Guerra e pace I
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Leo Tolstoi
Leo Tolstoy grew up in Russia, raised by a elderly aunt and educated by French tutors while studying at Kazen University before giving up on his education and volunteering for military duty. When writing his greatest works, War and Peace and Anna Karenina, Tolstoy drew upon his diaries for material. At eighty-two, while away from home, he suffered from declining health and died in Astapovo, Riazan in 1910.
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Guerra e pace I - Leo Tolstoi
Guerra e pace I
Federigo Verdinois
Война и мир
The characters and use of language in the work do not express the views of the publisher. The work is published as a historical document that describes its contemporary human perception.
Copyright © 1869, 2020 Lev Tolstoj and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788726568967
1. e-book edition, 2020
Format: EPUB 3.0
All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
SAGA Egmont www.saga-books.com – a part of Egmont, www.egmont.com
Parte Prima
I
— Ebbene, principe, Genova e Lucca son divenute appannaggio della famiglia Bonaparte. No, vi prevengo, se mi direte ancora che non avremo la guerra, se vi permetterete di assumere le difese di tutte le turpitudini, di tutti gli orrori perpetrati da quell’Anticristo, – chè per tale lo tengo, in fede mia! – non vi guarderò più in viso, non vi avrò più per amico, non sarete più, secondo voi dite, il mio schiavo fedele. Orsù, sedete: vedo che vi ho spaventato a dovere: sedete e raccontate.
Così parlava nel Luglio 1805 Anna Scherer, damigella di onore ed intima della imperatrice Maria Feodòrovna, accogliendo il grave e impettito principe Basilio, che arrivava per primo alla veglia di lei. Anna Scherer avea tossito vari giorni di fila, afflitta da un fiero crup (parola scozzese allora nuova e da pochissimi adoperata). Nei biglietti diramati la mattina, per mezzo di un cameriere in livrea rossa, era scritto:
«Se voi – conte o principe – non avete di meglio in vista, e se non troppo vi spaventa la prospettiva di spender la serata in compagnia d’una povera inferma, sarò lieta di una vostra visita tra le 7 e le 9 di stasera.
Anna Scherer».
— Oh, oh! che furioso ed ingiusto attacco! – rispose il principe, non che turbato, con una espressione aperta e serena del viso piatto e schiacciato. Indossava l’uniforme gallonato di Corte, calze attillate, scarpini, e decorazioni.
Parlava in quel ricercato francese, nel quale parlavano, anzi pensavano i nostri nonni, con le intonazioni blande, carezzevoli, proprie di un uomo di conto, rotto al mondo e invecchiato nella Corte. Avvicinatosi ad Anna Scherer, curvò davanti a lei la testa calva e profumata, le baciò la mano e tranquillamente prese posto sul divano.
— Come state, prima di tutto? Rassicurate l’amico, disse in un tono di galante sollecitudine, dal quale trapelava anche una indifferenza beffarda.
— Come si può stare, quando si soffre moralmente? Si può forse viver tranquilli in un tempo come questo, quando si ha un po’ di sentimento? – protestò Anna Scherer. – Voi, spero, passerete la serata da me?
— E la festa dell’ambasciadore d’Inghilterra? Oggi è mercoledì. Non posso mancare. Verrà mia figlia a prendermi.
— Credevo che la festa fosse rimandata. Vi confesso che tutte coteste feste e fuochi d’artificio diventano insopportabili.
— Se avessero saputo del vostro desiderio, l’avrebbe ro di certo rimandata, – disse il principe con un formalismo meccanico da orologio, senza nessuna premura che gli si credesse.
— Via, non mi tormentate. Ma che si è poi deciso a proposito del dispaccio di Novosilzew? Voi, già, sapete tutto.
— Che dirvi?… Si è deciso che Bonaparte ha bruciato i suoi vascelli, e parrebbe che noi s’incominci a bruciare i nostri.
Il principe Basilio parlava sempre lento e svogliato, come un attore che reciti una vecchia parte. Anna Scherer invece, a dispetto dei suoi quarant’anni, era tutta fuoco e scatti. Godeva fama di entusiasta; epperò si mostrava tale, anche a non averne voglia, per non venir meno all’aspettazione della gente. Il suo mezzo sorriso, che mal s’accordava ai non freschi lineamenti, esprimeva, come nei ragazzi viziati, l’assidua coscienza di quel grazioso difetto, del quale ella non voleva, non poteva e non reputava necessario disfarsi.
Ingolfatasi nella discussione politica, Anna Scherer si accalorò fino ad irritarsi.
