ai pareri non richiesti sui propri capelli. Pubblicò l’e-mail di una lettrice che chiedeva: Com’è possibile prendere sul serio ciò che viene scritto da qualcuno che ha capelli unti, arruffati e spettinati e sembra una senzatetto? Ricordiamo che non è una giornalista televisiva, ma che lavora per un quotidiano.
•Sul «New York Times», la testata che si vanta di decidere «cosa vale la pena pubblicare», è recentemente uscito un articolo in cui si consigliava una serie di esercizi specifici alle donne che ambiscono a scolpire il loro fondoschiena ( For Posteriors’ Sake ). Era corredato dalla foto di una giovane donna in leggings che fa yoga sopra a un’entrata della metropolitana, con il sedere per aria. È difficile immaginare un articolo simile dedicato agli uomini senza scoppiare a ridere.
•In occasione del suo dodicesimo anniversario di nozze, la blogger Galit Breen scrisse uno splendido post sul matrimonio e su ciò che aveva imparato negli anni, e pubblicò una foto scattata durante la cerimonia. In risposta ricevette una sfilza di commenti sprezzanti sul suo peso; uno insinuava che il marito avesse «sposato una vacca».
•Nel 2015, quando diversi network americani rifiutarono di trasmettere il concorso di Miss Universo per protestare contro alcuni commenti fatti da Donald Trump, si scatenò un polverone mediatico. I notiziari, però, si concentrarono esclusivamente sulle dichiarazioni di Trump sugli immigrati, e furono in pochi a porre domande importanti come: perché, malgrado i diritti conquistati dalle donne negli ultimi decenni, riteniamo ancora che i concorsi di bellezza siano una forma del tutto accettabile di intrattenimento di massa? Perché la nostra cultura non ritiene offensivo giudicare giovani donne che sfilano in costume?
L’attenzione dedicata all’aspetto di donne e ragazze è implacabile, tanto che «Slate» ha pubblicato un pezzo in cui spiegava come non fare commenti in proposito. Il giornale satirico «The Onion», forse spinto dalla consapevolezza che la nostra società è malata di bellezza, ha recentemente proposto un articolo sull’iniziativa di un’azienda cosmetica per far vergognare le donne dell’ennesima parte del loro corpo: il palmo della mano. Molti lettori hanno pensato che l’articolo fosse vero e le donne si sono fissate i palmi, tormentate dai dubbi.
Ciò che vediamo ci influenza e ci limita
Artemis si lamentò di essere ingrassata rispetto a quando frequentava la seconda media e le dissi che era normale, che durante la pubertà accade. «Ora pensi di essere in sovrappeso?» le chiesi.
«Credo di sì. Già. Non sono obesa, tipo, ma ho delle specie di… bozzi.»
Bozzi? Non mi era chiaro a cosa si riferisse. Rotolini? Cellulite? Stava parlando del seno? Credeva di essere grassa perché le era cresciuto il seno? Decisi di indagare.
Artemis mi disse che in quel momento portava la taglia S o M; quando commentai che non mi sembravano taglie forti, mi rispose con un sospiro esasperato e la immaginai che alzava gli occhi al cielo di fronte alla mia incapacità di comprendere. Tentò di spiegarmi di nuovo il problema.
«Ho un po’ di ciccia sui fianchi e le gambe grassocce. E anche le braccia.»
Mi consigliò di cercarla su Facebook e di verificare con i miei occhi. Lo feci e… sorpresa: non era affatto grassa, aveva l’aria di un’adolescente in salute, dai capelli lunghi e folti e con un sorriso luminoso. Non notai né ciccia né bozzi. Essendo alta poco più di un metro e cinquanta probabilmente non avrebbe mai avuto il fisico slanciato di una modella, eppure ero sicura che nessun medico le avrebbe consigliato di dimagrire. Scoprii inoltre che Artemis si allenava per un’ora e mezzo o due al giorno: andava a correre e giocava a tennis e a calcio.
