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La favola dell’amore che non esiste
La favola dell’amore che non esiste
La favola dell’amore che non esiste
E-book293 pagine4 ore

La favola dell’amore che non esiste

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Info su questo ebook

“…E vissero felici e contenti!”, questo è l’epilogo che ci si auspica quando Cupido colpisce il nostro cuore con i suoi dardi infuocati.
È ciò che è accaduto a Vittoria e a Rossella nel momento in cui si trovano a vivere un rapporto d’amore importante, totalitario, che, a loro dire, indissolubile, invade le loro vite. Ma il ritrovarsi accanto uomini come Federico e Fermo, deboli, pieni di contraddizioni e inadeguati a rivestire il ruolo che pensavano di ricoprire, rafforza la loro certezza di esser naufragate con tutto l’amore e la speranza che avevano riposto in esso.
Per ricominciare a vivere e imparare di nuovo ad amare, Vittoria dovrà oltrepassare quel muro di compostezza e assoluta razionalità che la caratterizza;s Rossella, più istintiva e passionale, stretta dalla morsa di una condizione inaccettabile che la soffocherà per anni, dovrà ritornare ad avere fiducia negli esseri umani. Ambedue, consapevoli di vivere il sentimento nella piena maturità affettiva, non si lasciano avvincere dalle dolci parole e dagli sguardi languidi, ma esigono comprensione e attenzione verso le proprie esigenze, ormai hanno imparato che l’amore non è eterno, e quel “vissero felici e contenti” appartiene solo alle favole.
La favola dell’amore che non esiste di Gianpiero Bessone, presenta un’ottima elaborazione di ciò che struttura i delicati e sofisticati meccanismi che regolano i rapporti di coppia, che troppo spesso si rivelano controversi e ben difficili da inquadrare.
LinguaItaliano
Data di uscita16 set 2024
ISBN9791223600580
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    La favola dell’amore che non esiste - Gianpiero Bessone

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    Gianpiero Bessoneù

    La favola dell’amore che non esiste

    © 2024 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - [email protected]

    ISBN 978-88-306-9671-6

    I edizione agosto 2024

    Finito di stampare nel mese di agosto 2024

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    La favola dell’amore che non esiste

    A mia sorella

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Capitolo Primo

    La città è cambiata tanto, talvolta subendo gli urti della repentina trasformazione sociale, talvolta metabolizzandola con la silenziosa e laboriosa attitudine alla sostanza, talvolta ancora tentando di proporsi come attrice dell’ennesimo mutamento, della rinascita e del restauro architettonico, stradale e culturale, sempre conservando il proprio carattere riservato e rigoroso.

    Fredda, con i suoi monumenti e i palazzi che educano alla soggezione e al tempo stesso restituiscono il piacere di scivolarvi accanto, di entrarvi attraverso portoni grandi in legno scuro e massiccio, che introducono a giardini interni, misteriosi e accoglienti, con il suo centro urbano teso tra Classicismo novecentesco, stile Settecento e persino Barocco guariniano.

    Calda, da posare i cappotti gelati sugli schienali delle poltrone rètro dei suoi caffè, calda e non caciarona, anzi di parole soffiate, al punto che si percepisce soltanto il clangore dei mille cucchiaini e delle tazze di caffè e di cioccolata fusa, che cadono sui piattini eleganti, mentre si stropicciano le mani per riprendere la circolazione sanguigna.

    Tiepida, nell’ombra dei suoi infiniti portici, a mescere gelati e bevande fresche nei dehors primaverili ed estivi, mentre nelle piazze imperversa la canicola desertica, o sotto i viali e le rive del suo grande fiume Eridano, sul quale vogano argonauti su armi tecnologiche al ritmo dei capivoga d’un tempo.

    Torrida, nei giorni svuotati dall’esodo agostano, sui marciapiedi della periferia, occupati dalle sedie dei bar traslocate abusivamente sull’asfalto esterno, da resilienti in calzoncini di rara bruttezza, calze corte e canottiere ispirate a compagini sportive locali, fedeli affezionati al locale sotto al condominio e più ancora ai liquidi dissetanti e un po’ alcolici che sembrano spezzare l’assedio dell’afa.

    L’eleganza sabauda dei corsi e delle piazze resiste alle offese della moderna oscenità, e si offre alle proposte di un futuro senza auto ma con la consapevolezza dell’inevitabile sviluppo alternativo, sotto lo sguardo aguzzo della sua Mole e l’abbraccio discreto e sommessamente doloroso della collina di Superga.

