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I Settala. L'arte, la scienza e la peste: Da Federico Borromeo ad Alessandro Manzoni
I Settala. L'arte, la scienza e la peste: Da Federico Borromeo ad Alessandro Manzoni
I Settala. L'arte, la scienza e la peste: Da Federico Borromeo ad Alessandro Manzoni
E-book858 pagine10 ore

I Settala. L'arte, la scienza e la peste: Da Federico Borromeo ad Alessandro Manzoni

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Info su questo ebook

Il protofisico milanese Ludovico Settala, ben noto dalle citazioni
ne I Promessi Sposi, guida un gruppo (includente i figli Senatore
e Manfredo, e Alessandro Tadino) al quale si deve un nucleo
importante di documenti inediti qui raccolti in volume: un ricco
dossier sulla peste manzoniana, il protocollo della scoperta dei
vasi linfatici, testi politici; il tutto con la visualizzazione artistica di
Daniele Crespi. Il nucleo, oggi in Archivio Arese Lucini di Osnago, è
stato sicuramente consultato e utilizzato dal Manzoni.
LinguaItaliano
Data di uscita8 ago 2023
ISBN9791281331167
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    Anteprima del libro

    I Settala. L'arte, la scienza e la peste - Andrea Spiriti

    Copertina_I_Settala_1.jpg

    ARTIUM SYMPHONIA

    Collana di Storia dell’Arte

    2.

    Direzione di

    Laura

    Facchin

    e Massimiliano

    Ferrario

    Comitato scientifico

    Christine

    Casey

    (Trinity College, Dublin)

    Fauzia

    Farneti

    (Università degli Studi di Firenze)

    Petr

    Fidler

    (Universität Wien)

    Ilaria

    Fiumi Sermattei

    (Pontifica Università Gregoriana, Roma)

    Martin

    Krummholz

    (Ústav dějin umění Akademie věd České republiky, Praha)

    Jennifer

    Montagu

    (The Warburg Institute, London)

    Mariusz

    Smoliński

    (Uniwersytet Warszawski)

    Se pareba boves, alba pratalia araba,

    et albo versorio teneba, negro semen seminaba.

    Gratia tibi agimus, potens sempiternus Deus.

    Edizioni AlboVersorio, Milano 2023

    www.nonsolosophia.it

    mail-to: [email protected]

    ISBN: 9791281331167

    Direzione editoriale: Erasmo Silvio

    Storace

    Impaginazione a cura di: Giorgia

    Toppi

    Andrea

    Spiriti

    e Laura

    Facchin

    I settala.

    L'arte, la scienza e la peste

    Da Federico Borromeo

    ad Alessandro Manzoni

    INDICE

    Premessa, Gianmarco Gaspari

    Prefazione, Andrea Spiriti, Laura Facchin Ludovico Settala: la carriera di un intellettuale, Andrea Spiriti

    I Settala: famiglia, collezioni ed eredità, Laura Facchin

    Il Giuseppe Flavio Ambrosiano e gli avori Trivulzio: un acquisto

    dalla collezione Settala, Carlo Maria Mazzucchi

    Illustrazioni

    Storia dei manoscritti, Laura Facchin

    Criteri di trascrizione, Andrea Terreni

    I Manoscritti

    A cura di Laura Facchin, Andrea Terreni

    1. Studi anatomici: la scoperta dei vasi linfatici (1622)

    2. De Peste (1628-1631):

    Cronaca della Peste

    Diutile

    Cronaca del Senator Settala

    3. Lettere di Alessandro Tadino a Ludovico Settala (1628-1630)

    4. Gride (1628-1633)

    5. Predica sulla peste (1629-1630)

    6. Elenco dei morti (1630)

    7. Lettere di Caspar Schopp a Ludovico Settala (1630)

    Bibliografia

    Indici dei nomi e dei luoghiCrediti fotografici delle illustrazioni

    Premessa

    Gianmarco Gaspari

    Nell’inverno del 1615-16, a Leonberg, nella Svevia, sei donne denunciate come streghe venivano condotte al rogo, mentre in un paese vicino, tra quell’anno e il 1629, se ne giustiziarono altre trentotto. Una vecchia di Leonberg era stata accusata di malocchio, e di aver tentato di corrompere un becchino per ottenere il cranio del padre di una sua vicina – testimone dell’accusa –, che doveva servire come calice per le cerimonie di magia nera operate dal figlio, noto stregone e astrologo. Una bambina di dodici anni che la incrociò per strada raccontò che, alla vista della vecchia, il braccio le si immobilizzò per giorni (non è un caso che l’italiano assegni a questi sintomi il nome popolare di colpo della strega, come nel caso del tedesco Hexenschuss). La vecchia soffrì diversi mesi di prigionia, incatenata; fu sottoposta a interrogatorio davanti al boia e assolta, sei anni dopo l’inizio dell’inchiesta, per morire pochi mesi dopo, il 13 aprile 1622. Non aveva però potuto rimetter piede a Leonberg, dove la popolazione si sarebbe rivoltata contro di lei.

    Quella donna si chiamava Katharina, ed era la madre di Keplero. Nel 1621, quando veniva prosciolta, Keplero rimise mano a un progetto giovanile, il racconto di una spedizione sulla luna, che associava a un fitto reticolato di elementi simbolici i risultati delle osservazioni telescopiche. Il Somnium, sive de astronomia lunari, si apre con l’autore che sogna di leggere un libro – acquistato casualmente al mercato –, che racconta la vicenda di Duracoto¹. Viaggiatore e uomo di scienza, Duracoto è l’alter ego di Kepkero: ha assistito alle osservazioni astronomiche di Tycho Brahe, e riesce così a spiegare alla madre, Fiolxhilde, i suoi errori. Ma Fiolxhilde possiede a propria volta una scienza superiore, ed è in contatto con «spiriti sapientissimi» che spesso la trasportano in luoghi lontani. Su richiesta del figlio, condivide la propria esperienza con lui, e grazie a uno degli spiriti-guida che si è faticosamente rivelato, Keplero-Duracoto e Katharina-Fiolxhilde raggiungono la luna e vi dimorano per qualche tempo. Sono le parole stesse di Keplero, in una nota al racconto, a spiegare le ragioni della pubblicazione postuma: «Finché tra gli uomini perdura l’ignoranza, è meglio risparmiarsi per una dignitosa vecchiaia, attendendo il compimento di quegli anni che consentiranno finalmente la morte dell’ignoranza stessa, ormai decrepita»; ma basterebbe anche solo ricordare che proprio nel 1616, quando si avviava il calvario di Katharina, il Sant’Uffizio aveva dichiarato «stolta e assurda», dunque formalmente eretica, la tesi eliocentrica, condannando la lettura del De rivolutionibus di Copernico, il maestro di Keplero, e con quello tutti i libri «docentes mobilitatem Terrae», anche di futura pubblicazione².

    Mentre stendeva una memoria per difendere, in modo meno equivoco, la madre dal rogo, Keplero proseguiva la stesura degli Harmonices Mundi. Nel sesto libro trattava dei suoni prodotti dai pianeti: le note della Terra sono mi-fa-mi, sosteneva, e concludeva che miseria e fame vi regnavano perciò sovrane. Nel libro è contenuta anche quella che conosciamo come la terza legge di Keplero, a renderci evidente, se fosse necessario, come i primi passi di quella che diventerà la rivoluzione scientifica procedessero con fatica, e tutt’altro che linearmente.

    Il Somnium, com’era prevedibile, giunse a stampa soltanto postumo, nel 1634. A Milano, dove Keplero aveva pochi ma attenti lettori, si era consumata negli stessi anni una vicenda che per più aspetti si apre su un altrettanto plumbeo panorama, al confine instabile che, in dipendenza di variabili spesso difficili da isolare, separa quella che per noi è la realtà storica da quella che i testimoni e i protagonisti hanno vissuto come tale. Vicenda esemplare e celebre, certo, tanto da costituire un paradigma assoluto, nella sterminata bibliografia che se n’è impadronita: e tanto da stupirci che possa essere arricchita da pagine ancora rilevanti, se non addirittura fondamentali, come è il caso di queste che ci mettono innanzi le cure di Laura Facchin e di Andrea Spiriti. Fondamentali di per sé, va aggiunto, ma anche – e qui si giustifica meglio il senso del paradigma – per quel che ne ricavò il più illustre lettore che le abbia avvicinate, e che se ne servì per la ricostruzione storica, il più possibile veritiera, sulla quale voleva fondare una vicenda d’invenzione.