Potete immaginare cosa accadde quando le dissi che secondo me non era affatto grassa: il mio commento venne liquidato all’istante. «Già, come no! Certo che lo sono.»
«Quindi, guardandoti allo specchio in questo istante, ti vedi grassa?» domandai.
«Sì» confermò, sollevata dal fatto che avessi finalmente capito. Dopo aggiunse una cosa che le ragazze ripetono spesso; le parole cambiano un po’, però il succo resta sempre lo stesso. «Ce l’ho nel cervello» spiegò Artemis. «So che è assurdo pensare di essere grassa, ma ne sono convinta. Davvero.» A quanto pareva, la parte del suo cervello che la riteneva un’assurdità non veniva ascoltata un granché.
Artemis era talmente ossessionata dall’idea di modificare il proprio corpo che cercai di metterla alla prova. La sua logica adolescenziale, però, vanificò ogni tentativo.
Alla domanda: «Riesci a immaginare di essere felice accettando il tuo corpo così com’è?», rispose parlando della famosa canzone All About That Bass di Meghan Trainor. Dato che non l’avevo mai sentita, mi spiegò di cosa trattasse.
«La cantante sostiene che non è necessario essere magre. È un bel pezzo, super stimolante. Mi sono detta: In effetti ha ragione, facciamo tornare di moda le curve! Farò tornare di moda le curve. Poi però ho visto il video, ho scoperto che era un po’ robusta e ho pensato: Tu magari sei okay, ma io voglio comunque essere più magra di te.»
Artemis immaginava di poter indossare un corpo nuovo e diverso come un’armatura.
«Per me è una specie di obiettivo e quando lo raggiungerò starò bene. Uscirò di casa e penserò: Sono bella. Nessuno può scalfirmi!»
Seguiva ossessivamente le ragazze magre su Facebook, osservava le loro foto pensando: No, non sono così. Ma mi piacerebbe. Quel comportamento la rendeva triste, eppure non smetteva finché non trovava un modo per «staccare gli occhi dallo schermo».
Quando ho iniziato a studiare l’argomento, spesso mi veniva detto che era stupido che le donne cercassero di incarnare un ideale culturale di bellezza poco realistico. Una professoressa arrivò persino a sostenere che «le donne intelligenti non dovrebbero cadere in simili trappole», come se potessero decidere che l’ideale di bellezza che vedono centinaia di volte al giorno non ha alcuna influenza sulla loro vita. Naturalmente non è così semplice, non si tratta di un interruttore mentale: sono poche le donne e le ragazze che desiderano la magrezza fine a se stessa; alla maggior parte di noi viene insegnato che un determinato aspetto è il primo passo per ottenere ciò che si vuole.
Le ragazze di oggi si trovano di fronte a una sconcertante serie di contraddizioni. Non vogliono essere delle Barbie, eppure sentono di dovervi assomigliare. Molte sono furiose per il trattamento che i media riservano alle donne, tuttavia fruiscono degli stessi media che le sminuiscono. Prendono in giro l’assurdo ideale di bellezza imposto dalla nostra cultura, realizzano video in cui svelano i fotoritocchi, ma continuano a voler emulare le immagini che disapprovano. Pur sapendo che ciò che vedono non è reale, lo desiderano e scaricano app per modificare e migliorare i propri selfie.
Tante di queste donne fanno del loro meglio per rifiutare ideali di bellezza malsani, criticano e mettono in dubbio le immagini che vedono; al tempo stesso, però, sono consapevoli di ciò che la nostra cultura ritiene bello.
Fu per rispondere alla professoressa convinta che per le donne intelligenti fosse facile ignorare gli ideali di bellezza poco realistici che condussi una delle prime ricerche del mio dottorato. Non ero d’accordo: se fosse stato così semplice, le donne in difficoltà sarebbero state molte meno.
Diedi le seguenti istruzioni a un centinaio di studentesse della Loyola University Chicago:
Molti ricercatori hanno studiato l’aspetto della donna ideale in base agli standard della nostra società. Riflettete su come tale donna si presenta e descrivetela. Ora vi prego di immaginare in che modo cambierebbe la vostra vita se le somigliaste. Che differenze ci sarebbero?
