E ultima verrà la morte... e poi?: Riflessioni sul vivere e il vivere ancora
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Cosa c'è dopo la morte? Con quale corpo risorgeremo? Dove sono e cosa fanno i nostri morti? Esistono il paradiso e l'inferno? Che cos'è «vita eterna»? Alla fine ci sarà un giudizio? Cosa si può dire riguardo alla reincarnazione? E ancora: È lecita la dispersione delle ceneri?
Riportare al centro della riflessione cristiana i grandi temi dell'aldilà vuol dire aiutare le donne e gli uomini di oggi a vivere il momento presente, lontani da sterili paure e inutili sensi di colpa, ma soprattutto con un senso, nella serena consapevolezza che ciò che ci attende al termine della vita sarà solo un abbraccio di compimento e di eternità.
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«Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo lo chiama farfalla».
Lao Tze
Paolo Scquizzato
Prete, si occupa di formazione spirituale accompagnando nell'approfondimento della Parola e alla riscoperta e cura del Silenzio. Conduce gruppi di Meditazione Silenziosa ed è guida biblica in Palestina. È responsabile dell’Ufficio per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso della diocesi di Pinerolo.
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E ultima verrà la morte... e poi? - Paolo Scquizzato
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Paolo Scquizzato
E ultima
verrà la morte...
e poi?
Riflessioni sul vivere e il vivere ancora
Effatà Editrice logoIl perché di una copertina
Ho scelto le opere di Filippo Rossi come copertine della collana «Le parole della spiritualità» per l’amicizia che ci lega e per la sua arte. Tutta l’opera di Filippo Rossi è testimone della rivelazione attraverso l’arte, di una salvezza che, giunta d’altrove, fa irruzione nello spazio oscuro, nero, l’inferno che abita ciascun uomo e che lo rende crocifisso della storia, colore del sangue versato. Arte come epifania della Grazia, Presenza gratis che irrompe color dell’oro. Irruzione attraverso l’amore più forte, che vince, che recupera e non butta via nulla; neanche il peccato, unico combustibile perché la salvezza — di nome misericordia — si possa mettere in moto. Oggi l’uomo ha necessità di giungere a vivere spiritualmente, di aprirsi cioè alla possibilità di essere raggiunto, abbracciato, amato. Salvato.
Le opere di Filippo Rossi rappresentano tutta questa serena e gioiosa felicità che il nostro cuore attende e per la quale è fatto.
Paolo Scquizzato
Non è niente il morire, spaventoso è il non vivere
(Victor Hugo, I miserabili)
Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali,
come ci si vedrà dopo.
Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo
(Aldo Moro, Lettere alla moglie)
Tempo fa fui invitato a tenere una serie di incontri su un tema che lì per lì mi lasciò interdetto: l’escatologia, una parola difficile per esprimere una realtà sulla quale — umanamente parlando — si è condannati a tacere, ovvero l’aldilà.
Sulle prime ero intenzionato a dare forfait, ma poi mi venne in mente una bella pagina del grande teologo tedesco Karl Barth. Andai a riprenderla, la lessi e la rilessi. Alla fine accettai.
«È evidente che gli uomini non hanno bisogno di noi [teologi] per vivere, ma sembra che si vogliano servire di noi per la morte, nella cui ombra già tutta la loro vita si trova. La storia avanza per la sua strada senza di noi; ma se al suo orizzonte spuntano le realtà escatologiche, ultime — e quale problema della storia non si trova alla soglia delle realtà ultime? —, allora chiaramente noi dovremmo essere presenti e aver da dire parole rivelatrici e decisive. Su se stessi, e su ciò che è loro possibile e permesso, gli uomini sono abbastanza orientati, ma essi vogliono sapere da noi, stranamente, come vanno le cose con il filo sottile, al quale è appesa l’intera rete di questo orientamento della vita, e con la linea di cresta, sottile come una lama di coltello, tra il tempo e l’eternità, sulla quale essi talvolta all’improvviso hanno la coscienza di camminare, dopo averlo dimenticato per lungo tempo. Ai confini dell’umanità si fa appello al problema teologico. I filosofi sanno questo, noi teologi talvolta diamo l’impressione di non saperlo» (La Parola di Dio come compito della teologia).
«È evidente che gli uomini non hanno bisogno di noi per vivere», dice Barth. Gli uomini e le donne del nostro tempo, per le grandi questioni del vivere, se la cavano egregiamente da soli e di preti e di pastori (come nel caso di Barth) possono fare benissimo a meno. Purtroppo, per lungo tempo noi «professionisti di Dio» abbiamo creduto il contrario creando loro seri problemi, col nostro andare a toccare le coscienze e invadere ambiti intimi e delicatissimi (si pensi solo a ciò che riguarda la sfera sessuale), atteggiamento che essi difficilmente potranno perdonarci.
Ma c’è un ambito della vita di fronte a cui l’essere umano di oggi — ma in fondo di ogni tempo — fa fatica a orientarsi, ed è il limite ultimo, lo smacco finale della storia personale, ovvero la morte e ciò che c’è — o non c’è — dopo di essa. Ed è proprio lì che il mondo ci provoca, ci chiama cioè ad uscire fuori da banali frasi fatte, immagini stereotipate di stampo medievale e propinate a buon mercato. È dinanzi alla «grande domanda» della morte e dell’aldilà che l’uomo angosciato, turbato e inquieto chiede «parole rivelatrici e decisive».
Mi rendo conto solo ora di quanto sia importante tornare a riflettere su queste tematiche. Perché portare al centro della riflessione cristiana i grandi temi dell’aldilà, come morte, risurrezione, anima e corpo, inferno, paradiso, giudizio ecc. vuol dire aiutare le donne e gli uomini di oggi a vivere più autenticamente il momento presente, lontani da sterili paure e inutili sensi di colpa, ma soprattutto con un senso, nella serena consapevolezza che ciò che ci attende al termine della vita sarà solo un abbraccio di compimento e di eternità.
Aldiquà e aldilà sono due aspetti inscindibili della vita. Uno illumina l’altro. Trascurarne una parte vorrebbe dire affrontare l’uomo dimezzato. Anche nella sua felicità. Per questo accettai.
Dato il tema molto delicato e particolare, scelsi di impostarlo in un modo un po’ originale. Non volevo optare per delle lezioni frontali, per cui decisi che dopo una brevissima introduzione avrei risposto alle domande dei partecipanti, quelle domande che ognuno di noi si porta dentro e che ogni tanto è possibile esprimere anche ad alta voce.
Il testo che segue è, a grandi linee, ciò che emerse da quegli incontri.
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa’ che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
(Konstantinos Kavafis, Itaca)
Ho scelto questa poesia come incipit perché mi piace pensare che Gesù di Nazareth abbia vissuto la propria avventura in mezzo agli uomini al fine di far scoprire, gustare e godere il meraviglioso viaggio che è l’avventura umana.
Il Dio rivelato da Gesù non è un Dio del dopo morte, ma dell’aldiquà della vita, e ha come unico sogno «l’uomo vivente» (Ireneo di Lione, Contro le eresie), l’uomo felice e realizzato su questa terra vivendo una vita in pienezza, quella che nei Vangeli è chiamata vita eterna. E Gesù — il Dio incarnato — è venuto proprio ad abilitare l’uomo a questa vita piena: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Perciò tutta l’opera e la parola di Gesù è volta all’edificazione di un uomo perfetto, ossia maturo, compiuto, realizzato qui, su questa terra.
Gesù non è venuto a prometterci o ad indicare l’esistenza di un aldilà, ma a rendere possibile