    Federico scese dall’autobus, fendendo faticosamente l’argine di passeggeri stipati in prossimità dell’uscita, atterrando su due piedi sul marciapiede lapideo lucido di pioggia, riflettente le luci dell’insegna luminosa del bar difronte.

    Non era una giornata particolarmente rigida, d’altra parte si era agli inizi di un autunno ancora generoso, colorato e tiepido, eppure l’umidità che saliva dalla pietra naturale e le prime ombre della sera mettevano addosso una spiccata sensazione di freddo.

    Per il malumore, il giovane uomo non aveva bisogno di condizioni meteo avverse, tanta era la malinconia che aveva preso dimora nei suoi pensieri, diva incontrastata di molte ore della giornata e anche di qualche ora di insonnia.

    Aveva perduto un amore da qualche tempo e per quanto cercasse ragionevoli attenuanti, sentiva in fondo che la principale causa del naufragio era stato praticamente solo lui. Poco rilevava che l’iniziativa della chiusura se la fosse presa lei, molti amici e conoscenti la pensavano proprio così. La ragazza aveva cercato in tutti i modi di raccogliere i cocci di questo rapporto che andava in frantumi una volta alla settimana, per futili motivi o peggio, senza motivi.

    E allora perché si trovava in piedi sotto la pioggia, davanti al portone di quella che era stata la loro casa per tanti anni?

    Senza le chiavi per entrare, privo del coraggio di suonare il campanello o di comporre il suo numero di telefono, sapeva che in quell’alloggio non vi era quasi nulla che gli appartenesse, tutto era stato semplicemente portato via, dal momento che avevano deciso che lei avrebbe continuato a viverci, a pagare l’affitto e le spese condominiali.

    Quasi più nulla.

    A quell’ora lei sarebbe sicuramente stata in casa, di solito rientrava di fretta dal lavoro, e l’avrebbe trovata intenta a mettere ordine in cucina o a leggere sul divano. Fu colto improvvisamente dal pensiero che si trattasse di una di quelle sere dedicate alla palestra e, in quel caso, avrebbe dovuto attendere il suo rientro, dopo le nove, come minimo.

    Quasi più nulla.

    Avrebbe persino potuto immaginare l’abbigliamento con il quale l’avrebbe trovata, semplice ma non trascurato, lei aveva sempre avuto un gusto istintivo, apparentemente ricercato, spartano ma armonico, così come i suoi movimenti, il modo di incedere, di toccare le cose, di guardare.

    Quasi più nulla.

    L’ultima volta che era entrato in casa, gli era sembrato di aver raccolto tutto, ogni sua cosa composta con una inusuale logica negli scatoloni di cartone che lei gli aveva procurato giorni prima del trasloco.

    Avevano passato in rivista tutte le camere, per avere la certezza di non aver tralasciato nulla. O quasi nulla.

    Perché il desiderio che, una volta chiusa quella porta, non ci fossero altre occasioni di ritorno, di incontro, albergava nell’animo di entrambi, celato, mimetizzato, ma vivo e scontato.

    Quasi nulla, significa per forza qualcosa. E alla fine, dopo alcuni giorni di ricerca infruttuosa, si dovette decidere a prendere l’iniziativa, per via di una vecchia macchina fotografica d’epoca, che era appartenuta al nonno paterno, di quelle con il soffietto di cuoio retrattile, un marchingegno intrigante e fragile che lo attraeva sin dagli anni della fanciullezza per la complessità e la bellezza. Non se l’era ritrovata negli scatoloni. A pensarci ora, gli sembrò proprio che quella macchina d’altri tempi possedesse le qualità, le stesse irresistibili qualità che aveva colto in lei. Complessità e bellezza, fuse insieme così sapientemente da confondersi e confondere chiunque ne avesse la percezione, con una naturalezza che poteva sembrare persino snob, ma che invece era solo intima eleganza.

    Quasi più nulla…

    Quando una storia finisce non si dovrebbe parlarne, eppure talvolta la mente sembra essere sul punto di esplodere, si rincorrono interlocutori pazienti e amici complici, con lo scopo di rovesciare fuori tutto, parole e lacrime, rabbia e dispiacere, domande e risposte. Perché non può rimanere niente dell’interminabile calendario di giorni vissuti insieme, non deve residuare nemmeno un ricordo, un minuscolo pensiero, niente che possa germogliare dolcezze e speranze cadute.

    Quasi più nulla…

    Fisso davanti al portone, si sentì chiamare per nome. Trasalì appena un poco, senza darlo a vedere, Federico.

