La Giustizia Militare 1800-1815

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Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 1

Virgilio Ilari

LA GIUSTIZIA MILITARE
IN ITALIA
DURANTE LE
GUERRE NAPOLEONICHE
Regno d’Italia 1796-1814
(capitolo 14 della Storia Militare del Regno Italico)

Regno di Napoli 1806-1815


(Capitolo 10 della Storia Militare del Regno Murattiano)
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Da Storia Militare del Regno Italico, vol. I, t. I, pp. 317-378

14. GIUSTIZIA MILITARE E DISERZIONE

A. I Consigli di guerra

La giurisdizione militare cisalpina


L’art. 289 della costituzione cisalpina assoggettava la forza armata a
leggi particolari per la disciplina, per la forma dei giudizi e per la
natura delle pene. Il 15 ottobre 1797 i comitati riuniti approvarono il
codice militare provvisorio, con un solo grado di giudizio riservato ai
consigli di guerra interamente composti da giudici militari.
La legge francese 9 ottobre introdusse altri due gradi di giudizio,
sottoponendo le sentenze a controllo di legittimità e rinnovo del
giudizio presso diverso organo giudiziario. Furono pertanto istituiti tre
distinti organi giudiziari, tutti composti da militari nominati in via
permanente dal comandante della divisione attiva o della divisione
militare competente per territorio:
- il primo consiglio di guerra, giudice di merito;
- il consiglio di revisione, giudice di legittimità;
- il secondo consiglio di guerra, giudice di rinvio in caso di annullamento della
sentenza per difetto di legittimità.

Oggetto del controllo di legittimità erano: a) regolare composizione


del collegio giudicante; b) competenza per qualità del delitto e del reo
e per territorio; c) osservanza delle procedure di informazione e
istruzione; d) conformità della pena alle previsioni di legge.
Accogliendo la richiesta del generale Brune di equiparare le
garanzie processuali dei militari cisalpini a quelle dei francesi, con
legge cisalpina del 25 maggio 1798, che recepiva in via generale la
legislazione militare francese, furono espressamente adottati anche il
diritto e la procedura penale militare francesi, sostituendo le norme
provvisorie italiane.

L’esclusione dei militari francesi dalla giurisdizione cisalpina


La legge francese 1° agosto 1797 sottrasse i militari e gli impiegati
civili delle forze francesi all’estero alla giurisdizione civile e criminale
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dei paesi d’occupazione o di stanza (lo stesso principio in vigore nella


NATO). Il 14 giugno 1798 il ministro della giustizia Luosi sollevò la
questione col collega degli esteri Birago, sostenendo che la norma, pur
“giustissima”, aveva dato luogo a “gravissimo abuso dei comandanti
francesi”, ma il rilievo non ebbe alcun seguito.

I Consigli di guerra e di revisione


In base alla legge franco-italiana, i consigli di guerra erano composti
da 7 giudici, di grado adeguato a quello del reo. Nei processi contro
militari di truppa, sottufficiali e ufficiali inferiori, il consiglio era
presieduto da un capobrigata e composto da un ufficiale superiore, due
capitani, un tenente, un sottotenente e un sottufficiale. Se il giudizio
riguardava un generale, un ufficiale superiore o un appartenente
all’ispettorato alle rassegne o al commissariato, il consiglio era
presieduto da un generale di brigata e i 3 ultimi membri erano
surrogati da tre altri del grado dell’imputato. Uno dei due capitani
aveva funzione di relatore, con un sottufficiale di sua scelta per
cancelliere. Nelle divisioni dell’interno i giudici dei consigli erano
tratti dagli ufficiali riformati o in ritiro, con trattamento pari all’ultima
classe del grado. Era garantito il diritto alla difesa. Le sentenze erano
pronunciate in pubblica sessione, previo dibattimento.
Il consiglio di revisione divisionale era composto da 5 ufficiali; un
generale di brigata presidente, un capobrigata, due capibattaglione e
un capitano relatore, più un cancelliere e un commissario di guerra con
funzioni di commissario del potere esecutivo (poi regio procuratore).
Il consiglio rivedeva le sentenze su istanza delle parti o dei loro
difensori ovvero su richiesta del procuratore, il quale procedeva
d’ufficio in mancanza di “decreto di provvedersi”. Le spese di giudizio
(carta, lumi, legna e indennità dei testimoni) erano liquidate dal
commissariato e pagate sopra mandato dell’ordinatore divisionale.
L’unico generale italiano assoggettato a giudizio fu Teulié per il caso
Ceroni (v. P. I, §. 3A). Non fu però giudicato dal consiglio di guerra, ma
dalla consulta di stato, eretta per la prima e unica volta in alta corte di
giustizia. Il senato del Regno, surrogato alla consulta, non esercitò mai
tale prerogativa.