— Ah! non mi parlate dell’Austria! Può darsi benissimo ch’io non ci capisca niente, ma l’Austria non ha mai voluto la guerra, e non la vuole. L’Austria ci tradisce. Tocca a noi, alla sola Russia, salvar l’Europa. Il nostro benefattore ha coscienza del suo alto mandato, e non vi verrà meno. Questa è la mia fede incrollabile. Una gran parte è serbata nel mondo al nostro imperatore; ed egli è così buono, così nobile, che Dio non lo abbandonerà, e gli farà schiacciare l’idra rivoluzionaria incarnata in questo assassino e masnadiero. Noi, noi soli dovremo riscattare il sangue del giusto… E su chi si potrebbe contare, vi domando io?… L’Inghilterra, col suo spirito commerciale, non capirà mai tutta l’altezza d’animo dell’imperatore Alessandro. Si è rifiutata a sgombrar Malta. Cerca e vuol trovare per forza nelle nostre azioni un secondo fine. Che cosa han detto a Novosilzew?… Niente. Non intendono, no, il disinteresse del nostro imperatore, il quale nulla vuole per sè, e tutto pel bene del mondo. E che hanno promesso?… niente, o, se mai, non manterranno. Quanto alla Prussia, ha già riconosciuto che Buonaparte è invincibile e che tutta Europa è impotente contro di lui… Io non credo nemmeno una mezza parola di Hardenberg o di Haugviz. Cotesta decantata neutralità della Prussia è un tranello bell’e buono. Solo in Dio ho fede e negli alti destini del nostro amato Sovrano. Egli salverà l’Europa!
Tacque di botto, sorridendo del proprio calore.
— Io credo, – disse il principe in tono scherzoso, – che se avessero mandato voi in cambio del nostro simpatico Vinzengherode, avreste strappato d’assalto il consenso del re di Prussia. Che eloquenza!… Ma mi darete del tè?
— Subito. A proposito, aspetto stasera due personaggi molto interessanti: il visconte Mortemar, parente dei Montmorency per via dei Rohan, una delle più illustri famiglie di Francia. Un emigrato, ma di quei buoni… E poi l’abate Morio, sapete, uno spirito serio, profondo. È stato anche ricevuto dall’imperatore.
— Ah, sì? ne sarò lietissimo… E ditemi, è poi vero che l’imperatrice vedova desidera la nomina del barone Funcke a primo segretario presso l’ambasciata di Vienna? Una nullità, a quanto pare.
Il principe Basilio mosse la domanda con affettata noncuranza, benchè fosse quello il vero scopo della sua visita. Ambiva quel posto per il proprio figliuolo, e assai gli cuoceva che altri brigasse presso l’imperatrice in favore del barone.
Anna Scherer chiuse gli occhi a mezzo, come per dire che a nessuno al mondo era dato giudicare delle simpatie e delle intenzioni dell’imperatrice.
— Il barone Funcke è raccomandato all’imperatrice madre dalla sorella di lei, – disse poi in tono dolente e di profonda devozione, come accadevale quante volte ricordasse la sua augusta protettrice. – Sua Maestà si degna mostrarsi assai benevolente verso il barone.
Il principe tacque, simulando indifferenza. Anna Scherer, con la fine destrezza femminile e di Corte, avea voluto punzecchiarlo per la sua temerità nel parlare di una persona raccomandata all’imperatrice; ma subito s’ingegnò di consolarlo.
— A proposito della vostra famiglia, – disse, – sapete che vostra figlia, da che ha preso a frequentare la società, forma l’ammirazione di tutti? La trovano bella come un occhio di sole.
Il principe s’inchinò in segno di riconoscenza.
— Tante volte io penso, – proseguì Anna Scherer, dopo un minuto di silenzio, accostandosi al principe e sorridendogli, come per mostrare che ai discorsi politici e mondani sottentravano oramai le espansioni affettuose; – tante volte io penso alla ingiusta distribuzione della felicità nella vita. Perchè mai la sorte vi ha dato due perle di figliuoli,… ne escludo Anatolio, l’ultimo, che non mi piace affatto,… due creature veramente invidiabili? E dire che voi li apprezzate meno di tutti, epperò non li meritate.
— Che volete?… Lavater avrebbe trovato che a me fa difetto il bernoccolo dell’amor paterno.
— Da banda gli scherzi. Io davvero, parlando sul serio, sono scontenta del vostro Anatolio. A dirla fra noi, anche in Corte s’è fatto il suo nome alla presenza di Sua Maestà, e vi si è compatito.
Il principe aggrottò le sopracciglia.
— E che vorreste ch’io facessi! – disse poi. – Sapete benissimo che nulla ho trascurato per la loro educazione, e tutti e due mi son riusciti cattivi. Ippolito almeno è uno sciocco tranquillo; Anatolio è irrequieto: ecco l’unica differenza.
