Le memorie d'un contadino - Tomo primo
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Le memorie d'un contadino - Tomo primo - Luigia Codemo
Luigia Codemo
Le memorie d'un contadino
Tomo primo
SAGA Egmont
Le memorie d'un contadino - Tomo primo
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1856, 2022 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728410974
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
PERIODO I.
Malvina mia, veggo mio figlio, il veggo
Sulle rupi del Crona; ah non è desso,
Ma nebbia del deserto, colorita
Dal raggio occuldentalo. Amabil nebbia
Che d’Oscar mio prende la forma.
(Ossian la guerra di Caroso.)
CAPITOLO I.
Dove si entra in materia.
N acqui fra monti, in un paesello povero, nascosto fra le roccie, quasi ignorato: a genitori sortii due onesti contadini, nati e cresciuti anch’ essi nel medesimo villaggio, e dal quale non sarebbero forse mai usciti, qualora le mie scappate non gli avessero a ciò costretti.
Perchè avete a sapere che nella mia vita ho fatto di molte stoltezze e peggio, ed è la storia appunto di queste, ch’ io imprendo ora a narrarvi; l’istoria cioè degli anni miei giovanili, anni dedicati per solito a fasti di tal genere; anni di follìa e di febbre cocente, come li chiamava quel povero Telemaco, quando nell’ isola di Citera si smezzava nel seno l’amore alla virtù e quello alle voluttà terrene.
Vi avviso innanzi tratto che questo non è un romanzo ricco di avvenimenti maravigliosi, o, come si direbbe ora, palpitante d’ interesse: non una lettura condita di pepe di Cajenna: egli è semplicemente un giornale, in cui fu mio intendimento il notare le considerazioni che, a proposito di svariatissimi fatti, mi caddero in pensiero; gli è un lungo discorso co’ miei lettori (sempre ch’ io ne abbia) la è una pittura dei costumi delle mie contrade o d’ altre non mie, aggiuntavi qualche descrizione di paesi, più o meno fredda come tutte le descrizioni, ma che in ogni libro ce ne vogliono per molte cause diverse; la è la storia infine dello svolgimento delle varie passioni, che agitarono il mio spirito durante il non breve periodo compreso in questa narrazione.
Benchè io appaja un cervello leggero, volubile e strambo, pure, in sostanza, sono in vece dotato d’ uno spirito osservatore e comparatore: posseggo una certa attività lenta, ed in ogni tema mi fo a tutti i suoi lati, e mi vi perdo talora sino al fastidio. Di qui un certo vezzo per le parentesi e per le digressioni, che mi deviano dal racconto: un vezzo anco per le citazioni storiche, poetiche o latine: una specie di smania di far sapere al mondo che ricordo un po’ di quel che ho letto: e un’altra, somigliante alla nota smania d’ un celebre giornalista, di dare ad intendere che, se non altro, capisco il latino: ma essendo la mia biografia ch’ io stendo, per qual motivo non avrei a mostrarmi con tutto l’apparato di piccole vanità le quali corredano il mio spirito?.. E poichè conosco come ciò possa spiacere a più d’ un lettore, così lealmente avverto, che, nello scrivere, ho detto a me stesso la massima di Cellini: « Dato che la nave non torni indietro, non mi curo ch’ella volga a diritta o a sinistra. »
Ora chi mi vuole mi segua, nè si lagni se gli riesco nojoso; io d’ altra parte prometto di dar fine alla mia istoria, tostochè sarò giunto a quel momento in cui la sventura ed il disinganno fattomi rinsavire, mi addussero giorni tranquilli e felici, per quanto sia concesso ottenere più in giù delle tegole. E che mai sarebbe la storia d’un uomo saggio e contento?
Io mi chiamo Domenico, nome che, a vero dire, non è troppo romantico. Sarà egli lecito di compatire alle sventure d’un Menico? Ma vi ho già detto che nacqui contadino, ora vi aggiungo che a questo nome, poco poetico e rustico, io debbo in gran parte le mie passate miserie e la mia attuale prosperità.
