La Giustizia Militare 1800-1815
La Giustizia Militare 1800-1815
La Giustizia Militare 1800-1815
Virgilio Ilari
LA GIUSTIZIA MILITARE
IN ITALIA
DURANTE LE
GUERRE NAPOLEONICHE
Regno d’Italia 1796-1814
(capitolo 14 della Storia Militare del Regno Italico)
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Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 3
A. I Consigli di guerra
B. Le Commissioni militari
Le mancanze disciplinari
Le mancanze disciplinari più lievi erano punite, secondo la legge
francese del 24 giugno 1793, dal superiore, quelle più gravi dal
consiglio correzionale del corpo, presieduto dal comandante. Dalle
cronache della 2a MB di linea (Lechi) nel 1801-02 emerge un quadro
delle più frequenti mancanze disciplinari (tab. 26):
Le pene corporali
Benché l’abolizione delle pene corporali fosse un vanto della
Rivoluzione, di fatto era frequente il ricorso a percosse, bastonate e
varie forme di degradazione fisica, tanto da essere notoriamente
considerato una delle cause principali di diserzione.
Assieme alle frodi sulle paghe, le sistematiche bastonature praticato
nella Divisione italiana in Francia furono denunciate ai generali
francesi da vari soldati e sottufficiali italiani, provocando l’ispezione
di Napoleone e la sua dura lettera di richiamo del 13 agosto 1804 a
Melzi. Giustificandosi con Trivulzio, il 23 gennaio 1805 il generale
Bonfanti riferiva che i “modi severi” erano cessati dopo la pubblica
destituzione di alcuni sergenti e il deferimento del tenente Giasterli al
consiglio di guerra. Ma accertare la verità era difficile, da un lato per
l’omertà (i soldati, da lui “continuamente” interrogati, stavano zitti per
timore di ritorsioni) e dall’altro perché «l’appiglio ai cattivi trattamenti
(era) divenuto il comune pretesto di tutti i malcontenti». Certamente,
«se non si tiene mano forte si bastonerà ancora – aggiungeva Bonfanti
– non è per persuasione ma per forza che si è desistito in tutto o in
parte dall’impiegare punizioni cui nessuno dei capi ha diritto. Si
vorrebbero menare i soldati come bestie, perché quando il soldato è
avvilito, è vittima paziente. Questo è il principio che per disgrazia
regna nei capi dei nostri corpi e io li considero tutti intinti nella
medesima vernice».
Con varie circolari del giugno-luglio 1807 Caffarelli raccomandò ai
corpi di impedire i maltrattamenti e gli abusi a danno dei soldati,
indicati dalla maggior parte dei disertori come il motivo del loro
delitto. Tra le varie misure, il ministro proibì a ufficiali e sottufficiali
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 16
settembre 1810 vietò a tutti gli italiani di portare i baffi, dando incarico
al direttore di polizia di presentare un relativo progetto esecutivo.
L’esercito fu però escluso da questa disposizione e i baffi furono anzi
adottati come distintivo delle compagnie scelte. Il capitano della guardia
reale Pino fu incaricato di far provvedere al taglio dei baffi tra i non
militari della casa reale (palafrenieri, domestici e civili al seguito della
Guardia).
Con circolare del 30 gennaio 1811 fu vietato l’abuso dei colonnelli di
adottare oggetti di lusso come distintivo del reggimento, che
determinava “emulazione” tra i corpi e costringeva gli ufficiali inferiori,
scarsamente retribuiti, a indebitarsi per poterli acquistare.
Tra le usanze dei comandanti c’era quella di portare a teatro ufficiali e
soldati a prezzi scontati. Il 27 dicembre 1802, a Bologna, Lechi dava
notizia di aver stipulato col capocomico Belloni un abbonamento per
ufficiali e consorti, riservando una sola fila di sedie a prezzi scontati di 8
paoli per i subalterni e 5 per le signore. Era inoltre in analoghe trattative
col “teatro in musica”. Naturalmente nessuno era obbligato ad andare a
teatro: ma, naturalmente, se non ci andava, restava consegnato in
caserma … Anche il comandante del 4° squadrone dei dragoni
Napoleone li portava a teatro, a Senigallia, a gruppi di 50.
D. La diserzione
La diserzione all’estero
La legge franco-italiana non faceva differenza tra la diserzione
all’interno con successivo espatrio e la diserzione commessa fuori del
territorio nazionale. Era infatti presuntivamente dichiarato disertore
all’estero il militare trovato fuori dei limiti di presidio a meno di 2
leghe dall’ultima frontiera.
Nell’agosto 1807 fu stipulata una convenzione internazionale con la
Baviera e con l’Impero per la consegna reciproca di disertori e
renitenti. Tuttavia solo con decreto del 24 maggio 1812 i disertori
italiani arrestati nel territorio dell’Impero (inclusi i dipartimenti
italiani confinanti col Regno d’Italia) furono formalmente equiparati ai
disertori all’estero. Il 22 dicembre Napoleone vietò inoltre, sotto pena
di reclusione, il procacciamento di “cambi” francesi (inclusi i “nuovi
francesi” dei dipartimenti italiani) per i coscritti italiani e dispose la
consegna ai rispettivi governi dei disertori italiani e napoletani
arrestati in territorio imperiale (particolarmente numerosi in Toscana,
Umbria e Lazio).
Al contrario dei mercenari, i coscritti disertavano soprattutto in
territorio nazionale, in particolare alla vigilia della partenza per il
fronte e durante la marcia al confine. In mancanza di statistiche, vari
indicatori fanno tuttavia ritenere che il tasso di diserzione restasse
occasionalmente molto elevato anche all’estero. Nel maggio 1807 i
cacciatori bresciani (volontari) ebbero 100 disertori durante la marcia
per il Tirolo (da dove sapevano come tornare a casa). In giugno un
battaglione complementi di 1.047 uomini ne perse 213 tra Brescia e
Innsbruck.
Il 2 novembre 1808 Pino segnalava dalla Spagna che, malgrado una
doppia linea di sentinelle, le diserzioni continuavano e si disertava
pure dagli avamposti: nel maggio 1809 il suo capo di stato maggiore
Jan Dembowski attestava però che il numero era ormai assai limitato.
Nel luglio-agosto 1811 la Divisione Severoli ebbe 515 disertori (il
5.7% della forza, 8.955 uomini) di cui 180 alla vigilia della partenza
per la Spagna e 335 nella marcia fino a Tolosa: il colonnello Pisa
scriveva da San Giovanni di Moriana che il 2° di linea era pervaso da
“un maniaco spirito di diserzione”. Non pochi passavano al nemico,
come fece a Tarragona, il 5 luglio 1812, anche il capitano d’artiglieria
Pansiotti, con 12.000 franchi della sua compagnia.
Nel febbraio-aprile 1812 la 3a Divisione Pino ebbe 382 disertori (il
2.8% della forza, 13.788 uomini) durante la marcia per raggiungere la
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E. Il bastone e la carota
delle tasse di coscrizione (£. 86.675). Nel febbraio 1813 l’entità del
premio fu provvisoriamente raddoppiata sino al 15 aprile.