    La casa milanese di Ludovico Settala, nella contrada di Sant’Ulderico (ora via Pantano), a pochi passi dal Duomo, era tra le poche dove a Milano si leggesse Keplero e si stimasse l’opera di Galileo. Protofisico dello Stato dal 1628, dall’anno successivo Ludovico fu costretto a impegnare totalmente la sua scienza, coadiuvato dal figlio Senatore e da Alessandro Tadino, in servizio dell’emergenza sanitaria che piegò la città per due lunghissimi anni, facendo strage di popolo, di ogni ordine e grado, e di molte delle certezze che, quasi ottantenne, aveva accumulato nei suoi studi e nelle sue esperienze. I documenti che si raccolgono in questo libro sono pertinenti a una raccolta unitaria, sopravvissuta agli smembramenti causati dal trasferimento della residenza della famiglia alla Cavalchina, nel 1811, e alle alienazioni per ragioni dinastiche, che causarono la dismissione delle cospicue raccolte, dei manoscritti, dei libri e dei mirabilia (il museo domestico che incrementerà il figlio Manfredo, una Wunderkammer che sarebbe diventata una delle più cospicue attrazioni offerte dalla città anche ai viaggiatori stranieri). Per linea matrimoniale, parte delle carte pervennero ai Casati Stampa di Soncino, e da qui agli Arese, come prestito-dono di Alessandro Casati (dunque prima del 1952, anno della sua morte), anche per essere utilizzate, come di fatto avvenne, nella redazione della Storia di Milano cui Arese attendeva per conto della Fondazione Treccani degli Alfieri. I curatori le hanno potute così avvicinare nell’Archivio della Famiglia Arese ad Osnago, e il loro lungo lavoro di trascrizione e di commento mette ora innanzi al lettore una messe di eccezionale interesse, che incrementa in modo spesso sorprendente la documentazione già nota – e già impressionante per quantità – su un periodo cruciale della storia moderna, con il rilievo aggiuntivo di una vicenda osservata e descritta dagli stessi protagonisti.

    Unite ad altri materiali relativi agli assi patrimoniali, sono dunque presenti nel fondo cinque sezioni di carte relative alla peste del 1630. La prima afferisce agli interessi anatomici di Ludovico Settala e di Gaspare Aselli, e documenta la scoperta dei vasi linfatici o chiliferi, coprendo il periodo 1622-1627; la seconda è costituita dalla cronaca dell’epidemia (1628-1631), di mano di Senatore, ma sicuramente redatta sulla base delle indicazioni paterne; la terza è una raccolta antologica delle gride sulla peste, che dal 1628 giunge al 1633, quando è ormai dato per pacifico il ritorno alla normalità; la quarta è una bozza-promemoria redatta da un altro dei diciotto figli di Ludovico, Gerolamo, canonico del Duomo di Monza e stretto collaboratore di Federico Borromeo: si tratta di materiali preparatori (spesso di notevole qualità) per la predicazione sulla peste, la cui stesura è riferibile al periodo tra 1629 e 1630 (anno in cui lo stesso Gerolamo morirà di peste); la quinta è un elenco dei morti di peste nel corso del 1630.

    Ferma restando l’eterogeneità di fondo dei materiali, ne è ben ravvisabile, come ipotizzano i curatori, la convergenza a un fine esplicitamente politico, quello cioè di documentare in dettaglio le ragioni che guidarono la condotta del protofisico e dei suoi collaboratori, giustificandola con il supporto di una cronaca puntuale degli eventi, delle misure assunte e dei dati statistici. Convincente appare così la tesi che ne definisce la vicenda legandola agli interessi della fazione della potente famiglia Arese, e inquadrandola nello scontro con i rivali Trivulzio, proseguito trionfalmente fino a quella sorta di regolamento dei conti che sarà il processo agli untori.

    Estimatore di Keplero e di Galileo, Ludovico Settala è, ricordiamolo, risolutamente aristotelico, e tra i princìpi che lo guidano trovava sicuramente un posto di rilievo quel che sostiene il filosofo nella Retorica (1360a), che cioè le historiae devono essere funzionali alla politica, non all’oratoria. E va appunto notato come entro questo quadro vengano a collocarsi temi di riflessione decisivi, nella direzione dei mutamenti radicali di statuto dell’una e dell’altra – politica e oratoria –, dalla diffusione e reinterpretazione delle teorie di Machiavelli al libertinismo, alla nuova pedagogia sollecitata dalla presenza a Milano di Ericio Puteano (che alle «camere di tortura» cui ancora agli inizi del Cinquecento Erasmo paragonava le aule scolastiche sostituiva il nuovo paradigma del suo Iconismus, «Homines sumus, non scopuli»)³, ai nuovi modelli di dissimulazione che al lettore emunctae naris potevano offrire le enciclopediche Imprese sacre di un Cesare Paolo Arese (che, come ben osserva Spiriti, veicolano anche una lode cifrata del sistema copernicano). Anche qui, una diffrazione del sapere attraverso un programma pansofistico (lo stesso, in fondo, che è alla base dell’accumulazione museale) che man mano gli anni spoglieranno dei suoi presupposti metafisici per rendere l’enciclopedismo lo strumento più agguerrito al servizio della critica e del sapere empirico⁴. L’ultima illusione, anche, dell’esistenza di un homo universalis, che s’intende quanto e come potesse venir provato, nelle contingenze che stiamo esaminando, dal ritorno in forze dell’irrazionale, o almeno dalla difficoltà, in un crescendo spasmodico di urgenze e di paure, di distinguerlo dal resto dei possibilia, quelli accreditati dal proprio sapere.

    La registrazione delle vicende, nelle carte di mano di Senatore, si traduce in un elenco di fatti memorabili puntigliosamente datati, che definisce – ciò che dà anche senso al loro fine pratico – dies utiles, per italianizzarli, più avanti, nei vari riassetti del testo, in diutili (forse sulla base di un’affinità etimologica con diutĭnus, o nell’imminenza del conio di diuturno, da poco messo in auge, nel senso di quotidiano, continuo, da Marino e da Ferrante Pallavicino). E la cronaca non può non partire da «casi monstruosi», come l’eclisse che si verificò il 20 gennaio 1628, a dieci anni di distanza dalla «gran cometa» descritta da Keplero nei suoi Libelli. Nell’agosto dello stesso anno, ecco comparire «doi casi di febre maligna» definibili «come infirmità da influsso celeste», mentre all’orizzonte si profilano miseria e fame. Siamo così prossimi all’11 novembre di quel 1628, San Martino, un sabato, quando, «essendo luna piena, si suscitò ribellione in Milano per il pane». Ovvio che qui la nostra attenzione evochi immediatamente le pagine manzoniane, dove troviamo la pronta conferma di un’attenzione tutt’altro che passiva ai diutili di Senatore: «cominciò in cosa di burla», seguita infatti la cronaca, «ma fu poi cosa notabilissima, poi che certi furbi o capporioni rubarno, doppo le altre bestialità […], li denari al prestinaro delle scanze, et abruciarno tutti li utensili». Nella rassegna delle fonti che confluiscono nel cap. XII dei Promessi sposi, il Raguaglio di Tadino e il De peste di Ripamonti sono già stati ampiamente censiti, ma la voce che ascoltiamo ora è la prima, salvo errore, a far menzione del nome popolare del prestino, che l’italianizzazione (ancora) conferma femminile, e riconducibile senz’altro alla scanscia glossata dal Vocabolario milanese di Cherubini come «specie di gruccetta che si adopera a smuovere i panetti nel forno o sulla madia», probabilmente raffigurata nell’insegna della bottega. L’oscillazione dei prezzi del pane, nella narrazione che segue, la ribellione «al Corduso» del giorno successivo, l’ingresso in città, il 20 novembre, «a hora una di notte», del governatore ad interim don Gonzalo de Cordova, il modo insomma in cui «cominciò la ruina di questa città», sono tutti tratti che Manzoni annotò con cura e precisione, non senza risentire di qualche cifra stilistica propria del lessico (ristretto ma peculiare) del cronista, come nel caso di quel vocativo «figliuoli» che, per restare allo stesso capitolo, affiora più volte nelle frenetiche allocuzioni del capitano degli alabardieri («Figliuoli! grida […]; figliuoli, andate a casa. […]. Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo!»). E così per esempio Senatore (è il momento della partenza di don Gonzalo, il 22 agosto del ’29) distingue nel «sopravento bestiale» della folla il «popolazzo» dai «figlioli di Milano», cui pare affidare qualche credenziale di buon senso, nei limiti imposti da una tale temperie. Non dimenticheremo qui che per Manzoni la massa non è un monolite, un corpo unico, ma piuttosto «un miscuglio accidentale d’uomini», pronti «alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento» (cap. XIII). La folla di tremila scalmanati che Zola, in Germinal, manda all’assalto del villaggio di Montson e che lincia il droghiere Maigrat (e che giustamente qualcuno ha confrontato ai tumulti del romanzo manzoniano)⁵ per poi castrarlo e portarne in trionfo i genitali, è altra cosa, e prefigura già la forza d’urto cieca di tante masse del nostro Novecento. In questo senso, vale per Manzoni quello che, a romanzo già avviato, si trovava a considerare nel Discorso sopra la storia longobardica, come principio assoluto e senza condizionamenti di civiltà o di epoche: «Una immensa moltitudine d’uomini, una serie di generazioni, che passa sulla terra, su la sua terra, inosservata, senza lasciarvi un vestigio, è un tristo ma portentoso fenomeno; e le cagioni di un tanto silenzio possono dar luogo ad indagini ancor più importanti, che molte scoperte di fatto».

