Le regole del romanzo perfetto
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Anteprima del libro
Le regole del romanzo perfetto - Chiara Cioffi
Cos’è una storia
La prima, imprescindibile fase per scrivere un romanzo è avere l’idea per una storia. Grazie, Graziella…
, starai probabilmente pensando in questo momento. Ma la fase di ideazione, ossia il processo che porta alla nascita dell’idea fondante del tuo romanzo, non andrebbe sottovalutata: se l’idea di partenza è debole e non funziona, difficilmente da essa potrà svilupparsi un’opera capace di appassionare i lettori. Quindi, conoscere quali siano gli elementi alla base della narrazione ed essere consapevoli delle regole alla base del funzionamento di una storia può essere molto utile allo scrittore per evitare errori banali e ingenui.
Prima di poter creare una storia, è necessario avere ben chiaro che cosa sia una storia: in parole povere, essa è un percorso che porta un personaggio da un punto A ad un punto B, attraverso il quale egli affronta una serie di prove e ostacoli che lo portano a un cambiamento. Una storia quindi è un percorso in cui ogni avvenimento, ogni particolare ha un senso che va oltre quello letterale, perché partecipa allo sviluppo e alla crescita del personaggio. Per semplificare, si potrebbe dire che qualsiasi storia è composta da tre fasi distinte:
1. Stasi
2. Rottura/allontanamento
3. Ritorno
Questo significa che avremo una prima fase che mostra la situazione di partenza, uno stato di iniziale equilibrio del personaggio e del contesto in cui è immerso, ma la storia vera e propria comincia quando questo equilibrio viene rotto da un certo evento, ad esempio un delitto, un incontro, una notizia… La fase di rottura introduce un cambiamento nel mondo equilibrato conosciuto all’inizio, e darà il via a una serie di ostacoli, prove e difficoltà che i personaggi dovranno affrontare, fino a che non torneranno a una nuova fase di stasi in cui, grazie agli avvenimenti vissuti, non saranno più quelli che erano all’inizio della storia.
Tutte le storie che conosciamo seguono questa struttura di base, variandola e trasformandola a seconda del contesto storico in cui il romanzo è stato prodotto o dell’intenzione comunicativa dell’autore: l’Odissea, IT, Harry Potter, Alla ricerca del tempo perduto… lo scheletro essenziale ci riporta sempre allo stesso schema.
Attenzione però, non è nulla di più di questo: un semplice schema, un’ossatura portante, una regola tecnica che può aiutarci a tenere a mente che ciò che raccontiamo deve partire da un punto e andare in una direzione. Ma tutti noi sappiamo che, in realtà, una storia è molto più di questo.
La successione delle fasi elementari Stasi–Rottura–Ritorno serve solo a portare all’adempimento del vero scopo di una storia: raccontare e trasmettere umanità.
A questo servono le storie, ed è per questo motivo che l’uomo ne ha sempre raccontate, fin dalle sue più remote origini, molto prima che esistesse la scrittura. Tutta la nostra quotidianità è intrisa di storie, ed è quasi impossibile vivere una giornata senza sentirne almeno una: dai giornali, dalla televisione, dalla conversazione di due sconosciuti sul treno, dall’amico con cui prendiamo un aperitivo… Noi siamo fatti di storie, perché raccontare è la maniera più antica e naturale che abbiamo per processare il nostro vissuto, per elaborare le esperienze che viviamo.
Attraverso la narrazione di storie l’essere umano può far evolvere il suo vissuto dalla dimensione individuale a quella collettiva, può trasmettere la sua memoria, condividere con gli altri i propri valori e i propri sentimenti. Attraverso le storie si crea una connessione tra narratore e lettore, si comunica un messaggio che va al di là delle parole usate per raccontare. Questa è un’altra caratteristica fondamentale di una storia memorabile: parlandoci di qualcosa, in realtà allude a qualcos’altro. La sua trama, i suoi personaggi, la sua morale, non ci vogliono solo informare di quella specifica vicenda, ma portarci a connetterci a qualcosa di più grande, che riguarda tutti gli esseri umani.