Vitto e vestiario
Il vitto ordinario dei condannati, sia ai lavori pubblici che alla palla,
includeva 1 razione di pane di once 7½, 2 razioni di riso o legumi
secchi di grossi 6, e ¾ di razione di carne (ossia once 1½). La carne e
la seconda razione di legumi non erano però somministrate nei giorni
di consegna per punizioni disciplinari né in quelli di lavoro (dovendo
in tal caso integrare il vitto a proprie spese, con un terzo della somma
guadagnata). Ogni lavoratoio disponeva (teoricamente) di una stufa
comune, alimentata per appalto con l’economo in ragione di 900 libbre
nuove di legna all’anno. Trovandosi accampate, le sezioni ricevevano
in natura il combustibile spettante a un corpo di guardia di 4 uomini,
senza lume. L’agente somministrava inoltre l’illuminazione mediante
convenzione per ogni lucignolo e per ogni ora, di concerto con
l’ufficiale del genio.
Il vestiario dei condannati, di colore imprecisato purché scuro, era
provvisto dai rispettivi corpi a tariffa di 62 lire. In base alla circolare
del 1° giugno 1812 ai condannati ai lavori forzati spettavano: giubba
lunga, calzoni, berretta col numero di matricola, 2 camicie di tela
robusta, 2 paia di calze di lana, un paio di scarpe grosse chiodate sulla
punta e cappotto. Invece della giubba e delle scarpe, i condannati alla
palla avevano giubbetto lungo e Zoccoli. Al decreto era unito l’elenco
delle tre ditte presso le quali i corpi dovevano acquistare il panno per
la confezione del vestiario: due (Gelmi, Bosio & C. e Pietro Testa &
C.) riunivano 8 fabbriche gandinesi consorziate, la terza era la fabbrica
Carrara & C., bergamasca, consorziata con altre quattro (due di
Matelica e due piemontesi, di Torino e Sordevolo).
Non sembra però che la durezza del regime punitivo fosse davvero
competitiva con quella del fronte o anche soltanto della caserma. Si è
visto che tra i soldati in procinto di disertare per la prima volta era
diffusa l’opinione che in fondo la vita ai lavoratoi di Mantova fosse
preferibile a quella militare: ma in qualche caso, come nel 4° leggero
di stanza a Ragusa, anche quelli che c’erano già stati preferivano
tornarci piuttosto che restare in guarnigioni così sperdute e disagiate.
Eppure i lavoratoi contribuivano in modo determinante ad elevare il
tasso di mortalità dell’ospedale militare di Mantova: solo nel primo
trimestre del 1810 (quando l’ospedale era ancora francese) vi
morirono 66 condannati e un altro centinaio erano in fin di vita. La
spiegazione del comandante della piazza, generale Julhien, era che la
maggior parte si ammalava e moriva perché, non essendo addetti ad
alcun tipo di lavoro, non potevano acquistare vitto integrativo né
biancheria di ricambio. Nel gennaio 1811 i detenuti erano 700, senza
stufe né vestiti pesanti e in sovraffollamento. In agosto, con le febbri
delle paludi, un quarto erano all’ospedale. Il 15 settembre erano 760
(di cui 642 condannati ai lavori forzati e 118 alla palla).
Le evasioni
Per frenare le continue evasioni, spesso favorite per denaro dagli
stessi carcerieri, con decreto del 22 settembre 1806 la negligenza fu
punita con la destituzione e la reclusione da 6 mesi a 2 anni. Ma nel
giugno 1807 evasero della casa di forza di Mantova, dopo aver
sopraffatto le sentinelle, ben 194 detenuti (uno fu ucciso durante
l’evasione, 68 si costituirono entro pochi giorni e 80 furono catturati).
Nel maggio 1811 ne evasero 48 a Padova, 4 a Bergamo e 11
nell’Adige e il 5 ottobre altri 63 dal carcere di Vicenza, dopo aver
sopraffatto le guardie. A seguito di tali episodi, il 31 dicembre si
decretò il deferimento del personale di scorta e custodia negligente
alle corti speciali straordinarie. Il 22 settembre 1813 un condannato fu
fucilato per tentata evasione.
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L’azione penale per i delitti dei comandanti era riservata al re, il quale
poteva disporre e nominare il consiglio di marina per giudicare non solo
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Nei casi di viltà di fronte al nemico, rivolta, sedizione e ogni altro atto
commesso con pericolo imminente, il comandante poteva - sul
presupposto della necessità, facendone verbale e rispondendone dinanzi
al consiglio di marina – arrestare, punire e far punire in modo sommario
i membri dell’equipaggio e gli individui della guarnigione.
La cognizione dei delitti commessi dai membri dell’equipaggio o della
guarnigione spettava in via generale al tribunale marittimo criminale.
Tuttavia il commissario generale di marina, il comandante in capo o
della divisione o flottiglia potevano deferirla al consiglio di guerra di
bordo, presieduto da un capitano di vascello e composto da 8 ufficiali, di
cui uno relatore, con lo scrivano di bordo in funzione di cancelliere
verbalizzante.
L’arresto degli ufficiali era riservato al commissario generale di
marina, al comandante delle forze navali del Regno e al comandante
superiore di porto. L’ufficiale poteva essere deferito al consiglio di
guerra solo su ordine del re, che poteva nominare direttamente i
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B. Corso e prede
Le prede fatte dai bastimenti dello stato potevano anche finire davanti
al consiglio di marina. Il 14 agosto 1808 al primo capitano dei
cannonieri marinai Calamand furono comminati il rimprovero e
l’esclusione perpetua dal comando di legni reali per una preda illegittima
fatta nel 1807 (un legno russo nel Quarnero); il 2 dicembre 1809 fu
deferito al consiglio il primo capitano Francesco Corner, comandante del
Lepanto, per aver venduto una preda a Lesina, anziché in un porto
nazionale (fu però prosciolto il 21 febbraio 1810 per aver agito in stato
di necessità).
I corsari italiani
Come si è detto, il primo corsaro italiano, lo sciabecco Generoso
Melzi di capitan Puricelli, salpò da Rimini per il Levante il 24 febbraio
1804. Tuttavia la base francese più importante per la guerra di corsa in
Adriatico era Ancona: tre corsari corsi avevano partecipato alla difesa
della piazza nel 1799 e nel novembre 1805 vi si era stabilita una
squadriglia mista di tre corsari, lo sciabecco genovese Masséna del
celebre capitan Bavastro e due trabaccoli, il corso Pino di capitan
Bartolomeo Paoli e il francese Verdier di capitan Prébois. Il 5 dicembre,
nelle acque di Lissa, la squadriglia attaccò un convoglio di 2 brigantini e
3 polacche dalmati armati con 28 pezzi da otto, sei e quattro, catturando
all’arrembaggio, uno dopo l’altro, il brigantino Superbo e le polacche. Il
giorno dopo il corsaro Tigre (capitan Buscia) catturò un altro legno
austriaco armato da 12 fanti. Altre 3 prede fatte durante quella campagna
da un altro corsaro (Il Corso, capitan Muscilai) furono giudicate
legittime il 14 febbraio 1806.
Nell’agosto 1806 il corsaro Sans Peur di capitan Giacomo Carli,
armato dal riminese Antonio Passano, venne affondato dal nemico dopo
aver portato a termine il rifornimento delle Isole Tremiti. Salvatosi con
tutto l’equipaggio e ripreso il mare col nuovo corsaro Italiano, il 20
dicembre Carli mise in fuga un corsaro russo, recuperando uno dei 2
legni predati dal nemico. L’Italiano si segnalò ancora nel gennaio 1807,
assieme al corsaro Lepre. Il 10 agosto una fregata inglese attaccò presso
Trieste il corsaro di capitan Palazzi, che finì arenato a Grignano.