    Queste premesse e questi dettagli, e i tanti che si profilano oltre la soglia su cui dobbiamo di necessità trattenerci, lasciano intendere quanto fosse fondamentale per Manzoni non solo il reperimento delle fonti, ma anche il loro confronto e la loro valutazione. Tra le prime che avvicinò, quando, nella primavera del 1821, mise mano al Fermo e Lucia, è la Historia patria di Giuseppe Ripamonti, che come storia ufficiale degli anni dell’epidemia dovette rimanere a lungo sul suo tavolo da lavoro. Man mano che proseguiva la stesura, però, Manzoni si rendeva ben conto di come il ruolo dell’autore incidesse sull’orientamento dei suoi giudizi e sulla stessa descrizione dei fatti, tanto che nel cap. VII della Colonna infame rende partecipe il lettore della sua strategia: «Il luogo dove fa intendere più chiaramente il suo sentimento», annota, «è dove protesta di non volerlo dire». Di altra natura, ma altrettanto significativa di un orientamento che poco o nulla è disposto a concedere a un’assunzione neutra dei dati, per fare solo un altro esempio, è la postilla che accampa a margine di un’osservazione del pur amato Muratori, quando negli Annali, in corrispondenza dell’anno 1628, definisce «grandezza dell’animo» la sospensione di un’esecuzione capitale: «Grandezza l’astenersi dal far decapitare innocenti! Quando non si avesse altra prova del pervertimento delle idee e del linguaggio all’epoca in cui il Muratori scriveva, questa sua espressione la farebbe indovinare» (al lettore la possibilità di ricordare, dalla vicenda dell’assedio alla casa del vicario di provvisione, nell’esordio del cap. XIII, che pure quell’indovinare è per Manzoni, antifrasticamente, operazione storica).

    Lo stesso gli occorse naturalmente di fare quando il ruolo decisivo che la gestione dell’epidemia assegnava al protofisico si rese disponibile all’indagine, grazie all’amicizia di Luigi de’ Capitani Settala, come ipotizza giustamente Laura Facchin. Il contenuto della busta che si conserva tutt’oggi a Osnago con l’intestazione Alessandro Manzoni gli pervenne sicuramente entro il 1823, all’epoca della stesura del Fermo: in parallelo a quanto accadde per le fonti successive al Ripamonti (e naturalmente, com’è risaputo, al Gioia del Saggio sul commercio de’ commestibili), che l’amicizia di Gaetano Cattaneo gli procurava dal Gabinetto Numismatico di Brera, e alle quali si aggiungevano settimana dopo settimana le richieste rivolte all’Ambrosiana e ad altre biblioteche private, con ogni probabilità dopo la stesura dei primi due tomi, in ragione della necessità non ancora cogente di quella documentazione capillare che scatterà successivamente (in modo vistoso con l’avvio del quarto tomo, concluso il terzo l’11 marzo 1823), e in coincidenza con «la scarsità delle note di lettura cadute sui volumi» (quelli che ci erano appunto già noti) nella prima parte della stesura. Nel Fermo è la seconda metà del romanzo, a partire proprio dalla descrizione del tumulto di San Martino, a sollecitare come indispensabili gli approfondimenti storiografici, mentre nei Promessi sposi, «assodati i contorni storici degli eventi narrati"» come è stato dimostrato⁶, la documentazione potrà esibirsi già a partire dal cap. XI.

    Ovvio che Manzoni integrasse la lettura di queste carte con la costante attenzione alla personalità di Ludovico, del resto coinvolto in più di un episodio cruciale della narrazione romanzesca: centrale, il medaglione biografico che ne offre il cap. XXXI, dove alla folla che gli si fa intorno minacciosa, nel corso della visita resa ai «suoi ammalati», e che lo ritiene paradossalmente responsabile della diffusione del morbo, si contrappone il discutibile elogio a «un suo deplorabile consulto» che contribuì alla tortura e alla morte di Caterina de’ Medici, portata in accusa come strega (1616) dal futuro vicario di provvisione Ludovico Melzi. Perché «l pover’uomo», annota Manzoni riferendosi appunto a Ludovico, «partecipava de’ pregiudizi più comuni e funesti de’ suoi contemporanei: era più avanti di loro, ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che attira i guai, e fa molte volte perdere l’autorità acquistata in altre maniere». E ancora come «povero vecchio» Settala fa un’ultima comparsa nello stesso capitolo, caduto infermo della peste che stava così attento a curare ed evitare, «lui, la moglie, due figliuoli, sette persone di servizio»⁷.

    Il giudizio di Manzoni non può prescindere da un’etica moralistica che, se può talvolta suonare, a noi lettori di un’altra epoca e certamente meno disponibili a indottrinamenti di sorta, incongrua o addirittura pedantesca, non ci esime dal rilevarne l’intensa quota di partecipazione emotiva, il tributo a un’imprescindibile verità che può magari non essere la nostra, ma che ha l’assoluta necessità di esistere in quanto tale, pena lo smarrimento o la gratuità del nostro stesso esistere al mondo. Immaginiamo così lo stupore che dovette accompagnare Manzoni, nella lettura di queste carte, davanti alle annotazioni dell’uomo di scienza sull’effetto del ripetersi delle eclissi e delle «tempeste grosse come ovi di gallina», sulle «stravaganze di vermi et flussi», sulla pratica del «purgare» allargata ai libri, ai cavalli e agli strumenti musicali, sui sezionamenti anatomici di cani vivi, sul prodigio del bimbo che a cinque anni imparò in due mesi a leggere latino e volgare (ma sarà da ricordare, in quell’età di prodigi, il bambino di Lubecca nato già in grado di parlare, e che il latino l’aveva imparato a un anno, tanto che i genitori trovarono sensato offrirne la mano alla piccola Maria Gaetana Agnesi, che aveva allora cinque anni e contezza di francese, ebraico, tedesco e spagnolo)⁸. E immaginiamo anche la sua lettura divertita davanti a qualche (rara) nota di colore, come nel caso della lettera di Tadino che scrive a Settala, da Galbiate, nel novembre del ’29, che «quelli di Lecco sono genti ostinate».

