Bozza:Antonino Giammona
Antonino Giammona (nato nel 1820 a Passo di Rigano, frazione di Palermo, Sicilia, allora parte del Regno delle Due Sicilie) è uno dei più antichi esponenti della mafia siciliana. Era il capo della cosca di Uditore nella Conca d'Oro, vicino a Palermo. La sua storia è nota soprattutto grazie al rapporto del Prefetto di Palermo, Emiliano Sangiorgi. Anche diversi membri della sua famiglia, tra cui il figlio Giuseppe, uno degli imputati del maxi-processo del 1901, e il genero, facevano parte della mafia.
Nato in povertà, Giammona costruì la sua ricchezza soprattutto con il racket dei limoneti nei dintorni di Palermo e con il furto di bestiame, beneficiando di un forte sostegno da parte dell'alta società, in particolare del barone Nicolò Turrisi Colonna e di una delle due famiglie più ricche di Palermo, i Florio, in particolare il ricco armatore Ignazio Florio Jr.
Dalla Spedizione dei Mille alla Guardia Nazionale
Pur essendo stato presentato come bracciante agricolo di una famiglia povera, sapeva scrivere e far i conti.
Si arricchì durante i disordini che precedettero l'unità d'Italia, in particolare durante la rivoluzione del 1848, diventando prima gabellotto (affittuario) di giardini e poi proprietario di una fortuna stimata tra le 200.000 e le 300.000 lire.
Contro i Borboni che governavano il Regno delle Due Sicilie, combatté con Garibaldi e, a capo di una squadra, si unì alla Spedizione dei Mille, che conquistò Palermo nel maggio 1860.
Antonino Giammona entrò poi a far parte della Guardia Nazionale, salendo di grado fino a diventare capitano.
In questa veste, nel 1866 sedò la rivolta palermitana nota come Sette e mezzo: da rivoluzionario, era diventato il protettore dell'ordine costituito.
Il racket di Galati
Come capo di una cosca, ebbe problemi con il dottor Gaspare Galati, che gestiva il Fondo Riella, una tenuta di limoni a Malaspina, a quindici minuti da Palermo.
Galati era vittima di estorsioni da parte della cosca Giammona, che governava la regione di Uditore.
La cosca fece assassinare due delle sue guardie, la prima il 2 luglio 1874 e la seconda nel gennaio 1875.
Minacciato di morte, Galati fuggì a Napoli e nell'agosto del 1875 inviò un promemoria al Ministero dell'Interno in cui affermava che nel 1874 nel paese di Uditore (800 abitanti) erano stati commessi almeno 23 omicidi, senza che fosse stata condotta alcuna indagine.
Questo memorandum spinse il Ministro a chiedere al Prefetto di Palermo una relazione sull'attività criminale locale, che descriveva il rituale di iniziazione della mafia.
Giammona nascondeva le sue attività dietro una confraternita religiosa, i “Terziari di San Francesco d'Assisi”, guidata da frate Rosario, ex frate cappuccino, ex poliziotto borbonico e cappellano del carcere, che gli permetteva di trasmettere messaggi ai detenuti.
Secondo un rapporto del capo della polizia di Palermo, che lo sospettava di aver ordinato diversi omicidi, il patrimonio di Giammona nel 1875 (a 55 anni) ammontava a 150.000 lire.
L'episodio di Galati portò a un'indagine minore su Giammona, che all'epoca era difeso dal barone Nicolò Turrisi Colonna, che gli procurava avvocati e si indignava per le accuse rivolte al suo protetto , e dal marchese Pasqualino, entrambi proprietari di agrumeti e terreni nella zona controllata dall'indagato.
Il rapporto tra Giammona e il barone Colonna, che pubblicò anche un rapporto sulle attività criminali in Sicilia, resta oggetto di speculazione;
alle elezioni del novembre 1874, Giammona ottenne dal barone, candidato di sinistra, una cinquantina di voti; poiché il suffragio era allora limitato al 2% della popolazione, si trattava di un risultato considerevole, che gli permise di essere eletto deputato.
Riceve anche l'appoggio dell’avvocato Gestivo, un ex repubblicano che testimonia in sua difesa davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla Sicilia del 1875-1876 e che, alle elezioni comunali dell'anno successivo, risulta il miglior eletto della lista regionalista.
I legami con la mafia coprivano l'intero arco politico: nel giugno 1875, il deputato Diego Tajani rivelò al Parlamento che, dopo i tumulti del 1866, la Destra aveva incoraggiato la polizia a collaborare con la mafia in cambio di informazioni contro l'opposizione o alcuni criminali.
L'ascesa di Giammona e il maxi-processo del 1901
Continua l'ascesa di Giammona, che diventa il capo di un'alleanza tra le famiglie mafiose di Passo di Rigano, Piana dei Colli e Perpignano. Oltre al pizzo raccolto per “proteggere” gli agrumeti da depredazioni e sabotaggi, era coinvolto, almeno dal 1862, nel non meno lucroso business del furto di bestiame. Nel 1898 viveva in una grande casa in via Cavallaci, a Passo di Regano.
Il rapporto Sangiorgi, dal nome del suo autore, il prefetto di Palermo Emiliano Sangiorgi, nominato dal Presidente del Consiglio Luigi Pelloux, cita Giammona come segue:
“Dà consigli basati sulla sua vasta esperienza e sui suoi lunghi precedenti penali. Dà istruzioni su come commettere atti criminali e poi costruire una difesa, producendo alibi a prova di bomba”.
In quel periodo, Giammona entrò in guerra con un rivale, il “capo supremo” della mafia Francesco Siino, capo della cosca Malaspina.
Una vendetta mise i due clan l'uno contro l'altro, in lotta per il dominio locale provocandosi (sfregio) a vicenda. Il clan Giammona vinse la guerra, che attirò l'attenzione dell'opinione pubblica quando nel 1897 furono scoperti quattro cadaveri in un pozzo.
Nell'ottobre del 1897, i due clan furono costretti alla pace dalle varie famiglie mafiose in un incontro nella chiesa di San Francesco di Paolo a Borgo, ma la pace ebbe vita breve.
Il 25 ottobre 1899, Siino fu colto in flagrante sulla scena dell'omicidio di un mafioso e divenne uno dei primi pentiti della storia della mafia, nominato nel maxi-processo del 1901.
Al processo, Giammona, che si era personalmente sottratto all'incriminazione, ricevette l'appoggio non solo del barone Nicolò Turrisi Colonna, ma anche della ricca famiglia Florio, con Ignazio Florio Jr, uno dei più ricchi eredi d'Italia, che non si degnò nemmeno di presenziare in aula.
Suo figlio, Giuseppe Giammona, capo di Passo di Rigano, fu comunque accusato di associazione a delinquere nel giugno 1901, insieme ai fratelli Noto e a Tommaso d'Aleo, capo della cosca Acquasanta.
Questa guerra fratricida è stata paragonata da Leopoldo Franchetti (1847-1917), autore con Sidney Sonnino di un rapporto sulla criminalità in Sicilia, alla ribellione del 1517 contro il viceré Monteleone, guidata da Giovan Luca Squarcialupo, possibile origine di leggende che fanno risalire la mafia al Medioevo.
Giammona è morto serenamente, senza mai essere stato realmente disturbato dalla polizia.