Il 4 dicembre l’imperatore ordinò al viceré di armare in corso un legno
da guerra e di lanciare una sottoscrizione per armare 2 o 3 corsari a
Venezia. Non sembra però che vi siano stati tentativi di fare concorrenza
ad Ancona, dove si era stabilito l’armatore Passano. Proprio nel
dicembre 1807 i suoi 4 corsari (Carlotta, Fortunata, Traiano e Italiana)
catturarono ben 13 prede.
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affusti; f) il distacco del traino [col “taglio delle tirelle” per fuggire dal
campo di battaglia]; g) (per il comandante di una piazza) la resa senza
parere o con parere contrario del consiglio di guerra, prima dell’apertura
della breccia o di aver sostenuto un assalto; h) (per l’ordinatore)
l’omessa distribuzione di viveri e foraggi e l’omessa informazione al
comandante sulle carenze logistiche. In tali casi, come pure per il
reclutamento e lo spionaggio (inclusa la levata di piante militari) a
favore del nemico, era prevista la pena di morte.
nemico nonché in genere gli “abitanti dei paesi nemici occupati dalle
armate” [e quelli delle piazze e province dell’interno dichiarate in stato
di guerra]. Erano “individui attaccati all’armata” tutti gli addetti ai
servizi amministrativi (stati maggiori e intendenza), sanitari e logistici
(sussistenza, trasporti, casermaggio, maestranze reggimentali), alla leva
e coscrizione e all’esazione delle contribuzioni comunali, inclusi gli
incaricati municipali e gli agenti e impiegati dei fornitori.
Come diremo meglio nel capitolo 30 (tomo III), i cittadini del regno
erano inoltre soggetti alla giurisdizione speciale istituita con legge N.
131 dell’8 agosto 1806 (tribunali straordinari misti) e alle commissioni
militari istituite con decreti N. 116 e 125 del 14 e 31 luglio 1806 per
Napoli e le Calabrie in stato di guerra, e ancora nel 1809 (decreto N. 447
del 1° luglio). Abolite il 10 giugno 1810, le commissioni militari furono
ripristinate in Calabria, Basilicata e Abruzzo per la repressione del
brigantaggio e della carboneria, oltre che per casi particolari (evasione
dai lavori pubblici, contravvenzioni al cordone sanitario).
Composizione dei consigli di guerra e di revisione (Legge 140 del 3 giugno 1807)
Grado del reo Presidente Giudici * Relatore Procuratore
A. Consigli di guerra divisionali permanenti
da soldato Colonnello 1 TC, 2 capitani, 1 tenente, capitano * capitano *
a maggiore 1 sottotenente, 1 sottufficiale
Ten. Col., Col., Colonnello . 2 parigrado del reo ten. col. ** sottoint. *
Aiut. Com. 1 TC, 2 capitani, 1 tenente
Sottointendente Colonnello 2 SIM di 1a classe, 1 SIM di capitano * capitano *
2a classe, 1 TC, 2 capitani
Intendente Colonnello 1 Intendente, 2 SIM di 1a capitano * capitano *
classe, 1 TC, 2 capitani,
Gen. di Brig. o Div. (il Generale 3 generali parigrado °, ten. col. ** Intendente °
+ anziano) 1 colonnello, 1 TC, 2 capitani
Generale in capo Generale ^ 3 generali di div. e 3 di brig. ^ AC o col.** Intendente ^
B. Consigli di revisione divisionali permanenti
Tutti i gradi Generale * 1 colonnello, 1 TC, 2 capitani cancelliere Intendente o
(di cui uno relatore) * # ** SIM 1a cl. *
C. Consigli di guerra e di revisione nelle piazze assediate
Nominati dal comandante in capo tra gli U e SU della piazza. In caso di rinvio da parte del
consiglio di revisione, i membri del consiglio che ha emesso la prima sentenza non possono far
parete del secondo consiglio. Le copie legali degli atti indirizzate prima possibile dal presidente al
ministro della guerra.
Note
* Nominati e rimpiazzati dal generale comandante la Divisione. ** Destinato dal presidente della
commissione. ° destinati dal generale comandante l’Armata tra i più anziani, eccetto quelli della
Div. o Brigata del reo. ^ destinati dal ministro della guerra in ordine di anzianità di grado: il
presidente è il generale più elevato in grado più anziano. # per i giudici del consiglio di revisione
sono richiesti almeno 36 anni di età e 6 di effettivo servizio nelle armate di terra o di mare.
AC, Aiut. Com. = aiutante comandante. Brig. = Brigata. Cap. = capitano. Col. = colonnello. Cte =
comandante. Div. = Divisione- Int. = intendente militare. SIM = sottointendente militare. Stn =
sottotenente.. TC = tenente colonnello. Ten. = tenente.
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Con decreto N. 693 del 3 luglio 1810 da Scilla, le corti speciali furono
riorganizzate con 5 giudici criminali scelti dal ministro della giustizia e 3
militari del grado almeno di capitano nominati dal re su proposta del
ministro della guerra, ma soggetti per le loro funzioni alla vigilanza del
ministro della giustizia. La presenza dei 3 militari era sempre necessaria,
mentre il collegio poteva giudicare anche in assenza di 1 o 2 magistrati
civili. Questi ultimi erano suppliti a turno di legge, mentre i militari
erano scelti fra gli ufficiali di SM, della guarnigione, della gendarmeria e
anche della legione provinciale. Tutti i supplenti, magistrati e ufficiali,
erano chiamati dal presidente di concerto col procuratore generale. La
cassazione doveva decidere in 8 giorni i reclami sulla competenza delle
corti speciali.
Le corti procedevano con rito sommario, applicando per le cause di
brigantaggio le pene stabilite dal decreto 1° agosto 1809. Erano abolite
le istruzioni preliminari e i termini e giudizi preventivi per eccezione di
atti nulli e dei testimoni, da proporsi all’inizio del dibattimento, dove gli
ufficiali di polizia giudiziaria competenti istruivano direttamente gli atti
risultanti dalle indagini. Pubblico ministero e difesa avevano solo 24 ore
per la notifica reciproca dei testi e documenti: era nelle attribuzioni della
corte limitare i mezzi di prova della difesa, rigettando quelli ritenuti
irrilevanti e poteva dispensarsi dall’escussione dei testi se riteneva i fatti
sufficientemente provati.
Competenza del giudizio sui delitti dei militari (legge 4 agosto 1812)
La legge N. 1456 del 4 agosto 1812 disciplinò le competenze dei vari
tribunali per i delitti militari e i conflitti di giurisdizione, rinviando in via
generale alla legge del 3 giugno 1807 e attribuendo al foro militare
anche i delitti commessi da “pagani” nel recinto chiuso delle piazze in
stato d’assedio, i delitti commessi da militari in materia di coscrizione
(favoreggiamento di disertori e ingaggio a favore de nemico, puniti dal
decreto N. 793 del 16 novembre 1810) e gli omicidi, ferite e ingiurie tra
militari. Non godevano di alcun privilegio di foro i militari in congedo o
in riforma, gli ufficiali in disponibilità e i militari isolati anche in
commissione fuori dai limiti della guarnigione. [Con parere del 14
maggio 1813 il consiglio di stato assimilò ai militari isolati quelli che
abbandonavano le bandiere del distaccamento in missione: v. estratto N.
