La vita Italiana nel Cinquecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1893
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La vita Italiana nel Cinquecento - Autori Vari
Autori Vari
La vita Italiana nel Cinquecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1893
Pubblicato da Good Press, 2022
EAN 4064066069063
Indice
FRANCESCO I e CARLO V
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
LA RIFORMA IN ITALIA
L'ASSEDIO DI FIRENZE
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
X.
Sulle condizioni della Economia Politica nel Cinquecento E LA SCOPERTA D'AMERICA
SIENA NEL SECOLO XVI
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
X.
XI.
XII.
XIII.
Gli scrittori politici del Cinquecento
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
L'ORLANDO FURIOSO
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
TORQUATO TASSO (1544-1595) .
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
LA LIRICA DEL CINQUECENTO
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
RAFFAELLO SANZIO DA URBINO (1483-1520)
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
MICHELANGELO BUONARROTI (1474-1564)
IL TEATRO DEL CINQUECENTO
LA MUSICA NEL SECOLO XVI
FRANCESCO I e CARLO V
Indice
DI
L. A. FERRAI.
I.
Indice
Signore e signori.
Non mai spettacolo più imponente vide l'umanità. Dileguavansi appena dalla Germania, dalla Francia, dall'Inghilterra le ultime nebbie del Medio-Evo, e gagliardi di lor giovinezza salutavano i popoli il sole rinascente d'Italia. Le monarchie armate, equilibrantisi sui varii ordini delle nazioni, sembravano associare gli interessi dinastici al trionfo di un nuovo principio di diritto maturatosi nelle scuole. Conformemente alle varietà di stirpe, di linguaggio, di condizioni storiche si erano venuti aggruppando i popoli, e formavano delle unità politiche forti e compatte. Sotto la protezione dei re, che assecondavano i meravigliosi e rapidi progressi della risorta civiltà, le borghesie, già schiacciate sotto il peso dell'oppressione feudale, perfezionavano gli ordinamenti politici e la legislazione degli Stati; spogliavansi dei rozzi costumi di un tempo, vedevano rispecchiato nelle corti già ricche di gentilezze spirituali, e di agiatezze domestiche, un ideale di vita migliore.
Una profonda rivoluzione intellettuale e morale poneva l'Italia alla testa del mondo civile. Per l'umanesimo noi avevamo riacquistata coscienza del nostro passato, ci eravamo di nuovo fatti signori di un patrimonio perduto o disperso; e ravvivate per esso le forze dell'intelletto, avevamo riguadagnato il senso reale della vita, trasformati i metodi della scienza, restituito il mondo all'uomo. La varietà dei nostri ordinamenti politici, il possesso già da tempo rivendicato della sapienza giuridica di Roma ci aveva addestrati, meglio e prima d'ogni altro popolo, nell'arte della diplomazia e della politica, il genio artistico nazionale si era ritemprato e perfezionato nell'imitazione del bello classico. Le ricchezze accumulate nelle nostre laboriose città rendevano possibili le solenni manifestazioni dell'arte, ne assicuravano le nuove vittorie nelle corti signorili italiane, ove con l'ingentilirsi del costume, delle abitudini, della lingua preannunciavasi la vita moderna.
Eppure quel secolo così fecondo di pensiero e d'azione, in cui lo spirito d'avventura congiunto alla stimolatrice curiosità della scienza rivelava di là dall'Oceano un continente inesplorato, in cui la stampa prestavasi al mutuo e rapido scambio della cultura, e abolivasi il privilegio nei campi di battaglia come nelle istituzioni politiche e nella scienza, il fatto politico, che incentra tanto febbrile moto di vita, e ci offre pur l'orditura di tanta parte della storia moderna, presenta tutti i caratteri di un dramma medioevale. Ne sono protagonisti i due principi più potenti del Cinquecento, Francesco I di Valois, Carlo V d'Absburgo. Rivivono in Francesco I le tradizioni cavalleresche della Francia cristiana; soldato e poeta alla fede degli avi, al culto della donna, al sentimento dell'onore sacrificherà troppo spesso gli interessi della dinastia e della Francia. Ridestasi in Carlo V, che ha fatta sua la patria del Cattolicismo e dell'Inquisizione con le melanconie ascetiche del Medio-Evo, l'ideale politico del passato. Un faro luminoso è la mèta inafferrabile del suo destino. Dagli espedienti volgari della politica quotidiana quel sogno lo distrae e lo conforta: restaurare la monarchia universale a difesa della fede e della Chiesa cattolica. Alle attonite moltitudini il prigioniero di Pavia, che dalla tetra torre di Pizzighettone invia alla madre Luisa di Savoia il famoso messaggio, e versi caldi d'amore alla donna de' suoi pensieri, sembra un cavaliere d'antiche leggende. Il sacco di Roma rievoca la lontana memoria di Alarico e de' Visigoti; la guerra di sterminio contro Firenze provoca su Carlo V le imprecazioni e le ingiurie, che già colpirono il capa del Barbarossa, e quando l'eco di quegli improperii lentamente si spegne nell'Italia lacera e sanguinante, la plebe affamata di Napoli acclamerà il principe poc'anzi maledetto, dopo l'impresa di Tunisi, novello Cesare trionfatore.
