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FISCO. Le tasse del futuro
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E-book205 pagine2 ore

FISCO. Le tasse del futuro

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Meno Irpef o meno sconti? Taglio al cuneo fiscale o taglio ai sussidi? Che futuro per l'Irap? Pagamenti tracciati o spazio (ancora) al contante?
Il Fisco torna ancora una volta al centro dell'agenda politica. Questa volta l'ambizione del Governo è di mettere mano a una riforma del sistema tributario. Con scelte, come quelle sottolineate dalle domande iniziali, che prenderanno forma nei prossimi mesi. Il Sole 24 Ore ha ospitato sulle sue pagine una serie di interventi che hanno affrontato il tema della riforma da più punti di vista. E che ora vengono riprodotti, con alcuni inediti, in questo libro per consentire di farsi un'idea chiara del sistema fiscale attuale, delle possibili linee guida di una riforma e dell'impatto che le scelte potrebbero avere su persone fisiche, imprese e lavoro autonomo. La ricchezza del confronto deriva anche dalla composizione del panel degli autori. Si succedono i contributi di chi ha alternato il ruolo di studioso a quello di ministro, di docenti universitari e professionisti. Esperienze differenti, punti di vista diversi, per aiutarci a capire dove andrà il Fisco del futuro.

LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2020
ISBN9788863457599
FISCO. Le tasse del futuro

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    Anteprima del libro

    FISCO. Le tasse del futuro - Aa.vv.

    Prefazione

    —Jean Marie Del Bo

    La riforma del sistema fiscale è uno degli obiettivi che il Governo si è posto per i prossimi anni. Con l’intenzione di partire in tempi brevi con almeno una prima parte di interventi.

    Il percorso non sarà facile. Realizzare una riforma vuol dire incidere su posizioni tutelate, cambiare le priorità, fare scelte di valore che caratterizzano una società. Resta, poi, da capire se sarà possibile qualificare le misure che saranno introdotte nel nostro sistema con la giustamente ambiziosa definizione di riforma fiscale o se, invece, non assisteremo, come già avvenuto in passato, all’introduzione di ritocchi privi di una logica sistematica.

    L’occasione, però, è quasi unica. Usciamo da un’esperienza, quella della pandemia, che ha sconvolto le nostre abitudini, inciso sul nostro modo di pensare, provocato una crisi economica senza precedenti e convinto anche i più scettici che si apre una finestra di opportunità per certi versi irripetibile per superare alcuni difetti storici del nostro Paese. Fra questi difetti c’è certamente il cattivo funzionamento di un sistema fiscale confuso, spesso iniquo, inutilmente complicato e talvolta inefficiente.

    In realtà, il tema della riforma fiscale era già nell’agenda del Governo almeno dall’inizio del 2020. Il progetto era stato rilanciato dal ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, il 30 gennaio in occasione di Telefisco e il direttore del Sole 24 Ore, Fabio Tamburini, aveva promosso un dibattito sulle colonne del quotidiano dai giorni immediatamente successivi a Telefisco. Confronto che è continuato fino alle settimane passate, attraversando il periodo del lockdown.

    Da qui deriva la struttura del libro che avete fra le mani. Il volume, infatti, dopo un’introduzione storica di Enrico De Mita e un quadro della situazione di partenza di Salvatore Padula riporta, in rigoroso ordine cronologico, una serie di interventi di docenti universitari, professionisti e studiosi che in questi mesi hanno contribuito al dibattito avviato dal Sole 24 Ore e che, in molti casi, hanno avuto anche rilevanti responsabilità di Governo. L’ordine cronologico registra come il confronto, iniziato con grande entusiasmo, abbia subito uno stop per la pandemia per poi riemergere con considerazioni e caratteristiche in parte differenti al momento della ripartenza del Paese.

    Il tema ora ritorna con tutta la sua forza. La raccolta in un unico volume dei contributi pubblicati sul Sole 24 Ore in questi mesi, insieme ad alcuni inediti, vuole offrire l’opportunità di collegare gli stimoli venuti dagli autori che si sono confrontati. Per dare un ulteriore contributo all’elaborazione teorico-pratica che non può non accompagnare una riforma.

    Introduzione

    —Enrico De Mita

    Il Governo è intenzionato a riportare al centro della propria azione il tema della riforma fiscale. Tema ambizioso che non può prescindere da un’analisi storica della riforma del 1971 e dei suoi esiti, dato che questo passaggio ha un valore fondativo del nostro sistema tributario. Da qui l’opportunità di un’analisi del passato che guarda al futuro. Di un’analisi che esamina quanto è stato fatto negli ultimi decenni e quali lezioni se ne possono trarre nel momento in cui si torna a parlare di una riforma.

    La storia dei tributi in Italia è soprattutto il succedersi di questioni, a volte politiche, a volte giuridiche, che non hanno ancora dato vita a un sistema.

    I temi più ricorrenti e importanti sono quelli della legalità, della parità di trattamento, della semplificazione legislativa, delle irrazionalità incostituzionali, del federalismo, della famiglia, della tutela del contribuente, dei giudici tributari, della formazione dei professionisti e dei magistrati, dei compiti della dottrina e dei rapporti di essa con la politica.