Le risposte furono così sconvolgenti che valutai di interrompere la ricerca prima del previsto. Una ragazza dichiarò che, se fosse stata bella, sarebbe finalmente stata in grado di concentrarsi sui propri talenti innati e sulle proprie capacità. Un’altra affermò che forse si sarebbe sentita davvero felice e non avrebbe dovuto fingere di esserlo. Un’altra ancora spiegò che non avrebbe mai sofferto di un disturbo alimentare, causando stress e ferendo le persone che la circondavano, malgrado tenesse a loro. Più del 70 percento delle donne che parteciparono alla ricerca dissero che, se avessero rispecchiato l’ideale di bellezza attuale, la gente le avrebbe trattate meglio.
Non ha alcun senso criticare le donne perché desiderano una cosa che, secondo tutti i messaggi culturali cui sono esposte, è la chiave della felicità. Proprio come Artemis, molte sono convinte che il proprio aspetto sia un enorme ostacolo e che l’unico modo per migliorare la situazione sia cambiarlo.
La storia di Artemis non è quindi un caso isolato, anzi. Le innumerevoli donne che di fronte allo specchio criticano il proprio corpo non avrebbero problemi a capire come si sentiva, perché sanno cosa significa essere malate di bellezza.
«Quanto spesso pensi al tuo corpo?» chiesi ad Artemis.
«Sempre, di continuo. È difficile. È un pensiero costante, che mi impedisce di fare un sacco di cose. Mi cambio e mi dico: Dovrei essere più magra, oppure sono in giro con le amiche e mi ripeto che vorrei tanto essere magra come loro.» Poi aggiunse, ridendo, che non avrebbe potuto «iniziare a lavorare sul cervello» finché non avesse avuto il fisico che desiderava.
Pur temendo che Artemis si sarebbe messa sulla difensiva, replicai: «Lo dici ridendo, ma non sono sicura che per te sia davvero divertente».
«No» ribatté, d’un tratto seria. «Non è divertente. Mi fa soffrire. Moltissimo.»
Artemis era certa che la sua felicità dipendesse interamente dalla forma e dalle dimensioni del corpo e ciò aveva ristretto la sua visione del futuro: rifiutava anche solo di immaginarsi da adulta. Le dissi che, di lì a qualche anno, magari avrebbe avuto altre preoccupazioni, ma lo riteneva improbabile. «Cerco di non pensare a quando sarò vecchia, perché sarò grassa e non potrò farci niente. Sarò ancora triste. Sarò triste, grassa e vecchia, una combinazione terribile.»
Artemis mi confidò che, se avesse avuto a disposizione tre desideri, li avrebbe usati per trasformare il proprio corpo in modo radicale. Sognava «un bel collo lungo» e «gambe magre», un naso più carino e i capelli lisci. Mi comunicò il suo peso ideale: secondo gli indici di massa corporea sarebbe stata sottopeso e in molti Paesi le avrebbero impedito di essere ingaggiata come modella.
«Se avessi una bacchetta magica non ti farei diventare più magra» replicai.
«Cosa?!» sbottò lei, tanto arrabbiata da dimenticare che non ce l’avevo davvero. «E invece sì! Deve farlo!» L’idea che non l’avrei aiutata a perdere peso nemmeno in un’assurda situazione ipotetica la turbò profondamente.
«No» ripresi, «la userei per cambiare il mondo, così non ti preoccuperesti più tanto del tuo aspetto fisico.»
Artemis non era d’accordo: se anche il mondo non avesse badato alla sua magrezza, per lei sarebbe rimasta importante. Cercai di farla ragionare: non era forse stata la cultura in cui vivevamo a convincerla che magrezza significava felicità? Magari, con la mia bacchetta magica, avrei potuto sradicare la pianta che era nata da quel seme. Dopo un po’ Artemis ammise che, se fossi tornata indietro nel tempo e avessi cancellato dalla sua mente la correlazione tra magrezza e felicità, forse un giorno sarebbe stata felice. «Sarebbe strano!» esclamò, prima di scoppiare in una risata triste.