    Ma, ferma restando l’amplissima ricchezza documentaria di queste pagine, preme anche sottolinearne la disponibilità a una lettura autonoma, sottratta ai condizionamenti della prospettiva manzoniana: valuti il lettore se gli riesce, ad esempio, di avvicinare senza diaframmi la descrizione dei «carri […] carichi di vivi morienti» che percorrono la città assediata dal morbo, o quella dei «poveri figlioli» assiepati nel lazzaretto, in trenta o quaranta in camere minuscole, «come tante bestie», con la prescrizione che si accompagna di tener separati, per quanto possibile, i differenti sessi e le differenti età e condizioni. E, quel che conta, si tratterà anche di valutare come di questo il nostro annotatore scrivesse senza modelli e senza certezze, ma più d’una volta squarciando il velo pesante dei propri condizionamenti: «che ciò sia provenuto dall’aria, dalle costellazioni» o da altro, lo sentiamo dire per una volta, è certo che «la liberatione sia per avvenire dal governo politico, dalla cura de’ medici». O, nella bozza della predica sulla peste, in una prosa che non può lasciare indifferenti: «Dolorosa morte è quella che va serpendo di presente ne’ nostri popoli; e dall’effetto ne riceve il nome di peste, o pestilenza, quasi che si possa dire devoratrice delle umane sostanze […]; ma più dolorosa la conoscerà, e stimerà l’uomo, se si considera con le sue proprietà, cioè che sia imprevista, et impensata al moriente, che nella infermità precedente lo privi d’ogni officio dovutoli dalla umanità anche del proprio sangue, restando abbandonato il padre dal figlio, la moglie dal marito, e da i più suoi congionti ogni altro nell’estremo di vita, e di morte». Sottratto a ogni umana cura, l’uomo prossimo alla fine avverte questa sua condizione «terribile e spaventosa», che fa sì «che il moriente vegga prima di morire la morte de i suoi più cari, e prevegga la desolatione di sua casa, de’ suoi amici, della sua patria». I diutili dei Settala, se è il caso di sottolinearlo, hanno così qualcosa da raccontare anche al nostro presente, e, per quanto sopraffatti dalla ben diversa prosa di un romanzo, non potranno lasciarci indifferenti.


    1. Per il contesto e altri dati, Rossi 2001, pp. 93-97.

    2. Lerner

    2004, pp. 21-89.

    3. Erasmus 1910, vol. II, p. 154; Puteanus 1622, p. 1.

    4. Cfr. Vasoli 1978, p. 18.

    5. Rossi 2001, pp. 148-149.

    6. Nunnari 2013, pp. 7-9 e passim.

    7. Passano in rassegna le presenze del protofisico nel romanzo Spiriti-Facchin 2023, pp. 41-46 (a p. 45).

    8. Guerzoni 2006, pp. 170-177.

    Prefazione

    I documenti qui riprodotti e i saggi che ne qualificano l’importanza sono un significativo frammento dell’archivio familiare dei Settala, a cominciare dal grande protofisico Ludovico. Le vicende della peste federiciana e manzoniana si combinano con ad osservazioni scientifiche (a cominciare dalla scoperta dei vasi chiliferi), coinvolgendo personaggi del calibro di Federico Borromeo; Caspar von Schopp; Gaspare Aselli; Alessandro Tadino; Gerolamo, Senatore e Manfredo Settala. Ed è notevole la scoperta dell’uso di queste carte: Alessandro Manzoni le vide e utilizzò, con tutte le conseguenze del caso nella redazione del suo romanzo.

    Per altro verso, le carte dimostrano un rapporto strettissimo fra i Settala e Daniele Crespi, una delle più geniali personalità del Seicento pittorico lombardo; e gettano nuova luce sulla fondazione e stratificazione generazionale del Museo Settala, come sulle tormentate vicende della sua dispersione. Si tratta quindi di una lettura dal fascino transdisciplinare, che costringe ad interrogarsi sui nessi ed influssi che nella Milano del Seicento spagnolo univano nella storia i percorsi di arte, architettura, scienza, medicina, politica.

    Fra i molti debiti contratti e ringraziamenti conseguenti, tre spiccano: a Elisa e Marco Alfonso Arese Lucini, proprietari delle carte e generosi concessori del loro studio; ad Angelo Stella, che molto vi si è applicato. Senza di loro questa pluriennale fatica non avrebbe visto la luce. Infine, un ringraziamento a Gianvittorio Signorotto per i suoi lucidi e preziosi consigli in fase di revisione.

    Andrea Spiriti, Laura Facchin

    La carriera di un intellettuale

    Andrea Spiriti

    Nato a Milano il 27 febbraio 1552 da Francesco Settala (figlio naturale di Ludovico, non legittimato ma erede)⁹ e Giulia Riva, Ludovico¹⁰ è il rampollo di una tipica famiglia del patriziato urbano, che basa la propria fama sull’identificazione fittizia con l’arcivescovo Senatore (secondo una tendenza di appropriazione simbolica dei presuli cognominati propria del mondo ambrosiano e codificata lentamente fra Cinque e Settecento) e su quella reale col beato Manfredo, coi due Lanfranco connessi alla chiesa agostiniana di San Marco e coi due arcivescovi Enrico e Francesco: tutte presenze scandite lungo il XIII secolo e la cui memoria è rinverdita dalle continue presenze nell’onomastica familiare. Le vicende bassomedioevali della stirpe sono caratterizzate da una fitta presenza di presuli e di religiosi, in alternativa ai consueti impieghi nell’Ateneo pavese, nella burocrazia visconteo-sforzesca, nel mestiere delle armi. Da queste vicende, segnate per un verso dalla nobiltà delle origini sacre, per un altro dalle non chiare vicende recenti, nasce quella volontà di riqualificazione familiare che si codifica (sotto la probabile egida del ramo maggiore, i capitani di Settala) nelle operazioni promosse nel borgo eponimo, dove gli anni Settanta e Ottanta del Cinquecento (quelli cioè di un Ludovico venti-trentenne, e quindi in grado di codeterminarle) vedono precisi interventi nella parrocchiale di Sant’Ambrogio¹¹.

    Qui la cappella della Madonna del Rosario viene ornata, dopo il 1566 ed entro il 1570¹², da un ciclo di affreschi (fig. 1) che includeva al centro la Madonna del Rosario con intorno i Misteri, a destra Santa Pelagia, a sinistra un santo ignoto (affresco perduto)¹³, nella lunetta destra San Domenico di Guzmán, nella sinistra (perduta) Santa Caterina da Siena¹⁴. Attualmente un vasto frammento del riquadro centrale, strappato, è collocato sulla parete sinistra, le cui immagini sono scomparse; è invece quasi intatta (salvo la porta) la parete destra. Avanzano anche due frammenti dell’iscrizione dedicatoria: RESTAURATA ET EXORNATA FUIT ELEEMONSY/(NIS) …/ SEPTALE ANNO SALUTIS MDLXXX.

    In effetti dalle Visite pastorali risulta che nel 1566 la cappella esisteva ma non era decorata, nel 1570 era figurata solo la nicchia, e nel 1586 l’instaurazione della Confraternita del Rosario lascia intuire la fine lavori, compatibile con l’iscrizione. Purtroppo non siamo in grado d’indicare il Settala dell’iscrizione (Francesco? Ludovico? Gerolamo?), ma sicuramente si tratta di un atto importante, di buon livello iconografico e formale. Merita rilievo l’iconografia di Santa Pelagia, col mazzuolo iconico (fig. 2), veneratissima a Milano e in particolare dalla futura consorteria Arese, al punto che il suo oratorio diverrà centro di un movimento quietista¹⁵. Domenico è effigiato nella sua funzione d’inventore del Rosario (fig. 3), mentre i Misteri hanno palesi punti di contatto con quelli innovativi di Aurelio Luini in San Francesco di Saronno (1567)¹⁶. Siamo cioè in quel vasto ambito di elaborazione dei modelli luineschi e tibaldiani (e in misura minore del Lomazzo e del Della Cerva) che porterà alla lenta elaborazione il cui punto conclusivo è il vasto e non sempre uniforme mondo degli Avogadro e dei Pozzo. Un indizio interessante ci potrebbe venire dal ciclo che il malnoto Alfonso Taveggia esegue con gli Avogadro nel 1599 a Sant’Ambrogio di Rozzano¹⁷; ma in realtà si tratta di modelli diffusi nell’ancora malcatalogato tardomanierismo milanese. Una conferma ci viene dall’oratorio di Santa Maria di Piazza (fig. 4), nei pressi della parrocchiale di Settala, dove entro il 1607 una maestranza distinta (simile semmai al maestro avogadriano che segue gli affreschi di Mirasole e la cappella degli Innocenti ad Origgio)¹⁸ realizza la Visitazione, l’Assunta, di palese derivazione da quella di Aurelio a Cairate Olona (1560)¹⁹, e la volta con gli Evangelisti di marca tibaldiana, il cui monocromo rimanda a casi milanesi come la cappella di Sant’Orsola in San Marco²⁰ o il transetto destro di Sant’Eustorgio. Anche in questo caso penserei agli anni Ottanta, a conferma dell’adesione dei Settala ad una moda tardomanieristica di normale diffusione milanese.