1873 del 24 luglio 1813]. Il foro militare non valeva neppure per le
contravvenzioni ai regolamenti sulla caccia (di competenza dei tribunali
correzionali) e per i delitti di competenza delle corti speciali, ancorché
commessi da militari sotto le bandiere e presenti ai loro corpi.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 70
degli ingaggi a favore del nemico, dei briganti o di estere potenze. Per
gli intendenti, sottintendenti, giudici di pace, sindaci e individui della
gendarmeria era sancito l’obbligo di ricerca e arresto, con “diligenti
perquisizioni” e rapporti quindicinali all’intendente e mensili al ministro.
Il semplice asilo era punito con il carcere da sei mesi a 2 anni a seconda
delle aggravanti; l’intralcio colposo alle operazioni di leva da parte di
militari, ecclesiastici funzionari o impiegati pubblici era punito con la
sospensione dalle funzioni; quello doloso con la destituzione salve le
pene per favoreggiamento e falso. L’estorsione di militare, legionario o
gendarme, con 2 anni di ferri, la “semplice scrocconeria in materia di
coscrizione” con la reclusione da 1 a 3 anni. La certificazione colposa di
false infermità era punita con 3 mesi di sospensione dal soldo; se era
fatta “per deferenza”, il sanitario era sospeso per tre anni dalle funzioni,
e per cinque in caso di corruzione, salve in ogni caso le maggiori pene
per il falso. I condannati per favoreggiamento erano inoltre obbligati in
solido al pagamento della multa imposta al disertore o renitente e ai suoi
genitori. La semplice istigazione alla diserzione era punita con 6 anni di
lavori pubblici, l’ingaggio per l’estero con 10 anni di palla, e quello per
il nemico o i briganti con la morte. Era considerato ingaggiatore chi, con
denaro o altri mezzi, tentava di persuadere un militare a disertare per
farlo passare al nemico, ai briganti o all’estero. Come si è accennato, la
cognizione era devoluta ai consigli di guerra o ai tribunali ordinari a
seconda della qualità, militare o civile, del reo.
L’amnistia per la nascita del Re di Roma (D. N. 944 del 15 aprile 1811)
In occasione della nascita del Re di Roma, con decreto N. 944 del 15
aprile 1811, fu concessa una completa amnistia ai refrattari e disertori,
sia contumaci che detenuti (se non prevenuti di altro delitto), ed ai loro
favoreggiatori (esclusi i reati di falso), con condono anche delle sanzioni
pecuniarie non riscosse. Il termine di presentazione era del 31 maggio,
prorogato al 30 giugno per chi si trovava all’estero. I comandanti delle
province erano incaricati di trasmettere al ministro le liste dei presentati.
I renitenti e ritardatari amnistiati erano reintegrati nei diritti della loro
classe, incluso il rimpiazzo: erano visitati e, se dichiarati idonei, inviati
all’armata (in deduzione del contingente provinciale o in soprannumero
se il contingente era già stato completato). I refrattari dei veliti e guardie
d’onore (che non avevano diritto al rimpiazzo) erano inviati al deposito
di Napoli. I coscritti omessi sulle liste subivano un sorteggio speciale. I
disertori amnistiati, salvo particolari disposizioni del ministro, erano
inviati ai corpi di appartenenza. I refrattari che dopo la presentazione
non si rendevano al loro destino erano condannai come disertori e i
disertori amnistiati che non raggiungevano i loro corpi, come recidivi.
Norme sulla renitenza alla leva di mare e la diserzione in marina
Con decreto N. 973 del 19 maggio 1811 le norme contro la renitenza
furono estese agli appartenenti all’ascrizione marittima: se non si
presentavano entro 3 giorni dalla chiamata, l’intendente doveva spedire
la denuncia, col rapporto del sindaco marittimo, al procuratore regio
presso il tribunale di prima istanza. Il termine era di 8 o 30 giorni per gli
assenti dal comune o dalla provincia: in caso di assenza al regno la
decisione era riservata al ministro. La chiamata doveva essere notificata
personalmente o alla famiglia nel domicilio di residenza e i condannati
erano destinati anch’essi al deposito refrattari di Gaeta. Con decreto N.
1144 del 28 novembre 1811 fu tuttavia concessa l’amnistia ai disertori
dell’ascrizione marittima e degli equipaggi, con obbligo di presentarsi
entro un mese (o due se si trovavano all’estero), sotto pena di essere
puniti come recidivi. Con decreto N. 1197 del 4 gennaio 1812 furono
estese alla marina le pene per i disertori recidivi dell’armata di terra
stabilite con decreto del 15 aprile 1811.
Tab. 401 – Leggi penali militari e di procedura penale militare (-diserzione e renit.)
Atto N° data Rubrica
1807
Decreto 08.0 Codice penale militare (adattamento del codice franc. 12 maggio 1793)
5
Legge 140 03.0 Sul procedimento nei delitti militari (consigli di guerra e di revisione)
6
Legge 187 13.0 Consiglio privato per le grazie e commutazioni di pena (generale)
7
1808
Legge 143 20.0 Codice penale – (titolo II – Sezioni I e II, artt. 77-91)
5
Decreto 160 12.0 Regolamento sul servizio amministrativo delle prigioni militari
8
1809
Decreto 372 22.0 Modo per chiedere la grazia di condono e commutazione di pena
5
Decreto 377 27.0 Consiglio di guerra speciale per i delitti di diserzione
5
Decreto 419 17.0 Amnistia e incorporazione dei sudditi che abbandonano il nemico
7
Decreto 425 27.0 Amnistia e incorporazione dei militari nemici rimasti a Ischia e Procida
7
1810
Decreto 873 27.0 Commissione militare per giudicare i soldati della GR accusati di furto
1
Decreto 652 27.0 Abolizione delle commissioni militari e ripristino del regime costituzion.
5
O. d. g. – 28.0 Restituzione dell’alta polizia alle autorità civili (capo di SMG Grenier)
5
Decreto 664 10.0 Giudizio dei gendarmi e altri militari per l’abuso di forza negli arresti
6
Decreto 693 03.0 Organizzazione e istruzione delle costi speciali (miste)
7
Decreto 793 16.11 Art. 14: cognizione dei reati di favoreggiamento alla diserzione
1811
Estratto 1184 11.05 Parere del consiglio di stato sui procedimenti per abuso di forza
O. d. g. – 19.0 Divieto di infliggere punizioni corporali (Capo di SMG Grenier)
6
Decreto 1072 12.0 Competenza sui reati degli appartenenti alla gendarmeria (art. 1 e 2)
9
Decreto 1143 28.11 Rogatoria di testimoni assenti nei procedimenti militari
1812
Legge 1456 04.0 Sulla competenza delle autorità per il giudizio dei delitti dei militari
8
Decreto 1256 27.0 Applicabilità del codice penale ai militari per delitti comuni
2
1813
Decreto 1774 21.0 Art. 1: abolizione del giudizio in contumacia per la diserzione
5
Decreto 1846 18.0 Commissioni militari per la diserzione dalle Divisioni mobilitate
7
Decreto 1851 22.0 Attribuzione alle commissioni militari del giudizio su fautori e complici
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 85
7
Estratto 1873 24.0 Parere del consiglio di stato sulla qualità di “militare isolato”
7
Decreto 1903 28.0 Giudizio provvisorio della gente di mare per delitti militari e diserzione
8
Decreto 1921 25.0 Competenza del consiglio di guerra speciale per i disertori costituitisi
9
Decreto 1931 02.1 Procedura nei conflitti di giurisdizione (decreto della Reggente)
0
Decreto 1971 18.11 Giudizio dei disertori dall’Armata attiva e pene per chi si presenta
1814
Decreto 2052 03.0 Competenze per i delitti commessi da legionari ordinari
3
Estratto 10.0 Parere del consiglio di stato sulla competenza per un delitto di legionario
5
Estratto 30.0 Parere del consiglio di stato sull’ammissibilità di 2° rinvio al consiglio
4
Decreto 2216 04.0 Disposizioni per l’escussione di militari testimoni nei giudizi penali
8
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 86
2
Decreto 1252 20.0 Formazione di un altro reggimento sotto il nome di “provvisorio”
2
Decreto 1317 09.0 Amnistia e incorporazione di condannati per dis. nel Regg. provv.
