Voglio tornare al topless bar
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I due si innamorano e Maggi Mastrini finalmente si libera da quel difficile rapporto con l’altro sesso che lo attanaglia fin da ragazzo e fa la scoperta dei topless bar.
Ne rimane così colpito e attratto da decidere di abbandonare la fisica, che non gli garantisce quel benessere economico cui tiene, di restare negli Usa e di provarsi nell’attività imprenditoriale aprendo un primo topless bar a Little Italy con l’aiuto di Rose che diventerà sua moglie e di Don Genesio, boss della mafia a Little Italy.
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Anteprima del libro
Voglio tornare al topless bar - Raffaele Morelli
Di come il protagonista presenta sé stesso
Credete che non sappia che il sistema più semplice per raccontare una storia è farsi uno schema? Prima nella testa e poi magari anche sulla carta, in modo da mettere ordine nelle idee e nel racconto.
Io lo so bene perché, da scienziato quale sono, ho sempre tenuto presente un ordine procedurale assoluto. E difatti seguirò, nel raccontare quello che è accaduto da un certo punto in poi della mia vita, un percorso perfettamente lineare.
Solo in teoria però, perché non ho più voglia di buttare giù schemi. Non credo che ne sarei capace, visto che il tempo che passa lascia sempre un segno sulla lucidità mentale.
Ciononostante, non una virgola sfuggirà alla regola paranoica della chiarezza assoluta. Non sarà difficile seguire sia la storia che le segrete motivazioni. I miei figli mi rimproverano perché dicono che non riesco più a terminare i discorsi che inizio senza divagare.
Dicono anche che ogni volta che racconto la mia vita aggiungo nuovi particolari. Secondo loro, buona parte di quello che narro lo invento di sana pianta. Dicono che lo faccio perché mi piace fare effetto sull’uditorio e che sono un incorreggibile narcisista.
Sarà. A me non sembra. Penso che le giovani generazioni abbiano perso il senso della parola rispetto
che noi abbiamo dovuto imparare fin da piccoli.
Ma procediamo con ordine.
Mi chiamo Adolfo Ludovico Maggi Mastrini. Per quelli che non si interessano di fisica sono un perfetto sconosciuto, ma per gli addetti ai lavori sono stato uno dei primi cinque ricercatori mondiali di fisica teorica, un’icona nel mio campo.
Ora non più, perché non mi occupo più di scienza da molti anni. Ma di questo parleremo poi.
Dicevo: un’icona solo per meriti scientifici però. Per il resto, beh, lasciamo perdere.
Sono alto un metro e sessantaquattro, peso quarantanove chili, ho i capelli di un rossastro ramato, non molto folti. A dire il vero li avevo di un rossastro ramato, adesso, alla soglia della vecchiaia, li ho bianchi e talmente radi che per comunicare tra di loro devono urlare.
Ho il naso aquilino, occhiali con le lenti doppie, la barba, spesso incolta, che cresce a chiazze, ormai del tutto bianca. In compenso la pelle del viso ha preso un colorito tendente al paonazzo.
Provate a immaginare cosa dev’essere stata la mia vita.
Ho passato tutta l’infanzia incazzato con i miei genitori perché mi avevano fatto piccolo, magro e brutto.
Mia madre dice che appena nato piangevo sempre. Sfido io. Già sapevo che ero venuto male e protestavo. E lei giù, a riempirmi la bocca con la tetta. Se non avessi saputo che da lì usciva il latte avrei pensato che volesse togliermi il fiato: probabilmente tutte e due le cose insieme.
Mio padre aveva i capelli neri e mia madre castano scuro. E io rosso. Ma perché? Se avessi avuto un’idea di come si mettevano in produzione i bambini mi sarei posto il problema della paternità. Me lo sono posto a dodici anni, quando ho scoperto che gli ortaggi non c’entrano nulla. Avessi scoperto che ero figlio di un pel-di-carota, forse me ne sarei fatto una ragione, ma così...
Non dico che avrei voluto essere come Tyrone Power. Vabbè lo dico: avrei voluto essere come Tyrone Power, scuro di capelli, bello e soprattutto desiderato dalle più affascinanti donne del mondo.