E qui sorrideva con meno naturalezza del solito, mostrando nelle rughette agli angoli della bocca non so che di burbero e di poco simpatico.
— Ma perchè, dico io, un uomo del vostro stampo deve aver dei figli? Se non foste padre, non avrei davvero che cosa rimproverarvi.
— Io sono il vostro schiavo fedele, epperò solo a voi posso confessare in tutta confidenza, che i miei figli sono il peso più grave della mia esistenza. Questa, si vede, è la mia croce. Che farci?
— E come va che non pensaste mai a dargli moglie, al vostro figliuol prodigo? Dicono che le vecchie zitelle hanno la mania dei matrimoni. Per me, non l’avverto ancora questo debole; ma ho in vista una certa personcina, nostra parente, la principessina Bolconski, che è molto infelice in casa di suo padre.
Il principe Basilio non rispose a parole; ma con la prontezza e l’acume dell’uomo di mondo, mostrò crollando il capo di prendere in buon conto quelle informazioni.
— No, – disse poi, non riuscendo a sviare il corso malinconico dei suoi pensieri, – voi forse ignorate che quel benedetto Anatolio non mi costa meno di 40 mila rubli all’anno. E che sarà da qui a cinque anni? Ecco quel che si guadagna ad esser padre. È ricca la vostra principessina?
— Il padre è ricchissimo e avaro. Vive in campagna. Sapete, il famoso principe Bolconski, che fu messo al riposo sotto il defunto imperatore, e che chiamavano il re di Prussia. Uomo intelligente, ma bisbetico e pesante. La poverina è infelicissima. Ha un fratello, quello che da poco ha sposato Lisa Meinen, l’aiutante di Kutusow. Stasera verrà qui.
— Sentite, cara Annetta, – disse il principe, prendendo per mano la sua interlocutrice. – Aggiustatemi questo affare, ed io sarò in eterno il fedelissimo fra i vostri schiavi. Un casato illustre, una buona dote… è tutto quel che mi bisogna.
E con la disinvolta familiarità che gli era propria, baciò la mano della damigella d’onore, la strinse leggermente e la carezzò, sdraiandosi finalmente nell’angolo del divano e volgendo altrove lo sguardo indifferente.
— Aspettate, – disse Anna Scherer, dopo aver pensato un poco. – Stasera stessa ne parlerò a Lisa Bolconski. Chi sa che non mi riesca… Incomincerò con la vostra famiglia a imparare il mestiere di vecchia zitella.
II
Il salotto di Anna Scherer si andò man mano popolando. Il più alto patriziato di Pietroburgo vi si dava convegno, gente varia di età e di carattere, ma parificata dalla società cui apparteneva. Arrivò la figlia del principe Basilio, la bellissima Elena, venuta a cercare il padre per andare insieme alla festa dell’ambasciadore. Era in abito da ballo con la cifra imperiale. Venne la principessa Bolconski, una personcina che avea fama della più seducente donna di Pietroburgo. Maritatasi l’inverno precedente, avea smesso di frequentare il così detto gran mondo, a motivo del suo stato interessante, e non si mostrava che nelle piccole serate. Venne il principe Ippolito, figlio del principe Basilio, con Mortemar, da lui presentato, l’abate Morio e molti altri.
— Non avete ancora visto o forse non conoscete mia zia? – diceva la padrona di casa agli ospiti, via via che arrivavano. Poi, con la massima serietà, li menava al cospetto di una vecchietta infronzolita sbucata dalle camere interne, li presentava per nome e per titoli, e subito se la svignava. Uno dopo l’altro soggiacevano gli ospiti alla cerimonia dei convenevoli con quel personaggio superfluo, sconosciuto e tutt’altro che interessante. A ciascuno la zia rivolgeva le medesime frasi sulla salute del visitatore, sulla propria e su quella di Sua Maestà che adesso, grazie a Dio, andava migliorando. Tutti i presentati, che per convenienza non davano a vedere nessuna sorta di fretta, traevano un sospiro di sollievo allontanandosi dalla vecchia, col fermo proposito di non accostarlesi più per l’intiera serata.