    Tornando a Ludovico, il suo cursus studiorum è noto con molti dettagli: gli studi privati presso il medico e umanista Antonio Maria Venusti; la frequentazione dal 1568 del collegio gesuitico (inclusa la disputatio in presenza di Carlo Borromeo, l’ovvio invito al sacerdozio e il meno ovvio rifiuto); gli studi medici a Pavia, alla scuola di Ottaviano Ferrari²¹, fino all’addottoramento nel 1573, alla cooptazione nel Collegio dei medici milanesi e all’assunzione della cattedra di medicina pratica; infine, la grande e terribile pratica dell’assistenza agli appestati nel 1576. Le nozze con Anna Arona (famiglia di piccola nobiltà), l’assistenza medica all’Ospedale Maggiore e al Brolo segnano l’inizio di una stabilizzazione umana e professionale nella metropoli (casa al Brolo di San Nazaro) che trova negli anni Novanta la propria europeizzazione nella fitta attività saggistica, nei contatti epistolari con l’intelligencija europea a cominciare da Giusto Lipsio²², nell’offerta del ruolo di storiografo regio da parte di Filippo III, nell’adesione (dal 1594) alla nascente Accademia degli Inquieti, nell’impostazione delle grandi raccolte erudite di biblioteca e museo. Nel 1605 l’assunzione del lettorato di filosofia morale e politica alle Scuole Canobiane conferisce dignità accademica ad un’attività la cui fama trova codificazione nei rifiuti di ricchi contratti accademici (1608 Ingolstadt, 1608 Pisa, 1610 Bologna), nel 1616 nell’intervento periziale al celebre processo contro Caterina de’ Medici²³ per la malattia del senatore Ludovico Melzi e nel 1620 nel rifiuto dell’ammissione di Baldassarre Capra al Collegio dei medici (compreso il noto scambio epistolare con Galileo²⁴, a suo tempo calunniato dal Capra). La nomina nel 1628 a protofisico dello Stato di Milano segna il culmine della carriera, e due anni dopo la grande pestilenza pone il Settala al vertice della politica non solo sanitaria. Colpito da apoplessia nel 1633, muore il 12 settembre all’età di ottantun anni.

    Già questo sommaria scheda biografica permette di cogliere alcuni nodi fondamentali dell’esistenza di Ludovico Settala e delle strategie intellettuali e politiche da lui messe in atto, anche grazie ad alcune singolarità della sua famiglia. Rispetto alla media milanese, i Settala presentano un numero molto alto di ecclesiastici; e questa tradizione verrà proseguita dal fratello del nostro, Gerolamo²⁵, con un curriculum di tutto rispetto: dottore in utroque, canonico del duomo monzese, penitenziere del capitolo cattedrale, collaboratore stretto del cardinale Federico Borromeo compresa la canonizzazione di san Carlo nel 1610, morto di peste nel 1630. É possibile che il predestinato alla carriera ecclesiastica fosse invece Ludovico, come dimostrerebbe il curioso episodio della disputatio davanti a Carlo. Qui tutte le componenti topiche concorrono: la precocità d’ingegno del giovane, la stima del santo, la sua quasi-profezia sulla futura vita ecclesiastica di un auspicato collaboratore; ma il finale è un singolare diniego e l’inizio della vocazione medica. Certo, le componenti bibliche e classiciste ci sono tutte, dalla parresía paolina al «dire la verità al principe» neostoico al homo suae fortunae faber umanistico, e vi è pure l’idea sacrale della medicina come salus corporis complementare alla salus animi garantita dal sacerdozio, ma proprio questa dualità ci spinge a riflettere. Decidendo, davanti alla santità vivente di Carlo Borromeo, che la propria vocazione è la salus corporis, Settala non può esimersi da un gesto, sia pure cortese, di rottura: il primato neo-umanistico della terrestrità convive sì con l’individualità vocazionale cristiana, ma al tempo stesso relativizza la carica profetica del Borromeo e la sua stessa capacità d’impatto sulla respublica mediolanensis. A ben vedere, troviamo già in nuce molti dei temi del Settala maturo: la libertà di giudizio, la visione pattizia dei rapporti nel corpo sociale, il ruolo autonomo dell’individuo rispetto alla gens e alla sua tradizione, l’idea polivocazionale di matrice umanistica.

    Un altro nodo della vita di Settala è la profonda unità esistenziale: la docenza, l’attività saggistica, l’assistenza medica ordinaria e quella straordinaria delle pestilenze sono aspetti profondamente correlati di un tentativo, all’apparenza riuscito, di dialettica conclusa fra bios theoretikós e bios praktikós, fra otium e negotium. Questa lezione di umanesimo civile trova una specifica impronta di ambrosianità nel tono civico: come gran parte del patriziato milanese, Settala trova naturale dedicare una porzione cospicua del proprio tempo ad attività di forte sapore civico, secondo una tradizione che al suo tempo trova la definitiva codificazione nel partecipare all’avvocatura dei poveri, alla Fabbrica del Duomo, alla gestione dell’Ospedale Maggiore, in generale all’amministrazione cittadina. Ovviamente la dimensione altruistica (che pure non può essere negata in toto) coesiste con una precisa visione delle sfere autoritative, con una visione dinastica, cetuale e cooptativa del potere, con un’invadenza formidabile del politico come categoria dominante; ma coesiste anche con una visione particolare della milanesità. Il rifiuto (ed è un altro nodo) che Settala esprime verso proposte di sistemazione allettanti in Europa o verso mestieri alternativi come quello di storiografo fanno sicuramente emergere l’idea classicista del sapiente atarattico e autosufficiente, alieno dall’ambizione e contento di poco (con tutte le riqualificazioni ascetiche cristiane del caso); ma appartengono anche a quell’atteggiamento di cui l’orgoglio civico è la crosta, e la convinzione della centralità di Milano (llave de Italia e corazòn de la Monarquía)²⁶ rappresenta il cuore.

    E non si tratta, si badi bene, di campanilismo un po’ patetico; gran parte dei vertici della Monarchia Cattolica, erede della grande disputa alternativa sui Paesi Bassi e ben memore delle guerre d’Italia, condivide questa visione, l’idea cioè della centralità strategica e simbolica di Milano per lo stesso predominio europeo degli Austrias; quando secoli dopo Manzoni farà ipotizzare al mercante di Milano che Richelieu promuove i tumulti nella metropoli «perché vede bene, il furbo, che qui sta la forza del re»²⁷ in fondo, malgrado tutto, non starà facendo dell’ironia.

