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Due delitti: Due indagini per Alessandro Pinna
Due delitti: Due indagini per Alessandro Pinna
Due delitti: Due indagini per Alessandro Pinna
E-book349 pagine4 ore

Due delitti: Due indagini per Alessandro Pinna

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Info su questo ebook

Alessandro Pinna è un investigatore privato di cinquant’anni che vive e lavora a Genova. Ama la musica classica, le citazioni in latino ed il suo gatto di nome Catullo. Si occupa, come dice lui, solo di corna ed eredità: fino a quando accetta l’incarico sulla misteriosa morte di un diciottenne a Boccadasse. Semplice incidente oppure omicidio? Eppure Pinna, solo qualche anno prima, era un alto ufficiale dei Carabinieri: abituato ad indagini complesse e delicate. Perché questo cambio di vita? Che cosa gli è successo? Lo scopriremo nell’altra indagine del romanzo ambientata nel passato: quando, ancora militare, si occupa dell’omicidio di un prete nella sua parrocchia al CEP sulle alture di Voltri. Due indagini che si intersecano nei ricordi. Nel doloroso presente e nel difficile passato. E nell’incrocio fatale con la dottoressa Luciana Verdi, medico legale, e le scelte che hanno segnato in modo indelebile la vita di Pinna.

Marvin Menini è nato a Genova il 18.02.1971. È laureato in Medicina e Chirurgia ed è specialista in Ortopedia e chirurgia della mano. Svolge il proprio lavoro presso un importante ospedale genovese. È appassionato di cucina, poker e letteratura noir. Ha giocato ventitré anni a Pallanuoto. Nel 2015 ha pubblicato su “ilmiolibro.it” il romanzo Nel cuore del centro storico, la prima avventura di Matteo De Foresta, ed ha partecipato al concorso “Ilmioesordio2015”. Il libro è arrivato in finale, selezionato assieme ad altre 50 opere da scuola Holden. Pubblicato anche su Amazon in e-book, Nel cuore del centro storico ha venduto dal 30 luglio 2015 ad oggi più di 4.000 copie. Nel settembre 2015 ha pubblicato in self publishing su Amazon un racconto lungo, sempre con protagonista Matteo De Foresta, dal titolo Sangue sul Fiume. Nel gennaio 2017 ha pubblicato per Fratelli Frilli Editori la seconda avventura di Matteo De Foresta, Poker con la morte. Il romanzo è arrivato al primo posto, nella settimana di Ferragosto 2017, nella classifica assoluta dei best seller di Amazon. Nel febbraio 2018 ha pubblicato per Fratelli Frilli Editori la terza avventura di Matteo De Foresta, I Delitti dei Caruggi e nel 2019 sempre per Fratelli Frilli Editori la nuova edizione de Nel cuore del centro storico. I Delitti dei Caruggi è rimasto nella classifica assoluta Top 100 dei best seller di Amazon, categoria Gialli e Thriller, fino a giugno 2018. Complessivamente, le avventure di Matteo De Foresta hanno venduto più di 10.000 copie.
Due

 
LinguaItaliano
Data di uscita24 apr 2020
ISBN9788869434389
Due delitti: Due indagini per Alessandro Pinna

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    Anteprima del libro

    Due delitti - Marvin Menini

    27.07.2017 (GIOVEDÌ)

    In your house I long to be

    Room by room patiently

    I’ll wait for you there

    Like a stone I’ll wait for you there

    Alone

    Chris Cornell – Like a Stone

    Lorenzo Farinella non riusciva a dormire. Erano le due e mezza del mattino e se ne stava sul terrazzino di piastrelle rosse di casa sua. Come ogni notte da più di sessant’anni, quando faticava a prendere sonno, si sedeva sulla sdraio a guardare il posto che più amava al mondo.

    Il mare, nella baia di Boccadasse, sembrava un predatore in agguato, pronto a divorare la notte in un solo boccone. Era nero, denso, imperscrutabile nel suo placido e apparente torpore. Lunghe dita scure d’acqua affusolate e tentacolari avviluppavano i ciottoli della spiaggia, nascondendoli per qualche istante e poi ritraendosi nel fruscio ritmico e costante del mare calmo.