La giovane principessa Bolconski avea portato il suo lavoro in una sacchettina di velluto ricamato in oro. Il labbro superiore di lei, ombreggiato da una fine peluria, corto anzi che no, lasciava allo scoperto i denti bianchissimi e si abbassava con grazioso sforzo sull’inferiore. Questo difetto, come sempre accade in una bella donna, era stimato un pregio singolare, un carattere spiccato della sua bellezza. Era un piacere contemplare questa giovane madre, riboccante di salute e di vivacità, che con tanta disinvoltura sopportava la sua delicata posizione. Gli uomini attempati, non che i giovani annoiati della vita, dopo scambiate con lei alcune parole, si figuravano volentieri di essersi rifatti a nuovo. Tutti poi, vedendo quel suo luminoso ed assiduo sorriso, lo attribuivano soddisfatti alla propria amabilità e ad una speciale efficacia della propria conversazione.
Dondolandosi un poco, a passettini rapidi e brevi, la piccola principessa girò intorno alla tavola e, senza lasciare la sua sacchettina, si aggiustò le pieghe della gonna, e prese posto sul divano, vicino al bricco argenteo del tè. Checchè facesse, pareva intesa a rallegrar sè stessa e quanti la circondavano.
— Ho portato con me da lavorare, – disse, aprendo la sacchettina e rivolgendosi a tutti insieme. – E voi, Annetta, badate a non giocarmi un brutto tiro. Mi avete scritto che si trattava di una serata intima, alla buona. Vedete come son vestita male.
Così dicendo, apriva le braccia per mostrare il suo elegante abito grigio, ornato di pizzi, con un largo nastro di seta sotto il seno.
— Rassicuratevi, – rispose Anna Scherer, – sarete sempre la più carina.
— Sapete, – si volse la principessa ad un generale, – mio marito mi abbandona per andare incontro alla morte… Ma dite un po’, principe Basilio, perchè mai questa maledetta guerra?
E senza aspettar la risposta, appiccò subito discorso con la figlia del principe.
— Che personcina incantevole questa piccola principessa! – disse piano il principe ad Anna Scherer.
Di lì a poco, entrò nel salotto un giovane massiccio, robusto, rasi i capelli e con gli occhiali. Secondo la moda dell’epoca, portava calzoni chiari, giubba color cannella ed ampia gala allo sparato della camicia. Era questi figlio naturale del conte Besuhow, famoso ai tempi di Caterina e di recente tornato a Mosca. Arrivato testè dall’estero, dov’era stato educato, Piero – chè così il giovane chiamavasi – si mostrava per la prima volta in società. La padrona di casa lo accolse con un mezzo saluto, non senza mostrare in viso una certa apprensione, come alla vista di qualche cosa troppo grande e sproporzionata. Piero infatti era più alto di tutti i convitati; ma quell’apprensione della Scherer era forse originata dallo sguardo intelligente e timido insieme, semplice e perspicace, che distingueva il giovane da quanti altri popolavano il salotto.
— Molto gentile da parte vostra, signor Piero, d’esser venuto a trovare una povera ammalata, – gli disse Anna Scherer, presentandolo alla zia e scambiando con questa uno sguardo spaurito.
Piero brontolò una risposta confusa e continuò a girar gli occhi intorno, come se cercasse qualcuno o qualche cosa. Di botto sorrise, s’inchinò da lontano alla piccola principessa e si avvicinò alla zia. Non a torto Anna Scherer avea temuto, poichè Piero, senza aspettar la fine del discorso sulla salute di Sua Maestà, piantò in asso la vecchia.
— Non conoscete l’abate Morio? – gli domandò Anna Scherer, fermandolo. – È un uomo interessantissimo.
— Sì, ho sentito parlare del suo progetto di pace perpetua… Interessante, ma poco attuabile.
— Credete? – domandò Anna Scherer, tanto per dir qualche cosa; e subito volle tornare alle sue funzioni di padrona di casa. Ma Piero commise qui una seconda goffaggine. Prima, avea piantato a mezzo la sua interlocutrice; ora tratteneva quest’altra, cui premeva allontanarsi. Allargando le gambe, curvando la testa, prese a dimostrare per filo e per segno perchè proprio il progetto dell’abate gli paresse un’utopia.
— Avremo tempo a discorrerne, – lo interruppe sorridendo Anna Scherer.