    É lo stesso atteggiamento che la generazione dopo Settala esprimerà in Bartolomeo III Arese²⁸, il diós de Millán che non si allontanerà dalla metropoli nemmeno per assumere la presidenza madrilena del Consejo de Italia, e che per molti anni resterà uno dei grandi ministros della Monarchia senza muoversi dalla città. Anche perché, si noti bene, la fedeltà agli Austrias è fuori discussione: uomini come Settala o come Arese (sia pure con sfumature diverse) non sognano un’impossibile restaurazione «nazionale» o la dedizione ad altri principi, ma intendono solo riaffermare l’importanza di Milano all’interno del sistema imperiale al quale credono, e in concreto garantire una presenza robusta e qualificata della metropoli nei compounds madrileni. La storiografia più avvertita degli ultimi decenni²⁹ ha infatti dimostrato sia l’arcaicità della visione conflittuale fra milanesi e spagnoli (quando invece è problema di adesioni alle fazioni di corte), sia l’importanza di Roma e delle carriere di prelatura; una dialettica serrata che prima di Settala vede sul trono di Pietro il lombardo Pio IV Medici³⁰ e dopo Settala il lombardo Innocenzo XI Odescalchi³¹. Il duplice, simbolico no a Filippo III e a Carlo Borromeo non si configura quindi come atto di larvata ribellione, ma come sottolineatura di autonomia in un contesto di devota adesione e di abile utilizzazione sia del cattolicesimo controriformato sia della Monarchia cattolica.

    L’engagement civico di Settala ha poi, ed è altro nodo, un tratto squisitamente sperimentale: essere attivo negli ospedali, fare lezione e soprattutto coordinare la gestione della peste significa acquisire dati sul campo, verifiche fattuali ben difficilmente ottenibili con tanta sistematicità allo stesso modo; il che, negli anni di snodo decisivo della nuova scienza, significa pur qualcosa. Non si tratta cioè del generico pragmatismo operativo proprio comunque della medicina; ma di una più specifica comprensione del ruolo primario dei fatti visti e sperimentati. Vissuto in una fase storica decisiva per l’evoluzione della civiltà europea, Settala è personaggio che vuole apparire di intelligente conservazione: uomo di Controriforma e di Monarchia Cattolica, è disposto a ragionare per iscritto di ragion di stato, e di affiancarvi considerazioni sulla famiglia di ormai ardita caratura erasmiana; aristotelico convinto, è però disposto a ragionare sull’Aristotele meno ovvio, ad esempio sul riso (e non importa se si tratti del primo o del «secondo» libro della Poetica!), ad accettare il rischio dell’inveramento sperimentale, a dialogare con la nuova scienza.

    Si tratta cioè della stessa dialettica che abbiamo visto agire nella sua vita personale, e che gli consente di sostenere tesi non sempre ortodosse in un quadro di assoluta rispettabilità. La dissimulazione (sull’onestà della quale è meglio soprassedere) gioca la sua parte, ma c’è anche un ottimismo conciliativo umanistico da non sottovalutare, e c’è altro. Il Settala che stima Galileo e ne diffonde la fama milanese³², che corrisponde con Giusto Lipsio³³ e coi lipsiani filogalileiani³⁴, che collabora grandemente con Gaspare Aselli³⁵ nella scoperta del sistema linfatico (una tappa tanto essenziale quanto spesso sottovalutata nella percezione del corpo e quindi dell’uomo, che ha luogo in casa Settala nel 1622) non è certo liquidabile come conservatore; eppure il suo aristotelismo è ribadito e probabilmente sincero.

    Si può allora sostenere l’interpretazione di un suo radicalismo umanistico: la lettura dei classici è per definizione rivoluzionaria, la comprensione dell’antico è fonte di novità e non di ripetizione. Non voglio semplificare, rendendola inevitabilmente parodistica, la tesi di Garin di un umanesimo che nasce civile e innovativo per isterilirsi, già a inizio Cinquecento, nella pedanteria che aveva combattuto; né l’Inquieto Settala è interpretabile quale eroico scampolo sopravvissuto, come si è tentato di fare con il suo Inquieto contemporaneo fra’ Paolo Sarpi³⁶. Ma in entrambi è forte l’idea che la tradizione (giuridica nel veneziano, filosofico-medica nel milanese) sia fonte potenzialmente rivoluzionaria, o meglio scardinatrice di una prassi quotidiana spesso isterilita nella ripetizione seriale di formule. Ovviamente una posizione del genere doveva presentarsi nei panni di una filosofia classica, o meglio combinare l’aristotelismo con qualche altro spunto: per Settala l’ondata neoepicurea³⁷ e il più tentante neopitagorismo³⁸ non ha ancora intaccato un neostoicismo di fondo, un po’ generico (in fondo è una moda più che una filosofia) e un po’ lipsiano³⁹, ma lo ha già relativizzato con temi eleatici, utili nella loro versione zenoniana a celare il fondo scettico, o peggio ancora le sue possibili derive democritee. In effetti Democrito è il grande assente, anche a livello di citazioni; talmente assente da farlo sospettare onnipresente nella mente di un medico la cui attenzione alla praxis e al primato dell’osservazione portava a interessanti sfumature meccanicistiche dalle inevitabili ricadute materialistiche. Del resto l’Aristotele del Settala doveva molto di più all’asse Avicenna-Averroé (o era solo il paravento del più temibile Alessandro di Afrodisia?)⁴⁰ che alla vulgata tomista, non foss’altro per il suo primato fisico e non metafisico.

    Settala è frequentatore di numerosi personaggi che potremmo qualificare come protolibertini: spiriti liberi (non necessariamente forti), indagatori attenti, critici del mondo che li circondava. Uno di questi, Giacomo Valerio⁴¹, è fondamentale per molti aspetti; qui ricordiamo solo che nel suo epitaffio del Settala compare un’espressione molto chiara: «Qui gran Settala giaci / dal cui sommo saper sempre ebbe vita / il mondo infermo, e morte fu bandita». Concesso quanto dovuto al gusto iperbolico (specie nella versione funebre), la figura tratteggiata di medico taumaturgo ha naturali rimandi cristiani, ma ancora più chiari legami con una delle figure più complesse ed enigmatiche dell’antichità: Apuleio. Vedremo in seguito i problemi di diffusione del tema asinino (nel senso lucianesco ed apuleiano) a Milano; per ora sottolineiamo come l’idea del filosofo-medico-guaritore applicata al Settala presenta chiare radici nella figura del madaurense, semmai caricate di valenze ermetico-cabalistiche che a Milano⁴² stavano per rinverdirsi nella fortuna del tema shakespeariano di Prospero, il duca milanese e mago di The Tempest. In questo modo, per una via tortuosa ma affascinante, Aristotele veniva paradossalmente recuperato nella sua dimensione fisica di studioso della natura e figlio di medico, come antitetico a Platone «metafisico»; una visione aberrante per la calma serenità della nostra storiografia filosofica ma tutt’altro che assente dalla cultura di primo Seicento.

    Ma tutta questa serie di identificazioni e di ruoli viene qualificata dall’evento che i tormentati anni di Settala conobbero con due picchi pandemici: la peste. Ventiquattrenne al tempo della catastrofe carliana, settantottenne a quello della federiciana, in entrambi i casi Settala assume un ruolo forte, nel secondo caso codificato dalla continuità esperienziale e dal ruolo istituzionale di protofisico: c’è dunque da chiedersi quanto la vicenda abbia pesato sulla sua azione politica a Milano. Come ho cercato di dimostrare in altre sedi⁴³, la durissima crisi del 1628-1630 (passaggio dell’esercito imperiale, carestia, pestilenza) trova la propria drammatica sublimazione nel processo agli untori che, al di là della tensione collettiva e del desiderio di capro espiatorio, è anzitutto un regolamento di conti nello scontro fazionario, nel quale la consorteria Trivulzio cerca di distruggere quella Arese e d’impedire la prossima successione di Cesare Monti a Federico Borromeo, fallendo in entrambi gli obiettivi⁴⁴. Ma questa vicenda ha al centro il Tribunale di Sanità, con l’arresto del funzionario Guglielmo Piazza e soprattutto del presidente Marcantonio Monti; ossia il controllo amministrativo della peste. Premessa l’appartenenza politica del nostro alla consorteria Arese, assume sinistro significato un evento accadutogli probabilmente nel marzo 1630 e ricordato anche dal Manzoni (fig. 5): «Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per sorte era vicina»⁴⁵.