    L’appartamento si trovava in uno stabile che era di antica e nobile costruzione, con i soffitti a cassettoni lavorati, le finestre barocche, in tinta tenue, alte e protette da persiane spesse, con le gelosie a sporgersi verso la piazza, le porte interne a doppio battente, pannellate e intarsiate senza sfarzo, le scale a rincorrere il perimetro del palazzo, interrotti i gradini da pianerottoli abbelliti da vasi di ficus, sansevieria, felci e piante grasse. Improprio e imprevisto, ma ineluttabile, si inerpicava nella tromba delle scale l’ascensore. In legno, all’interno, lo specchio opaco e la panca sobria lo caratterizzavano; era imbracato in una struttura in ferro battuto e la porta in una rete di ferro. Brusco nella fermata, ma discreto e silenzioso nella salita come nella discesa. I pavimenti dell’alloggio erano stati ristrutturati laddove non si era riusciti a salvare il palchetto originale, poi, con il necessario ingresso della modernità e dell’attualità, era stato necessario rivedere gli impianti. L’appartamento era stato integrato da arredi in tono con lo stile o totalmente estranei, poco inclini alla ricerca del superfluo, del Barocco, anzi razionali e, a modo loro, eleganti. La regina della casa era la libreria, sistemata sulle tre pareti della sala, eretta sino al soffitto, seria ma non severa, un po’ curva laddove gli anni ed il peso dei volumi avevano dimorato, insieme alla polvere.

    «Federico! Cercavi me? Ma… stai qui da molto? Non ti aspettavo, avresti almeno potuto chiamarmi prima di venire! Dai, saliamo su, sta ricominciando a piovere!» disse Vittoria tutto d’un fiato.

    «In effetti avrei dovuto telefonarti, ma ero appena arrivato, comunque lo avrei fatto. Oggi non è mica giornata di palestra?» replicò lui cercando di darsi un tono.

    «Ma no, Fede, non ti ricordi? Martedì e giovedì dalle sei e mezza alle otto e mezza…» disse gettando il cappottino impermeabile color carta da zucchero sulla poltrona in ingresso e lanciando uno sguardo disattento alle buste bianche della posta lasciate dalla signora delle pulizie sul mobiletto accanto alla porta.

    Non si erano ancora guardati in volto nemmeno una volta. Vittoria si sedette sul divano blu in sala mentre lui si lasciò cadere nella sedia di vimini posta difronte, con un sospiro profondo.

    «Mi dispiace, Vitty, mi dispiace piombare così d’improvviso in casa… tua. Il fatto è che non mi ritrovo più la macchina fotografica di nonno, sai quella vecchia vecchia, a soffietto, la Kodak Vollenda 620. La ricordi, vero? Non è mica rimasta qui? Vorrei portarmela via, un ricordo, un ricordo cui tengo tanto…».

    «Ah già, la macchina fotografica – lo interruppe con delicatezza, sorridendo lievemente – certo, è un oggetto caro. Dovrei guardare nella libreria perché non so immaginare un altro posto dove… forse tra i volumi rimasti in casa… non ho ancora messo mano ai libri, sono ancora tutti in disordine, buttati senza una logica. Aspetta, provo a darci un’occhiata, stai pure seduto, ci metto un attimo» e si diresse in direzione dello studio.

    «Vitty, potresti vedere anche nell’armadio dove tenevamo le altre Reflex e tutte le altre cose elettroniche…, non so» suggerì alzando leggermente il tono della voce e allungando il collo per farsi sentire, ora che lei si trovava nell’altra stanza.

    Vittoria si ripresentò nel volgere di pochi secondi.

    «Eccola, l’ho trovata!» esclamò, maneggiando l’oggetto con attenzione. Federico lo raccolse dalle sue mani e lo sistemò nello zainetto, ringraziando sottovoce.

    Alzando lo sguardo verso di lei, la vide sorridente, con le braccia incrociate sul petto, a significare che, se non vi fosse stato altro, era giunto il momento che la visita si concludesse. L’espressione di Vittoria aveva un che di pacato e materno rimprovero, misto a quella accondiscendenza e perdono che lui aveva già incontrato tante e tante volte nel passato. Vicina e severa, lei lo avrebbe voluto vedere più concreto e razionale, sicuramente più assertivo, finalmente decisivo rispetto alle scelte e ai progetti per il futuro. In quel preciso istante ebbe la consapevolezza di quanto in fondo lui stesso si giudicasse diverso, improprio, senza attese – ecco – l’espressione più adeguata era proprio questa. Un uomo senza attese.

