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Sessanta giorni. La dignità della fine
Sessanta giorni. La dignità della fine
Sessanta giorni. La dignità della fine
E-book119 pagine1 ora

Sessanta giorni. La dignità della fine

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Info su questo ebook

Sessanta giorni, questo il tempo che a una donna è concesso prima di dover dire addio al padre, affetto da una forma fulminante di cancro. La trafila in ospedale, la speranza alimentata da una cura e l’illusione di poter credere, fino alla fine, che esista una via d’uscita. In una sorta di dialogo interiore con l’uomo scomparso, l’autrice ci pone dinanzi a un dilemma etico: in che modo deve rendersi dignitosa la fine di un’esistenza? Chi può arrogarsi il diritto di stabilire quando il tempo sia finito? Tra rassicurazioni e non detti, angosce e speranze, il libro è un invito all’onestà nei confronti di chi soffre e un monito affinché nessuna morte finisca nell’oblio come una goccia nel mare.

Patrizia Mattei è nata e vive in Toscana, classe 1974, è una semplice operaia del settore terziario che da accanita lettrice, per una volta ha varcato il confine e si è improvvisata scrittrice, la rabbia e il dolore per la perdita del padre l’hanno spinta a scrivere queste pagine. Sessanta giorni. La dignità della fine è il suo romanzo d’esordio.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2022
ISBN9791220127981
Sessanta giorni. La dignità della fine

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    Anteprima del libro

    Sessanta giorni. La dignità della fine - Patrizia Mattei

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    Patrizia Mattei

    Sessanta giorni

    La dignità della fine

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - [email protected]

    ISBN 979-12-201-2392-1

    I edizione maggio 2022

    Finito di stampare nel mese di maggio 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Sessanta giorni

    La dignità della fine

    Premessa

    La mia storia è il racconto di una fine, di quelle di cui difficilmente riesci a farti una ragione. Non puoi e probabilmente non vuoi, perché quando ti viene strappata la parte che consideravi la colonna portante della tua vita pensi che non esista un male più grande e potente di qualsiasi consolazione chiunque tenti di offrirti. La definisci cattiveria, perché vuoi esprimere l’esatto opposto del bene: non hai altre parole a disposizione per farlo. La morte, di per sé un fatto naturale, può essere uno schiaffo in pieno viso, improvviso e non calcolato. Un uragano che porta con sé distruzione, un cambiamento che non hai previsto e per il quale non sei pronta. Sessanta giorni, che vivi con l’ultimatum senza saperlo, perché nessuno te lo ha detto e chi doveva forse non ha trovato il coraggio o la voglia per farlo.

    Anche se fai di tutto per opporti a ciò che infetta una ferita mai guarita, le giornate trascorrono torturandoti, instillandoti il sospetto che, seppure la fine fosse giunta, non era in questo modo e con tale potente forza che sarebbe dovuta presentarsi. Tronfia e inevitabile, lei è arrivata come un fulmine a ciel sereno. E allora ti arrovelli nell’idea che qualcuno avrebbe dovuto dire e altri invece tacere, che la verità è ciò che sempre dovrebbe guidare la condotta di un uomo.

    Ho deciso di raccontare la fine della persona che insieme all’unica donna della sua esistenza mi ha donato la vita: mio padre. Lui mi ha amata senza bisogno di dirmelo, ricambiato con altrettanta intensità, fino a quando ha esalato l’ultimo respiro, donandomi la forza cui ogni giorno devo aggrapparmi per affrontare e cercare di superare il dolore.

    Da mio padre ho ereditato la parte più bella di me e non trascorre giorno senza che il mio pensiero si rivolga a lui, con nostalgia e profonda pena. La gente sostiene che bisogna superare un lutto, elaborarlo, ricercando nella memoria il ricordo e lasciare fluire dentro di noi la sensazione che chi ha lasciato questa terra, in realtà, viva ancora dentro di noi. Nelle nostre parole, nei nostri gesti, in ciò che senza volontà sono divenuti qualità e quantità della nostra essenza. Sì, mio padre vive nell’amore che ho per lui, ma non è più qui, pronto ad allungare le sue braccia per scaldarmi in un abbraccio, non è al fianco di mia madre la mattina con l’immancabile sigaretta accesa lui e la borsa della spesa lei, quando tristemente oggi la osservo passare da lontano. Non iniziano più le giornate insieme, i miei genitori, e il cuore non si apre più alla gioia di sentire la fortuna di averli vicini e felici. Mancano i sorrisi sulle labbra che regalava a qualsiasi persona lo salutasse, immancabili e sinceri.

    Non posso più stringere la sua mano né fissare gli occhi azzurri che mi parlavano senza che le labbra dovessero proferire parola. Dovrò percorrere i sentieri che lui mi ha mostrato senza la sua guida, assordata dal silenzio che non sarà più quello di un genitore e una figlia complici, appassionati e felici per le stesse cose.

    E allora ho deciso di scrivere, perché scrivere è un mezzo potente: le parole rendono evidente ciò che abbiamo nella parte più profonda di noi stessi. La mia storia è un cammino interiore di dolore verso la consapevolezza che niente sarà più come prima e che la rabbia verrà sempre a bussare alla mia porta: per questo è necessario trasformarla. La rabbia può impedire di vivere, congelare le nostre emozioni fino a rendere ogni gesto vuoto e privo di significato. Quando ciò a cui tieni di più ti viene strappato a forza e tu, impotente, non puoi fare nulla per salvarlo, è allora che bisogna fare qualcosa, per sé e per gli altri.