Narcisi poi è il mio cognome. Non v’ è male; un fiore è sempre cosa gentile e più di molt’ altri il narciso:
« Semina flocchi di cadenti stelle
Dei narcisi del cielo. »
V’ hanno dei narcisi anco in cielo, perchè lo disse un poeta
Fino all’ età di dieci anni non ricordo che poche cose le quali meritino, a mio credere, d’ essere notate. Ero un piccolo idiota, goloso, impertinente, schiamazzatore, disturbatore della casa e del vicinato. Non ero buono che quando dormivo, come diceva mia madre. Qualche volta il chiasso, il diavoleto divenivano così forti che i miei genitori non ne potevano più. Mia madre mi sgridava, dandomi dell’ insopportabile, e m’ imponeva di tenermi tranquillo. Ma che! Le erano prediche come quelle di san Giovanni al deserto. Allora ella si espandeva in lamenti, in querele; e sempre le stesse e con lo stesso tuono.
— E dire che ci ha di quelle pazze che si desiderano figliuoli! Sta quieto, peste!… Non mi fossi mai maritata… lascia là il filo… Almeno non mi dannerei in questo mondo, e non avrei ad abbruciare nell’ altro, perchè già dico degli spropositi per causa tua, e mi toccherà andare all’ inferno… che Dio mi difenda!… Guardate che adesso si mette le mie gonnelle e me le trascina per terra!… Lasciale là, serpente… Due gonnelle nuove fiammanti… le mie gonnelle!.. Nanne… Nanne!.. Adesso chiamerò io il castigamatti!…
Sopravveniva mio padre, il quale non ricorreva alle frasi oratorie. Egli arringava col metodo, ben altrimenti eloquente, di quattro busse amministrate, per solito, all’ ingiù della schiena. Cosa che, a pensarci, mi sembra irragionevole: di fatto la mia cattiveria risultava da tutta una persona costituita di parti ribelli, che aveano, qual più qual meno, giusto diritto a castigo.
Le gambe e i piedi correvano, calpestavano, imbrattavano: le braccia e le mani mettevano sottosopra ogni cosa, e la testa (talvolta) dirigeva queste tumultuose operazioni. Il dosso, l’ ingiù del dosso non ci aveva a che fare, egli era trascinato come un debole nella rivolta; piombar così alla cieca e con tanto furore sopra una parte, la più innocente, mi sembra cosa affatto indegna d’ un retto giudice; ma quel buon galantuomo di mio padre, ignorando la sede della volontà, batteva in un sito da dove certo non partivano le idee sovversive.
Del resto, dove avrebbe dovuto picchiare mio padre? Quesito da proporsi a quel congresso di scienziati dove verrà discussa la questione " se possa il carbon fossile servire al santo Uffizio.„
Però, non appena mia madre avea suscitata la tempesta di colpi sulle mie povere carni, ch’ ella se ne pentiva, e correva a rabbonacciarla: poi per consolarmi, baciavami, lisciavami dicendomi ch’ero suo, ch’essa, proprio essa m’avea portato, ch’ero caduto dalle sue viscere, e che nessuno avea il diritto di farmi del male. Il cuore umano è un abisso di contraddizioni.
Qualche volta i miei genitori, per evitare di battermi, mi pronosticavano di mandarmi a letto colle calcagna per di dietro, e questa minaccia, che avea in sè qualche cosa di oscuro, d’ incomprensibile e perciò tanto più tremenda, mettevami nell’animo un certo sgomento. Non potevo immaginarmi il genere di sofferenza, che questa punizione m’ avrebbe fatto patire; non sapevo cosa significasse quell’andare a letto colle calcagna, che, per castigo, doveano essere via dal posto ordinario; la mia logica me lo faceva travedere, e pensavo, inorridendo, mi si avrebbero torti i piedi in una maniera crudele, così che, per poco, avrei pianto nell’ idearmi questo supplizio pieno di misteri e di spaventi.