E, lasciato lì il povero novizio, ignaro degli usi civili, tornò alle sue occupazioni, e prese ad osservare intorno e a porger l’orecchio, pronta a correre in aiuto del punto debole, dove la conversazione languisse. Come il direttore d’una filanda, collocati a posto i suoi operai, passeggia per l’opificio, nota l’immobilità o il soverchio stridere d’un fuso, e accorre con prontezza a metterlo in moto o ad arrestarlo; così Anna Scherer, aggirandosi nel suo salotto, si accostava ad un gruppo taciturno o troppo loquace, e con una parola o un semplice spostamento, rimetteva in moto regolare ed uniforme la macchina della conversazione. Ma, fra tante cure, trapelava sempre in lei la paura di Piero. Con lo sguardo ansioso lo vide avvicinarsi e prestare ascolto a quanto dicevasi nel capannello del visconte Mortemar, per poi passare all’altro dove arringava l’abate. Per Piero, educato all’estero, quella serata era la prima che vedesse in patria. Sapeva che qui raccoglievasi il fior fiore della intelligenza, e come ad un fanciullo in un magazzino di giocattoli, gli balenavano gli occhi. Temeva di lasciarsi sfuggire qualche luminoso brano di dialogo. Osservando le fisonomie gravi, convinte, degli eleganti personaggi qui convenuti, si aspettava a tutti i momenti qualche cosa di specialmente ingegnoso ed eccezionale. Si accostò finalmente a Mortemar. La conversazione gli sembrò interessante, epperò si fermò, aspettando il destro, come sogliono i giovani, di esprimere il proprio modo di vedere.
III
La serata oramai andava a tutta macchina. I fusi da tutte le parti giravano e cigolavano con moto uniforme. Oltre la zia, accanto alla quale sedeva una sola signora attempata e piagnona, alquanto estranea alla brillante brigata, la società erasi divisa in tre gruppi. Di uno, quasi tutto maschile, era centro l’abate; in un altro, giovanile, rifulgevano la bella principessa Elena, figlia del principe Basilio, e la piccola Bolconski, graziosa, rubiconda, e troppo pienotta per l’età sua. Del terzo erano anima Mortemar e Anna Scherer.
Il visconte Mortemar era un giovane di bell’aspetto, tratti delicati, modi gentili. Si reputava evidentemente una celebrità, ma, per benigna condiscendenza, adattavasi alla società in cui si trovava e consentiva che della sua compagnia si godesse. Anna Scherer lo imbandiva, per dir così, ai suoi ospiti, come un bravo cuoco offre sotto forma di prelibato manicaretto quel pezzo di carne che nessuno porterebbe alla bocca se lo si fosse visto nelle sudice manipolazioni culinarie. Anna Scherer serviva in tavola prima il visconte, poi l’abate, come cibi di qualità sopraffina. Nel gruppo di Mortemar venne subito in discorso l’uccisione del duca d’Enghien. Assicurava il visconte che il duca erasi perduto per magnanimità di carattere, e che l’irritazione di Bonaparte era stata originata da speciali motivi.
— Ah sì! raccontate, visconte, raccontate, – disse tutta lieta Anna Scherer, con l’intonazione che a tempo di Luigi XV si dava alla frase: Contez-nous cela, vicomte.
Il visconte s’inchinò sorridente in segno d’obbedienza. Anna Scherer gli fece circolo intorno e invitò tutti ad ascoltare il racconto.
— Il visconte ha conosciuto personalmente il povero duca, – bisbigliò ad uno Anna Scherer. – Il visconte è un narratore impareggiabile, – assicurò ad un altro. – Si vede subito l’uomo di buona società, – disse ad un terzo. E così il visconte fu servito ai commensali nella sua luce più favorevole, come un rosbiffe sopra un piatto ben caldo, asperso di spezie ed erbette.
Il visconte volea già incominciare il suo racconto, e atteggiava le labbra ad un fine sorriso.
— Venite qui, Elena cara, – disse Anna Scherer alla bella principessina, che un po’ più in là formava centro di un altro gruppo.
La principessina Elena si alzò con sulle labbra lo stesso inalterabile sorriso col quale era apparsa in salotto: sorriso consciente di suprema bellezza. Con un fruscio della bianca veste da ballo, ornata di edera, abbagliante per candore di spalle e per luccichio di capelli e di brillanti, passò fra gli uomini che le davano il passo; e senza guardar nessuno, ma a tutti concedendo di ammirare lo splendore del busto ricolmo superbamente, emergente dal basso scollo secondo la moda del tempo, si avvicinò ad Anna Scherer. Era così bella, che non solo non appariva in lei ombra di civetteria, ma pareva al contrario che le rimordesse il forte ed immancabile effetto di una grazia trionfatrice, che avrebbe voluto temperare, se le fosse stato possibile.
— Che bellezza! – si esclamava intorno.
Il visconte, quasi colpito da un improvviso bagliore, abbassò le palpebre, mentre Elena gli sedeva accanto gratificando anche lui del suo inalterabile sorriso.
— Davvero, – disse tra serio e gioviale, – ho paura di venir meno all’aspettazione, al cospetto di un pubblico simile.
La principessina appoggiò ad un tavolino il braccio nudo e tornito e non credette necessario rispondere. Sorrideva e aspettava.