    Anche oggi, rispetto al sistema uscito dalla riforma del 1971 ci si chiede se si tratti di modello sbagliato o di cattiva applicazione. Si può forse optare per la seconda ipotesi, ma non nel senso di una voluta deviazione dal modello, bensì di forti difficoltà che si possono riassumere in un condizionamento politico che, se ha consentito certi risultati, ha lasciato sopravvivere molti difetti.

    I problemi principali che la riforma del 1971 si era prefissata di correggere erano: la complessità del sistema, sia dal punto di vista del numero dei tributi sia da quella della qualità delle leggi; l’impossibilità di valutare in termini di costi il carico tributario; l’insopportabilità delle aliquote, tale da scoraggiare la produzione di un maggior reddito; la sperequazione dei redditi, dovuta sia alla diversità delle aliquote sia all’evasione.

    La riforma del 1971 aveva puntato sulla semplificazione legislativa, sulla tassazione personale o progressiva (Irpef) come pietra angolare, insieme all’Irpeg e all’Iva, di un sistema semplificato e perequato. Premessa di tutto questo doveva essere la riforma dell’Amministrazione, da realizzare prima della stesura di nuove leggi.

    Malgrado gli effetti quantitativi della riforma (numero dei contribuenti, gettito, prevalenza delle imposte dirette), la situazione odierna è ancora caratterizzata da una diluviale e disordinata produzione legislativa e da una forte sperequazione nella tassazione progressiva. L’Irpef, convengono gli osservatori, non è un’imposta sul reddito complessivo, ma solo su alcuni redditi, in particolare su quelli di lavoro.

    Anche in questo caso si può dire che non si tratti di un modello sbagliato ma della sua cattiva applicazione. Hanno agito soprattutto il condizionamento politico, la vita sociale e politica del Paese che hanno sortito un risultato che si può così esporre: redditi dell’agricoltura colpiti in misura irrilevante, l’industria gravata più dei servizi; il lavoro dipendente più del lavoro autonomo; la grande impresa più della piccola; i redditi finanziari sfuggenti alla progressività.

    Le cause sono di ordine diverso. Prima di tutto, già dal punto di vista giuridico, i redditi non sono entità omogenee; redditi effettivi e redditi medi, redditi netti e redditi lordi: quelli contemplati dal Testo unico sono entità diverse per l’inevitabile semplificazione dei concetti, che in comune hanno solo la denominazione e la derivazione da una fonte produttiva. Mentre il concetto economico di reddito è un’entità rigorosa in quanto astratta, il concetto giuridico è un’espressione empirica per forza di cose, differenziata anche da ragioni di carattere storico.

    Il legislatore fa riferimento a rapporti e concetti formali tratti dal diritto civile: il possesso dei beni, i contratti di investimento di capitale, i contratti di lavoro, le diverse forme di società come fonte prevalente del reddito d’impresa. A questo inevitabile scoglio giuridico gli economisti danno il nome di erosione legale e individuano nell’erosione la causa, insieme all’evasione, della sperequazione.

    A questa prima causa bisogna aggiungerne una seconda, non meno significativa, la forza contrattuale che le diverse categorie di contribuenti hanno avuto e hanno nei confronti del Governo.

    Il Parlamento ha raggiunto la consapevolezza di essere servitore di due padroni, il Governo che lo imprigiona con le leggi delega e i decreti legge e gli interessi organizzati che si traducono anche in forza elettorale.

    L’insoddisfazione per l’applicazione della riforma è dovuta, anche e soprattutto, all’alterazione continua del principio di legalità: un principio costituzionale che vuole garantire la posizione del contribuente di fronte allo Stato e secondo il quale nessuna prestazione tributaria può essere imposta se non in base alla legge.

    La riforma nacque anche come esigenza di semplificazione legislativa, ma tale semplificazione non c’è stata. Si impone, pertanto, una riflessione sulla portata attuale del principio di legalità, sottolineando come esso sia stato alterato nella realtà.

    Il profilo teorico è molto semplice da enunciare: l’imposta deve avere la sua base di legge, sufficientemente determinata nei suoi elementi essenziali. Per legge s’intendono tutti i procedimenti legislativi (legge ordinaria, decreto legge, decreto legislativo, leggi regionali, regolamenti comunitari, direttive comunitarie che siano incondizionate o sufficientemente precise). Ciò che non è riservato alla legge appartiene al potere regolamentare.

    La complessità del nostro sistema è enorme; andiamo verso la mostruosità del punto di vista della quantità delle leggi e del loro scoordinamento. In Italia abbiamo una disordinata ed esorbitante produzione legislativa. Già la semplice conoscenza di queste leggi è estremamente difficile. Gli strumenti di raccolta (quelli che si autodefiniscono arbitrariamente codici fiscali) sono affidati all’iniziativa dei privati, che su ogni nuova edizione si premurano di indicare l’anno e il mese di edizione, come se il corpo intero delle leggi fiscali pubblicate avesse una scadenza mensile.

    Molte leggi minute, pochi Testi unici (anch’essi tendenzialmente instabili).