    Solo un piccolo quarto di luna resisteva a fatica alla voracità del mare e al suo bisogno di luce, rompendosi sulla superficie dell’acqua come uno specchio andato in mille pezzi sopra ad una tovaglia nera. La gibigiana diffondeva un fioco alone di luce argentea sulle fitte case del borgo, attorno alla spiaggia di ciottoli. Vecchie palazzine basse, con l’intonaco delle facciate corroso dalla salsedine e i toni ocra e magenta ormai sbiaditi. Lungo le corde da stendere, asciugamani, lenzuola e vestiti svolazzavano per le rapide e brevi folate di vento, schioccando in modo deciso.

    Oltre alla luna, l’unica vera fonte di luce della baia era il lampione sopra al muretto, che contribuiva a illuminare la parte destra della spiaggia e le imbarcazioni sullo spiazzo. Gozzi, che avevano combattuto con il mare e le cui ferite di guerra erano ben visibili nei tratti di vernice gonfia e staccata, lasciati in secca coperti da teloni sopra i quali i gatti dormivano. Qualche lancia in vetroresina, canoe, un gommone verde oliva mezzo sgonfio.

    Lorenzo aveva ormai più di novant’anni, la pelle raggrinzita e in parte cadente delle braccia era solcata da spesse vene bluastre, nelle quali sembrava quasi che il sangue non riuscisse più a scorrere. Aveva ancora qualche capello bianco ai lati della nuca e sopra alle orecchie e portava una barba di tre giorni ispida dello stesso colore.

    Fino a qualche anno prima si sarebbe acceso il solito toscano su quel terrazzo, senza esitare: il dottore, però, aveva detto basta. L’enfisema era peggiorato e comunque a un diabetico grave il fumo non era concesso.

    Lorenzo era cresciuto in quella casa; respirando salsedine ogni mattina e ogni sera prima di coricarsi, nutrendo la pelle con il sole. Il suo destino, l’aveva compreso fin da bambino, non poteva che essere il mare.

    Aveva frequentato l’accademia militare e si era diplomato proprio quando era scoppiata la seconda guerra mondiale. Imbarcato subito dopo, fino al quarantadue era stato il primo ufficiale di un mercantile tra Tripoli e il porto di Palermo. Poi il Duce e qualche generale avevano deciso che lui sarebbe servito di più alla Marina Militare, come tanti altri suoi coetanei mandati allo sbaraglio.

    Era stato assegnato a una corvetta, stanziata nel porto di Rodi. La data del trasferimento non fu tra le più fortunate: era poco più di un ragazzo il sei settembre del 1943.

    Fu catturato con tutto l’equipaggio dai tedeschi tre giorni dopo e si passò due anni in un campo di concentramento; un fortino di cemento quadrato e grigio posizionato sopra un’isola sperduta nell’Egeo, della quale non aveva mai saputo nemmeno il nome. Lo aveva sempre descritto come un sasso rovente e brullo, che profumava di timo e di piscio d’asino. Lo avevano tenuto in una cella buia e calda, a mangiare pane raffermo e sardine in scatola, quando ce n’erano, e una domenica al mese a dividere con il resto dell’equipaggio una tavoletta di cioccolato e un pacchetto di sigarette. Poi erano arrivati gli Inglesi: la Deliverance vomitò i suoi soldati sulla spiaggia, i tedeschi si arresero al terzo colpo di mortaio e tutto finì.

    Lorenzo tornò a casa a Boccadasse: il solo posto al mondo che poteva definire tale.

    Vide per la prima volta sua figlia Anna Maria, che compiva quattro anni, nel quarantacinque, appena sbarcato. Sua moglie Rosa gli aveva gettato al collo quel fagottino rosa e lui si era messo a piangere.

    Lorenzo, piano piano, guarì dalle ferite della guerra e vide sparire le macerie. Dentro di sé e fuori, nella sua città; dove via Madre di Dio, straziata dagli Inglesi via mare, era una cicatrice ancora dolorosa e pulsante nel cuore di Genova.

