Paesaggi scartati: Risorse e modelli per i territori fragili
Di VV. AA.
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Anteprima del libro
Paesaggi scartati - VV. AA.
territori
Paesaggi Scartati
Risorse e modelli
per i territori fragili
A cura di
Fausto Carmelo Nigrelli
manifestolibri
© 2020 manifestolibri La talpa srl
via della Torricella 46
00030 - Castel S. Pietro RM
ISBN 979-12-8012-455-5
www.manifestolibri.it
info: [email protected]
La pubblicazione è stata realizzata con il contributo del Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura DICAr dell’Università degli Studi di Catania e costituisce una attività collaterale del Progetto di rilevante interesse nazionale - PRIN 2017 ‘Politiche regionali, istituzioni e coesione nel Mezzogiorno d’Italia’ (codice progetto 2017-4BE543; sito web www.prin2017-mezzogiorno.unirc.it), finanziato dal Miur nel triennio 2020 al 2023.
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Indice
Dal paesaggio scartato al paesaggio integrale. Una introduzione
di Fausto Carmelo Nigrelli
Perché, dunque, i paesaggi e perché scartati
.
Riferimenti bibliografici
Il paesaggio scartato.
Una risorsa formidabile per le città in affanno e le aree interne
di Fausto Carmelo Nigrelli
In principio fu la crisi industriale
L’abbandono rurale
Sempre più case, sempre più vuote
Abbandoni, scoperte e nuovi abbandoni
Paesaggi dell’abbandono
Il progetto locale non basta
Paesaggi scartati
Riferimenti bibliografici
Paesaggi dell’osso. Le aree interne italiane tra abbandono e rinascita
di Rossano Pazzagli
Un declino silenzioso
Comprendere le cause
Paesaggi fragili
Cosa è rimasto?
Il patrimonio territoriale delle aree interne
Riferimenti bibliografici
Abbandono: non sprechiamo un’occasione epocale
di Paolo Castelnovi
L’abbandono: crisi nei processi territoriali
I nuovi montanari
Una rivoluzione per i progetti territoriali
Deserti luoghi: spazi abbandonati tra eterotopie ed eterocronie
di Tiziana Villani
Riferimenti bibliografici
La dismissione del costruito ci dice che è cambiato il mondo
di Giovanni Laino
Una lunga centrifuga e forse si è rotto il programma
Non è innazitutto questione di spazio
Una moltitudine di attivisti ridefiniscono il pubblico
Cambia la base economica
Conclusioni per iniziare
Riferimenti bibliografici
Assenze
Fotografie di Salvatore Conoscenti
Testo di Valeria Spampinato
In pianura e presso il mare, eppure scartato. Il delta del Po
di Stefano Piastra
Il delta del Po: un paesaggio scartato
anomalo
Le origini dello scarto
È possibile passare da scarto
a risorsa?
Riferimenti bibliografici
Paesaggi scartati nella ricca Emilia
di Gabriella Bonini
Introduzione
L’abitare dell’uomo dei campi
Il territorio della provincia di Reggio Emilia
compreso tra il fiume Po e la Via Emilia
Cosa fare? Come fare?
Riferimenti bibliografici
Il paesaggio agrario della Montagna del Latte
di Giampiero Lupatelli
Quale paesaggio?
Il paesaggio della tutela
Paesaggi del vino e paesaggi del latte
Il paesaggio come servizio ecosistemico
La montagna del latte
L’occasione delle aree interne
Obiettivi e azioni della Strategia d’area
Il Progetto di filiera
Il Progetto oltre la filiera
Costruire la memoria dell’immateriale
Trasformare i servizi in pagamenti ecosistemici
Riferimenti bibliografici
L’osso vuoto
La sfida per la gestione sostenibile del patrimonio urbano
nel Mezzogiorno in crisi demografica.
di Francesco Martinico
Prologo. Ricordi di viaggi in Sicilia
Lo scenario complessivo
Lo scenario in Sicilia
Un cenno alle politiche per le aree interne
Conclusioni. Dallo scarto all’eccedenza
Riferimenti bibliografici
La sharing economy ricettiva nelle aree interne
Opportunità e rischi di una rivitalizzazione a marchio Airbnb
di Carmelo Ignaccolo
La diffusione della sharing economy:
da contesto urbano a rurale
Sharing economy: un cambiamento paradigmatico
Italian Villages: strategia pubblicitaria o cambio di business model per i piccoli comuni?