    Si provvede per elenchi di imposte, a ciascuno dei quali corrisponde un regime, sicché la medesima questione in alcuni testi è disciplinata, in altri no; quando non avviene addirittura che la disciplina sia contradditoria. Questa disparità di trattamento nell’applicazione delle imposte (da sempre avvertita dalla dottrina) viene risolta dalla Corte costituzionale con due orientamenti contradditori:

    a) da una parte si ricorre all’interpretazione adeguatrice allo scopo di eliminare le disparità;

    b) a volte si riconosce la legittimità della diversità di trattamento in nome della peculiarità della singola imposta, che ha fatto parlare anche di polisistematicità del diritto tributario, un eufemismo che non è idoneo a coprire ciò che è invece assenza di sistematicità.

    La verità è che anche le procedure, in un sistema che non funziona, sono considerate strumento di gettito, strumento della politica tributaria, che dovrebbe essere affidato invece alla semplice manovra delle aliquote. Ezio Vanoni diceva che le leggi sull’applicazione delle imposte (accertamento, riscossione) debbono essere tendenzialmente stabili per consentire al cittadino quella assuefazione che diventa strumento di funzionalità e anche di buon rapporto con l’Amministrazione.

    In Italia le modifiche in tema di accertamento e di riscossione sono state usate anche come strumento di incremento del gettito. Naturalmente sono le benvenute (ma s’impongono da sole) le modifiche dovute all’introduzione nel campo tributario degli strumenti della telematica. Ma la quantità e lo scoordinamento delle leggi diventano insopportabili per quanto concerne le leggi sostanziali, quelle relative alla fattispecie tributaria.

    In Italia c’è un abuso della legislazione casistica e dell’invenzione del caso tassabile nel momento stesso in cui si applica la legge. La garanzia del cittadino, la sua possibilità di conoscere l’imposta e la sua prevedibilità allo scopo di programmare la propria attività economica, in questo consiste la funzione politica del principio di legalità, sono del tutto vanificati.

    Le cause di questa crescita mostruosa sono due: una, forse comune agli altri Paesi europei, il dover inseguire l’evoluzione della vita economica, il dover inseguire – come è stato detto in Germania – la folle corsa del contribuente; l’altra, che è tutta italiana, consistente nell’abuso della delega al Governo a legiferare, perché tale delega comprende di solito anche una seconda delega a integrare o modificare la disciplina ottenuta con l’esercizio della delega in base alla concreta esperienza. Ora, queste integrazioni e modificazioni non finiscono mai perché, anche quando è previsto un termine, esso viene una o più volte prolungato. Sicché, tale delega sussidiaria a integrare o modificare diventa una specie di rinuncia permanente del Parlamento a legiferare su certe materie e un conferimento al Governo del potere di legiferare permanentemente e arbitrariamente.

    Il potere legislativo è un potere quasi incontrollato del Governo, che è libero di inventare tutte le forme di imposizione al di fuori di ogni criterio, posto che la Corte costituzionale ha ricondotto alla sua piena discrezionalità politica non solo le integrazioni o modificazioni, ma anche nuove forme di tassazione purché non sconfinino nell’irragionevolezza o nell’arbitrio. I vincoli che ci sono imposti dalla scelta europea hanno creato anche una esigenza di stabilità del gettito fiscale e quindi la tendenza a compensare con nuove forme d’imposizione quelle che il Governo è stato costretto a mitigare per venire incontro al mondo della produzione e del lavoro. D’altra parte questa modalità è la sola che consente l’approvazione rapida delle leggi fiscali, dato l’orientamento del nostro Parlamento a occuparsi solo di problemi minuti e settoriali, di tutela di questa o quella categoria, e la sua incapacità a elaborare scelte e linee organiche di tassazione e di semplificazione.

    Nel suo potere legislativo allargato, il Governo ha fatto anche abuso della richiesta di interpretazione autentica delle leggi tributarie: quando il Governo si vede sconfitto, o teme di essere sconfitto, davanti al giudice, ricorre all’interpretazione autentica, a sé favorevole, che ha efficacia retroattiva e che, come tale, viene riconosciuta legittima dalla Corte costituzionale, se la retroattività non è irragionevole.

    In cambio della sua posizione centrale nella legislazione, il Governo ha concesso qualche diritto al contribuente mediante lo Statuto dei diritti del contribuente che è una specie di legge rinforzata (non può essere abrogata se non espressamente) che mette insieme tante cose, alcune delle quali (come, per esempio, l’obbligo per il legislatore di scrivere leggi ordinate e, per l’Amministrazione, di comportarsi secondo imparzialità e correttezza) sono in maggior grado espressione di un volontarismo politico piuttosto che precetti normativi direttamente applicabili.

    Il punto di partenza

    —Salvatore Padula

    Il nostro sistema fiscale vive nella perenne attesa della grande riforma. Se ne può facilmente capire il motivo: l’ordinamento tributario è talmente logoro, intricato e iniquo che ogni proposta, ogni idea, persino ogni suggestione di cambiamento finisce per alimentare la speranza – speriamo non

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