4
1813
Decreto 1669 18.0 Amnistia (III) per i refrattari e disertori (termine di un mese)
3
Decreto 1746 09.0 Proroga del termine al 18 maggio
5
Decreto 1773 21.0 Organizzazione di colonne mobili per la cattura di disertori e refrattari
5
Decreto 1774 21.0 Pene contro i disertori (e abolizione del giudizio in contumacia)
5
Decreto 1793 03.0 Obbligo dei fratelli, benché esenti, di rimpiazzare i coscritti disertori
6
Decreto 1846 18.0 Misure relative alla diserzione dei militari delle 5 Divisioni mobilitate
7
Decreto 1851 22.0 Attribuzione alle commissioni militari del giudizio su fautori e complici
7
Decreto 1921 25.0 La presentazione volontaria esclude le pene comminate dal D. 18 luglio
9
Decreto 1971 18.11 Giudizio dei disertori dall’Armata attiva e pene per chi si presenta
1814
Decreto 2114 12.0 Amnistia (IV) per i disertori che si presentino entro il 31 maggio
5
Decreto 2129 02.0 Proroga del termine di presentazione al 30 giugno
6
Decreto 2160 03.0 Proroga del termine di presentazione al 15 agosto
7
Decreto 2304 20.1 Ammenda ai sindaci per omesso rapporto sui disertori e renitenti
0
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 88
Appendice 1
Il comportamento delle truppe
francesi nel regno di Napoli
francesi e italiani: alle 10 di sera di ieri dei dragoni del 1er hanno rapito
una donna, maltrattato un uomo e forzato dei magazzini di vino: se non
la smettono, rispedire in Puglia il reggimento”]. Il 20 il diarista scriveva
che i francesi provocavano continui disordini «per questioni di donne e
scrocchi di pranzi». La sera, al mercato, ci furono schiamazzi nei locali
pubblici («tapages dans les cabarets»). Partouneaux, comandante della
guarnigione, riportò la disciplina con o. d. g. del 23 febbraio, che puniva
il mancato rientro in caserma dopo la ritirata, aumentava i contrappelli e
vietava agli esercenti di ammettere soldati nei locali pubblici dopo il
calar della notte. Era inoltre vietato pretendere la “tavola” dalle famiglie
presso le quali si era alloggiati e il 27 febbraio gli alloggi furono
ridistribuiti in modo da tenere gli ufficiali il più possibile vicini alle loro
compagnie. Ci volle comunque del tempo per ristabilire la disciplina: la
notte del 4/5 aprile, ad esempio, 2 soldati furono feriti da civili mentre
tentavano di introdursi in case private. Informatone, Giuseppe Bonaparte
reiterò l’ordine di tenere, di notte, i soldati chiusi in caserma.
Appendice 2
Il comportamento delle truppe napoletane
in patria e nell’Italia centrale
mura di San Lorenzo. Nei poderi lungo le mura furono tagliati 200
alberi, i cavalli mangiarono il grano, i soldati saccheggiarono le case e la
cantina del convento di Santa Croce, rubando vino, pane, farina, maiali,
salumi, grano e granturco, e il 6 partirono per Tolentino «con aver
lasciato un lutto generale presso li contadini». Pur non riconoscendosi
una responsabilità civile dello stato per i delitti commessi da militari, è
testimoniato (dal Monitore del 2 marzo 1814) i almeno un caso di
indennizzo (300 lire) alla famiglia di un civile (Domenico Di Napoli),
«ferito mortalmente all’occasione del passaggio delle nostre truppe per
la città di Spoleto».
Ammutinamenti
Gli ammutinamenti si verificarono soprattutto nei corpi stranieri o
speciali. Ne scoppiò uno a Napoli, all’inizio del 1807, tra gli “africani”
che reclamavano la paga, e che contagiò anche i corsi, di passaggio nella
capitale. Si ammutinarono anche due compagnie franche, una abruzzese
(il 14 marzo 1807 a Teramo) e una calabrese (maggio 1808, a Salerno).
L’episodio più grave, avvenuto il 10-11 marzo 1814 a Castellammare,
riguardò tuttavia ancora i corsi, e si concluse col rimpatrio di 750 tra
militari e civili [v. t. II, capitolo 17]. Si ammutinò ad Alessandria, nel
maggio 1814, anche il battaglione dei reduci dalla Spagna. Il 12 maggio
1815, all’ordine di partire per Capua, si ammutinarono a Napoli le
guardie prefettizie di Salerno, asserragliate nel quartiere SS. Apostoli,
assaltato il 13 dalla guardia di sicurezza. Il 31 maggio si ammutinarono
infine a Gaeta il deposito del 10° di linea e i legionari scelti campani. Il
26 giugno, infine, fu scoperto, sempre a Gaeta, un complotto ordito da
zappatori e soldati del treno.
furto di frutta). E ancora nel 1814 tra corsi e popolani a Borgo Loreto
(15 aprile, con morti), tra reduci da Danzica al quartiere Ponte (10 agost,
con 20 morti), tra veliti e guardie d’onore (27 ottobre, con feriti); e nel
1815, tra civici e cannonieri di marina (3 aprile).
Gli incidenti erano suscitati da provocazioni e sfide, o dall’intervento
dei civici per impedire gravi reati, come aggressioni alle donne e
ferimenti di civili, oppure alla reazione della popolazione contro i furti e
le aggressioni dei soldati, specie nell’estate-autunno del 1813, quando le
truppe furono accampata sulle colline da Capodimonte a Posillipo per
sottrarle all’epidemia (anche di tracoma) scoppiata in aprile-maggio al
campo di Capodichino. Il 22 novembre De Nicola annotava con sollievo
la definitiva partenza di «questi incomodi ospiti, che dopo aver
saccheggiata la campagna di frutta nell’està, di uva nell’autunno, ora la
stavano spogliando di legna per farne fuoco. Gli ufficiali poi vi
andavano disseminando il loro libertinaggio e debosciando tutte le
figliole che potevano avere tra le mani».