Durante tutto il racconto, eretta sulla sua seggiola, ora dava un’occhiata al braccio i cui contorni eran rialzati dalla pressione del gomito, ora al seno stupendo sul quale andava aggiustando il vezzo di brillanti, ora rassettava le pieghe della gonna. Nei punti di maggiore effetto, sogguardava al Anna Scherer, e subito assumeva la stessa espressione di lei, tornando poi a sorridere come prima.
Anche la piccola principessa Bolconski, lasciata la tavola del tè, s’era unita al gruppo degli ascoltatori.
— Aspettate, – disse. – Prendo il mio lavoro. Ma che fate voi costì? a che pensate, principe Ippolito? Portatemi qui la mia sacchettina.
Ridendo, discorrendo un po’ con tutti, pigliando posto, arrestò per un momento l’inizio del racconto.
— Adesso sto benissimo, cominciate pure… Date qua, principe.
Il principe Ippolito le porse la sacchettina e le sedette accanto.
Era singolare la somiglianza del grazioso Ippolito con la sorella Elena, tanto più che egli era singolarmente brutto. I lineamenti del viso erano identici; se non che nella sorella sfolgoravano di vita e di classica bellezza, mentre in lui erano annebbiati da un idiotismo costante e da una sciatteria voluta e consciente. Gli occhi, il naso, la bocca, gli si torcevano in una smorfia di noia indefinita, le braccia e le gambe prendevano sempre posizioni goffe e poco naturali.
— Non si tratta mica di una storia di spiriti? – disse,
mettendosi a sedere e inforcando le lenti, come se non potesse parlare senza l’aiuto di quell’istrumento.
— Nemmen per sogno, – protestò stupito il visconte.
— Gli è che le storie di spiriti non le posso soffrire, – spiegò il principe Ippolito, senza capire alla prima quel che gli usciva di bocca.
Parlava con tanta sicumera, che non era facile giudicare se avesse detto una scioccheria o una cosa ingegnosa. Indossava una giubba verde-scuro, calzoni color fianco di ninfa spaurita, com’egli stesso esprimevasi, calze attillate e scarpini.
Il visconte prese a narrare assai piacevolmente un aneddoto diffuso a quel tempo. Il duca d’Enghien era andato a Parigi per un suo segreto convegno con madamigella Georges, e l’avea colta in colloquio con Bonaparte, cui la famosa attrice largiva anche i suoi favori. L’incontro improvviso avea fatto cadere Napoleone in uno di quegli svenimenti cui andava soggetto, e messolo in piena balìa del duca, il quale cavallerescamente non erasi giovato del vantaggio. Generosità vana e pericolosa, perchè in seguito Bonaparte non gliela perdonò, anzi ne trasse vendetta, facendolo assassinare.
Il racconto era palpitante d’interesse, specie nel punto drammatico dell’incontro fra i due rivali. Le signore erano profondamente commosse.
— Magnifico! – esclamò Anna Scherer, volgendo alla piccola Bolconski un’occhiata.
— Magnifico! – fece eco costei, appuntando l’ago nel lavoro, come per dare a vedere di non poter continuare, tanto il dramma l’assorbiva. Il visconte apprezzò quel muto elogio, e con un sorriso soddisfatto riprese il filo un momento interrotto. Ma in quel punto, Anna Scherer, che tratto tratto sbirciava il giovanotto pericoloso, lo sentì che disputava a voce alta con l’abate, e subito accorse al riparo. Piero infatti aveva intavolato con l’abate una discussione sull’equilibrio politico; e l’abate, tutto lieto dell’ingenuo ardore del giovane, gli andava spiegando la sua idea favorita. Tutti e due parlavano con impeto e con soverchio calore, il che non garbava alla padrona di casa.
— Il mezzo è uno, – diceva l’abate: – l’equilibrio europeo, l’osservanza, in altri termini, del diritto delle genti. Basta che una grande potenza, come la Russia, stimata per barbara, si metta disinteressatamente a capo della lega per ristabilire l’equilibrio turbato, e il mondo è salvo!
— Ma come lo ristabilite voi cotesto equilibrio? – gridava Piero; e voleva proseguire, quando Anna Scherer gli fu sopra, lo fulminò con un’occhiata, e domandò all’abate italiano come sopportava i rigori del clima nordico. Il viso dell’abate, trasformatosi di botto, assunse un’espressione tra l’insolente e il mellifluo, che gli era consueta, si vede, nel discorrere con le donne.
— Son così incantato, – rispose l’abate, – dei pregi intellettuali e dei modi della società, specialmente femminile, nella quale ebbi la fortuna di essere accolto, che non m’è venuto fatto di pensare al clima.