Quando la vivacità della mia indole me ne lasciava il tempo, io avea delle ore di tenerezza, di malinconia, e correvo ad accoccolarmi presso le gambe di mia madre, abbracciandole con quella forza, che danno i sentimenti primi d’ un’ anima ingenua. Allora la mia genitrice, santa donna amantissima del suo figliuolo, mi prendeva sulle ginocchia e mi diceva:
— Mi vuoi bene, Domenico?
— Sì, tanto, mamma — rispondevo, dandole infiniti baci.
— E quanti sacchi me ne vuoi?
L’idea del numero mi metteva un po’ in impaccio; e, dopo aver titubato alquanto, abbassando il capo e rialzandolo:
— Te ne voglio mille, — soggiungevo: come se avessi proferito un grande sproposito, senza sapere che l’affetto non si misura, come non si misura l’ infinito.
— E al papà quanti ne vuoi?
— Mille anche a lui.
— Care le mie viscere!
— Mamma, è vero che mi hai portato per nove mesi?
— Sì, ben mio.
— E perchè?
— Perchè son la tua mamma.
— Ma come?
E qui mia madre, saviamente sviava il discorso.
— Senti, fantolino mio, non basta che tu voglia bene al papà ed alla mamma, bisogna che tu voglia bene anche al Signore.
— E dove è egli il Signore?
— Guardalo là… — e m’additava una immagine sulla carta, tutta logora dai baci, ch’ella vi deponeva mattina o sera; rappresentava, in origine, una trasfigurazione di G. C., ma non vi era quasi più traccia di fisonomia; eppure, tant’ è, io mi sentiva una commozione interna, un impulso d’ amore per quella figura, che tosto rispondevo:
— Sì, sì, tanto, tanto bene.
— E devi anche esser buono, per far piacere al Signore.
E dopo una breve pausa:
— Ma il Signore non abita in cielo? Non è quegli che corre là in alto? — E le mostravo col dito teso una nuvoletta infocata dai raggi del sole al tramonto, la quale se ne andava da oriente in occidente.
— Quando fa caldo, continuavo, egli va in carrozza, e corre sulle nostre teste con un susurro che mi mette tanta paura. Di certo egli abita là in alto.
— Il Signore è da per tutto; non ti ricordi che il pievano ce lo ha detto domenica?
— Sì, me lo ricordo adesso. Dunque non è quel santo che baci ogni mattina ed ogni sera?
— Ma quella è la sua immagine.
— Che cosa vuol dire?
E qui nuove spiegazioni, seguite da nuove inchieste e da mille perchè.
Di giuochi co’ villanelli del paese, ed erano molti, che, tutti ligi, a loro insaputa, soggiacevano all’ imperio della mia superiorità morale, non parlo, perchè non la finirei così presto. Era un giuoco, per così dire, continuato dall’alba all’imbrunire; e coi sassi e colla terra e coll’acqua, coi bastoni, colle scranne, colle stoviglie, con tutto quello che avea la ventura di andarci fra mano: giuocavamo quando pioveva, quando nevicava, quando gelava; il ridico insomma, con ogni oggetto ed in ogni tempo.
Fra le più care rimembranze di quella età mi torna spesso al pensiero il giorno in cui mio padre mi portò, dalla fiera di san Gregorio di Valdobbiadene, un cagnuolo di legno: questo avea una certa susta, che lo faceva abbajare sommovendolo alla base, sulla quale maestosamente stava seduto.
I primi giorni non sapevo più di mo; quel cane era la mia delizia, la mia ambizione, il mio universo; lo mostravo con baldanza a’ miei compagni, tenendolo bene stretto, con un fare che significava: Guai a chi me lo tocca; precisamente come un grand’ uomo avea detto d’ un altro balocco; balocco col quale tutti se la pigliano fin che non l’ abbiano sul capo.
Comunque sia, io era innamorato di quel prodigio dell’ arte imitativa; desinavo col cane, dormivo col cane, lo conducevo meco al passeggio, l’avevo insomma sempre con me. Ma, siccome in nessuna condizione della vita può esservi una intera felicità, ecco sorgere in me de’ novelli sentimenti ed impadronirsi dell’ anima mia.