Ma in pieno Rinascimento le antiche e sistematiche forme che aveano per tanta parte sterilizzata la vita politica del Medio-Evo, nel tempo stesso in cui la Scolastica avvolgeva di metafisica nube il pensiero, non rifiorirono di fatto che nella fantasia artistica di un popolo assetato di ideali, geloso delle tradizioni classiche e del suo passato. Chi vorrà creder sincero Romolo Amaseo inneggiante a Bologna, innanzi alla maestà di Carlo V, al rinnovamento dell'Impero romano, e alla restaurazione della lingua latina! Chi vorrà scorgere nel poema dell'Ariosto, che rielabora nel nostro volgare le leggende del cielo di Carlo Magno un segreto intendimento politico, o cercarne seriamente il motivo storico nella rinnovata potenza cesarea di Carlo V! Non domandiamo ai poeti, e ai retori delle scuole un aiuto soverchio per apprendere il vero.
II.
Indice
Francesco I saliva il trono l'anno stesso (1515) in cui Carlo di Gand, appena quattordicenne, assunse il governo dei Paesi Bassi. Vigente la legge salica, inalienabili i feudi della corona, allo spirito di conquista animavasi la nazione francese, cui Luigi XII lasciava in retaggio prosperità economica, unità di leggi, e promesse di vittorie riparatrici. Come allora sottrarsi alla protezione e all'alleanza del nuovo Re. Incerta la successione per Carlo all'avo materno Ferdinando il Cattolico, debole e distratto dalle resistenze degli Ungheresi e dei Boemi Massimiliano imperatore, già alleati di Francia gli Inglesi e i Veneziani, vassallo della Francia egli stesso. In qual modo schermirsi dalla politica provocatrice del nuovo Re? Tristi ricordi per Carlo V le prime prove tentate nelle gare diplomatiche di quegli anni! Eppure debbonsi cercare in esse le cagioni prime del suo odio implacabile contro la Francia ed il Re. Claudia, la figlia di Luigi XII che gli aveano promessa sin dalla culla, era divenuta regina di Francia, recando in dote a Francesco I due delle più ricche provincie già appartenute ai beni ereditari di casa d'Absburgo. Per guadagnare la mano di Renata, la sorella di lei, gli si crearono tali impacci che il matrimonio non potè più effettuarsi. Erede, come arciduca della Germania orientale, sovrano dei Paesi Bassi e dell'antico ducato della Borgogna, presunto successore della Castiglia e dell'Aragona, di Napoli, e di Sicilia, il possessore di così vasti territorii sentivasi offeso dall'alterigia del Re; nè i ministri fiamminghi si stancavano mai di dipingergli i Valois come nemici acerrimi, e spogliatori della sua casa. Quale tormento per lui i primi e fortunati successi di Francesco I! Le irrisorie proposte di pace al re cattolico, all'imperatore Massimiliano, agli Svizzeri aveano preannunziata prossima la guerra pel ricupero del Milanese. Celebratesi le nozze di Giuliano de' Medici con Filiberta d'Orleans, Francesco I avea saputo così abilmente tenere a bada Leone X, il quale in favor di Giuliano vagheggiava il possesso feudale del regno di Napoli, che tutta Europa dovè persuadersi di una imminente aggressione francese. E la guerra scoppiò fulminea, e fu tra le più brillanti che mai si combattessero nei piani lombardi. La vittoria di Melegnano assicurò ai Francesi il possesso del ducato Sforzesco; il colloquio di Viterbo e l'incontro di Leone X col vincitore a Bologna tranquillarono a patti ben gravi il pontefice: la cessione ai Francesi di Parma e Piacenza. Che se più tardi la defezione di Enrico VIII, e i nuovi intrighi papali per formare uno Stato, dopo la morte di Giuliano, a Lorenzo de' Medici, e per raffermare la supremazia politica del papato in Italia, crearono seri imbarazzi al dominatore di Lombardia, nè i successi militari di Massimiliano, nè l'interposizione dell'arciduca Carlo nelle trattative di pace valsero a porre un freno alle ambizioni francesi. Nella pace di Noyon del 1516 gli interessi della Francia trionfarono completamente. Carlo vi ottenne assicurata, per la mediazione del re d'Inghilterra, la successione al trono di Spagna, ma le clausole restrittive nell'esercizio della sovranità in Navarra, l'obbligo impostogli di riconoscere i diritti di Francesco I non solo sul ducato di Milano, ma sul regno di Napoli, la ingiunzione a Massimiliano imperatore di restituire Verona alla repubblica veneta, tradirono, a giudizio di Massimiliano stesso, con gli interessi degli Absburgo i diritti della Germania e dell'Impero. L'oratore inglese scriveva di quei giorni al celebre ministro Wolsey: "Se non poniamo riparo alla baldanza francese noi vedremo risorgere in Francesco I un nuovo Alessandro.„ Onerosi da vero quei patti se per poco consideriamo che tutti gli sforzi posteriormente tentati, con le conferenze di Cambray a fine di ricomporre in via diplomatica il turbato equilibrio fra gli Stati italiani, fallirono completamente. Di un più grave e generale disequilibrio era stata inoltre cagione la morte di Ferdinando il Cattolico, avvenuta fin dal gennaio del 1516, e la successione a lui di un giovane straniero e inesperto, chiamato al governo di una nazione non ancor doma dell'assolutismo monarchico, turbava i sonni del vecchio imperatore. Ci sembrarono tuttavia ingiuste le gravi accuse che egli scagliava, dopo la stipulazione di quel trattato contro Guglielmo di Croy signore di Chévres, l'aio di Carlo V, rimproverandolo d'essersi lasciato aggirare a Noyon da Arturo Gouffier il devoto maestro del re di Francia. Se bene in difetto di prove noi crediamo che il principe di Castiglia si dimostrasse verso il suo educatore e ministro assai meno severo.
