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La figlia dell’aria
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La figlia dell’aria
E-book400 pagine6 ore

La figlia dell’aria

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Info su questo ebook

Il romanzo (1884) è il quarto e ultimo della serie ideata da Jarro, pseudonimo dello scrittore fiorentino Giulio Piccini (1849-1915). Piccini è uno degli antesignani del giallo e il suo personaggio seriale (il commissario Lucertolo) è il primo Commissario della letteratura italiana (e vede la luce quattro anni prima del celeberrimo Sherlock Holmes, frutto della penna di Sir Arthur Conan Doyle).
LinguaItaliano
Data di uscita1 ago 2021
ISBN9791254530603
La figlia dell’aria

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    Anteprima del libro

    La figlia dell’aria - Jarro

    PARTE PRIMA

    LA RICATTATRICE.

    I.

    Un anno dopo, l'Austria sgombrava dalla Lombardia, portando dietro a sè la sua polizia e le sue istituzioni, che furono surrogate da una nuova polizia, da nuove istituzioni.

    La sera del 13 agosto dell'anno 18... – alcuni anni dopo i fatti da noi narrati – il Questore di Milano era in procinto di uscire dal suo gabinetto per recarsi ad un ricevimento ufficiale.

    Il capo della polizia vestiva giubba nera con cravatta bianca e aveva il petto fregiato delle insegne di varii ordini cavallereschi.

    Il Questore, canticchiando fra sè, si lasciava infilare la cappa da un ossequentissimo delegato: e proprio in quell'istante, sulla piazza di San Fedele, dinanzi la porta della questura, si fermava una carrozza con due servitori in livrea, e ne scendeva, entrando frettolosa nell'uffizio di polizia, una signora vestita di scuro, ma con molta eleganza.

    — Ci è il Questore, o un Delegato? – chiese la signora con voce concitata alla guardia in sentinella sulla porta.

    — Ci è il signor Commendatore, c'è sì, signora contessa – rispose la guardia.

    La signora rabbrividì, vedendosi così subito riconosciuta.

    Un graduato la accompagnò sino alla stanza del Questore, che già aveva preso in mano il cappello per uscire.

    Il graduato bussò alla porta ed entrò, lasciando la signora nell'anticamera, appena rischiarata dal lumiciattolo fumigante attaccato a una parete.

    La signora si guardò attorno e tremava, commossa di trovarsi in quel luogo d'aspetto sì squallido e sinistro.

    Il graduato tornò a lei in un istante e, spalancando la porta, le fece cenno di entrare.

    Il Questore, posato il cappello su un angolo del tavolino, che era in fondo alla stanza, stava in piedi, e con atteggiamento grave, ossequioso, sebbene in segreto fosse divorato da una insolita curiosità, aspettava la signora.

    Ella si fece innanzi, quasi barcollando, e con un gesto febbrile aggiustando intorno alle gote il velo che le teneva infisso sui capelli una grossa spilla d'oro.

    Non sì tosto fu giunta in mezzo alla stanza, il Questore le fece cenno di sedersi sopra un sofà, che aveva alla sua destra.

    La signora senza proferir parola e a stento avendo fatto un lieve inchino, si accasciò quasi sul sofà, mentre il Delegato, che era in compagnia del Questore, nell'atto di uscire, e passando dinanzi a lei, s'incurvava ad una profonda riverenza.

    II.

    Il Questore e la signora rimasero soli.

    La donna si gettò bruscamente addietro il velo, mentre il capo della polizia facendosele più vicino:

    — Signora contessa, – mormorava, – in che posso io aver l'onore di servirla?

    Ella si alzò di scatto.

    Si trasse dal seno una piccola lettera.

    E, spiegazzandola sotto gli occhi del Questore, tutta avvampante di collera, esclamò:

    — Guardate questa infamia! —

    Il Questore gettò gli occhi sul foglietto e, dopo un istante, corrugando la fronte, disse molto sostenuto:

    — Una lettera minatoria!

    A un gesto dell'ufficiale della polizia la signora sedette di nuovo sul sofà.

    — Se lo sapesse mio marito! – diceva con parole tronche, come concitata dalla rabbia e recandosi alle labbra un fazzolettino di batista.

    Il capo della polizia, udendole pronunziare il nome del marito, ebbe un finissimo sorriso.

    Aveva levato gli occhi dalla lettera e guardava la bella signora, che gli stava dinanzi.