La Commissione militare della Guardia Reale (D. 21 ottobre 1804)


Con decreto del 21 ottobre 1804 la guardia del presidente (poi reale)
fu sottoposta alla giurisdizione esclusiva di un proprio consiglio di
guerra, con poteri di “commissione militare” e sentenze inappellabili,
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presieduto da 1 generale di brigata e composto da 1 colonnello, 1


capobattaglione, 2 capitani, 1 tenente, 1 sottotenente e 1 capitano
relatore col suo cancelliere. Il commissario di guerra della guardia
faceva le veci di regio procuratore. La commissione militare non
aveva però giurisdizione sul peculato e la “dilapidazione”: come
abbiamo visto il giudizio nei confronti del colonnello Viani, che si
fece scrivere la memoria difensiva da Foscolo fu infatti devoluto al
consiglio d’amministrazione generale della Guardia (v. P. IIA, §. 2).

La cognizione dei reati coscrizionali e comuni (D. 25 agosto 1804)


La giurisdizione militare si estendeva ai civili per favoreggiamento
o correità nei reati commessi dai militari. Le contravvenzioni alla
legge di coscrizione del 13 agosto 1802 (mancata iscrizione nelle liste
di leva, renitenza, negligenza e favoreggiamento) erano in compenso
devolute alla giurisdizione ordinaria. A questa fu inoltre devoluta, con
decreto 25 agosto 1804, la cognizione dei reati comuni commessi dai
militari fuori servizio.

Lo stato civile dei militari (D. 27 marzo 1806)


Con decreto del 27 marzo 1806 le funzioni di stato civile per i
militari all’estero furono attribuite agli ispettori alle rassegne,
commissari di guerra e quartiermastri, incaricati di tenere i registri di
nascite, matrimoni e morti per ogni corpo d’armata fuori del Regno e
di trasmettere i dati al registro centrale del ministero, competente per il
rilascio delle relative certificazioni. Il servizio fu poi regolato con
circolari del 29 febbraio 1808 e 25 maggio 1812. Con decreto 14
aprile 1811 fu attribuita ai podestà e sindaci la speciale tutela dei diritti
e delle proprietà dei militari assenti.

I Consigli di guerra speciali per diserzione e renitenza


Ferma restando la giurisdizione dei consigli di guerra sui reati di
diserzione, le contravvenzioni alle legge di coscrizione del 13 agosto
1802 (mancata iscrizione nelle liste, renitenza e favoreggiamento doloso
o colposo) furono devolute ai tribunali penali ordinari. Inoltre la
diserzione dei requisiti prima dell’arrivo al corpo fu sanzionata in modo
più lieve (tre mesi di reclusione, multa e doppio servizio) della
diserzione ordinaria. Malgrado l’emergenza verificatasi nell’estate 1803
con la prima esecuzione della leva, Melzi non ritenne opportuno
estendere in Italia il decreto imperiale del 12 ottobre 1803 che inasprì le
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pene (condanna a morte, alla “palla” o ai lavori forzati da 3 a 10 anni in