L’iniziativa Backyard
di Airbnb
Riferimenti bibliografici
Erba di vento
Fotomanzie di Cateno Sanalitro
Testo di Daniela Minacapilli
Lo scarto nel modello di sviluppo:
dalla competitività alla desiderabilità
Una postfazione post Covid-19
di Fausto Carmelo Nigrelli
Riferimenti bibliografici
Gli autori
Dal paesaggio scartato al paesaggio integrale.
Una introduzione
di Fausto Carmelo Nigrelli
Dopo lo sviluppo, ritornano utili molte risorse che si erano gettate via con sprezzo dai finestrini.
Franco Cassano
, 1996
Questo volume collettaneo si basa su una convinzione che è stata condivisa dagli autori coinvolti e che non riguarda esclusivamente il tema oggetto della riflessione, ma più in generale il momento storico che stiamo vivendo che, in estrema sintesi, potremmo indicare come una fase di profonda crisi del modello di sviluppo iperliberista che si è affermato progressivamente dopo lo choc petrolifero che risale all’inizio degli anni Settanta.
Si tratta di una crisi che riguarda l’intero pianeta e non investe solo la struttura economica, ma anche, e più profondamente, l’organizzazione politica che si era consolidata negli ultimi decenni del XX sec., il modello stesso di sistema democratico che ha caratterizzato l’Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, il sistema valoriale basato sulla priorità dei diritti connaturati all’essere umano in quanto tale. I due fenomeni che rendono più evidente questa situazione, inedita nelle sue dimensioni, sono l’insieme dei cambiamenti climatici legati al surriscaldamento globale e i movimenti migratori tra continenti, all’interno dei continenti e all’interno delle nazioni.
La convinzione è che non si può uscire da questa crisi con aggiustamenti progressivi, con un atteggiamento riformista
, ma che è necessario un cambiamento radicale del punto di vista, delle priorità, delle politiche, delle azioni. Ne è corollario la convinzione che un contributo utile e non banale a questo cambiamento di prospettiva può venire da ciò che è stato lo scarto
di quelle politiche, di tutto ciò – in altre parole – che quel sistema produttivo, politico, di valori ha espunto perché non funzionale all’affermazione senza limiti del mercato, in particolare nell’ambito del territorio, di quel prodotto dell’azione dell’uomo sulla natura, dell’adattamento della natura agli interventi dell’uomo e dell’uomo alla natura in cui opera, che consideriamo unità di misura dei fenomeni umani (Corboz, 1985).
Si tratta di una strada che ha tracciato con la sua Laudato si’ Papa Francesco (2015) quando ha affermato, riprendendo il patriarca ortodosso Bartolomeo, che è venuto il momento di «passare dal consumo al sacrificio, dall’avidità alla generosità, dallo spreco alla capacità di condividere» e ha chiesto di avere «l’onestà di mettere in dubbio modelli di sviluppo, produzione e consumo» (p. 131) nella convinzione che «oggi l’analisi dei problemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei contesti umani, familiari, lavorativi, urbani, e dalla relazione di ciascuna persona con se stessa, che genera un determinato modo di relazionarsi con gli altri e con l’ambiente» (p. 134).
Certamente è strano che sia una enciclica papale a fornire il riferimento quasi ideologico e valoriale a riflessioni che si sviluppano attorno al paesaggio, ma questo è semmai un ulteriore indizio della crisi in cui la cultura e gli intellettuali sono caduti negli anni della momentanea, ma travolgente vittoria dell’economia liberista.
Perché, dunque, i paesaggi e perché "scartati".