Stringevanlo a lui forti legami di affetto e di riconoscenza. Deserta delle materne carezze l'infanzia, quando Carlo V uscì dalle cure diligenti di Margherita d'Austria sua zia, e di Margherita di York, la vedova di Carlo l'Ardito, avea trovato nel signore di Chévres un protettore e un amico. Sotto la guida di lui, Carlo V, dotato di un senso naturale singolarissimo, d'una penetrante finezza di spirito, d'una rara energia intellettuale e morale, si era per la prima volta affacciato alla vita. Gli era debitore insomma di quella scienza che non si trova nei libri, e che è perciò più preziosa e più rara. Riflessivo e prudente nel giudicare, cauto e risoluto nell'operare, egli dovea in gran parte ai consigli del suo precettore l'acquisto di quella precoce dignità principesca, che tutti i biografi gli riconoscono. Ma ben più nell'arte di vivere che nella scienza avea fatto il giovine principe meravigliosi progressi. Adriano d'Utrecht, il dotto teologo di Lovanio, che fu poi Adriano VI, non seppe trasfondere in lui alcun amore alle lettere antiche. La pietà del severo fiammingo favorì certo le naturali tendenze ascetiche dell'allievo, non lo rese però gran fatto sensibile alle grandi vittorie dell'arte, che compironsi all'età sua, nè destò in lui eccessivo entusiasmo per il classicismo risorto. Più che il greco e il latino amò Carlo V le lingue viventi; tra le scienze: la matematica, la geografia, e più che tutto si compiacque di conoscere a fondo la storia. Predilesse tra gli antichi scrittori Tucidide, che gli fu noto in una traduzione francese. Gli divennero poi indivisibili compagni de' viaggi, delle imprese di guerra, e conforto prezioso nelle ore delle incertezze e degli scoramenti, due libri: la vita di Luigi XI del Commines, il Principe di Niccolò Machiavelli. Non tra le astratte meditazioni, o nel sepolcrale silenzio di una biblioteca monastica, erasi dunque formato lo spirito di Carlo V, in contatto immediato con la realtà viva del mondo parve quasi ch'egli compisse in Fiandra il noviziato della sua esperienza politica; ma non dal paese nativo di certo egli ritrasse le linee marcate della sua fisionomia morale. All'ambiente storico più vasto, che più tardi lo accolse spettava compiere l'educazione politica e religiosa di Carlo V, e quell'ambiente fu la Spagna, meraviglioso teatro ancora di drammi sanguinosi, e di cavalleresche leggende, la patria di Ximenes, di Torquemada, di Consalvo di Cordova. Strano contrasto! Mentre tutte le nazioni si erano ringiovanite, o ringiovanivano, per una serie di profonde rivoluzioni intellettuali, la Scolastica, la Riforma, il Rinascimento; la Spagna rimaneva indifferente a questo progressivo moto d'Idee. Intrepida amazzone teneva ancora in pugno le armi a difesa dell'altare e del trono, e tra una battaglia e l'altra cantava le proprie vittorie. Le dispute di Abelardo, le dottrine di Ruggero Bacone, la filosofia di S. Tommaso non la commuovono; essa si attiene alla fede tradizionale, s'invanisce e s'inebria di racconti fantastici e storici, burlevoli e pastorali. Non per la Spagna faticheranno i grammatici e i commentatori dell'Umanesimo; essa possiede una lingua bella e sonante, e delle sue romanze si appaga. Prima che lo spirito della Rinascenza conquisti e soggioghi la sua letteratura, all'ideale irrealizzabile del passato presterà ancora le armi, le ricchezze, l'energia che le è propria. Resistente e nemica d'ogni innovazione politica e religiosa, raddoppierà la guardia della sua Inquisizione, diverrà più servile, più devota, a misura che le altre nazioni si emanciperanno; resterà finalmente la nazione superstite del Medio-Evo. Ma tanta forza di resistenza e di reazione gelosa di fronte ai grandi rivolgimenti politici e intellettuali dell'Europa civile, non mosse dalla volontà e dalle profonde convinzioni di un principe. Lo spirito spagnuolo, di cui Ferdinando il Cattolico era stato un esatto interprete, informò il carattere, l'intelletto, la volontà di Carlo di Gand; non impose già egli i proprii ideali a quel popolo. Il conquistatore fortunato di tante stirpi fu alla sua volta soggiogato e vinto, e prima ancora che la sua stella brillasse di sanguigna luce sui campi di Pavia e di Mühlberg, la nazione che lo avea acclamato re, diffidando di lui e della sua schiatta, gli inspirava i suoi proprii entusiasmi, lo rendeva schiavo dei suoi pregiudizii, ravvivava in lui l'ideale di Carlo Magno.
