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Un giorno
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E-book179 pagine2 ore

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Un giorno di caldo ed afa in una cittadina veneta. Un professore ed un suo ex- studente, dopo tanto tempo, si incontrano. Il primo sembra un uomo affermato, con le sue certezze che sfiorano il dogma. Il secondo è alla ricerca di un lavoro ma soprattutto di un senso alla propria vita.  Entrambi scopriranno che in un giorno la vita può cambiare. Accanto a loro, per la città, girano altri personaggi particolari, tra cui Crucoea, un ex-banchiere uscito di senno con il gusto della provocazione continua ed un grande amore per la letteratura…
Tra attualità ed eventi dal sapore aneddotico, con spunti che implicitamente si riferiscono e si confrontano con l’arte e la letteratura, Un giorno è un romanzo sperimentale che usa generi letterari diversi come il romanzo epistolare e registri linguistici di eterogenea origine come il dialetto e lo slang giovanile. Un’opera complessa e ricca di fascino, adatta a chi ama impegnarsi e divertirsi al tempo stesso.

Mauro Fantinato docente di materie letterarie presso le scuole secondarie, collabora con enti locali e privati per conferenze ed eventi artistici. È  autore del libro Remondini. Le stampe, le carte decorative (Tassotti Editore) e di saggi per il Museo Civico di Bassano del Grappa (VI), per cui è stato anche assistente. Ha curato mostre sull’arte contemporanea tra cui  “Eros e Thanatos. Un abbraccio di amore e morte” presso Villa Morosini-Cappello a Cartigliano (VI) e “L’arte locale interroga il male” a Palazzo Casale Dolfin a Rosà (VI). Con l’associazione Art Emotions For Soul ha seguito per la parte critica la mostra itinerante “Marcinelle262” e la mostra a Palazzo Albrizzi di Venezia “Véstiti d’arte”, esposizione collaterale alla 57^ Biennale di Venezia. Scrive per quotidiani, cataloghi di artisti contemporanei e online presso siti specialistici d’arte.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2022
ISBN9788830662667
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    Anteprima del libro

    Un giorno - Mauro Fantinato

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    ACQUA

    Nella mia idea di arte e di vita c’è la realtà e c’è l’irrealtà. Esse si muovono, cambiano posizione e dimensione, si offrono in forme organiche ma immortali. Ogni grande artista o scrittore le ha imbrigliate sotto un diverso nome, appropriandosene e restituendole ad una nuova vita, più vera, più viva. Sempre. Che il mondo degli animali sociali e mortali, poi, ha imparato ad amare, ognuno a proprio modo, secondo la propria inclinazione estetica.

    Nella mia idea di arte o di vita, però, la realtà e l’irrealtà non portano ancora un mio nome. Ecco, io soffro. Sono ancora orfano e non sono ancora padre. E mi affatico contro un’aridità panica di cui è pervasa la mia anima.

    Ma io cerco. Io cerco. Io cerco.

    Se nulla scoprirò sotto il sole, comunque a quel nulla io darò un nuovo nome. Se contro il sole io scoprirò qualcosa, comunque a quel qualcosa io darò un nuovo nome. Diversamente la mia vita o la mia arte ucciderà la mia idea.

    S. L.

    Un foglio che galleggia. Ebbro vascello fantasma nella corrente del fiume. Per sparire piano, in lontananza. Gabbiani, rozze identità marinare migrate ai piedi della montagna, sbraitano strepiti. E si contendono quel pezzo di carta. E la sua vera carne viene sbranata.

    Sotto il sacro Ponte, Selenio Lunatico sedeva spesso senza parole. In attesa. Sonnolento procedeva il fiume come il risveglio della sua città, al mattino, quando il fresco vento del Nord gli portava ristoro, giusto un attimo prima che il rovente sole si addentrasse nelle case, insolente tra le vie, fin dentro le stanze. Muto ed in attesa Selenio. Sembrava ormai attesa perenne. La decennale crisi economica lo aveva lasciato a casa o, meglio, per strada. Di tanto in tanto qualche lavoretto a nero gli permetteva di tirare la giornata ma alle difficoltà economiche erano subentrate quelle umane. Interiori. Uomini in giacca e cravatta marciavano avanti a lui e dettavano il ritmo del capitale nel Nordest italiano, un Nordest ancora fiero della sua storia e del suo ingegno eppure oramai ricco solo per i ricchi e per certi politicanti del bel pensiero. E ogni volta che da quel rifugio aperto Selenio alzava lo sguardo al palcoscenico del Ponte scorgeva quella varia umanità a passeggio per cui provava un sentimento misto di compassione e di ammirazione. Lui non camminava con loro. L’ammirazione di vedere la tempra veneta ancora ostinatamente al lavoro in lui si mescolava con il compatimento di chi non condivide più quello sforzo vanificato dai ruffiani e dai lacchè di regime, sprechi e ruberie, fottute troie di regime. Fatica di Sisifo versus rinuncia.