rapporto alle circostanze del delitto) e adottò la procedura sommaria per
i casi di diserzione, con sentenze (in contraddittorio o contumaciali)
emesse entro tre giorni, sottratte ad appello, revisione e cassazione,
eseguite entro le ventiquattrore e pubblicate con affissione nelle strade e
piazze principali del luogo d’esecuzione.
I giudizi erano deferiti a consigli di guerra “speciali”, nominati per il
singolo caso dal comandante d’armi o di divisione attiva. Erano
presieduti da un ufficiale superiore e composti da 4 capitani e 2 tenenti
appartenenti alla guarnigione o alla brigata del reo ma (possibilmente)
non allo stesso corpo (e comunque con esclusione dei diretti superiori
gerarchici del reo autori della denuncia), più il relatore (possibilmente un
ufficiale di stato maggiore o di gendarmeria del grado almeno di tenente)
e il cancelliere. Era comunque garantito il diritto di difesa: il reo poteva
scegliere il difensore o difendersi da solo e i suo parenti o affini entro il
terzo grado non erano ammessi come testi a carico.
Alla vigilia della partenza per le coste della Manica, Pino chiese la
facoltà di istituire commissioni straordinarie (analoghe ai consigli di
guerra speciali) per giudicare i militari che avrebbero disertato durante la
marcia, con potere di emanare condanne capitali. Melzi rifiutò
seccamente, spiegando nella lettera del 17 novembre a Marescalchi, che
la misura richiesta da Pino sarebbe apparsa “dura”, dal momento che le
leggi italiane “comunque cattive, non infligg(eva)no la pena di morte al
soldato”: senza contare la questione di costituzionalità (“si dubiterebbe
molto che io avessi facoltà di decretarla”).
Nel 1806, di fronte alle 12.000 diserzioni verificatesi nel 1803-05, il
ministro Caffarelli chiese l’adozione dei consigli di guerra speciali anche
in Italia. Il progetto di legge, discusso a lungo dal consiglio di stato, fu
infine approvato con decreto del 18 novembre 1807, ma l’estensione alle
truppe italiane mobilitate era già stata disposta dal principe Eugenio,
nella sua qualità di comandante in capo dell’Armée d’Italie, con ordine
del giorno del 17 ottobre. Per le truppe dell’interno i consigli di guerra
speciali furono attivati solo con circolare del 18 maggio 1808, in vigore
dal 1° giugno. Con decreto del 14 ottobre 1811 furono aboliti i processi
contumaciali, deferendo la persecuzione dei disertori al direttore delle
rassegne e coscrizione (v. P. IIA, §. 1E).

La giustizia militare marittima (D. 23 aprile e 8 settembre 1807)


Autonomo era anche l’ordinamento disciplinare e penale della Reale
Marina, regolato inizialmente dalle norme austro-veneziane e poi da un
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decreto provvisorio del 23 aprile e altri tre definitivi dell’8 settembre


1807, per i quali rinviamo al Tomo III, P. III, §. 6A.

B. Le Commissioni militari

La Commissione militare per i moti di Bologna (D. 26 luglio 1802)


In base agli artt. 60 e 61 della costituzione di Lione spettava alla
consulta proclamare lo “stato di tumulto” e autorizzare il governo a
porre in essere le misure necessarie (o ratificare quelle disposte in via
d’urgenza). Tra queste misure rientrava la facoltà di sospendere le
garanzie giurisdizionali e far “processare militarmente”, secondo le leggi
vigenti e senza ricorso a cassazione, “i perturbatori della pubblica
tranquillità”.
Una prima commissione militare fu istituita con decreto 26 luglio
1802 della consulta di stato per reprimere l’insurrezione di Bologna,
innescata dalla carestia, dalle violenze della truppa e dalla “rabbia
popolare” contro i francesi e il nuovo prefetto ma infiltrata da gruppi
dell’opposizione “anarchica”. La commissione, nominata dal governo,
presieduta dal capobrigata Fontanelli e composta dai capibattaglione
Bertoletti e Foresti e dai capitani di gendarmeria Masi e Villata,
comminò pene molto severe.