Fatidica da vero l'impresa, che nel celebre torneo di Valladolid del febbraio 1517 assumeva appena diciassettenne il giovane Carlo! Sulla gualdrappa del suo cavallo leggevano i Castigliani, ammirando tanta ricchezza d'oro e di gemme, un motto significato in una sola parola: nondum. Con essa egli forse intese manifestare la sicura coscienza della grandezza avvenire; e due anni appresso, quando appena avea fatta esperienza delle arti dispotiche lasciategli in retaggio dall'avo materno, venne a morte Massimiliano imperatore (12 gennaio 1519).
III.
Indice
Indicibile a quell'annunzio l'agitazione e il fermento di tutta Europa. La Germania sembrava ad un tempo un mercato aperto agli stranieri d'ogni nazione, un campo di guerra alla vigilia della battaglia. Dovunque una gara affannosa di promesse e di offerte da gentiluomini che si spacciavano per potenti, e di mercenarii millantatori. Traversavano del continuo il territorio dell'Impero i corrieri di Spagna e di Francia, recanti dispacci alle corti dei grandi elettori, s'incrociavano ad ogni ora gli agenti diplomatici dei due monarchi con le brillanti scorte degli uomini d'arme, dei carriaggi e dei servi. Ritiratosi dal concorso Enrico VIII il defensor fidei, dolorosamente convinto che Leone X giuocava a doppia partita, e incoraggiava le pratiche del re di Francia, questi, vivente ancora l'Imperatore, con larghe profferte di denaro, con promesse di titoli, e laute pensioni s'era guadagnato il voto di quattro elettori. Un ardito gentiluomo, Francesco di Sickingen, fattosi in quei tempi di disordine pubblico, e di sanguinose guerre private, il giustiziere, come dice bene il De Leva, di gran parte della Germania, prometteva al re straniero l'appoggio delle sue armi. Dal romito castello di Ebernburg, dove l'audace venturiero, allievo di Reuchlin, si compiaceva tra una mischia e l'altra di accendere tra gli amici di Wittenberg dispute teologiche e letterarie, venivano del continuo i messi di Francia, e vi ritornavano carichi d'oro. Ma il vecchio Imperatore vigilava quei passi. Nel convegno d'Absburgo rannodava in segreto le fila de' suoi partigiani con un sacrificio di mezzo milione di fiorini. Più tardi persuase il Sickingen a mancar di fede a Francesco I, e a impugnar la spada contro il duca Ulrico del Würtemberg per assicurare col trionfo della lega Sveva, l'elezione di suo nipote. Non l'appoggio incondizionato del papa, che avversava le pretese del re spagnuolo onde avvantaggiare gli interessi Medicei, e per impedire che un re di Napoli, violando la bolla di Clemente IV, salisse all'Impero, non la fede mantenutagli all'ultima ora da Gian Federico duca di Sassonia e dall'arcivescovo di Treveri, garantivano a sufficienza l'elezione di Francesco I. Nè gran fatto giovò alla sua causa l'orazione efficace, persuasiva, solenne, che nella dieta raccoltasi a Francoforte il 18 giugno 1519 pronunziò in suo favore il dotto arcivescovo, sperando dissipare la forte impressione che le brevi parole pronunziatevi dall'elettore di Magonza aveano lasciato su gli animi dei convenuti. "Se noi dovessimo interpretare alla lettera la bolla d'oro, così l'arcivescovo di Treveri, dovremmo escludere come stranieri e Carlo e Francesco. Voi affermate che è titolo sufficiente di capacità all'elezione per il primo il possesso di molte provincie dell'antico Impero, quasichè il re di Francia non sia signore legittimo del regno di Arles, e del ducato lombardo. Ma eleggendo Carlo voi lo sforzerete a ritoglier Milano ai Francesi, e incoraggerete gli Osmani a invadere l'Ungheria. Quando invece s'imponesse a Francesco I l'impegno di non tentare l'acquisto del reame di Napoli e di non violare le frontiere della Fiandra, egli si troverebbe necessariamente obbligato a impugnare le armi contro i Turchi per la difesa della Germania, divenuta per lui la sentinella avanzata del proprio regno.„ Nè l'arcivescovo di Treveri si ritenne, accennando al riconosciuto valore, e alla saggezza politica del re di Francia, e contrapponendola alla giovinezza inesperta di Carlo, di eccitare ancora una volta il geloso sentimento nazionale tedesco, col pauroso sospetto sulla orgogliosa durezza degli Spagnuoli. Se non che questi argomenti, e la proposta che poteva sembrare più saggia, che cioè esclusi i due rivali, la scelta cadesse su di un principe tedesco, non trovarono favore nell'assemblea. Prevalente la lega sveva, compra dall'oro spagnuolo e fiammingo la maggioranza degli elettori, già segretamente proclive Leone X a non intralciare i disegni di Carlo, se eletto, la vittoria così a lungo contrastata, e comprata a così caro prezzo, finalmente gli arrise. N'ebbe notizia Francesco I a Poissy il 3 luglio 1519, e seppe far buon viso a cattiva fortuna. Dicesi anzi che si compiacesse dello smacco patito come di un evitato pericolo, di cui non avesse misurato abbastanza la gravità e la minaccia.