    Aveva smesso di navigare: ma non di lavorare sul mare. Era stato assegnato al controllo dei rimorchiatori in Calata Sanità. In capitaneria lo conoscevano tutti e veniva chiamato il comandante. Non c’era bisogno di aggiungere altro, nemmeno che lui comandante non lo era mai stato alla fine. Poi arrivò la pensione, con essa l’illusione di poter pescare ogni giorno nella sua baia, con la canna, Rosa e qualche nipotino a fianco. Purtroppo, in poco tempo, si era invece ritrovato solo: era vedovo da sedici anni e con la figlia distante. Anna Maria viveva a Milano, faceva l’avvocato e si era sposata con un commercialista della Brianza. Lei e i suoi tre figli più volte lo avevano pregato di scegliere: o ti trasferisci a Milano o ti mettiamo in una residenza per anziani. Lorenzo, però, di farsi parcheggiare in qualche posto dove entri che pisci ancora in piedi e dopo un po’ finisci a letto con il pannolone non ne voleva sapere.

    La sua casa, e la baia di Boccadasse: questa era la sua vita da sempre e lo sarebbe stata fino alla fine dei suoi giorni.

    Aveva raggiunto un compromesso con la figlia: con lui, adesso, viveva Palomita. Una ragazzona ecuadoriana che si faceva prima a saltarla che girarle attorno e puzzava spesso di cipolla. Ma era gentile, premurosa e cucinava in modo decente.

    Lasciò per un attimo il terrazzo sul mare, attraversando a passo malfermo le mattonelle ancora calde per il sole. Si avvicinò alla scrivania in mogano. Sopra, c’era una sua vecchia foto dove indossava ancora la divisa bianca da ufficiale. Era magro, alto, gli occhi fieri e penetranti. Si sentì morire. Biascicò un oh, che diamine e aprì il primo cassetto, avendo l’accortezza di fare piano: Palomita aveva il sonno leggero e bastava niente a svegliarla. Si mise tra le labbra un mezzo toscano, lo accese con un fiammifero nella cucina e tornò con il suo passo stentato a sedersi fuori. Il gusto del Virginia fermentato gli esplose in bocca, provocandogli un sottile piacere e due colpi decisi di tosse. In una notte priva di sonno ma piena di nostalgia come quella, comunque, ci voleva.

    Si era girato più volte nel letto, cercando un pensiero a cui aggrapparsi per scivolare nel torpore. L’unica cosa che aveva trovato nell’insonnia erano i volti dei suoi compagni e dei suoi amici, venuti tutti a galla come cadaveri dopo una burrasca.

    Presto sarebbe toccato a lui, lo sapeva: una lacrima prese vita nell’occhio destro e iniziò la sua corsa verso la punta del naso. Poi, un urlo e delle risate sguaiate attirarono la sua attenzione.

    Ma guarda quelli, disse a mezza voce.

    Un ragazzo si stava tuffando dagli scogli, sul lato destro della baia, qualche metro sotto al lampione. Non riusciva a vederlo bene, ma colse altre figure vicino a lui, come ombre più tenui che si riflettevano nel buio totale del mare. Cercò di mettere a fuoco lo sguardo strizzando gli occhi e sporgendosi dalla ringhiera del terrazzo. Erano ubriachi, urlavano.

    Farinella afferrò il cordless e compose il numero delle emergenze.

    Mi passi i Carabinieri.

    Nell’attesa, pensò per un attimo a quante volte aveva fatto il bagno di notte a Boccadasse. Con Luca Merlo, Bottaro; e il figlio della Gina del quattro di cui adesso manco si ricordava il nome. Ricordò quelle belle nottate, dopo qualche bicchiere di vino, quando l’acqua fresca della baia e la brezza notturna aiutavano a riprendersi dal torpore dell’alcol.

    Si sentì un vecchio noioso e rompiballe.

    La voce lo distolse dai pensieri.

    Carabinieri, pronto.

    Niente, mi scusi, ho sbagliato.

    Continuò a consumare il suo sigaro, apprezzandone l’amaro sul palato. Era a metà quando gli cadde di bocca e rotolò sul terrazzo, finendo in strada. Lorenzo si alzò di scatto sulle gambe malferme, urlando Oh mio dio dopo aver visto quanto era appena accaduto in mare. Afferrò il telefono per comporre ancora una volta il numero delle emergenze.

    In quel momento la testa prese a girare, il portatile gli cadde di mano e iniziò a non sentire più la parte destra del corpo.

    Lorenzo Farinella rovinò sul pavimento tra la sala e il terrazzo, con un rigagnolo di bava rosata che colava dall’angolo sinistro della bocca.

    In mare, qualche metro più sotto, il sangue cremisi di Filippo Maiulli si mescolava al nero infinito di quella notte e dell’acqua, inghiottito nel nulla.