    Poteva aver tocco i venticinque anni: di statura piccoletta, bionda, con due occhietti tutti fuoco, di forme pienotte e graziose, aveva aspetto di donna che non si fosse brigata mai d'altro che de' suoi piaceri, de' suoi vestiti; una fra quelle sventatelle eleganti cui è legge il capriccio: vaghe farfalle ch'attira ogni luccichìo, pur che sia di frivolezze.

    Il Questore la guardava, cercando di leggerle in volto. Egli la conosceva; soleva da due anni vederla quasi ogni giorno passare nella sua carrozza per le più frequentate vie di Milano: vederla la sera ai teatri, e riconosceva in lei una delle più ricche e famose signore della colonia forestiera di Milano la contessa Vera Usupow.

    La contessa in quel momento era al sommo della esasperazione: ci era nel mondo gente così miserabile, così destituita d'ogni riguardo, così sfornita di cuore che osava venire a disturbarla nella sua vita di gioie, di distrazioni!

    Batteva i suoi piedini, e perchè toccassero la terra era costretta a sedersi proprio sull'orlo del sofà e aspettava ansiosa la risposta del Questore.

    Si era decisa a pigliare quella risoluzione spinta dalla collera, senza stare a pensare se commettesse una grave imprudenza che le avrebbe poi cagionato lunghe afflizioni.

    In un minuto l'alto ufficiale della polizia l'ebbe squadrata; e nello spazio di quel minuto i suoi occhi andarono dal volto della contessa al foglio che egli teneva tra mano.

    Scostò dal tavolino una poltroncina e sedette dirimpetto alla signora.

    — Le raccomando d'esser tranquilla! – disse, tenendo sempre in mano la lettera e la busta sulla quale era scritto l'indirizzo. – Non staremo a perdere il tempo in inutili formalità – soggiunse. – Ella è la contessa Vera Usupow, moglie del conte Usupow, che possiede una villa in Brianza?

    La contessa fece un cenno di assentimento.

    — Da oltre due anni ella è domiciliata in Milano?

    — Sì.

    — Suppone chi possa averle scritto questa lettera?

    — No.

    — È la prima che riceve?

    — No, ne ho ricevute altre, ma le ho sempre distrutte.

    — Ed avevano la medesima firma?

    — Sì.

    — È un nome di donna – continuò il Questore, molto serio – e probabilmente sarà un finto nome! Ma sono quasi di credere che il carattere della lettera sia veramente di mano d'una donna!

    Il Questore percorse di nuovo, e con molta lentezza la lettera, come se volesse imprimersene in ogni parola.

    — È ella mai stata... per qualche necessità... nella casa in via Moscova di cui parla questa lettera?

    Il Questore aveva fatta tale domanda all'improvviso, in tuono quasi aspro, gli occhi affissati in quelli della contessa.

    Scorse in lei un subito turbamento, e le labbra le tremavano, quando la giovane signora, facendosi forza per mostrarsi intrepida, rispose:

    — No!... mai!

    — Direi che si può trattare di un equivoco... se ella non avesse già ricevuto altre di queste lettere... di un errore, di uno scambio di nomi.... Ma questa – proseguì guardando la busta – non c'è dubbio, è stata impostata nella notte passata, e fu trovata in una cassetta alla prima levata: quando ha ricevuto le altre?

    — Nello·spazio di un mese.

    — Sempre alla stessa ora?

    — Sempre con la prima posta della mattina.

    — È facile dedurre da questo che la misteriosa persona, la quale spedisce tali lettere, le affida alla posta soltanto di notte. Dev'essere persona che non trascura precauzioni. Sono sicuro però che l'arriveremo!

    — In che modo? – domandò vivacemente la contessa, cui pareva che quelle parole non andassero a garbo.

    — Circa il modo, signora contessa, spetta a noi il trovarlo....

    — Ma io non voglio uno scandalo....

    — Signora – replicò il Questore con molta cortesia – prima di tutto, noi facciamo il nostro dovere....

    — Ma io, – esclamò la contessa supplicante, inorridita, poichè già antivedeva le conseguenze di quel suo triste passo – ho commesso dunque una grande imprudenza? Mi sono compromessa.... E mio marito che non volevo sapesse....