I primi erano stati di ammirazione schietta, tranquilla, estetica; poi un non so che d’ incerto era venuto a mescolarvisi… un desiderio cioè d’esplorazione, d’analisi, per cui il possesso di quel cane non mi dava più che un bene incompleto…. finalmente la curiosità, smascheratasi, sottentrò all’ammirazione e non ebbi più pace.
— Come e perchè, dicevo a me stesso, questo cagnuolo, che infine è di legno, si muove e guaisce? Egli era divenuto per me un oggetto pieno di misteri, come per gli Egiziani la statua di Memnone, che a’ primi raggi del sole cantava flebilmente.
Oh! cruccio delle idee fisse! scemato l’appetito, scemato il sonno, mi risolsi di finirla. Un bel mattino abbranco, il mio balocco, e vado ad acquattarmi dietro una siepe foltissima, per non essere scoperto in flagranti: distacco la carta, che strettamente aderiva alla base, e trovo una laminetta sovrapposta ad un bucherello tondo, nella quale era contenuto il difficile magistero di quei suoni. Mi caddero le braccia, e rimasi di stucco… Chi sa mai cosa io mi attendeva! Un genio forse, un silfo nascosto! Ma che divenni mai quando m’accorsi che dopo quella operazione, il cane non abbajava più! Avevo un bel provare e riprovare, silenzio, profondo silenzio. Quali disperazioni allora, quai pianti! Ecco distrutto il mio tesoro! e colle stesse mie mani, novella Psiche, per volerlo vedere troppo davvicino!
Sovente avviene che l’indagine spezzi gl’ idoli, vagheggiati dal cuore.
CAPITOLO II.
Ancora della mia infanzia.
Divenuto io più grandicello, mio padre, uomo di senno e men rozzo degli altri contadini, affrettossi di mandarmi alla scuola del villaggio, per impararvi il leggere, lo scrivere e il far di conto, sì colla penna che mentalmente: nella quale ultima operazione egli valea tant’ oro. Se gli si domandava:
— Barba Nanne, quanto importano tre sacchi e mezzo di castagne a dieci lire e quindici soldi il sacco? — egli ne imbroccava subito il valore, senza sgarrare d’ un bezzo. Era il ragioniere del comune. Non è quindi a dire se andò giulivo allorchè il signor maestro, dopo alcuni mesi d’ istruzione, gli disse che avevo molta facilità d’ apprendere, ch’ io cominciava a combinare, a sillabare e a fare la somma senza sbagli. Queste novelle furono seguite da altre più consolanti, poichè avevo riempita una facciata di utili e tutti con mano precisa, letta una pagina intera, e dette a memoria le prime caselle dell’ abaco senza mai intopparmi.
Questi progressi, co’ quali consuonavano eziandio quelli, ch’ io faceva in chiesa la domenica nella dottrina cristiana, colmavano di gioja mio padre, il quale mi toccava le guancie col dito medio e coll’ indice, e le premeva sorridendo… segno in lui di buon umore, e non vi dico se quel pizzicotto mi facesse divenire leggero come se sfiorassi la terra, in vece di premerla co’ piedi
A mia madre poi cadeva un diluvio di lagrime dagli occhi, immaginando che il suo Menico sarebbe divenuto sapiente quale un prete, siccome ella diceva; e quando le portai il suo nome, scritto dalle mie mani, pianse tanto che fu, starei per dire, una vera allagazione.
— Bravo! impara a scrivere: quando tu sappia scrivere è tutto, vedi, esclamava mia madre: senza saper mettere in carta le tue idee, a che mai potresti giungere? Scrivi, figliol mio, diventa bravo come il signor pievano, dà questa consolazione alla tua povera mamma. Io la domando questa grazia alla Madonna in tutte le mie orazioni.