Quest’anno si celebreranno i venti anni dalla firma della Convenzione europea del Paesaggio avvenuta a Firenze nell’ottobre 2000. In due decenni essa è stata ratificata da 32 Paesi sui 47 che aderiscono al Consiglio d’Europa e anche l’Italia, che si è sempre erta a paladina del paesaggio mostrando come credenziale l’art. 9 della Costituzione, l’ha ratificata solo nel 2006, due anni dopo la sua entrata in vigore che era avvenuta l’1 marzo 2004 con la decima ratifica.
Nonostante i ritardi culturali, probabilmente giustificabili con la lunga tradizione italiana che interpretava il paesaggio a partire da un approccio estetico-percettivo che lo considerava «un territorio più o meno grande quale esso appare alla vista, costituendosi come oggetto di almeno potenziale rappresentazione pittorica» (Assunto, 1973) o ancora «l’aspetto visibile di un ambiente ovvero la parte del territorio che si presenta allo sguardo di un osservatore che ne ricava un’immagine soggettiva» (Budoni, 1994), anche in Italia si è progressivamente diffusa, sebbene non ancora affermata, l’idea che paesaggio e territorio siano la stessa cosa. La definizione contenuta nella Convenzione («area, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni», CEP, 2000) non solo determina il passaggio dal singolare paesaggio
al plurale paesaggi
, ma rivoluziona il punto di vista: dopo la Convenzione Europea l’uomo non è più di fronte al paesaggio, ma è dentro
il paesaggio. Non c’è paesaggio senza uomo e non c’è rappresentazione del paesaggio senza l’uomo. In questo senso il paesaggio è anche pensiero del paesaggio il cui soggetto non è più l’uomo colto, sensibile o artista, non è più l’individuo, ma la comunità che quel paesaggio ha costruito, costruisce, modifica e gestisce.
In questo modo il paesaggio non è più solo un’esperienza emotiva, una questione elitaria, ma un atto culturale, dunque collettivo, e cessa di essere oggetto da tutelare, se non in casi eccezionali, per diventare oggetto da valorizzare, recuperare e, esplicitamente, oggetto di possibili trasformazioni.
Oggi, dunque, le questioni che i pianificatori chiamano di area vasta
sembra possano essere più utilmente affrontate non a partire dalle destinazioni d’uso del territorio, quindi dalla pianificazione territoriale, ma a partire dal paesaggio come manifestazione visibile di quegli usi e di quelli che vi si sono succeduti nel tempo lasciando una sedimentazione stratificata, epifenomeno (Nigrelli 2014 e 2019) del «palinsesto», per dirla alla Corboz, alcuni elementi della quale sono identitari, possiedono una valenza simbolica che trascende gli usi che li hanno prodotti.
Ora, nel succedersi delle generazioni, nell’alternarsi dei processi di presa di possesso di un territorio, di quelli di perdita di senso e dei ritorni – territorializzazioni, deterritorializzazioni e riterritorializzazioni, dicono i filosofi (Deleuze e Guattari, 1991) e i territorialisti (Magnaghi, 2000) –, nello svolgersi di quello che ho altrove chiamato processo di creazione-dissipazione-riattribuzione di valore territoriale (Nigrelli, 2014), gli elementi simbolici e identitari acquisiscono una funzione irrinunciabile quando si tratta di rimettere in moto aree sopite. Solo che spesso questi elementi si guardano, ma non si vedono, avvolti nella nebbia ideologica iperliberista e della rapidizzazione (Papa Francesco, 2015, p. 41) che essa ha prodotto.
Qui entra in gioco il concetto di scarto e di paesaggi scartati, di quelle aree (rurali, costiere, interne, urbane, produttive, residenziali, ecc.) che a un certo punto sono rimaste come prodotto di risulta di processi economici, cicli produttivi, fenomeni demografici, usi e abusi che hanno visto i modelli vincenti in altre aree, in altri modelli insediativi, in altri patrimoni territoriali.