Poi dicono che da bambino avevo problemi! Ci credo, sempre ultimo nelle attenzioni delle ragazzine. Tranne una, una tipa bruttina e antipatica che alle elementari litigava con tutti e si prendeva a graffi e spintoni di continuo. Costei aveva un debole per me. Con le mani impiastricciate di lecca-lecca continuava a cercarmi per accarezzarmi e mi insudiciava la faccia mio malgrado. Non ho mai osato spiegarle che non gradivo, era il doppio di me.
Io ero sempre quello che durante le feste metteva i dischi, addetto a portare i pesi nelle scampagnate. Ero costretto a portare la palla, se no nulla da fare con le partite di calcio, salvo le volte che, senza di me, erano dispari.
E con mio padre che mi faceva discorsi sul principio secondo cui un vero uomo non ha paura di affrontare le avversità della vita. Facile per lui che era alto un metro e ottanta, aveva due spalle larghe come un armadio e due mani che facevano ombra.
Dal mio punto di vista la situazione era decisamente diversa. Soffrivo, mi sentivo perennemente a disagio. Non è una bugia. Sono ancora perennemente a disagio. Riesco a stare con difficoltà in mezzo alla gente perché mi sento costantemente fuori posto.
La vecchiaia ha inizio nell’attimo in cui si ha la percezione di essere oggettivamente inadeguati rispetto al contesto. Ed entra nel suo culmine nell’istante in cui non si ha più la comprensione assoluta del mondo, il che potrebbe essere anche meglio.
Adesso mi permetto di dire e fare cose che non avrei mai immaginato. Ne ho dedotto che alcuni, tra cui io, soffrono di una precoce condizione di senescenza, che nel mio caso è iniziata non molto dopo la fine dell’allattamento, peraltro da mia madre protratto quasi fino al compimento del secondo anno di vita.
La difficoltà di esistere mi accompagna praticamente dal tempo dell’asilo. Ricordo che la suora dell’istituto che frequentavo pretendeva che mettessimo le mani giunte davanti alla bocca mentre recitavamo le preghiere. Poiché dimenticavo costantemente di tenerle proprio davanti come desiderava, mi dava degli scossoni malevoli e, quando distribuiva i giocattoli, a me toccavano quelli mezzo scorticati e rotti, in fondo alla cesta, che nessuno voleva.
Alla mensa mangiavo poco e male e non parlavo con gli altri, tranne che con Sandrino, uno strano bambino che non parlava con nessuno, come me. I nostri discorsi si riducevano a pochi monosillabi da parte mia, ricambiati più che altro da grugniti o cenni da parte sua. Non è che fossimo molto amici, ma univamo in qualche modo le nostre solitudini.
Qualche tempo fa ho saputo che Sandro è morto verso i quarant’anni per overdose, dopo una vita ai margini della società. Si era specializzato in rapine di banche e uffici postali.
A me è toccato un destino diverso.
Il primo ricordo fisico che ho della mia difficile condizione esistenziale risale al giorno che dalla culla mi passarono al lettino. Accadde più o meno in prima elementare, perché ero alto come un soldo di cacio e mio padre andava ripetendo che «come insegna l’autarchia nulla deve andare sprecato per nessuna ragione, finché può essere utile».
Vissi la cosa come un grave lutto. Ero affezionato alle apette che giravano sulla mia testa anche se mi rendevo conto che non avrei potuto tirare avanti ancora per molto in quella condizione: prendevo sonno guardandole. Quel benedetto giorno ebbi la percezione che, se non avessi poggiato le babbucce di lana da notte tra il terzo e il quarto dei sette nani che arricchivano la mia piccola scrivania, nulla nell’arco della giornata sarebbe andato per il verso giusto. Così feci la mattina dopo e non accadde nulla di spiacevole, il che mi convinse che la strategia fosse giusta.
Ne ricavai uno sconsiderato, istintivo amore per i sette nani e la convinzione che avrei dovuto poggiare le babbucce sempre tra il terzo e il quarto nanetto.
Avrete certamente compreso che sono un fisico da un punto di vista culturale e intellettivo, molto meno per corporeità ed emotività. Questa consapevolezza non deve trarvi in inganno, però.