Le grandi storie hanno proprio questo potere: riescono a trasformare l’individuale in universale, riescono a farci scorgere un frammento di noi stessi che credevamo perduto o inesistente e con cui possiamo finalmente ricongiungerci. Leggiamo di Amleto e sentiamo di avere qualcosa in comune con lui quando si interroga sulla vita e su se stesso, leggiamo di Emma Bovary e scopriamo lo stesso desiderio di evasione dalla vita reale, seguiamo le vicende di Lila e Lenù e ritroviamo qualcosa della nostra infanzia, delle nostre amicizie passate, del nostro percorso di crescita. Amiamo questi personaggi e desideriamo conoscere la continuazione delle loro vicende perché riconosciamo in loro e nel loro eccezionale vissuto qualcosa di noi stessi, della nostra umanità. Le storie sono contenitori di umanità, custodita e nascosta tra le righe, messa lì per essere trovata dal lettore e per essere scoperta e accolta.
Dunque le storie rimandano alla vita reale, ma è essenziale ricordarsi che non sono la vita reale: le nostre giornate sono piene di possibili percorsi narrativi, di ripetizioni dello schema che ci porta da un punto A a un punto B. Eppure, difficilmente queste esperienze sono abbastanza significative da essere degne di essere raccontate, nonostante siano comuni a tantissime persone.
Non fraintendere: qualsiasi esperienza può diventare materiale per un romanzo, se investita di un significato e di una pregnanza che vada oltre il suo senso letterale. Per esempio, se vogliamo scrivere un romanzo sull’insensatezza della vita moderna, sull’alienazione esistenziale delle persone e sulla loro perdita di contatto con la realtà, allora potremmo raccontare il noioso susseguirsi di gesti che porta il nostro personaggio a svegliarsi la mattina, lavarsi i denti, vestirsi e trascinarsi a lavoro.
Non è semplice, ma se la tua ambizione è portare a riflettere proprio su quei gesti, proprio sul significato del più insignificante degli atti quotidiani, allora ha senso che la tua narrazione si concentri su quello. Ma se invece a te non frega niente di mostrare il tuo personaggio alle prese con i lacci delle scarpe o con le crisi esistenziali del lunedì mattina, perché semplicemente non è quello il fulcro della tua narrazione, allora taglia. Ad esempio, se il tuo personaggio è un commissario di polizia che sta andando sulla scena di un delitto non avrà senso descriverlo mentre si mette in macchina, allaccia la cintura, mette in moto, fa retromarcia, si ferma al semaforo… in poche pagine il tuo lettore sarebbe già innervosito da tutta una serie di dettagli inutili e non significativi che non fanno altro che allontanarlo da ciò che realmente non sta nella pelle di leggere, ossia la truculenta scena del delitto che aspetta il commissario al suo arrivo.
Ricordarsi la funzione essenziale di una storia è quindi molto importante quando si decide di scriverne una. Non basta riempire pagine e pagine di avvenimenti, azioni e colpi di scena. Deve esserci qualcosa in più, un’intenzionalità precisa da parte dello scrittore: stabilire una connessione emotiva con il lettore, trasmettergli qualcosa della propria umanità e della propria visione del mondo, confermargli l’appartenenza comune a un sistema sovraindividuale.
Questo fa sì che una storia, e in particolare un romanzo, sia uno strumento molto complesso e molto potente di comunicazione, e soprattutto che sia un meccanismo non individuale, ma collettivo: un romanzo è una questione di società, di collettività, vuole parlare e riguardare tutti gli uomini del suo contesto di nascita.
Questo è un punto essenziale: la tua storia non è solo tua, ma esiste in quanto si trova in un sistema universale che comunica con tutte le altre storie scritte prima e dopo, e immettendosi in questo sistema, lo modifica. «Non c’è poeta, non c’è artista di nessuna arte, che abbia un significato compiuto se preso per sé solo», scrisse il poeta e critico letterario Thomas S. Eliot nel 1919, nel saggio Tradizione e talento individuale ¹.