La tolleranza del re
Il diarista sottolineava, il 1° giugno 1809, che il re sembrava non
darsene peso, anzi apprezzasse questa aggressività. In effetti non pare
che, nonostante i morti, vi siano mai state conseguenze giudiziarie né
disciplinari a carico degli ufficiali che, invece di impedire le violenze, le
tolleravano o addirittura le incoraggiavano e perfino capeggiavano. Il 27
agosto 1809 una ventina di ufficiali della guardia, capeggiati da un
maggiore, irruppero in un commissariato di polizia e sequestrarono un
funzionario che giorni prima aveva arrestato un loro collega mentre, in
borghese, maltrattava una signora: il funzionario fu portato a forza in un
caffè dirimpetto al Palazzo Reale e percosso per essersi rifiutato di
chiedere scusa. Murat scrisse al capitano della guardia di turno e al
ministro della polizia di mettere agli arresti tutte le persone coinvolte,
poi promosse l’ispettore commissario, degradò l’ufficiale arrestato e
retrocesse di un grado i più scalmanati, spedendoli tutti alla Grande
Armée, ma li salvò dalle sanzioni ben più gravi previste dalla legge. Il 20
maggio 1810 il re graziò 4 veliti a cavallo della guardia condannati a 12
anni di prigione per aver liberato a viva forza un camerata arrestato,
rinviandoli al corpo senza ulteriori sanzioni. Pochi giorni dopo graziò
altri 10 individui della guardia condannati ai ferri, sanzionati comunque
col trasferimento nel Real Africano.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 94
Duelli
Benché proibiti, i duelli erano tollerati e imperversavano, non solo per
questioni private di gioco e di donne, ma anche per questioni di servizio,
o di precedenza, o per l’“onore nazionale”. Nel febbraio 1807, a Capua,
il capitano Gabriele Pepe, dei granatieri del 1° di linea, ebbe tre mesi di
arresti per aver sfidato il maggiore Pégot. L’8 aprile 1809 il capitano
della guardia Decoquevilliers uccise alla pistola, alle Grotte di Posillipo,
il tenente dei corsi Giuseppe Zerbi [incaricato dal suo comandante di
consegnare di persona un dispaccio al re, Zerbi era stato schiaffeggiato
da Decoquevilliers, il quale, di guardia al Palazzo Reale, pretendeva di
impedirgli l’accesso]. Lo stesso anno C. Filangieri fu rimpatriato dalla
Spagna per aver ucciso in duello il milanese Franceschi Losio, generale
di brigata francese e scudiero del re Giuseppe, che si era permesso
spezzanti giudizi sui napoletani. Numerosi duelli in difesa dell’onore
nazionale si ebbero nell’aprile 1811 a seguito della sorpresa di Figueras,
imputata dai francesi e dagli italiani all’inettitudine e alla viltà dei
napoletani (in gran parte convalescenti) che si trovavano nel forte.
La mania dei duelli si diffuse però anche nella capitale, soprattutto tra
veliti e guardie d’onore, come testimonia De Nicola nell’agosto 1809, il
quale registra al 30 settembre l’uccisione in duello, a Napoli e Aversa, di
2 ufficiali della guardia. Il 26 maggio 1810, a Nocera, il maggiore Costa
fu ferito ad un braccio da Rossarol; era l’undicesimo duello in un mese e
si era svolto con la spada non essendo stata permessa la pistola. I duelli
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 95
Appendice 3
Cronache della diserzione
di linea inviato a Roma aveva avuto 150 disertori su 800 uomini, per la
voce che sarebbero diventati ciechi se restavano al servizio dei sovrani
scomunicati dal papa. Il 5 settembre aggiungeva però con soddisfazione
che il reggimento non aveva avuto un solo disertore su 2.200 uomini in
addestramento, pur contando nelle sue file 250 galeotti amnistiati. Il 4
ottobre protestava invece per il disservizio della sussistenza francese in,
Italia centrale, che aveva costretto gli ufficiali del 1° leggero a vendersi
gli orologi per sfamare i soldati e provocato 30 diserzioni, soprattutto tra
Foligno e Spoleto, dove erano state incoraggiate da persone del posto.
Le leve murattiane produssero moltissimi renitenti, ma pochi disertori.
Anche nel regno e in Italia, come in Spagna, a disertare erano soprattutto
rimpiazzi e amnistiati. Uno, disertato nell’aprile 1810, era ad esempio un
ex-brigante, amnistiato per aver ammazzato il capocomitiva: promosso
informatore della polizia, era finito nell’esercito solo a seguito di nuovi
efferati delitti. Nel solo bimestre aprile-maggio 1810, il consiglio di
guerra permanente della Marina giudicò 95 disertori: 85 contumaci (tutti
condannati a 5 anni di ferri, tranne 2 a “castigo economico per la minore
età”), e 10 in contraddittorio, di cui 7 assolti, uno condannato a 5 anni di
lavori forzati e due a 3 anni. Il 20 maggio Murat graziò 55 disertori del
Real Corso e 46 individui della gendarmeria ausiliaria. La diserzione
organizzata dagli ingaggiatori nel regno di Napoli non faceva poi
distinzioni di nazionalità. Fu contagiato anche il 22e légère, ultimo
reggimento francese rimasto nel regno per controllare la piazza di Gaeta:
«cette désertion ne peut avoir lieu que dans le Royaume de Naples»,
chiosava Napoleone il 16 febbraio 1812.
fu presso Tolentino uno scontro a fuoco, con 2 morti, fra 48 disertori del
9° di linea e finanzieri, gendarmi e soldati leali.
Ignorando l’episodio, Dalrymple si stupiva che le colonne in marcia su
Bologna avessero avuto pochissime diserzioni: ma le cose cambiarono
presto, perché già il 4 aprile, durante il combattimento del Panaro, la 1a
Divisione ebbe almeno 300 disertori. Il 7 aprile il comandante della
gendarmeria transpadana (l’ex 2a legione della gendarmeria italiana),
colonnello Piella, e vari sindaci segnalavano al prefetto del Reno,
Agucchi, un gran numero di disertori, quasi tutti della 2a Divisione, che
scorrevano le campagne spargendo il terrore. Il 10 aprile il commissario
generale Pellegrino Rossi raccomandava ad Agucchi di adoprarsi per
l’arresto dei disertori e ordinava alla guardia nazionale di concertarsi al
fine con la guardia di finanza.
La diserzione dilagava anche nella Guardia, in Toscana: il 7 aprile
Nugent ordinò alle autorità granducali di accogliere bene i disertori e
avviarli con foglio di via a Livorno. Il 15 aprile Lord Burgersh valutava
a 1.200 i disertori della guardia in Toscana: la cifra corrisponde con la
forza di 1.518 raggiunta il 6 maggio dalla legione austro-napoletana
comandata dal colonnello Church, abbastanza inquadrata e animosa da
poter essere impiegata sul fronte del Liri, dove la 4a Divisione di riserva
si era sfaldata davanti a pochi partigiani e soldati papalini. Il 7 aprile, da
Velletri, il maresciallo di campo Roche scriveva al capo di SMG Millet
che molti soldati del 10° di linea disertavano per passare nelle truppe
pontificie: l’11 il console napoletano a Roma, Zuccari, confermava che il
governo pontificio arruolava i disertori.
Il fenomeno si accentuò ulteriormente durante la ritirata da Bologna: il
22 aprile la Brigata Haugwitz rastrellò sugli Appennini 400 disertori
delle tre divisioni di linea fuggiti dalla linea del Ronco; lo stesso giorno
il generale Bianchi scriveva a Frimont da Montevarchi che la diserzione
imperversava sempre di più nell’amata nemica e che ogni giorno
aumentavano i disertori che si presentavano alla sua avanguardia. A
partire dal 6 maggio, la diserzione si trasformò in sbandamento di intere
brigate superstiti della battaglia: i soldati si dirigevano senz’ordine verso
casa, frammischiati ai pochi reparti ancora inquadrati. Passando per
Teramo, 2.000 superstiti della 1a Divisione vendettero in massa le
uniformi in cambio di cibo. I decreti dell’11 maggio da Sulmona e del 15
da Napoli ordinavano agli sbandati di riunirsi a Capua, ma la guardia di
sicurezza si preparava a impedir loro l’entrata nella capitale.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 103
Appendice 4
La condanna a morte
di Gioacchino Murat
• della vigilanza sui luoghi e sugli addetti al pubblico smercio (fiere, mercati, piazze,
stazioni di vetture pubbliche, rivendite ambulanti) e sull’edilizia pubblica e
carceraria.