Sono un cervello
in senso tecnico. Di questo sono molto orgoglioso. Capisco alcuni avvenimenti della vita molto prima degli altri. Comprendo quello che passa nella testa degli individui prima che lo percepiscano o che siano in grado di ammetterlo. È divertente vedere come le persone assumano un’espressione sofferta se soltanto fai loro notare quello che pervicacemente non vogliono vedere.
Sono bravissimo nella parte del carnefice. La ritengo una delle poche sensazioni che vale la pena di assaporare.
In verità lo ritenevo. La vita mi ha insegnato che essere furbi alla fine paga. Presentare il conto della verità a quelli che non hanno alcun desiderio di affrontarla è estremamente eccitante ma assolutamente controproducente. Ci riuscivo bene ma ho imparato a smettere. E non è poca cosa, perché la fisica è una strana condizione dell’anima che ti consente di viaggiare negli spazi siderali, ma poi ti accorgi che il viaggio nell’universo non è andato più in là del tuo subconscio. Questo è quello che continua a ripetermi il mio attuale psicanalista.
Da vecchi questa possibilità diminuisce perché i contatti sociali si allentano e la solitudine non consente più di mettersi alla prova.
Per questo, prima che la lucidità mi abbandoni del tutto, ho deciso di raccontare la storia della mia vita.
Vuoi per una crescita legata allo studio della fisica, vuoi per l’effetto della psicoterapia, iniziata già nella seconda infanzia, ho sviluppato una grande capacità di introspezione, da cui ho tratto non pochi benefici. Ho potuto evitare guai semplicemente leggendo le situazioni un attimo prima che si verificassero. Inoltre, ho imparato a comprendere quando è il momento di abbandonare uno psicoterapeuta spremuto e sostituirlo con uno più aggressivo. Detesto i colloqui in cui mi tocca fare anche il lavoro sporco.
D’altra parte, ho qualche difetto che io per primo riconosco, che cerco di combattere e da cui vengo inesorabilmente sconfitto. Ma di questo parleremo strada facendo.
Il resto del racconto verte su un viaggio che ho fatto alla soglia dei trenta, molti anni fa, nel quale sono capitate cose che hanno cambiato il corso della mia vita.
Dimenticavo: sono stato generato da una madre che si svegliava tutte le mattine alle quattro e mezza, puliva casa una prima volta mentre io mi trovavo nel primo sonno e se ne andava in chiesa a pregare. Forse invocava un miracolo per il suo figliolo brutto e strampalato.
Mio padre invece era stato un potente gerarca durante il ventennio, molto rigido nell’educazione, al punto che avrebbe assunto volentieri un trombettiere per scandire i momenti fondamentali della nostra vita domestica. E per uno che osannava tutto ciò che era nero, a eccezione della pelle naturalmente, solo un destino beffardo poteva far concepire un figlio rosso di capelli. Però se n’è fatta rapidamente una ragione. Mi ha cresciuto con tanto amore e tanti schiaffoni in giusta misura.
Non è certo un caso se il mio primo nome è Adolfo. Trauma peraltro superato già al tempo della prima comunione. Quando presi l’ostia ebbi la sensazione che il prete mi guardasse con un certo disgusto e non ero sicuro che dipendesse dal mio aspetto fisico. Mia madre, conscia della complicazione che le tre sillabe comportavano, aveva tentato in tutti i modi di addolcire la cosa provando a chiamarmi con i più disparati vezzeggiativi: Fiffi, Adi, Daddo. Utilizzando il secondo nome, abbreviando anche quello: Ludo, Lullo. Anagrammandoli: Allo, Affo. Col risultato di confondermi più di quanto quella problematica non avesse già fatto.
All’inizio della scuola superiore, quando la professoressa fece il primo appello, chiesi gentilmente che fosse aggiunto sul registro di classe il nome Mario. Addussi come spiegazione il fatto che tutti mi chiamavano così. La pietosa bugia non arrivò alla ricreazione. Da lì all’ostracismo dei compagni di classe che mi affibbiarono come soprannome fascio
e mi costrinsero a sedere all’ultimo banco, leggermente staccato dal resto della fila, col tacito consenso degli insegnanti, il passo fu breve.