    E, dunque, solo in solitaria, addossato ai gradoni di un antico accesso fluviale, la sua pena si alleggeriva. Il senso del passare il tempo, il passatempo e di passare oltre il tempo: questo gli esalava il piatto fluire del fiume. Panta rei. Orizzontalità in movimento che lenisce il dolore esistenziale degli anni… E, tuttavia, lui rimaneva un uomo in caccia. E mirava ad un’idea. Semplice e perfetta, una figura geometrica. Penetrante e tagliente come il cristallo infranto. E quante volte si crucciava di non averla ancora scovata! Essa continuava ad aleggiare d’intorno come una sensazione così asfissiante da non lasciargli scampo al rimestio interiore, inesorabile e triste. Talvolta, un brivido lo innervava tutto. Capiva. Stava scadendo il contratto con il tempo. Quella immobilità avrebbe preteso il suo credito e lo avrebbe riscosso con tutti i mezzi necessari. Già alla solitudine lo aveva obbligato! Gli amici, lontani, avevano realizzato i loro sogni. La famiglia si era dimenticata di lui e la cara amata mogliettina un giorno, semplicemente, non lo voleva più. Tra sé, allora, si esortava alla battaglia contro il presente e devo alzarmi, devo fare, devo dire, devo compiere, deve prendere la decisione, devo agguantare l’idea. Ma poi né la decisione né l’idea lo venivano mai a trovare. Né lui si ostinava a cercare più.

    Da quelle irte parentesi esistenziali una voce lo riscosse e lo fece girare di scatto.

    «Guarda il solitario poeta in meditazione! Ancora perso nel tuo mondo, Selenio?».

    E Selenio, puntò il suo sguardo appena dietro le spalle verso una sagoma di magra corporatura, spigolosa e che gli si profilava sul primo gradino della scalinata. Macchia nera sulla retina per contrasto di luce. Alcuni secondi di silenzio si frammisero, un senso d’irreale sospensione pareva decostruire le certezze del concreto. I contorni della voce e della figura, fusi nella luce che la gradinata inghiottiva, cominciavano a sfumare in un vapore ottundente.

    Ma la voce ancora lo ridestò: «Selenio! Che hai? Sembri addormentato… Non ti ricordi più di me? Sono Capitelvecchio, il tuo vecchio prof…».

    Selenio si riebbe e: «Certo, certo. Scusi prof. ma ero assorto. Come sta?».

    «Ti ho riconosciuto dal ponte. Io invecchio e mi annoio. Ma tu, piuttosto! Ti ho lasciato a suo tempo alla ricerca di un lavoro e adesso come mai di mattina te ne stai qui seduto in disparte? Sei ancora alla ricerca di un lavoro? Eh no, non ti vedo mica bene. No… no, per niente bene…», rispose d’un fiato il professor Capitelvecchio, uomo d’astuta intelligenza, mai entrato nelle grazie della benpensante e buonborghese cittadina veneta.

    Vita privata, libera, materialista, feste e fasto. Eppure, proprio quel lato così anticonformista, così menefreghista, in connubio con il suo profondo sapere, aveva spinto Selenio a cercarlo come amico ed a goderne dell’amicizia, durante i suoi studi universitari, fino al vino e a quelle donne, più o meno giovani, più o meno belle, che in casa del professore arredavano di se stesse le stanze, facendo l’arte e perfino la vita. Poi, giorno dopo giorno, le loro strade si erano separate più per un naturale corso della vita che per una formale rottura.

    «Caro prof. sì, forse non sto bene ma non male da pensare al tuffo», riprese Selenio con fatica e quasi dosando le parole. A Capitelvecchio riuscì una specie di ghigno.