    18.10.2017 (MERCOLEDÌ)

    Ancora cinque vasche, ripeté nella sua testa Alessandro Pinna stringendo i denti. Nuotava da quasi un’ora, iniziava a sentire la fatica ma non aveva intenzione di mollare.

    Ogni bracciata, potente e silenziosa nel frangere il pelo dell’acqua, allontanava sempre di più i soliti pensieri e anche la tensione della giornata nonostante i muscoli indolenziti. Sentiva le spalle gonfiarsi, esplodere nel movimento perfetto dello stile libero che aveva imparato quasi quarantacinque anni prima. Avvertiva la schiena allungarsi e smettere di fare male. E, quel che più contava, ogni boccata di ossigeno era un ulteriore, piccolo, momento di purificazione e di libertà. Nessun pensiero, nessun dolore, nessun affanno di quelli che in ogni attimo della sua vita lo tormentavano. C’erano solo lui, l’acqua e il silenzio delle bracciate.

    Uscì dalla piscina in Albaro che erano passate da poco le diciannove e trenta. L’impianto, costruito quasi cento anni prima durante il ventennio, era stato ristrutturato e ammodernato. Attorno alla costruzione originale, classico esempio rettangolare e asciutto dell’architettura fascista, erano sorte altre due vasche olimpioniche che venivano coperte con i palloni aerostatici d’inverno; ma in primavera e in estate spuntavano le sdraio, le famiglie e i bambini, diventando un posto dove passare una giornata di sole e svago.

    Lo stadio del nuoto era completato da una pista ciclabile, che circondava il complesso. Attorno all’impianto, sotto ai pini marittimi e ai platani che lo abbracciavano, negozi di abbigliamento, bar e anche alcuni ristoranti.

    Quella sera di autunno una sottile tramontana faceva tremare le foglie. Un fremito, un ronzio quasi di preoccupazione che ammoniva i genovesi sull’imminente arrivo del freddo.

    L’aria, come ogni volta che usciva dalla vasca, era profumata di buono e lo faceva stare bene.

    Si tirò sulla testa il cappuccio della felpa per coprire i capelli bianchi e cortissimi, ancora bagnati, e percorse a piedi la parte di pista ciclabile attorno alla prima vasca olimpionica.

    Dall’interno del pallone, dove si allenavano i pallanuotisti, i suoni ritornavano ovattati e lontani: voci, il fischietto di un arbitro, applausi ed esultanze dopo un goal.

    Arrivò alla porta carraia: oltre la sbarra, Sabrina lo aspettava seduta sopra un tognolino di cemento. Lo guardava da lontano, i capelli biondi seguivano le folate della tramontana e creavano una scia bionda che ondeggiava a lato del viso rotondo.

    Sabrina si alzò e si strinse nel cappotto, che ne fasciava i fianchi morbidi rendendo giustizia al suo fisico di cinquantenne in ottima forma. Alzò anche il bavero imbottito di pelo e se lo sistemò attorno alle guance. Attese che quell’uomo dalle spalle larghe, alto e con gli occhi azzurri le passasse accanto.

    Alessandro la vide; sbuffò e cambiò marciapiede. Lei scosse la testa, fece altrettanto e lo seguì nei movimenti, anticipandolo fino all’auto. L’uomo aveva una vecchia Golf blu scuro con i parafanghi accartocciati agli angoli anteriori e una riga su tutta la fiancata destra. Sabrina arrivò prima di lui alla portiera e gli bloccò il passaggio con il braccio. Lo guardò con occhi gonfi di delusione e un filo di rabbia.

    Sono due giorni che ti chiamo. Potresti almeno avere l’educazione di rispondermi.

    Lui la fissò, assottigliando lo sguardo e stringendo la mascella.

    Che parte della frase ’mi faccio vivo io’ non hai capito, Sabri?

    Sabrina si portò una ciocca di capelli ribelle dietro all’orecchio sinistro e scosse ancora la testa.

    Hai ragione. Sono stata una cretina a venire qui.

    Mi sembra esagerato. Inopportuna, ecco. Fuori luogo, se vuoi. Ma cretina, no.

    Sei uno stronzo. Solo un grandissimo stronzo.

    "Opinioni. Ne sutor ultra crepidam."

    E che vuol dire?