    L’icastica e suggestiva descrizione manzoniana sembra dar credito alla versione del furore spontaneo, dovuto a ignoranza e paura: ma non si può escludere un attacco premeditato, come lascerebbe intuire l’acuto rovesciamento iconografico dei tratti sapienziali del Settala e la precisa individuazione del suo peso politico. Avremmo allora un’avvisaglia della crisi di pochi mesi dopo, un avvertimento nei confronti di un personaggio non toccato poco dopo perché malato di peste e troppo risalito nella stima generale, appunto per la prevista diffusione pestifera; ma anche perché, come il decorso della crisi dimostra, arrivare ad un Monti o ad un Padilla è già pericolosissimo, raggiungere un Settala o peggio un Arese è improponibile. Del resto, la stessa consorteria è costretta (senza molto dispiacere) a rompere i legami con la magia popolare, con i farmaci all’antica fabbricati da Giangiacomo Mora, con il mondo alternativo e criminale di Porta Ticinese. Se leggiamo in negativo questi eventi, possiamo però tirare un altro ordine di conclusioni: nei mesi della peste Ludovico Settala è di fatto uno dei padroni di Milano. Morto Giulio I Arese, assente don Gonzalo, la scena milanese è dominata da due istanze civiche cementate da secoli di collaborazione e rafforzate proprio dalla crisi: la Chiesa e gli intellettuali. Federico Borromeo conduce con lucidità la difficile partita: il coordinamento dei soccorsi, l’assistenza spirituale e materiale, l’esempio diretto del metropolita, la grande processione carliana (momento di formidabile riappropriazione simbolica della città, con un impatto appunto carliano) sono tutti elementi che riportano l’arcivescovo ad un ruolo civico neomedioevale, di autentico dominus cittadino, di discreto ma effettivo supplente dell’autorità governatorile.

    L’altro polo è costituito da Ludovico Settala, e con lui dal gruppo di «tecnici», compresi, come vedremo, suo figlio Senatore e il fido Alessandro Tadino, la cui competenza settoriale si traduce nel controllo effettivo della vita cittadina: il controllo di entrate e uscite dalla città, l’amministrazione dei beni sequestrati, l’organizzazione della città alternativa (l’antiutopia del Lazzaretto), la gestione (se si vuole odiosa, ma nel complesso efficace) dei monatti. In pratica, la situazione di crisi rende il Collegio, con a capo il protofisico, e la Sanità (controllata dagli amici Monti) i veri poli di controllo civico, in sostituzione di fatto dell’amministrazione municipale. Ovviamente la saldatura fra Borromeo e Settala non può essere totale: la processione carliana crea rischi di contagio (come il protofisico deve aver fatto presente e l’arcivescovo ignorato, salvo poi far codificare a posteriori le proprie perplessità); la gestione del Lazzaretto è affidata ai Cappuccini, ordine sicuramente popolare e influente – stante oltretutto la presenza sul trono di Pietro del fratello del loro cardinale-generale Antonio Barberini⁴⁶ – ma non del tutto allineato sulle prospettive episcopali, anche se comunque espressione del patriziato milanese a cominciare dai primi «lazzaretti» Felice Casati e Michele Pozzobonelli. A mediare fra il metropolita e il protofisico deve aver provveduto monsignor Gerolamo Settala, non a caso presente in prima persona fra i dissuasori dei tumultanti dopo il giorno di San Martino come opportunamente ricorda anche il Manzoni⁴⁷. Ma in realtà la posizione di Ludovico appare più complessa: legato agli Arese, egli ne condivide e in parte ne ispira la politica di forte sottolineatura, questa sì neoplatonica, delle virtù intellettuali necessarie al governante; e come loro la concretizza nell’identificazione di un vero e proprio partito degli intellettuali, epicentrato sull’Ateneo pavese e tradotto a Milano nel sistema delle più spregiudicate accademie⁴⁸. Del resto la cultura iberica non era certo nuova alle prese di posizione dei letrados, all’insistenza sulla funzione propria del mester de sabiduría nel dibattito politico, alla libertà espressiva degli arbitristas; e nello specifico milanese di tardo Seicento l’opposizione a don Juan José de Austria si coagulerà ancora nell’insistenza su questi temi.

    Il problema nodale è la durata temporale: i poteri eccezionali del clero e dei medici sono legati all’emergenza (per definizione transitoria) della peste o tendono alla stabilizzazione? Al di là della risposta ovvia (sì per gli interessati, no per i loro nemici), siamo nel pieno di quella riflessione teorica e pratica che porterà nel 1639 alle Considérations politiques sur les coups d’Etat di Gabriel Naudé, dedicate al cardinale Giovanni Francesco Guidi di Bagno, non meno libertino e cartesiano del suo protetto⁴⁹. La riflessione sullo stato di eccezione e sul colpo di stato come strumento eccezionale ma non eccentrico dell’azione pubblica ha in effetti molti punti in comune col nostro discorso. Anche se causata da forze naturali e non umane (ma i contemporanei erano spesso convinti del contrario), la pestilenza attua le tipiche condizioni di sospensione dell’ordinarietà nomica proprie del golpe, e ispira un analogo desiderio dei corpi dominanti (che non a caso vengono sospettati di esserne scatenanti, all’insegna ovviamente del segreto) di prolungare la loro eccezionalità in una nuova normalità, vista come sempre quale restaurazione di un aureo passato. L’elemento imprevisto è proprio la peste, o meglio la morte fisica dei protagonisti, anziani e debilitati: Borromeo decede nel 1631, Settala nel 1633. I loro successori non riescono a mantenere la posizione eccezionale, ma la loro autorità è comunque grande e congiunta: da un lato il prestigio dell’arcivescovo Cesare Monti, dall’altro il potere medico di Senatore Settala (di cui le carte qui edite sono testimonianza primaria) e il prestigio scientifico di suo fratello Manfredo, aprendo la strada alla successiva collaborazione fra il potere ecclesiastico di Alfonso Litta e quello amministrativo-giuridico (ma soprattutto intellettuale) di Bartolomeo Arese.

    A questo punto bisogna introdurre in scena due figure istituzionali decisive per comprendere il «colpo di stato»: il governatore e il vicario di provvisione. Dal marzo 1626 al luglio 1629 il governo di Milano è affidato a Gonzalo Fernández de Cordoba, principe di Maratea: un olivaresiano, che però diviene più tiepido man mano che si rende conto dell’irrisolvibilità della crisi mantovana (Casale incluso) e del suo probabile ruolo di capro espiatorio. I documenti Settala rivelano la sua inedita natura di corrispondente galileiano, di collezionista di cannocchiali e di segreto interlocutore col conte di Monterrey (cognato di Olivares) in quella Certosa di Pavia che la presenza di Matteo Valerio rendeva nodale: tutti tratti corrispondenti alla sua immagine di interlocutore amichevole del Settala e di intellettuale ben lontano dal tronfio ancorché astuto assediatore manzoniano. In effetti la storiografia⁵⁰ ha a lungo esitato su don Gonzalo: dalla facile adesione al mito manzoniano allo smontaggio sistematico del medesimo ad una visione più equilibrata. Protagonista clamoroso della Guerra dei Trent’anni (vittoria di Fleurus nel 1622), patrono di Lope de Vega e Quevedo, abile attore nello scenario difficile del 1628-1629 (al punto da trattare con Richelieu quasi all’insaputa di Olivares), il Cordoba è altrettanto sagace sulla scena milanese: stretto alleato di Ferrer, in buoni rapporti con Federico Borromeo, è da decifrare la sua relazione con la consorteria Arese. Il Nicolini⁵¹ ha infatti sostenuto (su documenti poi mai editi) l’inimicizia del governatore con Arese e Padilla, ma ci pare un discorso senza senso: Padilla è aresiano al punto da rischiare l’annientamento durante la questione degli untori, Arese è fino alla morte amico degli amici di don Gonzalo (Serbelloni, Borromeo, Litta), gli attentati mirano in modo coerente a questo gruppo (con Ferrer che salva Melzi). I problemi sono altri: la difficoltà di distinguere specifiche tensioni e dissensi (e la successione mantovana fu uno stimolo potente) da scontri fazionari; l’autonomia personale dei protagonisti rivestiti di alte cariche, a cominciare da Federico Borromeo; l’evidente volontà di non giocarsi, una volta passato un governatore, le grazie del successore. In questo senso risulta emblematica la spedizione che nell’agosto 1629 si fa incontro allo Spinola che giunge da Genova come governatore: capitanata da suo figlio Filippo, è composta da Carlo Francesco Serbelloni (con il congiunto Giovanni fra i più stretti collaboratori del Cordoba) e dal giovane Bartolomeo Arese.