Io le saltava al collo, e stringendoglielo con una forza da farle venire un’ apoplessia fulminante, le rispondevo:
— Sì studierò, diverrò sapiente come il pievano e come il signor maestro. — Mi pareva che anco quest’ ultimo, dal quale infine attingevo tali fonti di sapienza, avesse diritto ad esser nominato quale esempio: ma la mamma ripeteva — come il pievano… è un grand’ uomo, è un sant’ uomo, sai! Ho udito dire che monsignor vescovo lo farà arciprete. Che onore per tutti noi e pel nostro paese!
E perchè questo battere e ribattere sul pievano?
La buona donna sarebbe quasi morta di gioja se io avessi indossato l’ abito religioso; se io fossi divenuto, un essere degno di rispetto, santo, per così dire; ella non avea coraggio di esprimerlo, per un certo pudore istintivo, che tutti abbiamo nella manifestazione de’ nostri desideri. E poi, benchè contadina, non le mancava una gran dose di buon senso, avvalorato e reso più lucido dall’amore materno. Ella comprendeva che forzarmi, anche in maniera indiretta, ad abbracciare uno stato santo, ma privo di quei beni in cui il più degli uomini fa consistere la felicità, sarebbe stata un’ azione malvagia.
Ella adunque in ogni congiuntura procurava di farmi entrare la voglia di pretare senza ch’ io me ne avvedessi, con quella politica cioè, ch’ ebbero i genitori della monaca di Monza, per tutt’ altro scopo ed in tutt’ altre condizioni. Gli affetti umani sono sempre gli stessi, e sotto qualunque forma travisati, il filosofo li discopre. Così manifestava ella, la semplice donna, una venerazione, una deferenza pel signor pievano, che non potevano rimanere inosservate anche ad un cervellino giovane, leggero. Gli mandava pel mio mezzo i più bei marroni del nostro castagneto e la miglior uva della nostra vigna o qualche trota, pescata nel Piave da mio padre: quando io tornava a casa e le mostrava i santini avuti in concambio, mia madre mi ammoniva di tenerli cari, di riporli in luogo sicuro; prima per chi rappresentavano, poi perchè venivano da tale che… quando s’era nominato, non s’ andava più in là.
Che, se il dabben prete veniva a ringraziare i miei genitori dei doni avuti, ecco mia madre scombussolarsi tutta per offrirgli da sedere, e poi spingermi perchè gli baciassi la mano, mettermi come sotto la sua protezione: poi, toccati i soliti argomenti del caldo, del freddo, della siccità, essa veniva bel bello a dire che tutte le disgrazie accadono per via dei peccati degli uomini: Propter peccata adveniunt adversa; e a invidiar coloro che sono in istato da essere più vicini al paradiso, com’ è a dire, i buoni cultori della sacra vigna. E qui lascia al pievano a piangere e a improvvisare delle lunghe tirate sul malcostume del giorno, e a ricordare i tempi ne’ quali fin le nostre oscure contrade davano un san Venanzio Fortunato di Valdobbiadene, che fu vescovo di Poitiers, e un Boccassino istessamente di Valdobbiadene e che fu papa gloriosissimo sotto il nome di Benedetto XI, e un Pier Maria da Pederobba, ed altri sapientissimi e santissimi uomini… tutti questi sono stati preti e di qui… aggiungeva arrossendo mia madre, che, ad un certo orgoglio di patria o di regione, il quale, dacchè la luce della civiltà brilla sul nostro orizzonte, domina anco fra il popolo, univa, in questo caso, la compiacenza che le era propria, per tutto ciò che suonava religioso e sacro.
Poi, quando l’ illustre visitatore erasene partito, mi ripeteva ella di farmi sapiente come il pievano, d’ esser buono come lui, d’ imitarlo in ogni parola, per cui un poco alla volta io m’ era persuaso ch’ egli fosse il primo uomo del mondo.
Quando egli passava per le viuzze del villaggio, col suo breviario sotto il braccio, io correva a baciargli la mano, lo seguiva degli occhi con reverenza ed affetto, ripetendo a me stesso che quegli era il mio modello, la mia guida. Devo però confessare che il colore del suo vestito non m’ andava a’ versi: il nero parlava poco al mio spirito. Il nero è la negazione della luce: la natura tanto varia, infinita nelle gradazioni delle tinte, di cui dipinge i suoi fiori, non ne ha creato una sola simile alla vesta del mio pievano.