Ma l'elezione di Carlo V all'Impero recava con sè gravissime conseguenze. Turbata la proporzione di forze tra i due rivali, aprivasi di nuovo l'Italia a teatro di guerra, e ne sarebbe stata ancora Milano la preda agognata. Le condizioni imposte a Carlo V dagli elettori, egli avrebbe potuto impunemente violarle perchè mancavano di ogni efficacia coattiva. Distratti i due principi da ambiziosi ed esterni disegni, avrebbero tentato subito d'accrescere il completo assoggettamento dei loro regni ereditarii, soffocando Carlo gli ultimi aneliti della indipendenza politica della Spagna, tenendo in freno Francesco I gli ardori ribelli dell'antica feudalità. Per più di vent'anni la disputata egemonia dell'Europa, derivante dal possesso d'Italia, terrà lontano Carlo V dalla Germania, e le nuove dottrine religiose, incoraggiando le ribellioni dei principati laici feudali, vi troveranno libero il campo ad una espansione feconda. Francesco I ne diverrà per mire politiche l'interessato difensore, provocherà gli Osmani contro l'Impero, arresterà ancora per qualche tempo il trionfo delle armi e delle idee spagnuole, allontanerà la minaccia della reazione politica e religiosa.
Vano sarebbe fantasticare se la elezione del re di Francia avrebbe serbato un miglior destino all'Europa. Più tosto domanderemo a noi stessi se il persistente concetto della monarchia universale cristiana, sopravvivente in contrasto al diritto pubblico della Germania, giustifichi a sufficienza il nuovo e strano spettacolo di una corona così accanitamente disputata fra i due più potenti principi del Cinquecento. Non orgoglio di monarca, non fervore di fede cattolica destavano nel successore di Clodoveo e di Carlo Magno così forte ambizione. Noi dobbiamo scorgerne i fondamenti in quella generale corrente di simpatia, che era stata ausiliaria efficace delle sue prime fortune. Il secolo dell'Umanità e della Rinascenza parve quasi che a lui, interprete degno del suo stesso spirito, volesse affidata la fase della civiltà nuova. Superiorità morale incontrastata, animo aperto ad ogni senso di modernità, ad ogni forma di bellezza classica, i contemporanei ammiravano Francesco I restauratore della dignità nazionale, e benefattore illuminato di un popolo, che trasformando i suoi rozzi costumi, riformando le leggi, educandosi all'arte, perfezionando i metodi della scienza, traeva dalla conquista i vantaggi più duraturi. Già fin d'allora brillava di vivissima luce la corte di Francesco I, e vi trovavano protezione efficace i dotti d'ogni paese. I più coraggiosi preparatori della Riforma, gli umanisti teologizzanti, che circondavano a Wittenberg Martino Lutero, o ne interpretarono il pensiero nelle tumultuose diete imperiali, serbavano per la maggior parte grato ricordo delle scuole francesi, dell'amicizia di quei dotti, della liberalità di quel Re. Gioachino d'Hohenzollern margravio del Brandeburgo, nel compromesso da lui firmato il 17 agosto 1517 a favore di Francesco I, dichiarava che ad impegnare il suo voto per lui lo inducevano sopra tutto la fama, e l'umanità di quel principe, omai nota a tutto il mondo. Omaggio doveroso da vero di un tedesco, già disposto a svincolare la sua coscienza dal dogma cattolico, verso l'amico e il protettore di Erasmo, verso il principe che più tardi fece della Francia un asilo sicuro all'arte e alla libertà italiana.
IV.