Almeno da quaranta anni si sono affermate in tutti i Paesi più ricchi le politiche di recupero delle aree dismesse, di quegli ambiti prevalentemente urbani che sono caduti in disuso per le modifiche del sistema industriale o dei trasporti. I diversi programmi di recupero – riqualificazione – rigenerazione che le hanno riguardate le hanno in genere considerate come mere occasioni fondiarie per realizzare nuovi quartieri, ricchi di attrezzature di vario livello, di spazi verdi e parcheggi e ben collegati con la rete dei trasporti pubblici.
Questo rinnovamento di importanti parti di città, che ha provocato una rideterminazione di gerarchie urbane e metropolitane, è avvenuto nel solco ideologico mainstream che ha implicato formalmente una concertazione tra poteri pubblici, titolari degli interessi collettivi, e attori privati, stakeholder, per usare l’anglismo che si è affermato per l’occasione, disposti a investire in un quadro di certezze e di convergenza degli interessi. Tuttavia si è progressivamente e rapidamente reso evidente che la concertazione in gran parte dei casi non è stata altro che una genuflessione dei primi rispetto ai secondi e, in ultima analisi, un’operazione di sostegno da parte degli investimenti pubblici alla redditività di quelli privati¹. Una delle conseguenze più evidenti è il processo di gentrificazione che, nel caso di alcune grandi metropoli europee come Parigi o la stessa Milano, tende a riguardare l’intera città a partire dai centri storici (Diappi, 2009) e dai quartieri adiacenti alle aree interessate da grandi operazioni di trasformazione urbana determinate da «dinamiche di distruzione creativa del capitalismo» (Semi, 2015), espellendo gli scarti
sociali rispetto al modello di riferimento della borghesia urbana.
L’approccio che sottende il riconoscimento dei paesaggi scartati e il loro possibile utilizzo come risorsa appartiene invece a una visione opposta, quella che ritiene, come si diceva, che per affrontare l’attuale crisi strutturale occorre una mossa del cavallo
, occorre cambiare modello. Oppure si può pensare davvero che il problema del cambiamento climatico possa risolversi costruendo boschi verticali
in cui le spese condominiali ammontano a 1500 euro al mese² (!) o sostituendo le terrazze con green roof realizzati con strati di materiali che hanno anche altri compiti come quello di assorbire calore o permettere processi di evapotraspirazione?
Certamente interventi di questo genere contribuiscono ad affrontare il problema, ma non possono essere risolutivi nell’ottica di un’inversione di tendenza rispetto alle politiche metropolitanocentriche, del mantenimento della complessità sociale all’interno di ogni centro urbano indipendentemente dalla sua dimensione e posizione e dell’attivazione di decise politiche centrali da integrare con processi di sviluppo locale per ridurre drasticamente i gap – tutti i gap – tra poli metropolitani e aree interne.
La condivisione di una tale riflessione mi consente di sentirmi più tranquillo rispetto alla preoccupazione che si ha sempre nel redigere la prefazione o l’introduzione a un volume collettaneo, soprattutto dopo che Foucault (1972) ha stigmatizzato il ruolo forzatamente ordinatore che questi testi tendono a ricoprire. E permette di evidenziare il sottofondo che accomuna le riflessioni elaborate da economisti, filosofi, geografi, storici e urbanisti, ma anche le intuizioni illuminanti di chi utilizza le forme dell’arte.
Il mio saggio introduttivo a questo volume, che è stato condiviso tra tutti coloro che hanno contribuito per inquadrare la problematica, colloca la questione dell’abbandono alla scala dell’area vasta dentro processi ultradecennali più ampi sui quali si è già molto dibattuto, come le aree dismesse in ambito urbano, e in stretta relazione con due fenomeni paralleli: l’abbandono rurale esito delle politiche attuate dal 1950 in poi e il surplus di vani esistenti in Italia, con particolare riferimento alle aree più deboli del Paese³. Esso si basa sulla convinzione che tali processi di abbandono siano reversibili e, per ciò stesso, il termine abbandono
non risulta coerente con lo stato di questi luoghi.