    Ciò che mi auguro, lasciando scorrere le parole senza alcun timore, è di trasformare il peso che mi opprime il petto nella voglia di superare il rancore verso chi mi ha illuso, la collera dei giorni in cui ho compreso della fine che incombeva senza potere fare nulla per evitarlo. Il risentimento per avere lasciato che il peggio giungesse senza il giusto congedo, quello che ogni individuo merita.

    Ci sono stati giorni e persone vuoti e inutili, ci sono state mancanze e assenze che il mio cuore ancora non è pronto a lasciare andare. Ho compreso e taciuto, creduto e finto di accettare. Sono caduta e mi sono rialzata, senza mai perdere la tenacia, seppure intuissi, malgrado dentro di me sapessi. Io sentivo, e anche lui, che tutto fuggiva, che nessuna rassicurazione aveva diritto di essere pronunciata rendendo più acuta l’angoscia, insopportabile la sofferenza.

    Assegno a queste pagine il compito gravoso di credere che tutto abbia un senso e che prima o poi, in un modo o nell’altro, ciò che a me è toccato vivere possa essere ad altri reso meno grave. Questa è la mia unica consolazione, che la scomparsa di mio padre non sia una foglia caduta da un albero da lasciare andare via col vento ma una luce che rischiari la mente e il cuore di chi, un giorno, capirà. Capire è assegnare dignità e rispetto a ogni istante, comprendere che seppure sia importante l’inizio, il modo in cui c’è dato affacciarci a questa vita, altrettanto lo è quello in cui la lasciamo. Perché la vita è una e preziosa, e tali lo sono la nascita e la fine.

    Solo in questo modo avrò la possibilità di reggere, di non lasciarmi schiacciare dal peso delle recriminazioni, quando il mio messaggio sarà giunto chiaro e manifesto a chiunque altro individuo che, come me, non ha ancora trovato la pace e a chi, invece, sappia guardarsi dentro e scegliere sempre l’onestà della verità.

    1.

    Io e te

    La vita va avanti. È così che ti incitano tutti quando una persona cara lascia questa terra. Ci si ingegna nel servirsi dei termini più svariati e meno incisivi per non utilizzare la parola che fa più male: morire. Andare altrove, venire a mancare, spegnersi: un rosario di parole fatte apposta per non pronunciare quella che ti spezza il cuore e l’anima anche solo a pensarla, senza dare suono alle sillabe che la compongono. La durezza è anche quella del linguaggio, del modo in cui comunichiamo i fatti. Li rendono ancora più intensi, come se non bastasse l’evento in sé a stenderti al tappeto.

    Gli amici e i conoscenti più vicini e sensibili iniziano un’opera di estenuante e imperterrita consolazione, cominciando a starti vicino come possono, sfoderando le parole migliori possibili, armati di buone e nobili intenzioni. Qualcuno possiede degli strumenti di maggiore efficacia, si tratta di quelli che ci sono già passati prima di te, che elargiscono rassicurazioni fondate su esperienza, con dovizia di particolari. All’orecchio giungono storie persino altrettanto complicate, come la tua pare e anche di più, e gli elementi che le compongono sono pezzi di un puzzle che conosci bene, ma che non è il tuo. A volte riesci ad empatizzare, altre meno. Ti irrigidisci, ti chiudi a riccio, perché ogni dolore è degno di rispetto e considerazione ma non è di questo che hai bisogno al momento. Sembrerebbe di essere ingrati, ma la disperazione e la mancanza di speranza che le cose riescano a tornare nel loro giusto ordine hanno diritto di fluire da dentro a fuori di noi, altrimenti si rischia di collassare.

    Tenti di ascoltare, pazientemente, mentre una parte di te assegna immediatamente valore pieno a quelle sincere raccomandazioni e un’altra, quella che affonda nelle viscere, vorrebbe urlare a gran voce per spiegare che non è affatto facile. Ti trattieni dallo zittire tutti, perché non sarebbe educato, ma bruci come tizzoni ardenti e niente può lenire la furia di emozioni che a stento riesci a contenere. Vorresti calarti in un universo silenzioso in ascolto solo dei tuoi bisogni, indifferente al resto, al mondo intero.

    Facile per gli altri, per quelli che non devono sopportare il peso di frasi retoriche sciorinate perché è così che si crede di potere dare una mano. E continuano a dirti che lui vorrebbe così, che non devi lasciarti abbattere perché, nonostante tu non lo veda più, sicuramente te lo porti dentro, e questo a detta della maggior parte delle persone sembrerebbe dovrebbe bastare. A me non basta, non mi è bastato fin dal primo istante in cui ho capito che non ti avrei più potuto abbracciare. Quando ho compreso che non avrei più potuto toccarti, sfiorarti, baciarti. Come potrebbe? Quale profondo e assennato ragionamento potrebbe rischiarare il cielo cupo che aleggia sui miei pensieri da quando te ne sei andato? Niente è più uguale. Dicono che il cambiamento sia parte di un disegno in cui ci troviamo immersi tutti e che non possiamo sfuggire. Dovremmo prepararci, nell’eventualità che i fatti contraddicano e buttino giù come un birillo ogni punto fermo che rende la nostra vita serena, ma nulla di più difficile tocca a noi che rimaniamo, e ci chiediamo perché, perché debba essere toccato proprio a te,

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