Indice
Nell'antico castello dei conti Angoulême presso Amboise erasi compiuta l'educazione di Francesco I, e di sua sorella Margherita, che fu poi regina di Navarra. Luisa di Savoia figlia del conte Filippo di Bresse, rimasta vedova giovanissima del conte Carlo di Valois Angoulême, visse lunghi anni coi figli in quel volontario ritiro. Ivi crebbe, vivo ritratto dell'uomo ch'ella avea appassionatamente amato, Francesco I, robusto della persona, pronto d'intelletto, e per indole naturale inclinato ad ogni opera buona e generosa. Qualche anno fa leggevasi ancora in una delle sale di quel castello il motto: Libris et liberis, fattovi dipingere da Luisa negli anni del suo dolore, e quel motto compendia il sacrificio spontaneo di una giovinezza sfiorita senza rimpianto. Dalla libreria d'Amboise sono pervenuti alla Nazionale di Parigi moltissimi codici fatti copiare da Luisa di Savoia per l'istruzione dei figli, e contengono le opere minori del Petrarca e del Boccaccio, l'Epistole di Ovidio tradotte da Ottaviano, di Saint-Gelais, un esemplare della Divina Commedia, e moltissimi romanzi cavallereschi. Nata in Italia, e cresciuta in una corte, dove già era penetrato l'alito del Rinascimento, Luisa volle impartita ai figli un'educazione schiettamente classica. Un dotto abate, Francesco di Rochefort, erudì ne' primi elementi della lingua latina e greca i due giovinetti, mentre la madre chiamava Arturo Guffier signore di Boissy a precettore e a governatore di Francesco. In possesso di una ricca cultura classica i due giovani acquistarono ben presto il più fino gusto letterario ed artistico; più tardi i continui rapporti coi nostri grandi maestri, coi letterati italiani, rifugiatisi alla corte di Francia, perfezionarono la accurata educazione impartita loro dalla madre e dai precettori. Così la affettuosa sorella del Re che i poeti aulici di quell'età chiamarono la Margherite des Margherites, fu in grado di dettare, a imitazione del Boccaccio, l'Héptaméron, e i varii poemetti gentili che le danno fama; e Francesco I anche in mezzo ai disagi delle guerre, e alle preoccupazioni della politica, trovò il tempo e la voglia di sottomettere il suo pensiero al giogo della misura e della rima, emulando le glorie del Jamet e di Clemente Marot. Noi non potremo qui dare un quadro completo della vita di Francesco I negli anni ne' quali Luisa di Savoia, trepidando per il suo avvenire, ma pure intravedendo il destino che gli era serbato, procurò ch'egli acquistasse esatta coscienza del proprio grado e de' suoi futuri doveri. Troppo nota è del resto la storia dei suoi trascorsi giovanili, della sua veemente passione per madama di Chateaubriand, delle sue debolezze per mademoiselle d'Héilly, più tardi duchessa d'Étampes, per non riconoscere che non a torto i contemporanei gli rimproverarono di aver troppo spesso trasgrediti i consigli prudenti della madre, e più tardi sacrificato ai suoi capricci, alle sue passioni, con gli interessi della dinastia la dignità della Francia. Ma certo nei tratti salienti della sua figura morale, ne' suoi entusiasmi per l'arte, nel suo amore per il lusso e per il fasto, nelle sue virtù e nei suoi vizi rimangono così al vivo scolpiti i caratteri stessi di quella società spirituale, che prima che altrove in Italia preannunziò il rinnovamento della vita sociale, ch'egli acquista maggior diritto di Carlo V alla simpatia nostra, se anche pe' molteplici errori, per le funeste titubanze di una politica sleale ed egoistica, per l'abbandono ingiustificato e colpevole, in cui lasciò una gloriosa repubblica moribonda, noi cademmo vittime degli Spagnuoli.
V.
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La rivalità tra Francesco I e Carlo d'Absburgo è determinata infatti da un così complicato intreccio di tendenze morali, e di materiali interessi, che non era dato sempre nemmeno ai due antagonisti misurarne le conseguenze. Grave errore sarebbe imputare solo alle cupidigie loro l'asservimento d'Italia, e non riconoscere che noi stessi fummo artefici sconsigliati della nostra fortuna. Di quanto non si sarebbe, ad esempio, ritardato l'urto formidabile, di cui noi soli dovevamo pagare le spese, se i principi e le repubbliche italiane abbandonando la politica sospettosa e fedifraga seguita fino allora, avessero secondati gli sforzi generosi di Enrico VIII e del Wolsey per formare un'alleanza universale tra gli Stati cristiani! Se non che mentre nei campi dei drappi d'oro il Re inglese induceva a miti consigli Francesco I, e minacciava di abbandonarlo se avesse presa l'offensiva della guerra per far rispettare il trattato di Noyon, il Wolsey stesso si lasciava adescare dall'oro austriaco, e Leone X, che più avrebbe dovuto incoraggiare la diplomazia inglese, raggirava tutti con arti tenebrose, e per un fine non sempre evidente ai suoi stessi negoziatori. La difesa della politica imperialista di papa Leone è