D’ altra parte avevo veduti in certi libri del signor maestro dei ritratti, che da piccino chiamavo santi, i quali andavano bizzarramente adorni di piume, di nastri, di ciarpe, di fiocchi, di cordoni, con ispade al fianco, dipinti con colori, in cui il carminio ed il giallo aveano la massima parte; abiti a fogge che mi tentavano assai più di quello del reverendo: immaginarmi d’ indossare tali vesti la mi pareva cosa beata. Però, senza aprirmene con mia madre, avevo chiesto il significato di quelle figure, e rispostomi dal maestro, che rappresentavano colonnelli e generali famosi, i quali sotto un grande imperatore aveano conquistato mezzo mondo, risolsi di protestare, quando fosse venuto il momento, contro a’ desideri materni, e slanciarmi in vece in quell’arringo che dava ciondoli al petto e spada alla cintola.
Ricordando poi le parole di mia madre: « Studia, a tutto si perviene quando si sappia scrivere » io raddoppiava di zelo, ed i miei saggi letterari ne guadagnavan non poco. Se avessi saputo un tantino di storia, non mi sarei affaccendato cotanto: poichè, nelle sue pagine immortali avrei letto come un altro imperatore, non sapendo mettere il nero sul bianco, adoperasse il pomo della spada qual segno del suo nome al basso delle pergamene, ed avesse non ostante vinti i Sassoni, i Bavaresi e ristabilito ( la diomercè ) l’ impero d’ occidente.
Di questa velleità marziale non sarà più parlato nel corso delle mie memorie; poichè cresciuto negli anni (quantunque per l’innato genio dello splendido, dello straordinario, mi sentissi tutto rimescolare alla vista delle ricche e gallonate divise ) quando mi avvidi come fosse dura la vita militare, e quanto poco libera, posi da canto ogni bellicoso istinto: la mollezza e l’ intolleranza di giogo prevalsero in me alle attrattive delle assise e delle spade.
CAPITOLO III.
Lo sconosciuto.
Di cosa v’ ho io mai intrattenuto fino ad ora! di quai nonnulla!.. discorsi di un bambino, balocchi, prime lezioni, fantasie d’ una testa che vola come farfalla senza saperne il perchè. È egli ben fatto notare ogni moto dell’anima umana, o adolescente o adulta; ogni gioja, ogni dolore, o giusto o irragionevole? È egli possibile un maggior impero sopra noi stessi, un freno più grande alle nostre passioni, quando ne conosceremo la profondità e la forza; oppure si convalidano colla autorità dei moltiplicati esempi, le varie inclinazioni degli uomini?…
Infine le scoperte psicologiche sono elleno utili o dannose?
Ora, per ritornare alla storia della mia fanciullezza, vi dirò che le cose procedevano sempre nella stessa maniera, e sarebbero ite così, Dio sa quanto, se non sopravveniva un fatto, dal quale tutto ad un punto l’ andamento uniforme della mia esistenza fu, in imprevisto modo, travolto.
Vi è una strada che attraversa il mio villaggio, la quale si potrebbe chiamare la sua arteria principale, come i baluardi in Parigi, o il Regent-Street di Londra. A dirla, è un’ arteria stretta, fiacca, il sangue vi scorre dentro senza timore di congestioni, voglio dire che lo scarso numero di carrette, di muli, di pecore che vi girano per entro, non impedisce quasi mai il passaggio, e non si è costretti, come in quelle due grandi città, di riunirsi in frotte per tragittare la via, dopo di avere con occhio inquieto interrogati i quattro punti cardinali. Un giorno adunque io me ne stava baloccando per quella magnifica contrada, facendo quei castelli in aria, che il ristretto numero delle mie idee mi permetteva di fabbricare; e, guardando il cielo, canticchiava sommessamente le cantilene del paese, quando, a distrarmi dai voli della mia fantasia e della mia gola, mi viene ad un tratto un romore, uno schiamazzo, un gridare giojoso di molte voci che tutte dicevano qualche cosa senza che io, per la moltiplicità delle parole, giungessi a raccapezzarne una sola.