Le commissioni militari contro la resistenza alla leva (1803-04)


Il 25 giugno 1803 Trivulzio chiese di applicare lo stesso regime nei
casi di resistenza collettiva o armata alla leva – ricadenti sotto la legge
16 termidoro anno V (3 agosto 1797) che prevedeva la pena capitale –
istituendo tribunali militari itineranti per giudicare senz’appello né
ricorso in cassazione gli autori e complici delle sedizioni e tumulti.
Malgrado le riserve espresse il 2 luglio dalla 1a divisione (personale)
dello stesso ministero della guerra, che riteneva controproducente tanta
severità, il 14 luglio la proposta fu approvata dalla consulta
(contestualmente con un’amnistia per renitenti e disertori) e il 18 il
governo nominò due “commissioni militari” con giurisdizione di qua e
di là del Po.
Presiedute da un capibrigata (Fontane e Viani), erano composte da 1
capobattaglione (Ferdinando Rossi e Masi) e 1 caposquadrone della
gendarmeria (Belfort e Fantuzzi), due capitani (dei veterani, del 2° e 1°
ussari e di gendarmeria) e un capitano relatore (Baranzoni e Salvi).
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Commissari di governo presso le commissioni erano un famigerato


poliziotto ex-giacobino (il piemontese Giovanni Mulazzani) e un
sostituto commissario presso il tribunale di cassazione.
La commissione Fontane pronunciò 3 condanne capitali (di cui una
eseguita) per il tumulto di Seregno, mentre la commissione Viani fu più
mite (due parroci che avevano minacciato di suonare la campana a
stormo per impedire la coscrizione, furono condannati a due anni e a un
anno e mezzo di reclusione).
Contestualmente all’amnistia del 18 settembre 1804, le commissioni
militari furono abolite, restituendo la competenza ai tribunali ordinari.
Melzi dispose tuttavia di non pubblicare il decreto, per non dare segnali
di debolezza ai malcontenti.

Le commissioni militari contro il brigantaggio (D. 12 luglio 1805)


Del resto le commissioni militari furono ripristinate nove mesi dopo,
con decreto del 12 luglio 1805, anche se limitatamente alla repressione
del brigantaggio in base alla legge stralcio del febbraio 1804 sugli
omicidi, le ferite e i furti, che puniva gli omicidi qualificati con la morte
per decapitazione, disponendo nei casi più gravi l’esposizione
“esemplare”, per un giorno, della testa del reo inastata su un palo. Le
sentenze della commissione militare non erano appellabili, ma quelle
capitali, se non eseguite entro le ventiquattrore, erano commutate in
ergastolo.
Il brigantaggio era endemico in tutto il Regno (nel Pavese si ebbero
nel solo 1811 ben 350 rapine a mano armata, incluse 100 con omicidio o
ferimento), ma le bande più famigerate operavano nei dipartimenti del
Serio (Paolo Rossi e “Pacchiana”), Reno (Lambertini e Mazzetti),
Panaro (“Cemini” e Peri), Basso Po (Baschieri), Rubicone (“Falcone” e
“Rapettino”) e Musone (“Peccio” e “Capitanaccio”).

Il Tribunale speciale per la difesa dello stato (1805-1807)


Con decreto n. 124 del 26 settembre 1805, tutti i delitti contemplati
nella legge del 1797 furono sottratti al giudice ordinario, istituendo in
Milano un tribunale speciale permanente, con sentenze inappellabili ma
impugnabili in cassazione. Il collegio era composto da sette membri,
cinque civili (incluso il presidente Francesco Predabissi e il relatore) e
due ufficiali di gendarmeria (il caposquadrone Scotti e il capitano
Bianchi). Le funzioni di regio procuratore erano attribuite allo stesso
direttore generale di polizia del Regno, l’ex-giacobino Giacomo Luini,
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che durante la Cisalpina era stato primo presidente della corte di


giustizia civile e criminale di Milano e nel 1799 era stato deportato a
Cattaro dagli austro-russi. Il Tribunale speciale fu soppresso l’8 gennaio
1808, ripristinando le corti criminali eventuali di nomina regia.