stata tentata di recente con dottrina pari all'ingegno; ma quante volte non si ammantano di ingannevoli idealità, i documenti ufficiali della diplomazia! Giulio de' Medici ebbe un bel difendere dopo la morte di papa Leone innanzi a Francesco Guicciardini quella complicata tela di raggiri e di frodi, quasichè il pontefice avesse mirato alla salute della penisola. Se egli trattò segretamente con Carlo V, e provocò di nuovo la guerra, dopo aver ampliato, con turpitudini d'ogni maniera, gli Stati della Chiesa, e minacciato il duca di Ferrara, non la preoccupazione del moto religioso in Germania, o le minaccie osmane ve lo aveano indotto, ma la insoddisfatta brama di Parma e Piacenza. La guerra iniziatasi con prosperi successi per la Francia, nei Paesi Bassi, e ai confini di Spagna riuscì a tutto vantaggio degli eserciti confederati imperiale e pontificio. Gli Spagnuoli toglievano Milano al Lautrec il 19 novembre 1521, e pochi giorni appresso ricondotto dalle armi straniere Francesco II Sforza sul ducato paterno, Carlo V pagava al pontefice il prezzo dell'alleanza. Leone X non fece a tempo a misurare la fallacia delle sue previsioni. Sul sepolcro illacrimato che il primo dicembre gli si dischiuse fioccarono gli epigrammi, sghignazzò Pasquino durante il conclave, e i clienti arricchiti dalla Curia romana, durante il lungo tripudio carnevalesco del papato Mediceo, perdettero gravi somme accettando favolose scommesse sul nome di Giulio de' Medici, che non raccolse i suffragi. L'eletto fu Adriano d'Utrecht, il precettore di Carlo V. Alle tanto temute influenze francesi si sostituivano le più caute e pazienti della cancelleria spagnuola, e l'Imperatore rallegravasi di quella scelta, come di una vittoria sua propria. Ma quale eredità non avea lasciata al successore Leone X! Il severo fiammingo, che la ripudiò con disdegno, apparve alla Roma rediviva dei Cesari come un fantasma pauroso e grottesco. Sparve dal Vaticano lo sciame dei parassiti e dei cortigiani, sospesero le abbozzate pitture gli scolari di Raffaello; e il solitario pontefice in odio al popolo per la sua avarizia, ingannato e deriso da cardinali beffeggiatori, logorò la vita infelice, proseguendo un ideale irrealizzabile di restaurazione morale, politica e religiosa. La fioca voce di Adriano VI morente, era soffocata dal fragore delle armi proprio allora che la guerra si riaccendeva più aspra che mai in Sciampagna e in Piccardia, e la vittoria della Bicocca (dell'aprile del 1522) avea già assicurato il possesso di Milano ad un principe ligio ai voleri di Carlo V. Con nuovi e insperati successi questi raccoglieva il frutto delle due leghe conchiuse coi Veneziani, col papa e con gli Stati minori d'Italia. Respinta nel 1523 l'invasione del general Bonnivet, sgombrata ancora una volta la Lombardia dai Francesi, perchè non avrebbe egli dato ascolto alle sollecitazioni del duca Carlo di Borbone, il ribelle feudatario di Francia, che lo stimolava a penetrare in Provenza, a congiungere le forze tedesche alle spagnuole, a marciare direttamente su Lione per strappare dal capo del suo avversario la mal difesa corona? Se non che la spedizione della Provenza del 1524 non fu più avventurata delle successive. Il duca faceva affidamento sul concorso de' suoi partigiani, e l'odio così gli accendeva la fantasia da non scorgere che ribelli nei popoli devoti e affezionati alla casa di Valois. Onde gravissimi dissapori tra lui e il marchese di Pescara, che sotto le mura di Marsiglia, mirabilmente difesa dalla flotta francese capitanata da Andrea Doria, vedeva dolorosamente svigorirsi l'esercito dell'Impero. Durava ancora l'assedio quando giunse al campo notizia che il re di Francia ritentava in persona l'impresa d'Italia. "Chi vuol cenare all'inferno, esclamò il marchese di Pescara, torni pure all'assalto, ma chi vuol salvare a Cesare la Lombardia farà bene a seguirmi.„ Il progetto della rivincita torturava da lungo tempo l'animo di Francesco I; il tradimento infame del duca Carlo di Borbone non fece che ritardarne l'esecuzione. Le serie obbiezioni del La Tremouille non valevano meglio delle preghiere e delle lacrime di Luisa di Savoia per distogliere il re dall'affrettata deliberazione. Il 12 agosto del 1524 nel castello di Gien sulla Loira egli affidava la reggenza del Regno alla madre, e prendeva commiato dalla regina Claudia, dalla sorella, dalle dame della sua corte. Pochi giorni appresso muoveva da Avignone per la Liguria, inseguendo gli Imperiali, che aveano levato a precipizio l'assedio di Marsiglia, e il 20 ottobre passava il Ticino. Milano, spopolata dalla peste, priva d'armi e di denaro, per consiglio di Girolamo Morone gli apriva le porte il 24, e sulla fine del mese il maggior contingente dell'esercito vittorioso, per improvvido suggerimento del Bonnivet, concentravasi sotto le mura dell'infausta Pavia. Chi avrebbe mai preveduto, dopo una così rapida