Da quel triste giorno compresi che il mio nome mi avrebbe perseguitato per tutta la vita. La sera stessa spostai le babbucce tra il quinto e il sesto dei sette nani. Per un poco andò meglio. Poi ebbi dei sensi di colpa nei confronti degli altri due e le rimisi a posto. Come potete intuire ho avuto una vita altalenante, nella quale i successi scolastici si alternavano alle delusioni esistenziali.
Negli anni Sessanta frequentavo le superiori con il nomignolo di fascio
attaccato addosso. Cercai in ogni modo di spiegare che non era colpa mia se mio padre la pensava in un certo modo.
Mi iscrissi perfino al Movimento Studentesco, nel quale mi accettarono con riserva. Avrei dovuto dimostrare sul campo quello che valevo. All’inizio mi limitavo a lavorare per il gruppo facendo le cose più umili, tipo girare la manovella del ciclostilo, portare i pacchi di volantini nei posti di distribuzione e tenere pulito l’appartamento dove ci riunivamo. Ma non bastò.
Così partecipai ai giorni di lotta, alle risse con i fascisti veri. Avevo il ruolo dell’aizzatore. Mi sentivo una specie di piccolo oplita ma non ho mai osato confessarlo ai capi di allora per paura che, dato l’accostamento, mi cacciassero via. Ero anche bravo. Il mio ruolo consisteva nell’andare verso il gruppo dei neri
e nello sfotterli fino a quando non partivano all’attacco. Poi, grazie alla mia velocità e all’agilità dovuta alla mia struttura fisica, mi dileguavo e quelli del Movimento si scatenavano giustificandosi col fatto che erano stati attaccati.
Tutto finì un giorno di maggio quando, nello sgusciare in mezzo alla gente per evitare di essere preso dai fascisti, fui sollevato da terra da un potente ceffone.
Dalla forza con la quale fui colpito e dalla dimensione della mano compresi che a mio padre la cosa non piaceva. Così posi fine, mio malgrado, al periodo dell’attivismo politico.
Mi spiacque. In quel gruppo avevo trovato una mia piccola dimensione della quale ero felice. Spostai di nuovo le babbucce da notte e dopo qualche giorno le rimisi al loro posto consueto. Ma stetti più attento a controllare che le sette piccole statuette mantenessero la loro posizione, inclinate a ore sette, per evitare che mia madre nello spolverare le disorientasse.
Finito il liceo mi iscrissi all’università.
Le cose cambiarono subito in meglio. La facoltà di fisica era uno strano posto dove nessuno sembrava in linea con una socialità normale. Alle volte avevo la sensazione di trovarmi in un ospedale psichiatrico. I miei colleghi erano avulsi dalla realtà. La cosa mi piacque: al loro cospetto le mie piccole stranezze assumevano una luce diversa.
C’era un collega, un tale Fabio, che studiava tenendo il libro all’altezza degli occhi e nel frattempo danzava. Aveva un amore sfrenato per la danza. Poi odiava il sapone: l’avevamo soprannominato Don Lurido. Il fatto di danzare leggendo gli procurava non pochi problemi.
La prima volta che lo vidi stava studiando la teoria del moto armonico o degli urti di particelle
secondo le equazioni di Hamilton. Ebbi appena il tempo di presentarmi e lui, danzando, di comunicarmi che si chiamava Fabio Lopreni, che lo vidi scomparire alla mia vista in grande trambusto. Era precipitato per le scale da cui si raggiungeva il nostro piano nella casa dello studente.
Nonostante le difficoltà che la sua condizione gli procurava, adorava sia la fisica che la danza e non ci fu verso negli anni successivi di convincerlo a smettere di accomunare le due cose. Anche perché viveva nella casa dello studente soltanto nei periodi in cui era fisicamente integro.
Ma lui non era l’unico soggetto
a frequentare i corsi della facoltà più particolare del mondo. Altri, escludendo me, che con i miei sette nani e qualche altra piccola particolarità potevo essere considerato tra i più normali, non erano da meno e questo mi sembrava bellissimo.