    — Le rispondo subito.... Rileggiamo insieme una parte della lettera:

    «....Vi rammento che ci siamo incontrate più volte nella casa n... in via Moscova. Lì vi aspettava il signor C.... Dopo esservi trattenuta pochi minuti, un quarto d'ora, nel salotto comune, voi avevate l'abitudine di sparire insieme col giovane gentiluomo. Siete rimasta talvolta due o tre ore sola con lui nella stanza più remota dell'appartamento. Un giorno è stato trovato in una camera un pettine di tartaruga con le vostre cifre, che io conservo...» – Veniamo alla parte più importante – disse il Questore saltando alcune righe:

    «Se dentro due giorni non mi manderete in lettera assicurata, ferma in posta, lire tremila, vostro marito sarà avvisato di tutto.»

    — Che bricconata! che ignobile ricatto! – esclamava la contessa, che alzatasi dal sofà andava, tutta eccitata, su e giù per la stanza, facendo un lucignolo del fazzoletto che teneva fra mano.

    — È chiaro – replicava. il Questore – che lei non è mai stata, come mi asserisce, nella casa in via Moscova... Dunque si tratta di una calunnia, e che suo marito la risappia non potrà nuocerle... Lettere minatorie di questo genere si ripetono da qualche tempo con frequenza e furono indirizzate anche ad uomini. Un'avventuriera, che è forse l'autrice di tutte, spinse l'audacia a recapitarne una in persona, ma si allontanò a tempo.... Preme alla polizia di scuoprirla.

    La contessa pareva più che mai inquieta, e in preda a grandissima agitazione.

    — Sicchè farete uno scandalo? – disse ergendo la sua bella testolina. – Se sapevo!... – aggiunse tra sè mordendosi il labbro inferiore che spicciò sangue.

    Essa col suo cervellino avventato aveva, prima di venire, composto le cose in tal guisa: intendersela col Questore, come con uno di quei militari implacabili, e irresponsabili, che dirigono la polizia nel suo paese; mostrar la lettera, fare scuoprire e sparire chi l'aveva scritta, senza che ad altri ne giungesse il più piccolo sentore, e lei tornare a suo bell'agio ad operare come più le andava a genio. Contava sul suo nome, sulle sue irresistibili seduzioni; e un po' di collera l'accecava nel momento in cui s'era appigliata a quella risoluzione, non lasciandole luogo a consiglio.

    — In breve, che contate di fare? – domandò all'ufficiale della polizia, con sempre maggior trepidanza.

    — Risponderemo noi a questa lettera... Faremo mettere alla posta un'altra lettera raccomandata e indirizzata a Violante Fellini... è il nome con cui firma la persona che le scrive... Darò ordini a due agenti di pubblica sicurezza di stare vicini allo sportello dova si fa la distribuzione delle lettere raccomandate. Se qualcuno si presenterà a ritirare la lettera indirizzata a Violante Fellini, la lettera gli sarà consegnata, poi sarà inseguito, arrestato dagli agenti.

    — E farete un processo?

    — È probabile! – rispose asciutto, ma con molta politezza, il Questore.

    — Rendetemi la lettera! – disse la contessa con grande energia. – Rendetemela!

    E stese il braccio con impeto per strapparla dalle mani del Questore.

    Il funzionario, senza scomporsi, aveva fatto un passo addietro e tranquillamente piegata la lettera e postala nella tasca interna del soprabito, si era tutto abbottonato.

    — Mi duole – ripigliò con un fare tra rispettoso e lievemente sarcastico – di non poter soddisfare questo suo desiderio.... La polizia ha ricevuto da poco tempo altre notizie di ricatti tentati su varie persone, per mezzo di lettere apparentemente scritte da una donna... Non ci è riuscito sin ora, appunto perchè ognuno vuol agire con troppi riguardi, di metter la mano su nessuna di quelle lettere... Le do la mia parola di gentiluomo che qualunque cosa sia accaduta – e il Questore si esprimeva con accento che dovea dare a quel che diceva un significato chiaro e singolarissimo per la persona che ascoltava – ella signora, non soffrirà di nulla: tutte le forze di cui dispone la polizia saranno adoperate a di lei favore.... Confidi nella mia lealtà, nella mia esperienza.... —

    Il capo della polizia aveva in quel momento atteggiato il volto alla più schietta bonarietà. Di tratto in tratto un sorrisetto gli balenava sulle labbra, mentre guardava la contessa Vera, con le guance tutte accese, gli occhi rilucenti, inasprita e commossa.

    La bella forestiera era stata scossa dal tono con cui il Questore aveva pronunziato le parole: «qualunque cosa sia accaduta.»