Mi scuoto, tendo l’ orecchio, e mi sembra di accorgermi che lo strepito si veniva accostando dalla parte della chiesa; affretto il passo, ed ecco allo svoltare della strada m’ incontro in una turba di ragazzacci, in mezzo ai quali un povero bambino tutto lacero, tutto sporco e tutto in lagrime camminava confuso, sbalordito; in uno stato insomma da movere a compassione — dalli! dalli! ah! ah! al ladro, ah! birbone, t’ insegnerò io; tenetelo fermo che non ci scappi; adesso, adesso gliene daremo un carpiccio noi, come va! — Quest’ erano le esclamazioni che udivansi più distinte in mezzo a quella confusione, per cui, senza bisogno di altri schiarimenti, compresi il colpevole esser quegli che camminava in mezzo alla processione, e che la colpa era un furto. Restava a sapersi qual furto: l’ età del malfattore ne supponeva uno d’ innocente e con molta probabilità un delitto di gola. Di fatto Piero, un mio compagno, mi narrò in due parole come il piccino, tratto dall’ ingordigia o chi sa dalla fame, avesse steso le mani di soppiatto ad una pertica, nel cortile d’ un contadino ricco ed avaro, e se ne stesse mangiando con tutta quiete un grappolo d’ uva secca, quando il padrone col suo figliolo gli erano capitati sopra, e gli aveano fatta iniziare una cattiva digestione di quel frutto carpito. Ma nbn bastava: il figliolo, entrato nei diritti paterni con un ardore non ordinario in quella età, il che annunziava una splendidezza d’animo senza pari, impadronitosi del meschino, lo strascinava a forza per la strada, dove i monelli tengono il loro ritrovo dalla mattina alla sera, e aizzandoglieli contro con tale ferocia che non parlerebbe certo in favore della mitezza dell’ animo umano allo stato di natura.
Non so quali sentimenti la vista del ladroncello bistrattato mi destasse nell’ animo, ma non certo a lui ostili; per cui mettendomi ad un tratto a dar delle braccia e delle pugna, e gridando come un osesso: Lasciate là Nanni, lasciatelo là pel vostro meglio: povero puttello: che vi veda io a fargli del male; vergogna! contro un bambino di ott’ anni! — mi misi a difenderlo con quella passione di un cuore non uso a nascondere e a moderare i suoi moti.
Mi direte che a difendere un ladro non occorre tanta pressa, e che infin dei conti la ragione era dal lato del figliolo del contadino. Ma io vi rispondo che a quell’ età, in quei luoghi, non potevo avere una certa giustezza d’ idee rispetto alle leggi della proprietà. E poi ero goloso anch’io, e mi sentivo una tal quale inclinazione per uno che poteva avere commesso quel fallo per colpa dello stesso mio difetto: in ogni amore vi è un fondo di egoismo, e volontieri compatiamo agli altri quei peccati che ci sono comuni ad essi. Oltre a questo avevo insiti nell’animo certi sentimenti di cavalleria, di generosità, per cui non potevo vedere la forza baldanzosa e vile opprimere il debole timido, incerto, e che si raccomanda co’ suoi patimenti senza fremere, senza scoppiare in islanci di collera, selvaggi ma sinceri. E poi che v’ ha egli bisogno ch’ io mi giustifichi per avere preso le parti di quel meschino ladroncello? Fra due combattenti s’inclina sempre verso quello a cui ci trae una simpatia spesse volte irragionevole. Nel leggere l’ Iliade mi sono subito sentito strascinare irresistibilmente verso i Trojani: con loro combattevo, con loro soffrivo, con loro speravo; avrei avvelenato la flotta greca col respiro. Eppure alla fin fine la ragione era per Agamennone, e più di tutto per Menelao, perchè un marito nell’ andarsi a prendere la moglie in qualunque rocca ella si sia rifugiata, è nei suoi pieni diritti, quando egli abbia la degnazione di farlo.. ma torno al mio racconto.