    Il calzolaio non vada oltre la scarpa. Ovvero, mai giudicare cose che non si conoscono. Io, peraltro, ti potrei dire che sapevi benissimo come stavano le cose. Non ti ho mai mentito.

    La donna iniziò a singhiozzare. Una spessa lacrima rovinò come una valanga lungo la guancia destra, trascinandosi dietro il rimmel. Alessandro con un gesto delicato del pollice le pulì la striatura nera con la mano. La donna esplose in un pianto irrefrenabile e si gettò su di lui. Pinna l’allontanò con un movimento fermo ma leggero.

    Eh no. Non buttarla sui sensi di colpa adesso. Sai che mi hanno vaccinato quando ero piccolo, Sabri.

    Alessandro provò ad accarezzarla ma lei gli scostò la mano, con stizza. Le lacrime smisero di scendere a poco a poco.

    E quindi? È per davvero finita?

    Eh sì. Temo di sì. Hai sempre saputo che ho una moglie. E che mai l’avrei lasciata.

    Sabrina iniziò a mangiucchiarsi l’unghia del pollice.

    Ma io mi sono illusa. Dopo tre mesi. Dopo tutte le sere passate assieme. A fare l’amore, a parlare dei nostri sogni.

    Dei tuoi, Sabrina. Io non sogno più da anni e lo sai bene.

    Alessandro. Credevo che io e te avessimo un altro tipo di rapporto. Che stessimo costruendo qualcosa.

    E questo che cosa te l’ha fatto pensare, Sabri?

    La donna abbassò lo sguardo.

    Mi hai parlato di Giulia.

    Alessandro tirò un pugno sul tetto della sua auto.

    Non devi nemmeno nominarla Giulia, hai capito? Sei solo una stronza, capace di attaccarsi a tutto. Sei talmente vile che tiri fuori mia figlia. Vattene, Sabrina. Che io una donna non l’ho mai picchiata. Ma non vorrei che ci fosse una prima volta.

    Uno schiaffò repentino e deciso colpì Alessandro in piena guancia: la zona in cui la mano di Sabrina si era abbattuta con rabbia era diventata rossa all’istante, faceva male e pulsava.

    Sei un figlio di puttana.

    Sabrina si girò e iniziò ad allontanarsi. Dopo pochi metri, appena comprese che Pinna non l’avrebbe inseguita, affrettò l’andatura. Alessandro rimase qualche secondo, immobile, a guardarla. Sabrina uscì in fretta dalla sua visuale con un passo rapido e nervoso.

    Pinna si accese una sigaretta, i polmoni festeggiarono l’evento con un bruciore che lo portò a tossire. Salì in macchina e chiuse la portiera con il solito strattone deciso. Sospirò, guardandosi nello specchietto retrovisore. Scosse la testa e mise in moto con un che si fotta per dirigersi verso casa.

    Eleonora lo stava aspettando.

    Il traffico verso il centro a quell’ora era fluido, la sua Golf lo portò in dieci minuti sotto casa sua nella parte alta di Corso Firenze. La via era situata in una delle zone appena collinari di Genova, nel quartiere di Castelletto.

    Una delle zone residenziali più verdi e tranquille della città. Finì di ascoltare chiuso nell’abitacolo il primo movimento della Jupiter di Mozart e poi spense il motore, uscendo in strada.

    Genova, dalla collina di Castelletto, si vedeva quasi tutta: a quell’ora il sole era già calato e la città era uno sfarfallio omogeneo di luci. Punte di spillo, brillanti e fitte, che degradavano per intensità verso il mare attenuandosi e scomparendo del tutto. Fino all’esplosione di luce, bianca e asettica, del porto antico e della zona turistica. I tetti di ardesia del centro storico, che assorbivano quella luminosità, la restituivano in tonalità di azzurro mescolato al grigio, come un vecchio film in bianco e nero. Guardò il palazzo dove abitava, un edificio bianco a sei piani con i terrazzini dipinti di azzurro. La luce della cucina al quarto piano era accesa, Eleonora era di sicuro dietro ai fornelli. Sospirò. E tirò fuori le chiavi di casa.

    2.