    Sospettava egli forse che ella fosse davvero andata nella casa misteriosa in via Moscova?

    Gli ufficiali della polizia italiana non erano come quelli della polizia russa: trattavano una donna della sua condizione, così bellina e elegante, come avrebber trattato qual si fosse altra donna, che avesse richiamato la loro attenzione sopra di sè.

    Ella, come già dicemmo, aveva fatto un disegno: parlare al Questore, averne quasi aiuto, appoggio a continuare nel suo intrigo amoroso, mettere a parte l'ufficiale della polizia di qualche grazioso segreto, servirsi di lui per spaventare chi la perseguitava.

    Ora le pareva di trovarsi troppo punita della sua irriflessione, di aver ceduto a un primo impulso di collera. Era talmente abituata a non patire contraddizioni, a veder tutti dar opera solleciti a rimuover gli ostacoli che si opponevano ai suoi più frivoli capricci!

    Il sangue di Slava le bolliva dentro le vene: la caparbietà della donna, avvezza a tener tutti per schiavi, la eccitava.

    — Io rivoglio – disse con accento imperioso – quella lettera.

    — È impossibile! – ribattè con la massima affabilità il capo della polizia, il cui contegno improntato di gentilezza, rivelava che nulla avrebbe potuto smuoverlo dalla sua determinazione.

    — E io ricorrerò al prefetto... che è mio amico... e voi dovrete rendermi la lettera – continuò la contessa in tuono vivacissimo. – Capisco di aver fatto una grande sciocchezza!... È il mio carattere!... Credevo poter vendicarmi, sbarazzarmi di chi mi perseguita, senza scandali, senza rumori....

    Era tornata a sedersi in un cantuccio del sofà, la sua testina appoggiata alla spalliera, una gamba incavalcata sull'altra, facendo vedere il piedino piccolissimo, affilato, la calza di seta, a righe nere e violette, che spiccava sullo scarpino aperto e contornava la tibia robusta e stupendamente tornita.

    Guardava di sottecchi l'ufficiale della polizia, con uno di quelli sguardi che le donne giovani molto vagheggiate e adulate credono di un effetto irresistibile.

    Il seno le ansava sotto la veste leggera di grenadine, un po' aperta sotto il collo, di una morbida bianchezza di gardenia.

    Chi avesse scorto il Questore in giubba e cravatta bianca, piuttosto severo, in piedi dinanzi alla signora, e la contessa Vera, seduta, quasi distesa sul sofà, provando o fingendo un gran turbamento, piuttosto che ad un colloquio in un ufficio di polizia, gli sarebbe stato avviso di assistere ad una scena di seduzione.

    — Le ripeto – diceva il Questore con voce lenta – che io non posso restituirle la lettera.... Sono già accaduti, e possono ripetersi fatti, pei quali un giorno avrei grandissima colpa di non aver operato secondo il mio dovere. Una mia indulgenza potrebbe avere grandi conseguenze per la pace di molte famiglie, per il buon nome della città.... So quello che io dico. Ella non ha nulla da temere: la discrezione è sempre la nostra massima norma.

    — Va bene – soggiunse la contessa, dopo un breve istante di riflessione – voglio ricevere il consiglio che mi avete dato dianzi; mi affido alla vostra lealtà: sono sicura che voi mi proteggerete, e io vi paleserò francamente affinchè, se mio marito vien qui, possiate dirgli soltanto quel che volete....

    Il Questore fece un gesto come per indicare alla contessa che era inutile che ella parlasse più oltre, e la interruppe con una arguta domanda, che la fece sorridere.

    Dieci minuti dopo il Questore accompagnava la contessa sino alla carrozza innanzi la porta dell'ufficio di polizia, e si accomiatava da lei con un saluto molto rispettoso.

    Tornava quindi nella sua stanza, seguìto dal Delegato, in compagnia del quale si trovava quando era giunta la contessa.

    Il Delegato era un toscano, di nome Domenico Arganti, figlio di Domenico Arganti, detto Lucertolo, il celebre Commissario fiorentino, e aveva del padre il soprannome e la grande intelligenza negli affari polizieschi.

    — Anche lei crede – disse il Questore, seguitando un dialogo incominciato prima di entrar nella stanza – che la contessa sia andata nella casa in via Moscova?

    — E non è la sola delle signore di Milano, che vadano di tanto in tanto in quella casa misteriosa.... Le due forestiere, che dimorano in quella casa hanno molte conoscenze....

    III.