Ciò che un autore scrive è influenzato dalla società in cui vive, da ciò che ha letto in precedenza, da tutta una serie di elementi che compongono un complesso background che non è solo personale, ma condiviso; non solo, ciò che scrive ha le potenzialità di influenzare a sua volta questo sistema, di modificarlo, rinnovarlo, demolirlo o magari rafforzarlo, ma ha comunque sempre carattere collettivo e universale. Questo fanno le buone storie: hanno la potenzialità per cambiare il mondo.
La sospensione dell’incredulità
Prima di passare a scandagliare insieme tutti gli elementi fondamentali della narrazione, è bene partire da un concetto fondamentale, che riemergerà più volte in questo manuale. Abbiamo detto che le storie hanno il potere di farci connettere con parti di noi stessi e della nostra umanità, di creare un legame con i personaggi e di farci sentire parte di un sistema universale. Eppure, abbiamo anche detto che le storie non sono la realtà: chi legge un romanzo sa molto bene che, nella maggior parte dei casi, le vicende narrate sono frutto di fantasia, i personaggi inventati, le emozioni e i sentimenti ricostruiti con abilità dall’autore.
Ma questo non impedisce al lettore di provare dei sentimenti reali mentre legge, di emozionarsi, magari di piangere per le sorti di un personaggio o di arrabbiarsi, insomma di farsi coinvolgere nella storia proprio come se fosse reale. Questo accade per via di un meccanismo essenziale della narrazione (almeno, di una buona), secondo cui chi legge decide di mettere temporaneamente da parte la logica e la razionalità e credere, per tutta la durata della lettura, che ciò che sta leggendo sia reale. Il lettore accetta quindi di abbassare le proprie difese e di affidarsi alla narrazione, scegliendo di credere alla verità di ciò che sta leggendo per poter, in cambio, godere di quella lettura e trarne dei sentimenti positivi.
Lo stesso meccanismo è alla base della catarsi, teorizzata da Aristotele nella Poetica ²: per arrivare alla purificazione dell’animo che la tragedia può offrire, è necessario immedesimarsi profondamente nella storia e soffrire insieme ai personaggi. Immergersi così tanto da sentire il loro stesso dolore, mettendo così a tacere per la durata della rappresentazione quella vocina razionale che dice è tutto finto
, per lasciarsi completamente trasportare dalla storia e credere nella veridicità di ciò a cui si assiste: solo così, alla fine, si potrà provare un senso di soddisfazione e di nuovo equilibrio.
Il primo a usare il termine sospensione dell’incredulità
fu il poeta inglese Samuel Coleridge, nell’opera Biographia literaria del 1817: se lo scrittore è in grado di infondere nella sua storia un «interesse umano e una parvenza di verità» ³, allora il lettore potrà permettersi di sospendere il suo giudizio sull’implausibilità di ciò che sta leggendo. Questa concessione da parte del lettore è alla base del patto narrativo, ossia del tacito accordo che si crea tra un lettore e l’autore del libro e sul cui rispetto si basa l’intera esperienza della lettura.
Infatti, come autore devi sempre tenere a mente che tu stai scrivendo per qualcuno, per essere letto da qualcuno. Non scrivi per te stesso: altrimenti non avresti l’ambizione di essere pubblicato e non staresti leggendo questo manuale. Se il tuo sogno è diventare scrittore, devi liberarti dell’idea della scrittura come un dialogo con te stesso, come un atto di autoanalisi e un processo solitario con cui dai sfogo a una passione. Scrivere è sempre comunicare, è sempre un atto rivolto verso l’esterno, verso un lettore con cui stabilisci una connessione.
Questo legame è regolato proprio dal patto narrativo: da una parte, il lettore si impegna a leggere la tua storia e a sospendere il suo giudizio razionale, scegliendo di credere a ciò che legge e a immedesimarsi nella storia; ma, in cambio, tu gli stai promettendo un’esperienza di lettura piacevole, e prima