Per non lasciarli soli e per meglio tenerli sott’occhio, Anna Scherer li attirò entrambi, l’abate e Piero, nel circolo che faceva corona al visconte.
Entrò a questo punto un novello personaggio, il giovane principe Andrea Bolconski, marito della piccola principessa. Era un giovane di mezzana statura, molto avvenente, dai lineamenti duri e spiccati. Tutto nel suo aspetto, dallo sguardo stanco e annoiato fino al passo misurato e piano, era un’antitesi stridente con la irrequieta vivacità della moglie. Non uno dei presenti gli era ignoto; ma tutti, senza eccezione, a tal segno lo fastidivano, da fargli passare ogni voglia di guardarli o di sentirli a discorrere. Il maggior fastidio pareva venirgli dal visino grazioso della moglie. Di mala grazia e torcendo la bocca, le voltò le spalle. Baciò poi la mano alla padrona di casa e sbirciò, stringendo gli occhi, tutta la società.
— Vi apparecchiate, principe, a partir per la guerra? – domandò Anna Scherer.
— Al generale Kutusow, – rispose Bolconski, – è piaciuto scegliermi per suo aiutante.
— E Lisa, vostra moglie?
— Se n’andrà in campagna.
— E non avete rimorso di privar noi della vostra adorabile sposa?
— Andrea, – disse la moglie, rivolgendosi a lui con lo stesso tono civettuolo che adoperava con gli estranei, – se sapessi che storia ci ha narrato il visconte a proposito di madamigella Georges e di Bonaparte!
Il principe Andrea fece il cipiglio e si voltò in là. Piero, che al primo vederlo entrare, avea preso a guardarlo con occhi allegri e affettuosi, gli si accostò e lo prese per mano. Il principe, all’improvviso contatto, non seppe contenere una smorfia di disgusto; ma, vedendo il viso aperto e sorridente di Piero, sorrise anch’egli con bonarietà confidenziale.
— Bravo! – esclamò. – Anche tu nel gran mondo?
— Sapevo che vi ci avrei trovato, – rispose Piero; e soggiunse a voce più bassa, per non disturbare il visconte narratore: – verrò a cena da voi… Volete?
— No, – disse ridendo il principe Andrea, e nel tempo stesso gli stringeva la mano per fargli intendere che certe domande non si fanno. Volea anche dire dell’altro, ma in quel punto si alzò il principe Basilio con la figlia, e i due giovani si tirarono indietro per dar loro il passo.
— Mi scuserete, caro visconte, – disse il principe Basilio al francese, trattenendolo amabilmente per la manica perchè non s’alzasse. – Questa benedetta festa dell’ambasciadore mi priva di un piacere e mi costringe ad interrompervi. Mi dispiace sinceramente, gentilissima amica mia, di lasciare la vostra incantevole serata.
Elena, sua figlia, leggermente raccogliendo le pieghe della gonna, sgusciò fra le seggiole, e continuò, come sempre, a sorridere. Piero, vedendosi passar davanti quella stupenda figura di donna, la fissò con occhi estasiati e quasi spauriti.
— Bella davvero, – disse il principe Andrea.
— Bellissima! – confermò Piero.
Il principe Basilio prese Piero per mano e si volse ad Anna Scherer.
— Addomesticatemi quest’orso, – disse. – È da un mese che abita in casa mia, e stasera è la prima volta che lo vedo in società. Niente è così necessario ad un giovane, quanto la compagnia delle donne intelligenti.
IV
Anna Scherer sorrise e promise di occuparsi di Piero, ch’ella sapeva parente del principe Basilio dal lato paterno. La signora attempata, che già teneva compagnia alla zia, si alzò frettolosa e raggiunse il principe Basilio in anticamera. Il buon viso triste di lei esprimeva ora una paurosa trepidazione.
— E del mio Boris, principe, che mi dite? – domandò con voce supplice. – Io non posso più a lungo rimanere a Pietroburgo. Che buone nuove porterò al mio povero ragazzo?
Benchè il principe l’ascoltasse mal volentieri e perfino con impazienza, ella lo guardava quasi con tenerezza e, perchè non le sfuggisse, lo prese per mano.
— Che vi costa a voi? – pregò. – Una vostra parola all’imperatore, e lo destinerebbe subito alla Guardia.
— Farò il possibile, principessa, credetemi, —rispose il principe Basilio, – ma non mi sarà facile parlarne a Sua Maestà. Io vi consiglierei di rivolgervi a Rumianzow per mezzo del principe Galizin: sarebbe assai meglio.
