Publio Decio Mure (console 340 a.C.)
Publio Decio Mure (in latino: Publius Decius Mus; ... – Vesuvio, 340 a.C.) è stato un politico e generale romano.
Publio Decio Mure | |
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Console della Repubblica romana | |
La sua morte raffigurata nelle Storie di Decio Mure (opera di Peter Paul Rubens, 1616-1618, Vienna) | |
Nome originale | Publius Decius Mus |
Morte | 340 a.C. |
Gens | Decia |
Tribuno militare | 343 a.C. |
Consolato | 340 a.C. |
Biografia
modificaTribuno militare nel 343 a.C., grazie ad un audace stratagemma, salvò dai Sanniti l'esercito di Aulo Cornelio Cosso Arvina. Per questo suo atto di eroismo, gli fu permesso di partecipare al trionfo dei consoli.[1]
«A entrambi i consoli venne accordato il trionfo sui Sanniti e dietro di loro nella sfilata veniva Decio, coperto di decorazioni e onusto di gloria: i soldati, nei loro rozzi cori, ne citarono il nome un numero non inferiore di volte rispetto a quello del console.»
Fu eletto console nel 340 a.C. insieme al collega Tito Manlio Imperioso Torquato[2], nell'anno in cui ebbe inizio la guerra latina. Con l'altro console, arruolati gli eserciti, attraversando i territori dei Marsi e dei Peligni, per evitare quelli controllati dai Latini, arrivò nei pressi di Capua, dove i romani fecero base per le successive operazioni di guerra.
Tito Manlio, insieme al collega Decio Mure, condusse i Romani alla vittoria nella sanguinosa Battaglia del Vesuvio, dove l'altro console trovò la morte[3].
Decio morì durante la battaglia del Vesuvio, facendo un atto di devotio, ovvero si immolò agli dèi Mani in cambio della vittoria, promessa dagli aruspici a condizione che uno dei due consoli si immolasse. Era questo l'atto della devotio, una forma speciale di voto agli dei.
«In questo momento di smarrimento, il console Decio chiamò Marco Valerio a gran voce e gli gridò: «Abbiamo bisogno dell'aiuto degli dèi, Marco Valerio. Avanti, pubblico pontefice del popolo romano, dettami le parole di rito con le quali devo offrire la mia vita in sacrificio per salvare le legioni»»
Publio Decio Mure vestita la toga pretesta, montò a cavallo tutto bardato per la battaglia e si lanciò furioso tra i nemici, bene in vista di fronte ad entrambi gli schieramenti combattenti. Dopo aver ucciso molti nemici, cadde a terra, abbattuto dai dardi e dalle schiere latine. Ma questo gesto, che i Romani consideravano rituale, diede ai suoi una tale fiducia ed un tale vigore che essi si gettarono tutti assieme nella battaglia ottenendo la vittoria e fu ripetuto dal figlio omonimo nella Battaglia del Sentino, 295 a.C. Così fu anche per il nipote omonimo nella battaglia del Piceno.
Note
modifica- ^ Livio, Ab Urbe condita libri, VII, 34-38.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, VIII, 3.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, VIII, 8-10.
Lucio Accio, Decius
Bibliografia
modifica- Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VIII 9
- Valerio Massimo Factorum et dictorum memorabilium libri IX I, 7,3 e V 6,5
- Aurelio Vittore, De Viris Illustribus Romae,26
- Paolo Orosio, Historiae adversus paganos III 9, 3
Altri progetti
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