    «Caro Selenio, ogni giorno che passa è un regalo nuovo di sentimenti e sensazioni e…». Paternalismi senza padre.

    «Prof., proprio lei, non venga a farmi la morale!», lo interruppe presto ed irritato Selenio. «Qui si muore di fame e di solitudine e non si vive con i dettami filosofici che i nostri amati libri ci hanno elargito! Maledetti libri, sì sono propri i nostri amati libri che ci hanno… Ci hanno illuso, ci hanno esaltato, ci hanno fatti migliori ma di chi poi se un maledetto leccaculo spadroneggia o puttane patentate addomesticano le sorti di questa società?». Selenio sembrava sproloquiare in preda ad un raptus.

    «Calmati Selenio. Rasserenati. È vero che tempi addietro andava meglio ma non esagerare adesso. Puttane al potere ce ne sono sempre state ed i lacchè sono nati quando gli aristocratici giravano in carrozza. Dai, smuoviti di lì e andiamo a bere un buon caffè».

    Selenio, pur riluttante, acconsentì. Durante il percorso nessuno dei due parlò. Parlava per loro, anzi urlava, il risveglio pieno della città: moto, motorette, camion e automobili ferivano il centro, i commercianti alzavano le saracinesche e dai bar tintinnavano sorde le tazzine da caffè, venivano ammanettate, intanto, biciclette alle transenne della sosta autobus… Ad un tratto, uno scolaro trafelato attraversò la strada all’ultimo e colpì di striscio la spalla del prof. che faticò alquanto a tenersi in equilibrio: «Pezzo di somaro, svegliati prima!». Per tutta risposta il ritardatario senza voltarsi alzò il dito medio… «Digitus Impudicus, te lo trancerei, figlio di buona donna…», rilanciò tra sé Capitelvecchio.

    Selenio non ci fece caso, immerso com’era nella vertigine affranta dei suoi pensieri e nella sua scura faccia. Giunsero al luogo. Era un tratto di riva dove erano state sistemate alcune panchine in metallo giallo usurato dal tempo. Di lì una gettata di cemento permetteva agli avventurieri di calare delle piccole imbarcazioni per rischiare l’attraversata all’altro porto dirimpetto sull’altra sponda. Con un superbo riflesso sull’acqua, inoltre, si ergeva poco discosto il nuovissimo museo dell’arte contemporanea, alcuni mesi prima inaugurato con squilli di cherubini dal sindaco abbronzato e da tutti i suoi consiglieri, abbronzati pure quelli. In quell’occasione era intervenuto perfino il ministro in persona e ovviamente la nuova direttrice, figlia del popolo a parole, in realtà figlia naturale del ministro stesso e di una donnetta del luogo. La folla di giovani, accorsa ad assistere, già pregustava con la bava alla bocca posti amministrativi, posti da ricercatori, posti per addetti alla sorveglianza, posti di lavoro insomma, ora, invece, a memoria della disillusione patita, campeggiava ad un palo uno striscione che con sarcastica irriverenza recitava in bella grafia rosso- vernice Ceci n’est pas un musée. Accanto, con un’insegna altrettanto eloquente, echeggiava il motto Boudoir de la vache. Dava sulla passeggiata del lungofiume e tutti i passanti se la ridevano di gusto. La direttrice si era molto affannata nel far abbattere tali vergogne ma un gruppo di giovani, complice la lentezza burocratica, si era costituito in uno spiritoso Comitato per la difesa del Boudoir e aveva lanciato una campagna mediatica sostenendo l’alto valore artistico di quell’opera quale superbo esempio di Street Art. Il rimuoverla – affermavano questi giovani – avrebbe comportato una gravissima perdita per la città. Anche Selenio aveva partecipato a quelle artzioni d’impatto, secondo la sua definizione avanguardista: una in particolare, da lui escogitata, obbligava i passanti a farsi fotografare con l’opera sullo sfondo, mascherati da clienti o prestatrici d’opera di un vecchio bordello.

    Bei tempi!, pensava fra sé Selenio. Tempi in cui tutto si muoveva al ritmo della gioia. Poi la triste verità di un lavoro odioso e poi la tristissima verità della mancanza del lavoro odioso. Cagne illusioni!.

    «Selenio, Selenio, allora lo beviamo o no ’sto caffè?», lo risvegliò

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