    Il Delegato prese a parlare distesamente delle due signore Micaelli. Erano piuttosto brutte, vestivano assai dimesse, anzi con una certa ostentata severità; erano protestanti e usavano alla lor chiesa, sempre puntuali e tra le prime; ma al tempo stesso si dilettavano nei ricevimenti festosi, nei teatri, che frequentavano. Con molto accorgimento, sebbene non fossero nè ricche, nè giovani, nè belle, erano riuscite a farsi accogliere in due o tre case dove conveniva il fiore della miglior società, specialmente forestiera.

    Ricevevano anch'esse nella propria casa, ma di rado vi andavano donne riguardevoli per la condizione a cui appartenevano. Vi si accozzavano piuttosto donnette vispe, garrule, rumorose, di dubbia fama e di dubbia condizione, ma in apparenza assai rispettabili e rispettate, e di tratto in tratto, – cosa che eccitava la meraviglia, – vi capitavano alcune signore di gran nome, giovani, elegantissime seguìte dai loro spasimanti.

    Pare che in casa delle Micaelli si godesse la massima libertà; in certa ora del giorno vi arrivava, per esempio, una signora conosciutissima in Milano, quasi sempre una forestiera, e taluno notava che un poco prima, un poco dopo, v'entrava il cavaliere, che tutti sapevano le facea la corte.

    Naturalmente si procedeva con molte cautele; pochi dei vicini si erano avveduti di queste visite: pochi del resto, vi badavano; ma la polizia aveva fiutato qualche cosa. Vigilante su certi amori come sui delitti, alle volte crede suo obbligo seguir le orme minute che lascia il piedino d'una donna che fugge, frettolosa di tornare al tetto domestico, dopo gl'indugi d'una rischiosa avventura, con la stessa alacrità con cui segue le orme che lascia il piede volgare di un delinquente.

    — In casa di queste Micaelli – conchiudeva il Delegato – non è tutto regolare.... Le due donne hanno in loro stesse, nella fisonomia, nei modi, un non so che.... Io avea già osservato che ai loro ricevimenti, ai loro pranzi non vanno, se non donne giovani e belle....

    — Lei sa – ripigliava il Questore – che io più volte ho ricevuto lettere anonime, nelle quali si parlava di appuntamenti, di incontri, destramente preparati in casa Micaelli, di scene strane e curiose.... Ma ci era richiesta una grande prudenza; in certi casi noi non possiamo operare con precipitazione.... Però io non ho voluto rendere ora alla contessa questa lettera minatoria.... In essa si parla della casa in via Moscova: noi abbiamo quindi non un pretesto, ma la più legittima ragione di occuparci un poco di chi abita in quella casa.... Ecco intanto quel che c'è da fare....

    Il Questore ordinò al Delegato di preparare una lettera, di apporvi i sigilli e consegnarla all'ufficio della Posta.

    La lettera doveva essere indirizzata a Violante Fellini.

    Due agenti di Pubblica Sicurezza, vestiti in borghese, dovevano esser messi di guardia, sin dalle prime ore della mattina, nel locale della Posta: restarvi un giorno, due giorni, sino a tanto che qualcuno si presentasse a ritirare la lettera.

    Alla fine qualcuno si sarebbe presentato: l'impiegato doveva fare un cenno: gli agenti dovean pedinare la persona che avesse preso la lettera, e arrestarla.

    — Ma se la contessa Usupow – domandò il Delegato – racconta che è stata qui e che ci ha lasciato la lettera?... Non può darsi che chi l'ha scritta, forse una persona a lei amica, lo risappia, e si astenga dal presentarsi a domandar la risposta?

    — La contessa mi ha promesso il più assoluto silenzio.... Anzi, Delegato – proseguì con squisito garbo il Questore – le raccomando di non far alcun male a quella signora.... Lei alle volte è un po' ruvido! —

    Il Delegato s'inchinò, ed un lieve sorriso rischiarò il suo volto, di solito burbero.

    — Oh! io bisogna che me ne vada – disse il Questore, guardando l'orologio. – È tardi, e sono aspettato!

    Poco dopo saliva in brougham e traversava alcune strade di Milano, tutto assorto in pensieri ben diversi da quelli che ognuno avrebbe attribuito all'alto impiegato della polizia.

    Egli non poteva scordarsi la contessa Vera. Dio ha dato gli occhi anche ai Questori perchè vedano se un braccio bianco, che esce dalle maniche di un abito di grénadine, è ben tornito, se una veste, che si solleva, porga le mirabili proporzioni di una gamba. La polizia, si sa, deve scuoprire!