Io dunque dava calci e pugni, e chi sa che, senza avvedermene, non ne abbia nel calore della mischia consegnati alcuni anche al mio protetto, vera vittima fra due fuochi, ma tanto ero infervorato nella zuffa che l’oggetto di questa era divenuto la parte secondaria. E tira, e schiamazza, quasi non reggevo all’urto, e pensavo di battere in ritirata non per viltà, ma perchè mi pentivo d’ essermi messo nella mia imprevidenza come:
Orazio sol contro Toscana tutta.
Quando ad un tratto mi sembra di udire una voce virile in mezzo alle altre stridule dei ragazzi; levo gli occhi, e mi vedo un forastiero dinanzi, che perorava (come il seppi di poi) già da un pezzo, ma inutilmente, non essendo noi in grado di gustare la sapienza della sua arringa.
— Perchè vi battete? — disse il signore con un viso severo, che impose il silenzio e la tranquillità.
— Perchè Nanni… perchè Tita… perchè maltrattava…
— No che non sono io… è stato lui, sono stati loro, perchè prima… perchè Giacomo…
— Tacete tutti, e parli uno solo, — esclamò di nuovo il signore.
Allora Piero, che parlava meglio degli altri, perchè nipote del pievano, e che si era mantenuto neutrale nella gran lotta, come devono essere gli storici, si fece avanti e raccontò del furto, della vendetta, dell’incrudelimento, della processione vergognosa e della mia nobile difesa.
— Avete fatto bene, rispose il signore, la giustizia deve punire senza sevizie.
— Lo ha detto anche il molto reverendo mio zio — mormorò Piero.
— Dov’è quel fanciullo? — chiese il signore.
— Eccolo, risposero tutti: è qua, dov’è?… non si vede, — Il mio protetto se l’era svignata, e Dio sa da quanto non ci battevamo più che per un principio.
— Chi siete? — mi disse l’incognito, rivolgendosi a me con una inflessione di voce, che dinotava un certo senso di tenerezza vaga, ma schietta.
— Mi chiamo… — e qui gli dissi quel brutto nome prosaico.
— Domenico? — soggiunse egli sospirando. — Domenico? — poi tacque un poco: quindi: — e il cognome? — replicò.
— Il cognome? oh! bella… il cognome — nella confusione non mi ricordavo più il mio cognome.
— Non importa. Avete genitori vivi?
— Signor sì.
— Conducetemi da loro: voglio premiare la vostra condotta alla presenza di vostro padre e di vostra madre e poi mi piacete… (gli somiglia tanto) — continuò con voce quasi soffocata dalle lagrime — (e come non bastasse, anche lo stesso nome!) — Così dicendo mi fece un cenno che voleva dire: andiamo. Ci movemmo infatti e in pochi passi fummo alla mia casupola; io entrai dentro il primo, perchè lo sconosciuto a stento mi teneva dietro.
CAPITOLO IV.
Dove si piange e si ride.
Appena entrati nella stanza terrena, che ci serviva di cucina e di tinello, mia madre mi venne incontro dicendomi:
— A mezzo giorno passato si viene a casa quest’ oggi, troverai la polenta fredda… un bel gusto… e dove?… — volea più dire, ma qui s’ interruppe, perchè, voltando la testa ad un piccolo romore, udito dal lato della porta di strada, avea, non senza grande maraviglia, veduto il mio signore. Si confuse un pochetto, e già stava per tirarsi indietro inchinando la testa sulla spalla alla maniera dello nostre contadine, quando l’ incognito con molta benevolenza le disse queste parole:
— Non vi turbate, buona donna, io non sono un personaggio spaventevole, e non vengo per farvi male: ma all’ incontro per annunziarvi una buona azione, e per premiarla in faccia a voi ed a vostro marito.
— Egli non c’è, — rispose mia madre.
— Allora gliela ripeterete. — Proseguì quindi facendo l’elogio della mia condotta, e commovendo mia madre in maniera da farla piangere; cosa per la