Dietro autorizzazione del ministro, il commissario generale poteva
emanare specifici regolamenti, corrispondeva con l’autorità militare e
aveva ai suoi ordini i commissari dei quartieri, gli ispettori delle piazze e
dei mercati e quelli dei porti e a sua disposizione la gendarmeria, con
facoltà di richiedere l’intervento della forza armata. I commissari di
quartiere esercitavano la polizia giudiziaria sui delitti puniti con pene
superiori a 8 giorni di detenzione o 12 carlini d’ammenda, con potere di
ordinare l’arresto o la comparizione e con obbligo di verbalizzare.
Con determinazione N. 50 del 27 marzo furono nominati il
commissario generale di polizia (Onorato Gaetani dell’Aquila
d’Aragona, 9° duca di Laurenzana) e 12 commissari di quartiere, tra cui
“Lamanna figlio”, ossia Gabriele, figlio del giudice Gregorio Lamanna,
già “capo subordinato e assessore” per la città di Napoli del capo della
polizia borbonica (Troiano Marulli duca d’Ascoli). Gli altri erano
Gregorio Muscari, Giuseppe De Stefano, Michele Lopez Fonseca,
Francesco Sedati, Francesco Canofari, Pietro Vollaro, Giuseppe
Laghezza, Pasquale de Laurentiis, Giuseppe Castaldi, Luigi Trenca e
Alessandro Vitale duca di Tortora. Furono inoltre nominati un
commissario di polizia nel porto di Napoli (Audibert), uno per le isole e
il litorale del Golfo [Monglas, che tredici mesi dopo avrebbe arrestato a
Castellammare il presunto attentatore del re] e tre per i circondari di
Casoria, San Giorgio a Cremano e Mugnano.
Da Genova Saliceti si era portato Antonio Maghella, già referente di
Saliceti nel governo della Repubblica ligure e nella sua annessione alla
Francia nonché nella leva di 2.000 marinai per la marina imperiale
[l’ambasciatore cisalpino a Genova, Giulio Cesare Tassoni, l’aveva
definito, in un dispaccio del 19 novembre 1800, «noto per i suoi delitti»,
mestatore, austriacante, fautore della controrivoluzione.] L’entourage del
ministro includeva il corso Cipriano Franceschi [suo intendente
personale]; il giureconsulto toscano Tito Manzi [già professore
giacobino all’ateneo pisano, poi segretario generale del consiglio di stato
e di fatto capo della polizia politica napoletana, divenuto dopo la
restaurazione informatore di quella austriaca]; il capuano Alessandro
d’Azzia [sostituto procuratore regio presso la corte d’appello di Napoli
nonché capo della divisione ministeriale della città e governo di Napoli,
che secondo il colonnello borbonico Carbone divenne poi estortore
abituale degli incauti trovati in corrispondenza compromettente con
Palermo]; e infine l’ex-tenente del corpo reale Pietro Colletta [radiato
dall’esercito, sopravvissuto col gioco e con temporanei incarichi civili
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 107
erano infine incaricati di formare uno stato dei danni subiti dai privati
“attaccati alla loro patria” e un altro dei beni dei ribelli soggetti a
confisca.
Presieduta successivamente dai colonnelli Desgraviers Berthelot,
Goguet, Thullier, Saint Martin, Monneret, de Duret de Tavel, la
commissione militare di Cosenza si comportò, secondo uno storico
imparziale come Luigi Maria Greco, in modo “sagace e giusto”: un
presidente, in effetti, non lasciandosi ingannare dal rinvenimento di
tracce d’arsenico nel pane per le truppe, volle andare a fondo e costrinse
i testimoni a confessare che si trattava di una falsa prova costruita per
incastrare un giovane fornaio, inviso ad un capitano della civica di cui
corteggiava la figlia. Greco riferisce però anche il caso di un giovane,
costretto dal padre a seguirlo nei corpi volanti, che rifiutò la grazia
offertagli a condizione di fare da boia; e scrive che pochissime furono le
assoluzioni, poche le condanne al confino, parecchie quelle ai ferri e
molte a morte, anche nei confronti di donne, preti, frati e giovinetti,
valutando ad oltre 230 le impiccagioni eseguite solo a Cosenza nel
secondo semestre del 1806. Per prassi i cadaveri dei giustiziati venivano
decapitati: testa e braccia mozzate erano esposte in gabbie di ferro nei
paesi d’origine, sia a monito sia per testimoniare de visu l’effettiva morte
del reo (col progredire della civiltà, le precarie e inquinanti gabbiette di
ferro a circuito locale furono poi rimpiazzate da artistiche fotografie
color seppia e infine da comode gabbiette domestiche a tubi catodici e
circuito mondiale). Oltre alle condanne “regolari”, continuarono le
esecuzioni sommarie ad arbitrio delle autorità militari, spesso in modi
raccapriccianti (impalamento, interramento, rogo), senza omettere prassi
tollerate come i linciaggi popolari e la lucrosa vendita dei detenuti ai
parenti delle vittime (specie durante le traduzioni da un carcere ad un
altro e certificando i decessi come abbattimenti durante tentativi di
fuga).
affermava, ad esempio, che dei 454 ricercati del suo distretto, 310 erano
già stati uccisi e ne restavano perciò meno di un terzo (144).
Con circolare del 28 ottobre dell’intendente di Terra di Lavoro, fu
proibita la caccia ai bufali con cani e furetti, come si usava allora in
molti paesi, perché «non conv(eniva) abituare il popolo, e soprattutto le
donne e i fanciulli, al funesto spettacolo del massacro e del sangue».
impresa dello sbarco in Sicilia, decretò una nuova amnistia, con termine
di presentazione al 4 giugno, poi prorogato al 15. Come abbiamo già
detto, la sosta a Cosenza (dal 19 al 24 maggio), e in particolare il
rapporto riservato dell’ordinatore Colbert sul carcere provinciale e sugli
abusi di forza, lo riempirono di sdegno.
Con decreto N. 652 del 27 maggio da Monteleone, Murat ristabilì il
regime costituzionale in tutta l’estensione del regno, restituì l’alta polizia
alle autorità civili revocando il potere di arresto agli ufficiali di linea e
legionari e abolì le commissioni militari, devolvendo le loro competenze
alle corti speciali di cui al decreto del 1° luglio 1809. Con o. d. g. del 28
maggio il capo di SM Grenier comunicò ai comandanti di divisione che
dal 1° giugno le autorità militari non potevano più impartire ordini a
quelle civili né arrestare un suddito del re: la disposizione non si
applicava però “alla polizia militare della piazza di Napoli né tampoco
alla gendarmeria”.