    La lettera fu impostata: gli agenti attesero invano tutto il giorno che altri venisse a ritirarla.

    La domane tornarono a invigilare.

    Era una splendida giornata, calda, sfolgorante di luce.

    Alla Posta era stato un continuo viavai; gli agenti avevano veduto passare dinanzi a sè persone di ogni risma: uomini che venivano e se ne andavano in fretta, donne che arrivavano a passi lenti, che si facevano rosse prima di accostarsi a chiedere una lettera e tornavano addietro più rosse, quando l'avevano ricevuta, o più sgomente, se non l'avevano trovata.

    Verso le tre, quando il locale della Posta era quasi deserto, gli agenti videro farsi innanzi una giovane di bellezza quasi sovrumana, vestita con colori piuttosto vivaci, con due brillanti che le luccicavano agli orecchi, e le dita sfavillanti di anelli sotto i guanti di trina nera, che le cuoprivano il braccio, fin sotto il gomito.

    — Guarda che ragazza! – disse uno degli agenti all'altro.

    Tutti e due le misero gli occhi addosso.

    Le svolazzava sulle spalle la magnifica capigliatura bionda, che pur lasciava disciolta soltanto a metà.

    Aveva gli occhi azzurri, stupendo l'ovale e l'incarnato della faccia: le labbra vivacissime: e tutte le forme robuste, ma di una grazia e armonia incomparabili.

    Era di quelle donne che, allorchè passano per una strada, o si abbattono in mezzo a una moltitudine, attirano a sè tutti gli sguardi. Era una perfezione, un incanto; al mirarla, un pensiero poetico e di amore dovea entrar nei cuori più torpidi.

    — È la celebre Zumarra!...

    — Ah, Jole Zumarra, la Figlia dell'Aria!... — mormorarono i due agenti.

    Ma ad un tratto essi raccapricciarono.

    La giovane si era accostata al finestrino delle lettere raccomandate.

    L'impiegato pareva facesse il segno convenuto.

    Ripetè il segno, e la giovane avea già preso una lettera e si allontanava.

    Non sì tosto la ragazza fu arrivata sotto l'arco della Cannobbiana uno de' due agenti, che erano stati alquanto perplessi sul da farsi, le si avvicinò e salutandola le bisbigliò con un certo riserbo all'orecchio:

    — Signorina, mi rincresce... ma debbo pregarla di... —

    La lingua si annodava in bocca al povero agente, guardando sì stupenda bellezza. Jole si era rivolta a lui, ed egli ne scorgeva lo sguardo limpidissimo, la fisonomia lieta e serena, il sorriso ammaliante: non aveva aspetto davvero di donna che venisse da compiere un delitto.

    Ella, del resto, aveva capito tutt'altro; e aperta la borsettina di velluto azzurro, con ghiera d'argento, che aveva in mano, si apprestava a porgere all'agente da lei scambiato per un mendicante, alcuni soldi.

    — Signorina – tornò a balbettare l'agente, quasi confuso, che sarebbe andato baldanzoso a pigliar per il petto i più risoluti manigoldi, e tremava tutto dinanzi a quella ragazza – io debbo pregarla... mi rincresce... di volerci permettere di accompagnarla....

    Jole teneva sempre la lettera nella mano destra.

    Questa volta immaginò che avesse da far con un pazzo.

    Ma, torcendo il capo dal lato opposto, vide l'altro agente, che già le si era messo al fianco, e le mormorava:

    — Signorina, siamo due agenti di pubblica sicurezza!...

    La ragazza impallidì.

    — Abbiamo l'ordine – riprese con voce più ferma –d'invitarla a seguirci.

    Tre o quattro curiosi, due dei quali avevano seguito Jole fino alla Posta, attirati dalla vaghezza di lei, due di coloro, che non sanno incontrare una bella donna sola in istrada senza levarsi il ruzzo di accompagnarla fino al suo domicilio e farsi chiuder la porta in faccia, già formavano un capannello sotto l'arco della Cannobbiana.

    Il veder una donna così appariscente circondata da due uomini, vestiti piuttosto in povero arnese, e che le faceano ressa per persuaderla a qualche cosa, da cui ella si mostrava aliena, avrebbe in un attimo mosso ad accorrer lì brigate di persone.

    Uno de' curiosi voleva prender parte per la donna e liberarla da que' due importuni.