    Lui realizzò che Vittoria aveva conservato le medesime abitudini, le attività di sempre, vivendo le sue giornate con le cadenze ben conosciute, forse con esclusione di certe banali e piccole consuetudini, smarrite per il fatto di non doversi più regolare su una routine di coppia.

    Questo a significare che il solo particolare mancante in questa storia era soltanto lui, evidentemente non così straordinariamente essenziale, di certo non indispensabile, come dire, quasi superfluo e poggiato sulla loro relazione come un oggetto su una vecchia suppellettile della sala.

    Vero è che troppo poco tempo era trascorso dalla loro nuova condizione per poter immaginare cambiamenti radicali, svolte epocali, strappi di qualsivoglia natura a qualunque regola. Tuttavia non potette esimersi dal confrontare il lineare procedere delle giornate di Vittoria con il disorientamento, la disorganizzata e talvolta penosa vita che stava rotolando ai suoi piedi, senza un costrutto.

    Era così evidente che Vittoria ad un certo punto non ebbe più la voglia o la forza di attendere, di raccogliere gli stracci dell’ennesimo insuccesso o della immancabile rinuncia, per come la viveva. Appartenevano entrambi a famiglie agiate, quella di lei era molto conosciuta in città e ciò aveva attutito o rimosso possibili difficoltà finanziarie, ma, allo stesso tempo, aveva alimentato tra i genitori e parenti stretti di lei quella sorta di sospensione del giudizio da cui Federico non aveva saputo affrancarsi.

    Nell’ambiente di Vittoria, l’unione con Federico aveva suscitato non poche perplessità, non per un giudizio negativo sulla persona – anzi tutti gli riconoscevano le qualità di un carattere benevolo e gradevole – quanto piuttosto per una inclinazione, un’indole di fondo che appariva inconsistente, poco concreta, molle come si usava dire.

    Negli ultimi dieci anni – quelli della convivenza – aveva intrapreso tante iniziative con lo spirito del pioniere e con la fede più sincera del mondo, spendendo energie e sostanze che ogni volta venivano ridotte in cenere dalle varie circostanze, anche attenuanti, relative alla sorte avversa, all’imprevisto volgere della vita e dell’economia, ai rovesci finanziari, e così via.

    Quasi più nulla significava ancora qualcosa.

    Mentre il tram lo dondolava sulla strada del ritorno, realizzò che quel qualcosa, quel poco più di nulla era amore.

    A differenza del cimelio di famiglia ormai recuperato, quell’amore non si poteva portare via, e nemmeno lo si poteva abbandonare tutto a casa di Vittoria. Se bastasse un trasloco, un cambio di indirizzo, un nuovo numero di telefono, per poter buttare i rottami di un amore, i nomi delle persone e i ricordi, si sarebbe meno infelici.

    E quante parole aveva letto, inavvertitamente e incoscientemente e poi distrattamente su amore e affini, senza imparare un solo precetto che adesso potesse venirgli in soccorso, un richiamo che almeno alleggerisse il peso della montagna che premeva sul petto, senza ricordare una frase risolutiva o, extrema ratio, una condanna definitiva.

    Libri senza parole, senza istruzioni infallibili per questo accidente, che sparge a piene mani manciate di sale sulla ferita che sembra rimanere aperta in eterno.

    Quando i due giovani decisero di comunicare la scelta di convivere, Federico – appena laureato – si stava cimentando in una iniziativa che, secondo i suoi freschi studi economici, poteva rappresentare un buon investimento di tempo e denaro. A quel tempo molte fonti autorevoli del settore consideravano le start-up innovative un canale privilegiato per i nuovi laureati e per i dottori in materie tecnologiche.

    Vittoria si era scelta, o trovata, un percorso più regolare e anche prevedibile. Ingegneria Informatica. Prima di discutere la tesi aveva già ricevuto un paio di proposte da altrettante aziende, per via di un iter studiorum di prestigio, in evidenza sin dal terzo anno di facoltà.

    Quindi si era decisa ad accettare una delle due offerte e in breve aveva cominciato a lavorare, nel suo modo sempre naturale e semplice, che faceva sembrare le cose soltanto una conseguenza scontata e ovvia. Anche il suo ingresso nel nuovo ambiente di lavoro si realizzò in assenza di tensioni, al punto che la si doveva interrogare per avere qualche informazione più dettagliata, che non fosse il solito mi trovo bene, i colleghi sono carini, alcuni sono proprio capaci, il capo mi sembra un buon manager, che devo dire… tutto bene.

    Per lei sembrava tutto scorrere. Per lei tutto scorreva davvero, sobrio e frugale.