L’ostacolo dello specchio
L’attuale generazione di giovani donne è la più istruita e colta della storia. Si distingue per un’incredibile ambizione e una tenace determinazione, ride del cosiddetto soffitto di cristallo (le barriere sociali, culturali e psicologiche che, per categorie storicamente soggette a discriminazioni, costituiscono un ostacolo insormontabile ma invisibile al conseguimento della parità dei diritti e alla possibilità di fare carriera) e ha davanti a sé un futuro luminoso e promettente. Molte di queste donne hanno sposato la causa femminista, anche se la definiscono diversamente. È una generazione che cerca di cambiare il mondo, ma che deve farsi strada tra i messaggi tossici e negativi che alimentano l’ossessione per l’aspetto fisico, ossessione che nasce in giovane età e si diffonde rapida, distrae e deprime.
Le donne vogliono, per citare Sheryl Sandberg, farsi avanti, ma vivono in una cultura per cui la bellezza è il valore principale. Come Artemis, anziché avanzare verso i propri sogni molto spesso si ritrovano ad avanzare verso lo specchio, che si trasforma così in una barriera, in un monito: la società permetterà loro di essere potenti, però non abbastanza da impedire agli sconosciuti di commentarne l’aspetto fisico o di esortarle a «fare un sorriso, tesoro».
Qualche anno fa ricevetti l’e-mail di una donna canadese che aveva assistito a un TEDx in cui avevo parlato di malattia della bellezza. Mi confessò che aveva quasi disertato un’importante raccolta fondi per un’organizzazione a tutela dei bambini perché si sentiva troppo grassa. Poi, dopo aver capito che era un sintomo della malattia, aveva deciso che il suo aspetto sarebbe stato un semplice contorno della sua personalità. Quella decisione giocò un ruolo significativo nella sua vita e in quella degli altri. Se non fossi andata, mi scrisse, non avrei conosciuto delle persone meravigliose, non avrei comprato dei biglietti della lotteria per aiutare bambini indigenti a frequentare un campeggio estivo, non mi sarei offerta di dare una mano a organizzare l’evento dell’anno seguente.
La nostra cultura subisce una perdita enorme quando un intero gruppo di cittadini passa talmente tanto tempo a chiedersi se è abbastanza attraente da non apportare il cambiamento che desidera vedere nella società, consegnandola immutata alla generazione successiva. L’ossessione per l’aspetto fisico avvicina le donne allo specchio e le allontana da un mondo in cui potrebbero far fruttare le loro passioni e i loro sforzi. Se le donne investissero nel mondo esterno le energie e le attenzioni che dedicano all’aspetto, come cambierebbero le loro vite?
Le donne hanno dei compiti importanti da svolgere e, come spiegano le splendide parole della poetessa Caitlyn Siehl, essere belle non è tra questi:
Quando tua figlia
ti chiederà se è bella
il tuo cuore si infrangerà come un calice
sul pavimento di legno
una parte di te vorrà dire
certo che lo sei, non dubitarne mai
e l’altra parte
la parte che ti sta
dilaniando
ti chiederà di afferrarla per le spalle
di guardarla nei pozzi
che sono i suoi occhi finché non rispecchieranno i tuoi
e di dire
non devi esserlo se non lo vuoi
non è il tuo lavoro
All’inizio, quando la intervistai per questo libro, Artemis aveva scelto lo pseudonimo Violet. Qualche giorno dopo mi scrisse un’e-mail per chiedermi di cambiarlo in Artemis, nome della dea greca della caccia, protettrice di donne e ragazze. Mi piace pensare che il passaggio da Violet ad Artemis sia dipeso da un’immagine più forte di se stessa, ma non ne sono certa. Immagino Artemis, adulta e sicura di