    Ma l'amico lo avvisava, sussurrandogli:

    — Sono guardie travestite!

    — O che vogliono dalla famosa Zumarra?

    — Chi sa! —

    Il dialogo fra Jole e i due agenti si protrasse ancora un minuto.

    Ella guardò dietro a sè: vide i curiosi e parve facesse motto agli agenti che ella era pronta ad andare con essi.

    — Si tratta di ottenere un semplice schiarimento! – le aveva detto uno di loro con pensiero pietoso.

    Ella non riflettè che per chiedere uno schiarimento la polizia non avrebbe osato far arrestare nella pubblica strada, nel centro di Milano, una donna, e una donna tanto conosciuta, tanto acclamata, il cui nome era sulla bocca di tutti, e della quale erano sparsi centinaia di ritratti per la città.

    Gli agenti fermarono un brougham: fecero sedere la ragazza al posto d'onore: essi le sedettero di rimpetto.

    — Ma che cosa vogliono da me? – domandava Jole tutta inquieta, sempre tenendo in mano la lettera. – È accaduta forse qualche rissa nella Compagnia? C'è qualche inconveniente al Teatro?

    Jole era venuta a Milano per la terza volta con una Compagnia di cavallerizzi, acrobati, ginnasti, saltatori, equilibristi: essa, la Figlia dell'Aria, era la stella, il precipuo ornamento della Compagnia; il suo volo da un'estremità all'altra del teatro, fatto scorrendo lungo una corda di ferro, a cui si teneva con un appiccagnolo, stretto fra i denti, mandava il pubblico in visibilio.

    Ne' teatri di tutte le più cospicue città d'Europa avea mostrato, passando a volo sulle migliaia di spettatori, il tesoro delle sue forme sì ben proporzionate: migliaia di cannocchiali seguivano nel suo atto così intrepido la coraggiosa, gentile creatura: la folla, attonita per l'ardimento, abbagliata per la venustà di lei, dava in smanie, prorompeva in grida frenetiche, in plausi, che rimbombavano fragorosi per alcuni secondi ogni volta che ella, così in aria, traversava da un estremo all'altro il teatro.

    Mentre ella eseguiva il suo volo, non si udiva nel teatro altro rumore che quello stridente del ferro, lungo il quale strisciava leggera come una rondine. Tutti aveano le teste rivolte in alto, rattenevano il respiro, i cuori trepidavano. Poi quando aveva finito, il pubblico alleviato da quella commozione, si sfogava in applausi.

    Era americana: viveva sola, con suo padre, un vecchio yankee, alto e complesso della persona, con gran barba bianca, che gli scendeva a metà del petto: era innamorata addirittura dell'arte sua e aveva respinto ammirazioni ferventi di appassionati: non aveva voluto essere nè principessa, nè marchesa, nè duchessa: perfino un principe tedesco, d'una famiglia regnante, le aveva offerto la mano, che ella aveva rifiutato. — Se un giorno troverò un bravo giovinotto, che mi voglia bene davvero e a cui senta di voler bene – diceva a suo padre la strana fanciulla – lo sposerò; ma in questo voglio proprio condurmi secondo il mio cuore!

    Già possedeva un patrimonio di circa mezzo milione. Suo padre l'adorava: chi li avesse separati l'uno dall'altra li avrebbe condannati entrambi ad una morte sicura.

    Nella carrozza, sola co' due agenti, Jole pensò incontanente a suo padre. Egli l'aspettava a casa, come i suoi compagni l'aspettavano al Circo dove aveva promesso di passare fra pochi istanti, affine di mettersi d'accordo con loro su un cambiamento del programma per quella sera.

    Ma non si dava gran pena.

    Era sicura che l'avrebbero lasciata subito in libertà.

    Le era balenato in mente che, durante la sua assenza, fosse sorta qualche rissa nel Circo e l'avessero mandata a cercare per una testimonianza.

    Gli agenti non perdevano d'occhio la lettera che ella teneva in mano.

    La Carrozza sbucava sulla piazza di San Fedele, dove è l'ufficio della Questura. Gli agenti scesero di lì a poco; e pregarono la giovane signora di entrare con essi nell'ufficio di polizia.

    Era di sentinella la guardia stessa cui quarantott'ore innanzi aveva domandato del Questore la leggiadrissima contessa Usupow.