    Invece per lui ogni banale iniziativa, di quelle che non andrebbero neppure raccontate per la loro inconsistenza e ordinarietà, ogni azione si trasformava in ostacolo, diventava problematica e spesso complicata. Per lui era come nuotare contro corrente, inciampare nella radice non prevista, con il fastidio di dover dare spiegazioni ad interlocutori esitanti, quasi increduli, con tanto di sopracciglia inarcata, in segno di perplessità e giudizio. Tutto si trasformava in un maledetto casino.

    Era come se la sorte avesse deciso di prendersi gioco di lui, oppure come se lui stesso – come un moderno Odisseo – fosse inviso a Poseidone, al punto di incontrare ogni sorta di impedimento e catastrofe sulla sua rotta. Ma nello sguardo di Vittoria rinvenivano ogni volta tracce di delusione e impazienza, miste a comprensione, la peggiore delle tre.

    Si era anche stufato di rappresentare un prototipo di inettitudine, di sfortunata attitudine, perciò più di una volta aveva forzato gli eventi, cercando di ingannare l’improbo destino, puntando all’obiettivo con la sicumera dei suoi simili. In fondo, a loro, tutto quanto riusciva con una irritante naturalezza. L’epilogo di queste eroiche sortite era stato inesorabilmente un refrain, una ritirata su tutta la linea o peggio, senza riuscire a rintracciare quale parte del suo comportamento avesse provocato la disfatta.

    Mentre sulle vicende di poco conto bastava togliersi di dosso la polvere della caduta e darsi un contegno, sulle questioni più serie la convalescenza si rivelava assai più complessa e difficile da metabolizzare. I primi passi nel mondo del business concedono spesso una sorta di attenuante, una franchigia generosa e comprensiva, riconoscendo l’adolescenza del tentativo, salvo poi prendere le misure nei confronti degli insuccessi recidivi.

    Il dottor Asteno, come veniva chiamato nell’ambiente lavorativo, si gettò, dopo la prima esperienza di start-up innovativa e dopo aver deciso di interromperla per limitare le perdite, in altre iniziative, inanellando una sequenza di piccole e grandi débâcle, senza mai riuscire a concretizzare gli sforzi.

    Non fu mai interessato a offerte di lavoro – inteso come lavoro subordinato – per la sua avversione al dover dipendere da un superiore, foss’anche il titolare d’azienda, in nome di un principio di indipendenza e di autonomia che aveva ereditato dal padre, commercialista stimato in tutta la provincia.

    Nato nella città dell’automobile, credette di inserirsi nella grande famiglia dei progettisti creativi ed accettò di collaborare alla realizzazione di un prototipo di veicolo a propulsione elettrica – invece del tradizionale motore termico – collaborando con uno studio di specialisti del settore, transfughi dalla casa madre e presuntuosamente convinti di poter fare di meglio e di più. Questo gruppo di maturi manager credettero di trovare adesioni nel mondo istituzionale, promuovendo le loro idee laddove, nella buona sostanza, si drenavano finanziamenti e visibilità. Il nostro Ulisse si convinse di aver trovato un filone d’oro, cosicché la sua speranza divenne sogno. Ben presto si rese conto di trovarsi con i piedi in un povero ruscello, tenendo in mano un setaccio arrugginito a filtrare pietrame sudicio e privo di qualsivoglia valore.

    Anche nelle più fortunate iniziative, per quanto si possa trovare appoggio sincero nel mondo della politica e del business, sono necessarie sostanze e forza per sostenere lo spunto iniziale. Il manipolo di partecipanti all’impresa non racimolava che un capitale esiguo, peraltro quotidianamente eroso dalle attività preparatorie e dalle spese di funzionamento della piccola società. L’illusione durò poco. Federico ebbe modo di conoscere un sottobosco di personaggi capaci di sopravvivere nelle pieghe dell’inconsistenza, soggetti che assorbivano denaro e tempo, ben coscienti della ineluttabile fine fallimentare di ogni impresa. A loro modo questi figuri erano pur bravi, avendo nel tempo raccolto contatti e aderenze nei quartieri di mezzo del palazzo del potere, mistificando, disegnando prospettive fastose, scenografi di operette misere e prive di futuro, sempre restando un po’ fuori dalla partita, rapidi a levarsi di mezzo al momento giusto, lasciando i malcapitati in braghe di tela.

    E Federico ed i suoi compagni di crociera non furono una eccezione. Il progetto naufragò – senza entrare nei particolari – in pochi mesi, lasciando dietro di

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