La signora attempata era la principessa Drubezkoi, uno fra i più bei nomi di Russia; se non che era povera, viveva fuori della società ed avea perduto le sue prime relazioni. Era venuta qui, dalla Scherer, benchè non invitata, per sollecitare la destinazione del figlio nella Guardia. Solo per vedere il principe Basilio, s’era piegata a tener compagnia alla vecchia zia e ad ascoltare il racconto del visconte. Le parole del principe Basilio la spaventarono. Una lieve ombra di dispetto le passò sul viso, ma non durò che un istante. Ella tornò a sorridere e strinse più forte la mano al principe.
— Sentite, principe, – disse. – Io non vi ho mai pregato, nè vi pregherò, non vi ho mai ricordato l’amicizia di mio padre per voi. Ma adesso, ve ne supplico in nome di Dio, fatelo per mio figlio, adoperatevi per lui, ed io vi sarò grata per tutta la vita. No, non andate in collera, promettetemelo. A Galizin mi son già rivolta, e ne ho avuto un rifiuto. Siate buono come una volta, – soggiunse, sforzandosi di sorridere, mentre le lagrime le venivano agli occhi.
— Papà, arriveremo in ritardo, – disse la figlia che aspettava verso la porta, voltando la bella testa sulle spalle scultorie.
Ma l’influenza è tal capitale nel mondo, che bisogna tener di conto se non si vuole che vada in fumo. Il principe Basilio lo sapeva, epperò ben di rado se ne giovava, pensando che a furia di sollecitare per gli altri, non avrebbe avuto più modo di sollecitar per conto proprio. Se non che, le ultime parole della Drubezkoi gli fecero sentire una certa punta di rimorso. Al padre di lei, senza dubbio, egli era obbligato dei primi passi nella sua carriera. Capiva inoltre esser lei una di quelle donne, specialmente madri, che una volta fittosi un chiodo nella testa, non desistono finchè non si vedono contentate; e nel caso opposto, son pronte ad ogni sorta d’insistenze e di persecuzioni assidue, quotidiane, e perfino a far delle scene. Quest’ultimo timore lo scosse.
— Cara signora, – disse col solito suo tono di familiarità annoiata, – per me, mi è quasi impossibile di fare quel che desiderate; ma per mostrarvi il mio buon volere e la memoria che serbo di vostro padre, metterò in opera ogni mezzo… Vostro figlio sarà destinato alla Guardia. Eccovi qua la mano. Siete contenta?
— Oh, voi siete il nostro benefattore! Non mi aspettavo di meno, sapevo e so quanta bontà è la vostra… Ma no, aspettate… Ancora due parole… Una volta destinato alla Guardia… voi siete in buoni rapporti con Kutusow… raccomandategli che prenda mio figlio per aiutante. Allora sarei tranquilla, e allora poi…
Il principe Basilio sorrise.
— Cotesto non ve lo prometto. Voi non sapete come sia assediato di domande quel povero Kutusow, dopo che gli han dato il comando in capo. Tutte le signore di Mosca, me l’ha detto egli stesso, hanno congiurato perchè i loro figli siano suoi aiutanti.
— No, promettete, datemi la vostra parola, non vi lascio andare, angelo mio protettore…
— Papà, faremo tardi, – tornò ad ammonire la figlia.
— Orsù, a rivederci, addio… Non vedete?
— Sicchè domani parlerete a Sua Maestà?
— Senza meno… Ma in quanto a Kutusow, non vi prometto.
— No, no, promettete, Basilio! – gli gridò dietro la Drubezkoi, con un sorriso civettuolo, che forse un tempo le era naturale, ma che stonava ora maledettamente su quel suo viso appassito. Avea dimenticato i suoi anni, e metteva in opera, senza pur saperlo, le antiche moine muliebri. Ma non appena il principe fu uscito, quel viso ridivenne freddo e inespressivo. Tornata in salotto, dove il visconte continuava a raccontare, ella fece le viste di ascoltare intenta, aspettando l’ora di battersela, visto che aveva ormai provveduto al fatto suo.
— Ma che ne dite dell’ultima commedia dell’incoronazione a Milano? – esclamò la Scherer. – Ed eccone un’altra: le popolazioni di Genova e Lucca espongono i loro voti al signor Buonaparte, e il signor Buonaparte, dall’alto del trono, dispensa ai popoli le sue grazie… Che spettacolo, eh?… c’è da ammattirne, parola d’onore. Si direbbe che il mondo intiero abbia perduto la testa.
Il principe Andrea le si volse ridendo.
— Dio me l’ha data; guai a chi la tocca, – disse. – Pare che fosse bellissimo nel pronunziare questa frase.
— E spero che sia stata questa la goccia che fa traboccare