Il tema delle aree in declino o in fase di progressivo abbandono è stato posto all’interno del quadro delle politiche di stimolazione delle Aree interne e in quelle, più strettamente disciplinari, dello sviluppo locale, a partire dall’analisi delle riflessioni che, nel tempo, hanno in qualche modo applicato il concetto di scarto
a questioni che hanno a che fare con la città e il territorio e a partire da una più ampia riflessione sull’attenzione che negli ultimissimi anni ha suscitato anche fuori da contesti strettamente scientifici (letterario, artistico).
Ne è nata una doppia tesi che costituisce il cuore del presente lavoro collettivo e porta con sé un corollario che considera lo sviluppo locale, da solo insufficiente e inefficiente per raggiungere questo obiettivo:
– il tema delle aree in abbandono, territori vasti, ma anche ambiti urbani, può essere utilmente inquadrato a partire da un approccio paesaggistico e territoriale;
– le piccole città, i borghi, ma anche i quartieri o perfino le singole architetture possono essere rimessi in gioco solo all’interno di strategie di area vasta⁴.
Per chiarire i termini della questione relativa alle aree interne e allo scivolamento a valle
dell’Italia risulta di grande aiuto il saggio di Rossano Pazzagli che evidenzia come in Italia si sia posto in atto un lungo, secolare processo di costruzione di una enorme periferia, estesa quanto due terzi del Paese, che non ha visto sostanziali differenze di comportamento nel lungo periodo tra i governi di destra più o meno liberale e quelli di sinistra, forse con l’eccezione dei primi anni della Cassa per il Mezzogiorno, fino al 1970 (Prota e Viesti, 2012).
La questione delle aree interne costituisce, senza dubbio, il campo di prova più significativo delle reale volontà dei governi di dare avvio a un green new deal che non sia una semplice trovata pubblicitaria e purché vada oltre alcune recenti esperienze che, seppure significative, hanno ancora una volta evidenziato i limiti di ogni approccio, sia centralistico, che di progetto locale, che non sia multiscalare e interistituzionale. Pazzagli segnala che «l’abbandono non è tutto uguale», ma tutte le sue gradazioni hanno in comune il venir meno di modelli di vita e di relazioni che egli sintetizza con il termine spaesamento e che hanno determinato una modifica del paesaggio non governata, piuttosto subita.
Si tratta di una modificazione che quasi sempre ha un solo sinonimo: abbandono di quelle aree, soprattutto in ambito rurale, che non è stato possibile asservire alle tecniche dell’agricoltura industrializzata e che, per questo, hanno progressivamente perso la loro complessità che era diventata complessità paesaggistica. Questa era stata creata e si era consolidata grazie agli usi sapienti e conservativi come le colture miste, fino a diventare elemento di riconoscibilità e identità (basti pensare alla piantata
padana o alla policoltura da frutta delle pendici dell’Etna), ma è stata destrutturata o scartata dalle nuove logiche.
Pazzagli coglie appieno l’essenza della proposta di ripartire dal paesaggio e dalle sue trasformazioni per leggere e reinterpretare il patrimonio territoriale di ciò che chiama Paese di paesi, poiché esso rappresenta «la risorsa apicale» proprio delle aree interne che possiedono un «insieme di risorse di cui le aree centrali non dispongono e non possono disporre». Egli sottolinea con chiarezza come questa nuova strategia non possa che essere perseguita dentro una critica radicale alla logica di sviluppo degli ultimi decenni, una logica che abbandoni il modello della competizione per adottare quello della solidarietà.
Per Paolo Castelnovi l’abbandono è l’esito della scomparsa della comunità, di quel soggetto collettivo che si senta tutt’uno con il territorio e ne curi «senza sforzi eroici», la normale manutenzione. Si tratta di un problema, anzi del
problema che sottende a tutte le situazioni di scarto
: nelle aree agricole come nelle periferie che spesso sono «nate già perse al sentire comune» e, per questo, condannate fin dall’inizio all’abbandono, senza mai capire fino in fondo se sia stato il degrado e determinarne la marginalità ovvero quest’ultima a impedire il radicamento degli abitanti.