    — Tutte le belle donne – pensava tra sè la guardia – hanno ora qualche cosa da dire alla Questura! – Sebbene avesse i capelli grigi, di rado gli era incontrato di veder comparire in quegli uffici donne eleganti come Jole o la contessa Usupow.

    Ci doveva essere qualche gran mistero: il poliziotto lo fiutava per aria.

    Appena Jole ebbe varcato la soglia dell'ufficio di polizia, uno degli agenti, con gran rispetto, le domandò di consegnargli la lettera che aveva in mano.

    — Perchè? – disse Jole con un certo accento di stizza – la lettera è mia... cioè di una mia amica... —

    Ma l'agente aveva già proteso il braccio destro e messo le dita sulla lettera; Jole, cui pareva di sognare, gliela lasciò prendere senza opporre altra resistenza.

    Poi fu chiusa in una stanza: una stanza assai squallida, ma non una di quelle dove si gettano gli arrestati più volgari. Era la stanza di un delegato, andato fuori d'ufficio in quel momento.

    Gli agenti domandarono del Questore.

    Egli li aspettava da gran tempo: meravigliato che nulla fosse ancora accaduto di quello che, secondo le sue previsioni, doveva accadere alla Posta.

    — Ci sono i due agenti di guardia alla Posta – disse un usciere schiudendo appena la porta del gabinetto del Questore – e hanno portato con sè una donna!

    Il capo della polizia fece un gesto, come se avesse voluto dire: — Finalmente! —

    Gli agenti furono fatti passare.

    Detter conto del modo con cui avevano proceduto all'arresto. La signora si era presentata prima al finestrino ove suol farsi l'ordinaria distribuzione delle lettere: all'ultimo finestrino, dove è segnata la lettera Z.

    Quindi era andata al finestrino delle lettere raccomandate: l'impiegato aveva loro ammiccato nel modo convenuto: avevano pedinato per pochi passi la signora, arrestandola sotto l'arco della Cannobbiana....

    — Sotto l'arco della Cannobbiana? – esclamò il Questore entrato a un tratto in una grandissima collera.

    Era rosso nel volto, la voce gli tremava.

    Si era alzato con piglio sì minaccioso che i due agenti si rannicchiarono, odorando l'avvicinarsi di una burrasca.

    —Sì, signore – ripigliò l'agente più provetto dopo breve pausa – sotto l'arco della Cannobbiana!...

    — Malissimo! – gridò il Questore, battendo un pugno sulla tavola, e lasciando gli agenti come trasecolati. – È così che si mettono a rischio le più belle operazioni.... Arrestare la donna subito che aveva fatto due passi... non hanno capito che era un'arrestarla prima che avesse finito di consumare il suo delitto?... C'era forse un complice che l'aspettava.... Poteva darsi che qualcuno l'avesse mandata... e si fosse nascosto a poca distanza.... Bisognava pedinare la donna per un buon tratto... seguirla magari fino in casa sua... accertarsi qual fosse la prima persona a cui parlasse, e forse consegnasse la lettera.... Ma oggi la polizia si fa a caso. Quali istruzioni avevano ricevuto?

    — Nessuna – rispose uno degli agenti – salvo quella di arrestare chiunque si fosse presentato....

    Il Questore s'irritava, gli pareva che la polizia avesse già dato in quell'affare una prova di grossolana insufficienza.

    Prevedeva che la incuria addimostrata avrebbe avuto non piccole conseguenze nell'andamento del processo, se processo vi doveva essere.

    Nella sua concitazione non aveva ancor richiesto agli agenti il nome della donna, ma di repente domando:

    — Sono sicuro che quello di Violante Fellini è un finto nome.... Hanno interrogato l'arrestata?

    — No...

    il Questore li guardava strabiliato.

    — ….perchè – continuò l'agente – l'abbiamo subito, identificata: è una donna conosciutissima: è la celebre Zumarra, quella che vola al teatro.

    Il Questore trapassava di meraviglia in meraviglia.

    — La Zumarra arrestata? Lei la ricattatrice?

    Stette un istante sopra di sè.

    — Che cosa ha detto al momento dell'arresto?

    — Di arresto non ne abbiamo parlato – soggiunse l'agente, che sin allora avea risposto alle richieste del superiore. – Ella crede che Vostra Signoria le voglia parlare per domandarle uno schiarimento: suppone ci sia stata qualche irregolarità al teatro: una rissa fra persone della Compagnia.

    — Va bene... mi lascino solo... quando suonerò il campanello mi condurranno la

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