Il mio compagno di camera, Angelo Amantini, accettò di buon grado che avessi la necessità di disporre le statuette dei sette nani orientate a ore sette
in una diagonale perfetta che riproduceva esattamente l’orientamento della costellazione di Orione. E che la mattina deponessi tra il terzo e il quarto le mie babbucce di lana. Era meno convinto del fatto che le indossassi anche in estate ma mantenne un personale riserbo sulle proprie considerazioni almeno fino a quando il nostro rapporto filò per il meglio, a patto che io non facessi parola del fatto che amava dormire con un pupazzo gonfiabile a grandezza naturale raffigurante Superman. Perdeva tempo ogni sera a soffiarci dentro fino a diventare paonazzo e la mattina successiva a sgonfiarlo per poterlo riporre nell’armadio.
Una triste sera abbiamo discusso per colpa di una ragazza incontrata nel pub più frequentato dagli universitari di fisica e le cose sono cambiate. In breve: eravamo seduti al solito tavolo e discutevamo animatamente sulla possibilità teorica che un bosone possa esistere contemporaneamente in due posti diversi anche lontani centinaia di chilometri, quando una ragazza che sedeva al tavolo vicino si voltò verso di noi per dirci, con voce querula e leggermente nasale: «Potete parlare più piano per favore che io e le mie amiche non riusciamo a sentire quello che diciamo?».
«Non capisco quale sia il problema!», rispose con tono professorale e voce baritonale Adelmo Negretti, il decano della nostra facoltà, un metro e ottantacinque per sessantasei chili di peso vestito, schiena leggermente arcuata, naso aquilino e precoce calvizie. Si era iscritto a Fisica per protestare contro l’acculturazione forzata dei ragazzi di buona famiglia frequentando una facoltà, a suo dire, totalmente inutile, se non dannosa.
Poi, folgorato dalla bellezza della materia di studio, dopo un lungo periodo di sofferta riflessione, in cui aveva anche praticato lo sciamanesimo e la pranoterapia, aveva deciso di prendere la laurea per davvero.
«Te lo spiego di nuovo – rispose la ragazza – se non la smettete di urlare noi non si riesce a parlare».
«Come ti chiami, mi dai il numero di telefono?», si era intromesso Angelo, ricevendo in cambio un: «Scusa a te che te ne frega, ma che sei scemo?».
«Vabbè, questa, ha comunque ragione anche se è una minus habens. Rivendico il diritto di difendere gli inferiori!».
«Che hai detto brutto idiota? Minus habens a chi? Aspetta un secondo…», aveva reagito la tipa alzandosi e allontanandosi in direzione della parte più nascosta del locale. Valutai il suo incedere estremamente elegante e stavo per innamorarmi. Nel divagare del cuore non mi accorsi che si era ripresentata, dopo alcuni secondi, accompagnata da un muscoloso soggetto che le chiedeva: «Addo’ stanno li matti?».
«È questo che mi ha offeso!» e la ragazza indicò Angelo.
«Questo? Sto coso co’ la faccia da rincoionito?».
«Come si permette? Villano. Io non ho offeso nessuno. La mia era una semplice constatazione. Niente più che una presa di coscienza della realtà effettuale. Non avrei mai pensato… che sciocco... Non ho davvero nulla contro le persone di livello inferiore...» e ricevette una manata sul torace che rimbombò nello spazio come un tuono. Perse l’equilibrio e riuscì a non cadere tenendosi aggrappato al tavolino. Poi si rifece avanti col dito sul naso del tale: «Lei crede davvero che il fatto di essere muscoloso le consenta di…».
Un potente ceffone zittì Angelo e lo mandò a sedere, producendogli una piccola ferita sul labbro inferiore. Ne nacque un tafferuglio in cui fummo coinvolti tutti e quattro, anche Ariberto Noselli, statura media per novantasei chili, naso a patata, che, fino a quel momento, era rimasto zitto più interessato a un grosso panino con doppio hamburger, pomodoro, insalata e formaggio, che alla nostra conversazione.
Gliele demmo di santa ragione, così mi pare di ricordare, almeno fino al momento in cui persi i sensi. Che poi non ho mai capito quale sia la logica che determina certi comportamenti delle donne. Alle volte non danno l’idea di essere lineari. Anzi, sembra proprio il contrario.