    L’ingresso di casa Pinna era ampio, pulito, ordinato. Pavimento di graniglia alla genovese, lucidato a specchio con cura maniacale da Eleonora ogni giorno. Al muro bianco di fronte alla porta d’ingresso vi era appeso un Luzzati originale. Sotto al quadro, in bella vista sul piano del mobile decappato in foglia di argento, c’era una fotografia: Alessandro, Eleonora e Giulia. Era il giorno della prima comunione della piccola. Lui indossava un completo blu scuro, elegante e semplice. Eleonora era radiosa nel suo tailleur lilla, gli occhi esplodevano di gioia e non sembrava nemmeno una donna vicina ai quaranta. Giulia sorrideva, indossava il saio bianco con la croce di legno e teneva strette le mani dei suoi genitori.

    Entrando nell’appartamento, Alessandro venne investito dal profumo del soffritto. Appese la felpa in ingresso e gettò la borsa del nuoto sul pavimento, poi si diresse verso la cucina.

    Eleonora era lì, di spalle, con la radio accesa su qualche insulsa stazione di musica italiana. Una spessa tuta grigia la avvolgeva, facendola apparire molto più grassa di quanto non fosse. Alessandro spense la radio e lei si girò. Gli sorrise e tornò a concentrarsi sullo sfrigolio della padella.

    Ciao amour, non ti ho sentito entrare. Ti ha aperto Giulia?

    Alessandro aprì la bocca, con la voglia di combattere come ogni sera che Dio mandasse. Poi si morse il labbro e si passò la mano tra i capelli bianchi. Nessuna speranza. Nessuna battaglia inutile. Non oggi.

    No, non mi ha sentito nemmeno lei. Ho aperto con le chiavi.

    Alessandro guardò l’ora. Le venti in punto. Aprì un cassetto, estrasse un blister argentato di compresse e lo schiacciò per farsene cadere una sulla mano.

    Si avvicinò ai fornelli e baciò Eleonora sul collo, porgendole la pastiglia e mezzo bicchiere d’acqua. La donna inclinò la testa per accompagnare le labbra del marito.

    La terapia, Ele.

    Ti spiace apparecchiare?, disse Eleonora prendendo la pastiglia e bevendo un piccolo sorso. Sono un po’ in ritardo. Pollo al curry. Il vostro preferito. Ho usato la Colombo delle Antille.

    È fantastico il tuo pollo al curry, Ele. Con qualsiasi tipo di spezie tu lo faccia.

    Sua moglie sorrise.

    Dai, apparecchia che ho fame. Anche Giulia ne avrà, povera. Ha fatto due ore di nuoto oggi ed è andata a lezione di piano. Poi si è chiusa in camera per fare i compiti, piccola.

    Alessandro avvertì uno sfarfallio nel petto, seguito da un’extrasistole.

    Lo so. È proprio una brava ragazza la nostra Giulia.

    Eleonora annuì, sorridendo.

    Sì. Siamo fieri di lei, vero? E sbrigati che tra cinque minuti è pronto. Ah, come è andata la tua giornata?

    Al solito.

    Novità in caserma? Marcello sta bene?

    Alessandro esitò qualche istante, con la bocca semi aperta. Non vedeva Mari da mesi.

    "No, nessuna novità. Solita routine.

    Qualche patente ritirata, un paio di identificazioni. Marcello si è ripreso dal raffreddore e sta alla grande."

    Pinna aprì l’anta blu lucido della cucina ed estrasse due piatti fondi. Li posò sulla tovaglia con i girasoli, sopra al tavolo di vetro e acciaio satinato della cucina. Poi fece altrettanto con i bicchieri e le posate. Eleonora si girò e lo osservò mentre sistemava i tovaglioli. Si lasciò scappare una piccola risata, poi si girò di nuovo ai fornelli.

    Che fai? Per due?, gli disse. E Giulia? Non mangia? Oppure pensi che io sia a dieta?

    Alessandro avvertì una vampata incendiarlo dalla bocca dello stomaco. Afferrò uno dei due bicchieri e lo schiantò sul pavimento. Il vetro esplose sul gries color tortora. Eleonora si girò di scatto, spalancando gli occhi.

    Che succede amour?, chiese.

    Alessandro trattenne le lacrime, si morse il labbro. E stentò un sorriso.

    Niente. Mi è cascato di mano. Ora pulisco.

    Aprì ancora l’anta, tirò fuori un terzo piatto e nuove posate a testa bassa. Le posizionò sul tavolo, lisciando il tovagliolo. Una nuova fitta al petto. Una nuova lacrima che si spandeva sulla tovaglia. Come tutte le sere degli ultimi due anni e mezzo in cui aveva apparecchiato. Passò anche la scopa sui vetri. Per un attimo, si sentì come se stesse raccogliendo il suo cuore.