restaurazione delle sorti francesi, la catastrofe del 24 febbraio 1525, la morte sul campo del Bonnivet, del La Palisse, del La Tremouille, la rovina di tanta parte della feudalità francese, l'umiliazione e la prigionia del re? Non ne indagheremo le molteplici cause; ma certo l'immane disastro colpì come fulmine, e disarmò i principi italiani delle speranze fin allora nutrite di rialzare la parte francese per salvar la penisola dalla minacciata soggezione spagnuola. Nel vecchio e pur inevitabile errore di associare alla fortuna di un re straniero le sorti d'Italia ricadevano ben presto il pontefice, i Fiorentini, Venezia. La tela delle simulazioni e degli inganni con tanto accorgimento tramata da Leone X ai danni della Francia, si ritesseva ora a rovescio, e con minore risolutezza ed energia dal nuovo pontefice Clemente VII. Nemici a lui i Colonnesi, fedeli a Cesare, insofferenti del giogo mediceo i Fiorentini, Clemente VII acquetava quelli dandosi a credere legato ancora a Carlo V dai vecchi patti, appagava questi con false promesse di liberali riforme nel reggimento politico di Firenze, che illudevano i nostri politici, non avvezzi più a limitare l'acuto sguardo entro la ristretta cerchia degli interessi cittadini, ma preoccupati della salute d'Italia. Resistere a Carlo V significava inoltre per il pontefice non impegnare la Chiesa romana in riforme dogmatiche e disciplinari, che ne offendessero le tradizioni, ne minacciassero gli antichi diritti, spogliassero il papato del principato terreno. Gravi preoccupazioni politiche ispirate talvolta ad una idealità di principî, che lasciavano fredde e indifferenti le moltitudini, persuadevano la repubblica veneta a secondare il nuovo indirizzo della politica pontificia. Riconquistato faticosamente il dominio di terraferma, usurpatole dai collegati di Cambray, Venezia acquistava ogni giorno più la coscienza della sua italianità. Estranea per lunghi secoli alle dolorose vicende della penisola, essa offriva all'ammirazione della scienza politica l'organismo meraviglioso della sua costituzione interna proprio allora che dai Principati e dalle sopravvissute repubbliche, impotenti a risolvere il problema politico, le derivarono i benefizi della progredita cultura, e i doni preziosi dell'arte rinnovellata. Se non che i generosi sforzi della Repubblica non impedirono che da funeste titubanze, e da diffidenze reciproche non rimanesse impacciata l'opera nostra. La congiura del Morone incautamente condotta, riuscì a tutt'altro fine da quello che se n'era sperato: accrebbe la impotenza personale di Francesco Sforza, svelò il putridume di corrotte coscienze, rese più che mai sospettosa la vigilanza degli Spagnuoli. Dopo il trattato di Madrid, che immobilizzava le forze francesi, e più che mai turbava il già spostato equilibrio, l'Italia sentì più grave il peso dell'oppressione, e accedendo alla lega di Cognac e alla politica inglese, sembrò con un ultimo sforzo risollevarsi dal letto del suo dolore. L'idea generosa di una riscossa ispira la prosa ufficiale del Wolsey, infonde nuovo calore alle lettere diplomatiche del Datario Ghiberti, conforta di pietose illusioni lo spirito travagliato di Niccolò Machiavelli. Ma la Niobe delle nazioni non fece che esporre a nuove e mortali ferite il corpo già flagellato. Piombaronci addosso le coorti indisciplinate del Borbone, i fanatici lanzi del Frunsberg corsero le terre desolate ed arse, traversarono le città spopolate le genti fameliche del Lautrech. Invano il pontefice abbandonato dai Fiorentini, maledetto a Venezia, mancando agli impegni, sconfessava l'opera propria, e implorava misericordia dai nemici furenti. Ministri dell'ira celeste i Tedeschi compivano, col sacco di Roma, il vaticinio di Ulrico di Hutten, detronizzavano il papa, restituivano i diritti su Roma all'Impero, spegnevano la podestà temporale del sacerdozio, preannunciavano al germanesimo sulla risorta civiltà latina una nuova vittoria. Condannò Erasmo, che pur l'avea preparata con l'Elogio della Follia, la rovina di Roma. Ne consacrarono in noiose elegie il funesto ricordo i poeti latineggianti cresciuti alla scuola del Sadoleto e del Bembo. Anticipazione violenta di una legge fatale, il significato storico di quell'orgia di sangue, rimase per gran parte ignoto ai contemporanei, a Carlo V stesso, che non avea voluto impedirla. Sorpreso anch'egli dall'immane disastro, che scompigliava le sue previsioni, ne rendeva responsabile il suo avversario, violatore del trattato di Madrid, ne cercava le cause nella subdola politica inglese, nelle sfrenatezze delle plebi e degli eserciti, nella cupidigia insaziabile del papato. Ma come dissimularsi che il tremendo castigo non fosse commisurato alle colpe di papa Clemente! Come non riconoscere che per punirlo egli si era fatto complice dello spirito ribelle della nazione germanica, e che a lui solo come capo del mondo cristiano,