    Il successore di don Gonzalo è infatti Ambrogio Spinola Doria, marchese de las Balbases (dall’agosto 1629 alla morte il 25 ottobre del 1630), il grande militare, decisivo per gli equilibri di corte madrileni e sostenitore del capo della consorteria Trivulzio: il principe Giovanni Giacomo Teodoro⁵², che il 19 novembre 1629 diventerà cardinale. I legami fra Spinola e Trivulzio erano rafforzati dal matrimonio del secondo (1615-1620) con Giovanna Grimaldi, e di sua sorella Ippolita Trivulzio con Onorato Grimaldi, fratello di Giovanna, principe di Monaco e legato agli Spinola. Possiamo quindi ipotizzare che per la creazione del 1629 Olivares abbia affiancato i propri interessi (cardinalato di Diego Guzmán de Haro) a quelli dello scomodo ma indispensabile alleato, sperando poi di bruciarlo (come puntualmente avverrà) sulla scena milanese. In effetti Trivulzio rappresenterà per un trentennio una presenza forte e ingombrante a Milano, e sembra difficile pensare che non aspirasse alla successione di Federico, come pare chiaro il suo ruolo nell’orchestrare la vicenda untori e probabilmente l’agguato al Settala.

    Si può forse risalire all’indietro, ossia alle complesse vicende di casa Melzi⁵³. A fine 1616 Luigi Melzi, conte di Magenta e già vicario di provvisione (nel 1586) si sente male; del presunto maleficio è accusata la serva Caterina Medici, che in seguito alla testimonianza decisiva dell’architetto Giuseppe Piotti il Vacallo e alla citata relazione del Settala viene arsa come strega il 4 marzo 1617. É interessante notare che il figlio del Melzi (senatore nel 1619) sarà a sua volta vicario di provvisione: Ludovico Melzi è il protagonista dell’assalto alla sua abitazione al Cordusio durante il tumulto di San Martino (11 novembre 1628), l’evento evocato dalle celebri pagine manzoniane⁵⁴ e oggi ricostruibile anche grazie alle carte Settala. Abbiamo dunque questa situazione: nel 1617 un Melzi esce da una congiuntura difficile anche grazie all’intervento del Settala; nel 1628 un altro Melzi, membro della consorteria Arese, apre la serie dei bersagli della crisi. Pare difficile a questo punto non sospettare che il tumulto abbia radici trivulziane, finalizzate a iniziare lo scontro clanico e ad indebolire lo stesso governatore. In effetti il risolutore della crisi è il grancancelliere Antonio Ferrer⁵⁵, legato a don Gonzalo quanto alla consorteria Arese: non si dimentichi infatti che nel 1622 egli aveva sposato Lucia Cusani vedova Litta, facendo in contemporanea celebrare le nozze della propria figlia Maria col figliastro Agostino Litta. La sua scenografica, abile e coraggiosa operazione di salvezza del Melzi si arricchisce allora del desiderio di preservare non solo i precari equilibri di un gruppo dominante (all’interno dell’onnipresente ma perciò stesso frastagliato filone olivaresiano) ma anche della propria consorteria specifica; e ancora una volta è la scena urbana, l’actio teatralizzata a decidere le sorti della partita. D’altro canto la dura repressione, compresa una quarantina di condanne a morte, si spiega anche in questa logica di scontro clanico.

    Pare allora opportuno tentare di capire quali siano gli amici di Ludovico Settala, nel triplice senso della sua appartenenza consortile, del suo partito di intellettuali e della più vasta cerchia dei suoi corrispondenti europei. Il quarantennio (dagli anni Novanta del Cinquecento alla morte) nel quale il Settala è protagonista della scena milanese vede l’ascesa iniziale di quella che diventerà la consorteria Arese⁵⁶: all’inizio il gruppo radunato intorno a Giulio I (1572-1627), e comprendente in senso stretto i Trotti, i Cusani, gli Sforza Colonna, gli Arconati fra gli italiani, i Velasco, i Ferrer, i Fonseca y Zuñiga, i Salazar fra gli spagnoli italianizzati, oltre ai sopravvissuti delle due precedenti consorterie Medici e Sfondrati. La codificazione del gruppo avviene nel 1619, quando Giulio I diviene presidente del Senato e Antonio Ferrer grancancelliere, e dura fino alla crisi del 1627-1630; la morte dei suoi protagonisti e l’attacco dei Trivulzio ne rendono a rischio la sopravvivenza, ma già dal 1632 (nomina episcopale di Cesare Monti) inizia una fase di forte ripresa, pur nel predominio della consorteria trivulziana; nel 1649 l’accoglienza milanese a Marianna d’Austria e la nomina di Bartolomeo Arese a reggente onorario del Consejo de Italia segna l’inizio della terza fase, che dura fino al 1671/1674. Durante la prima fase, i rapporti di questo gruppo coi governatori appaiono eccellenti: Gomez-Suarez de Figueroa y Cordoba duca di Feria (1618-1625) è il demiurgo dell’operazione del 1619; don Gonzalo (1626-1629) è sicuramente un alleato prezioso. Le cose cambiano con Spinola (1629-1630), ma non è banale che dopo il suo sostanziale fallimento e il breve periodo di Álvaro de Bazán marchese di Santa Cruz (1630-1631) la successione tocchi al redivivo duca di Feria (1631-1633), non a caso contemporaneo alla nomina episcopale di Monti. Ma già in precedenza i buoni rapporti della consorteria (e in specifico di Ludovico Settala) con Juan Fernández de Velasco (governatore dal 1595 al 1600 e ancora dal 1610 al 1612), bibliofilo e uomo di cultura, si erano rivelati proficui.

    Del resto la forte caratura intellettuale è tipica della consorteria, che in ogni periodo della sua travagliata storia individua uno o più personaggi che ne guidano la politica culturale. Per la fase che ci interessa, è chiaro il ruolo di Ludovico Settala, ma accanto a lui spicca Cesare Paolo Arese⁵⁷, impostando la stessa dialettica fra un laico ed un ecclesiastico che si riproporrà pochi decenni dopo fra Vitaliano VI Borromeo e Luigi II Alessandro Omodei. Nato nel 1574, teatino, grande predicatore, vescovo di Tortona dal 1620, eroico gestore della pestilenza del 1630, panegirista funebre di Federico Borromeo nel 1631, morto nel 1644, l’Arese è autore di quella ricca enciclopedia che sono le Imprese sacre, contenenti fra l’altro una geniale e dissimulata lode del sistema copernicano. Per Settala un altro referente obbligato è Giovanni Battista Sacchi⁵⁸, che esprime al meglio questa doppia funzione politica e intellettuale: da un lato c’è il segretario del Senato, pedina importante del gioco consortile che pochi anni dopo s’incarnerà in un successore del calibro di Carlo Maria Maggi; dall’altro c’è, il raffinato filoebraista (iniziando una linea dai notevoli esiti), il corrispondente privilegiato di Giusto Lipsio (e in questo ruolo vitale per Settala), l’amico di Ericio Puteano e di Federico Borromeo, il protettore degli ordini religiosi (francescani, domenicani, barnabiti) e soprattutto il grande committente di Daniele Crespi (e su questo torneremo).

    Anzi, la committenza a Daniele sembra proprio un carattere distintivo per questi personaggi: basti citare Matteo Valerio⁵⁹, il poliedrico priore della Certosa di Pavia con la sua carica libertina condivisa col fratello Giacomo, l’erudito amico di Settala e suo futuro epigrafista funebre. É una sensibilità non lontana dall’Accademia degli Inquieti,

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