    Giulia, tesoro. È pronto!, urlò Eleonora dopo qualche minuto.

    Alessandro si diresse in camera da letto e poi tornò in cucina, indossando la tuta da casa, nel momento in cui sua moglie riempiva i tre piatti. L’odore del curry era esploso nell’aria. La donna guardò il vuoto, tra loro due. Era come se parlasse a un’ombra densa e fredda.

    Giulia, hai fame, amore? Non fare come al solito che lo lasci quasi tutto. Che poi se lo mangia tuo padre. Vero, Ale?

    Sì, amore, vero, rispose Alessandro. Mangia, Giulia.

    Ingoiò il boccone, ancora caldo, che si diresse verso lo stomaco lasciando una scia infuocata nell’esofago. Sentendo la fitta al petto, comprese che non era la spezia piccante a causargli quel dolore.

    Il cellulare, nella tasca della tuta, si mise a squillare. Alessandro lo lasciò fare, senza curarsene. Sabrina, pensò. Ci sta provando, spera che io cambi idea. Una seconda telefonata, poi una terza. No, non era Sabrina. Questo era un rompicoglioni ostico alla resa.

    Sbuffando, si alzò da tavola ed estrasse il suo smartphone. Un numero che non aveva in rubrica.

    Pinna, rispose.

    Buonasera signor Pinna. Mi chiamo Chiara Marchesi. La disturbo?

    Suppongo che se le dico di sì lei continuerà lo stesso. Stavo cenando.

    Ah, mi spiace. Vuole che la richiami?

    Ormai. Tanto vale che ci togliamo il dente.

    La donna dall’altro capo si lasciò scappare un verso.

    Sa? Io ho preso la buona abitudine di spegnere questo coso quando voglio stare in pace, commentò poi con tono carico di stizza.

    Avvertirò la stampa della notizia.

    La donna sospirò e si prese una pausa.

    Senta, ho da offrirle un lavoro. Mi hanno detto che è bravo. Le interessa oppure è più importante la cena?

    Alessandro uscì dalla cucina, prese il pacchetto di sigarette nella felpa e se ne accese una.

    Se è per lavoro ci mancherebbe. E poi, intanto, il pollo e il riso si sono già raffreddati. Mi accenni qualcosa. Corna? Debiti?

    Chiara Marchesi esplose in una breve risata sarcastica.

    Nulla di tutto ciò. Le spiegherò a voce.

    Va bene, come crede. Facciamo così: mi telefoni domattina dopo le nove. Sarò in ufficio e...

    Questa sera, signor Pinna. Non ho più intenzione di aspettare. Non ho altro tempo da gettare via.

    Vede, signora, il lavoro è sempre ben accetto. Ma dubito che qualche ora possa fare la differenza.

    Per me sì. Le darò mille euro solo per ascoltare fino in fondo la mia storia. Che accetti o meno la mia proposta. Ma stasera. Domani chiamerò qualcun altro.

    Ma ha detto che sono bravo.

    Sì. Ma non ho detto che è il migliore. Allora?

    Alessandro spense con calma la cicca nel posacenere. Piccoli tocchi per smorzare la fiamma. Per poi schiacciare il mozzicone fino a torcerlo.

    Mi dia l’indirizzo.

    Aiutò Eleonora a rassettare la cucina. Quando la moglie si sistemò sul divano, la coprì con una coperta di pile blu e la baciò sulla fronte, accarezzandola. Eleonora scivolò nel sonno stringendo il telecomando.

    Indossò una Fred Perry stirata a manica lunga ed un paio di jeans puliti e uscì di casa poco dopo afferrando la felpa.

    La sua destinazione era appena qualche tornante sotto a Sant’Ilario, un piccolo paese sulle alture di Nervi. Un tempo era un borgo di marinai prestati all’agricoltura, il miracolo e la sintesi di quello che è il territorio ligure e l’indole dei suoi abitanti: colline rigogliose di ulivi e vigneti che degradano fino allo zero, dove iniziano mare e scogli. Dove le reti per le olive lasciano il posto a quelle per i pesci.

    Adesso, i veri ricchi di Genova abitavano a Sant’Ilario. Ville e villette immerse nel verde, dalle quali si vedeva

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