Secondo Colletta, Murat graziò un brigante il quale, condotto da lui in
catene presso Palmi, l’aveva scaltramente lusingato raccontando che il
giorno prima, appostato fra le rupi, aveva avuto l’occasione di sparargli,
ma non ne aveva avuto il coraggio, folgorato dall’«aspetto grande e
regio» di Gioacchino. Il 10 giugno, da Scilla, il re decretò il deferimento
alle corti criminali ordinarie della cognizione sugli abusi commessi “dai
gendarmi e qualunque altro militare” sugli imputati in stato di arresto,
custodia o traduzione. Il 9 giugno scriveva a Napoleone, da Scilla: «il
était bien temps, sire, que je vinsse visiter ce malheureux pays que j’ai
trouvé en proie à l’anarchie, aux factions et au plus affreux brigandage.
J’espère rémedier à ces maux par les mesures énergiques que j’ai prise.
La plus salutaire de toutes est sans doute celle d’avoir rendu la haute
police à l’autorité civile. Depuis quatre ans les deux provinces de
Calabre étaient absolument gouvernées militairement et la contrebande
de détail s’y faisait d’une manière effrayante par tous les militaires et par
tous les pêcheurs. Je dirai même franchement à V. M. qu’il est
impossibile de l’empêcher entièrement et qu’il n’y a que la prise de la
Sicile pour y mettre un terme».
infine scovato nel bosco Migliuso presso Nicastro. Sulla sua morte
fiorirono leggende: che avesse, con un morso, amputato il pollice al
legionario che lo scannava; che avesse fatto in tempo a pugnalare il
traditore che aveva guidato la colonna e sparato il colpo mortale. La
morte non guastò la festa già pronta per lui a Cosenza: Manhès la fece
scontare all’intera famiglia, già in ostaggio, condannata a morte in
blocco per favoreggiamento. Dal balcone della prefettura, col vescovo e
le altre autorità, si godette la consueta sfilata al patibolo, aperta dal
fratello prete in groppa all’asino (inforcato, more temporum, a rovescio e
col cartiglio infamante sulla schiena), seguito dalle donne, la madre con
la testa mozza, la druda e le sorelle ciascuna con un arto del fu Paolo
Mancuso, ultimo luogotenente del leggendario pastore Nierello.
Costretto col terrore ad eseguire personalmente, manhesiano ritu,
l’impiccagione delle sorelle, il pretonzolo svenne: dovette pensarci il
boia, rovinando il finale.
Ci pensò il re, ad addolcire l’amaro del generale: accordando a lui,
stratega dell’ultima operazione, la taglia su Benincasa, sorpreso nel
sonno ai primi di marzo nel bosco di Cassano. Secondo Colletta
sogghignò udendo la sentenza pronunciata da Manhès: porse con calma
le mani al boia che gliele mozzò e gliele appese sul petto; mangiò di
gusto, facendosi imboccare dalla scorta, durante la marcia a piedi fino a
San Giovanni in Fiore, sua patria; dormì placidamente l’ultima notte,
rifiutò i conforti religiosi e salì da solo, regale, sul palco della forca.
Il 27 aprile Montigny riferiva che Quagliarella era stato ucciso sulla
riva campana dell’Ofanto dai contadini di Ricigliano e l’intera banda
Caputo carbonizzata dentro una caverna dai contadini di Forestella di
Spinazzola. Un rapporto dell’8 aprile informava dell’uccisione di
Taccone (linciato dalla civica e dalla gente di Potenza dopo che si era
costituito) e di altri due capi da parte della civica a Pescopagano e Ascoli
Satriano.
competenza delle commissioni militari al solo caso dei briganti presi con
le armi in pugno.
L’esecuzione di “Capobianco”
A far precipitare i rapporti con la carboneria, benché non ancora messa
formalmente fuorilegge, provvide l’ottuso Manhès, mantenuto al
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 143
Un re repubblicano
In preda all’ira, Murat ordinò a Pepe di presentarsi a Napoli per essere
giudicato dal consiglio di guerra: ma invece di farlo arrestare al suo
arrivo, lo ricevette a Palazzo Reale e, dopo averlo investito di aspri
rimproveri, si abbandonò more solito al melodramma («croyez-vous
donc que j’ai oublié que moi aussi, j’ai été républicain?») e si limitò ad
ordinargli di restare a Napoli sotto parola d’onore. La pace con l’esercito
fu celebrata con la grande parata del 28 maggio a Chiaia, seguita da un
banchetto alla Villa Reale offerto alle truppe dal consiglio comunale.
che Murat sperava invece di usare come pegni territoriali per ottenere il
riconoscimento del papa. Il 28 maggio il marchese di Montrone, il
ciambellano di Murat che, in mancanza di relazioni diplomatiche, curava
i suoi interessi a Roma, riferiva a Gallo di aver parlato della bolla
direttamente al papa, il quale gli aveva assicurato di aver intenzione di
scrivere in generale contro tutte le sette, aggiungendo che i principi
avrebbero dovuto fare la loro parte facendo eseguire le bolle di Clemente
XI e Benedetto XIV contro la massoneria.
Il 14 giugno Montrone comunicava che il papa aveva nominato una
commissione di tre cardinali e tre prelati per procedere ad una bolla
contro i carbonari. L’editto, emanato in agosto, riguardava però tutte le
sette, inclusa la massoneria; in ogni modo Murat se ne accontentò, e il
23 ne trasmise il testo a Maghella, con l’ordine di stamparne 600 copie.
Tab. 929 – Membri dei 4 Tribunali straordinari (14 e 20 agosto 1806) (*)
Tribunali 1° Salerno 2° Foggia 3° Cosenza 4° Chieti
Province T. di Lavoro Capitanata Basilicata Abruzzo Citra
Salerno Bari Calabria Citra Abruzzo Ultra I
Montefusco Lecce Calabria Ultra Abruzzo U. II
Presidenti Sansone Farina De Fabritiis Canofari
Domenico Giacomo Giacinto
Procuratori Agresti Libetta Calenda Luigi Scarciglia
Regi Michele
Giudici Presta Laudari Gatti Stanislao; Melchiorre
civili Gennaro; Saverio; Mazzei Fabrizio; Paolo;
Valeri; Vecchioni De Rinaldis Cipriano
Martucci Carlo; Giuseppe; Giacinto;
Giacinto; Terracina Riola Stanislao. (Arcovito
Marini. Michele; (mutati il 10 Girolamo);
(Michitelli ottobre, v. nota) Mazzoni F.
Biagio). Saverio.
Giudici ten. col. ten. col. Del cap. Francia magg. Cicconi;
militari Amato; Fuerte Franc.; Giovanni B.; cap. ten. col.
magg. cap. De Felice magg. d’Espinosa Eusebio;
Cecconi; Silvestro; Ferdinando; col. Salinetti
cap. Pietro cap. Navarro ten. col. de Witte Pasquale
Colletta. Pasquale. Antonio.
segretari Beneventano Fournier (Minieri) Marchesano
Rocco Giovanni Vincenzo
(*) Decreti N. 139, 142, 143, 144 e 146 del 14 e 20 agosto. I nomi tra parentesi
indicano quelli nominati coi decreti N. 153-56 del 26 agosto.
Mutamenti disposti con decreti N. 205-07 del 10 ottobre: Carlo De Laurentis al
posto di Massari Francesco Antonio (4°); Saverio Laudari, Baldassarre Parisi da
Bocchigliero, Teodoro Ardente di Lama e il capo squadrone De Gennaro nominati
giudici del 3° tribunale al posto di Riola, Mazzei, De Rinaldis e d’Espinosa. Resta
vacate il posto di Laudari al 2° tribunale.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 155
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 156