Di fronte a questo fenomeno, troppo a lungo considerato episodico e affrontato con eguale e simmetrica episodicità, è necessario superare la logica delle soluzioni speciali
che, nel migliore dei casi hanno prodotto ristrutturazioni poi rimaste inutilizzate e rigenerazioni presto nuovamente abbandonate, per fronteggiarlo con azioni che mirino a ricostituire una «proprietà dei luoghi», un legame tra abitanti e terra.
Nuove comunità di nuovi montanari per un territorio, quello che sinteticamente può essere delimitato dalla curva di livello dei 600 metri slm, che sta suscitando l’interesse degli eredi di chi quei paesi ha abitato e di molti cittadini metropolitani che, magari alla fine del loro ciclo lavorativo, cercano ritmi più umani. Per Castelnovi questo tipo di rinnovato interesse presenta diversi limiti tra i quali l’avere «un progetto di vita spesso stretto in una chiusura autistica», che porta all’individualismo sociale e che, dunque, non è in grado di produrre nuova socialità e nuova territorialità.
Anche in questo caso occorre cambiare punto di vista liberandosi sia del fatalismo che vuole questi territori perduti per sempre, sia della fascinazione idilliaca che rischia di trasformarli in una vastissima Spa all’aria aperta per cittadini metropolitani in cerca di riposo. L’ipotesi di Castelnovi è che «una prospettiva decente di vita nei contesti montani si può raggiungere solo con una nuova relazione con la pianura» aiutando l’azione dei nuovi coloni con un sistematico accompagnamento pubblico pluriennale alle iniziative innovative che abbiano come atout il bene comune.
Il punto di vista della filosofia, tutt’altro che secondario in una questione che riguarda il tema dell’identità collettiva e la prospettiva di un cambiamento radicale di paradigma è offerto dal contributo di Tiziana Villani che affonda gli strumenti dell’analisi e della riflessione nelle vicende urbane dell’attuale torno di tempo, le quali costituiscono il piano parallelo dei ragionamenti sui paesaggi scartati nell’area vasta. La città, «macchina onnivora dell’evento» è in continua mutazione sotto la spinta dell’economia di mercato, cioè speculativa, senza alcun potere pubblico che riesca a indirizzarla all’interno di un quadro di bene comune. La velocità e la frequenza con le quali avvengono le mutazioni producono continui territori-scarto che attraversano fasi intermedie tra il momento dello svuotamento e conseguente abbandono da parte delle famiglie, dei gruppi sociali che vi erano installati e la nuova definizione prodotta da progetti di rigenerazione a regia pubblica, ma, spesso, con attuazione privata.
Questi spazi d’attesa sono scarti temporanei che sono estromessi per un lasso più o meno breve di tempo dai cicli di produzione di urbanità nelle forme istituzionali, ma spesso diventano immediatamente oggetto di nuove forme di territorializzazione, anch’esse temporanee, che, tuttavia si configurano come commons che nascono in modo informale laddove le azioni iperliberiste hanno prodotto solo vuoto. Queste esperienze si configurano come testimonianze di usi non basati sul consumo, sul valore astratto del denaro, ma sul valore concreto
del luogo e di ciò che quel luogo consente di fare con
. E qui torna la contrapposizione tra il modello della competizione e quello della solidarietà che, non a caso, sta alla base di tutte le forme extraistituzionali di usi di queste aree, dai centri sociali agli squat e che ha qualcosa in comune con la cultura del condividere che spesso caratterizza le comunità che vivono nei piccoli centri delle aree interne in declino, in Italia ma anche in altri paesi come la Francia (Coquard, 2019).
Villani definisce questi scarti territoriali e urbani deserti luoghi e li individua come sedi della sperimentazione di nuove forme di ecologia politica basata sulla solidarietà.
Il punto di vista della filosofa appare collimante con quello di un urbanista atipico come Giovanni Laino che, riferendosi egli ex-qualcosa (i deserti luoghi di Villani), colloca parzialmente al di fuori del campo di azione di architetti, conservatori e urbanisti l’approccio alla rimessa in gioco di questi luoghi. È piuttosto il ruolo economico-sociale del nuovo uso che deve essere al centro di un ripensamento che non può che confrontarsi, opponendovisi, con la rapidizzazione della società e con