Sembra che ti guardino in un certo modo, in quel certo modo che tu pensi: dai forse ce l’ho fatta. Questa volta mi riesce il buco nella ciambella
. Poi quando fai un timido passo avanti si ritirano con la velocità di un paguro nel guscio e ti lasciano con un palmo di naso. I casi sono due o non si riesce a controllare l’espressione del proprio sguardo o c’è un’ipocrisia di fondo, perché non sono l’unico a vantare esperienze così traumatiche. Mi sono reso conto delle mie difficoltà già dai tempi delle scuole elementari, per cui ho imparato presto a tenermi in disparte per evitare imprevisti rovesci.
Dicevo della rissa scoppiata in quel locale. Mi ritrovai in Pronto Soccorso disteso su di una branda nel corridoio, a fianco dei miei tre compagni. Angelo era molto contrariato. Seppi dai medici che prima di riprendere conoscenza aveva continuato a ripetere, nello stato stuporoso, che aveva pessimi amici. Ora ci guardava torvo. Quante ce ne avrebbe dette se solo il gonfiore del viso gli avesse consentito di parlare!
Spiegò successivamente che la sua dignità era stata ferita dal fatto che lo avevamo aiutato. Era persuaso che avrebbe potuto cavarsela da solo. Che aveva due braccia come l’energumeno che ci aveva assalito. Che la velocità di movimento delle sue era maggiore di quella dell’altro e che il nostro intervento, lungi dal migliorare le cose, le aveva peggiorate. Diceva che doversi preoccupare che non ci accadesse nulla lo aveva deconcentrato. A giudicare da come ero stato ridotto per colpa sua e soprattutto da come era stato ridotto lui, la sensazione fu che parlasse nei fumi della commozione cerebrale.
Fatto sta che da quel giorno i nostri rapporti divennero più freddi. Iniziò a rimproverarmi che i sette nani occupassero un terzo della scrivania e che le calze nei mesi caldi maleodorassero. Fu duro spiegargli che non potevo lavarle più di una volta a settimana per una strana allergia al sapone che colpiva la cute dei miei piedi. E mi toccò controllare costantemente che le statuette non venissero spostate, cosa che accadeva di frequente quando ero via.
La diatriba andò avanti in modo sempre più aspro.
Mentre Angelo gli dormiva abbracciato, fui costretto a pungere con uno spillo il Superman che, sgusciandogli tra le braccia, partì a razzo andando a sgonfiarsi sull’armadio, dopo aver volteggiato sul soffitto. La sera successiva Angelo, per poterlo gonfiare, era stato costretto a incerottarlo. Con quel vistoso cerotto bianco Superman aveva perso parte della sua baldanza. Pure Angelo mi sembrò dimesso.
Mi fece pena e gli chiesi scusa. Da allora la situazione si ricompose.
A parte queste piccole contrarietà, il periodo universitario fu il migliore che avessi vissuto fino ad allora. Non potevo immaginare che uno che dedica la propria vita alla fisica potesse avere la mente indirizzata verso i luoghi comuni. E non lo penso nemmeno oggi che sono abbastanza avanti negli anni. Ciononostante, mi laureai.
Venni chiamato a lavorare gratis all’Istituto Superiore di Fisica della Materia a Roma, in attesa di qualche eventuale concorso. Da lì partì la mia carriera. Ci passavo intere giornate: era l’unico posto dove mi sentissi a mio agio. Ero interessato a tutto quello che mi accadeva intorno e nelle pause leggevo gli articoli scientifici pubblicati dai colleghi americani, tedeschi e giapponesi.
Capii in quel periodo che la fisica era tutta la mia vita. Ero tenuto in grande considerazione dai professori. Soprattutto dal mio superiore diretto. Tale Arcangelo Antonini alto, grasso, con i baffi asburgici. Grandissimo ricercatore. Famosissimo in tutta l’università per aver fatto esplodere una sala tecnica durante un esperimento. I maligni dicono che al momento topico si trovasse in bagno per non so quale motivo. Non ho mai voluto dar retta alle malelingue.
Comunque, il professor Antonini mi prese a benvolere e mi trasferì tutto il bagaglio di conoscenze in suo possesso. Ne feci tesoro. A distanza di qualche anno divenni famoso per avere collaborato con la scuola