Le commissioni militari del 1809


A seguito delle insorgenze del 1809, collegate con l’offensiva
austriaca e poi con l’autonoma resistenza tirolese ed estese in 16
dipartimenti con un bilancio di 2.000 morti e 2.675 arrestati, il 18
maggio 1809 furono istituite commissioni militari per giudicare con rito
sommario gli insorgenti italiani e tirolesi: sotto la stessa data fu però
concessa l’amnistia ai sudditi che avevano seguito gli austriaci in ritirata,
a condizione di rientrare in Italia. Le commissioni emisero 150 condanne
a morte, almeno metà delle quali eseguite. Non però quella dell’eroe
nazionale tirolese: tradotto a Mantova dopo l’arresto, Andreas Hofer fu
infatti giudicato da un consiglio di guerra francese e fucilato il 29
febbraio 1810.

C. Codice penale militare,


delitti, castighi e mancanze

Il progetto di Codice penale militare italiano (1801-1812)


Come si è accennato nell’esercito cisalpino si applicava il codice
penale militare francese del 22 agosto 1790, recepito con legge del 29
novembre 1798. Tuttavia, in connessione col progetto di codificazione
del diritto civile deliberato nel 1800 dalla consulta legislativa, il
ministro Teulié propugnò la compilazione di un “codice militare
cisalpino” (v. IIA, §. 1A-B). Con decreto del 31 luglio 1801 fu a tal fine
istituito un apposito ufficio, la cui IV sezione era incaricata di
elaborare le norme disciplinari e penali: vi lavorò anche Foscolo e tra i
suoi scritti resta appunto un abbozzo di codice penale militare.
La codificazione italiana, autonoma da quella francese, era prevista
dall’art. 120 della costituzione di Lione: e con la Repubblica l’incarico
di elaborare i progetti dei codici penale e civile passò al ministro della
giustizia Bonaventura Spannocchi e al suo segretario, il giureconsulto
valtellinese Alberto De Simone. Con decreto n. 106 del 18 settembre
1802 fu inoltre istituita una commissione, composta dai giureconsulti
Mozzini e Glisenti e dal capitano relatore Salvi, per la compilazione di
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un progetto di codice penale militare. Il decreto inviava “gl’illuminati


militari” a far pervenire alla commissione, tramite il ministro della
guerra, le loro “riflessioni”.
Il progetto di codice penale (in 443 articoli) fu presentato nel marzo
1803 al consiglio legislativo e nel febbraio 1804, data l’urgenza di
superare, almeno per i delitti più gravi, il particolarismo normativo dei
vari territori confluiti a formare lo stato italiano, con una legge stralcio
furono messi in vigore i 74 articoli relativi al furto, all’omicidio, alle
lesioni e al regime delle prove e delle pene. Quanto al codice civile, il
progetto fu presentato all’inizio del 1804, ma Napoleone lo congelò
assieme a tutti gli altri e il 10 maggio 1805 presentò al consiglio di
stato il codice civile francese che portava il suo nome, facendolo poi
inserire nell’art. 55 del III statuto costituzionale del Regno. Il codice
Napoleone entrò in vigore il 6 gennaio 1806 nella traduzione italiana.
L’imperatore autorizzò invece l’elaborazione autonoma degli altri
codici: commerciale, marittimo, penale, penale militare e di procedura
penale, ma solo l’ultimo (elaborato da una commissione presieduta da
Gian Domenico Romagnosi e giudicato “perfetto” dall’arcicancelliere
dell’impero Cambacères) fu promulgato da Napoleone (l’8 settembre
1807). Radicalmente rivisto da Romagnosi e approvato dal viceré nel
novembre 1807, il codice penale fu trasmesso a Parigi solo nel maggio
1810 e in agosto Napoleone preferì estendere all’Italia quello francese.
Analoga decisione era già stata presa nel 1808 per il codice penale
militare. Dopo aver fatto raccogliere un testo unico delle disposizioni
sulla leva, nel 1812 Fontanelli ideò un’analoga raccolta anche per il
diritto penale militare, rimasta però allo stato di progetto (Raccolta di
leggi, decreti e decisioni relativi alla giustizia militare per l’Impero
francese (…) con l’aggiunta dei regolamenti vigenti nel Regno
d’Italia).
Tra gli sviluppi successivi del diritto penale militare franco-italiano,
ricordiamo la devoluzione alla giurisdizione militare del furto di effetti
d’artiglieria (decreto 25 aprile 1806), la pena di morte per i disertori colti
con le armi alla mano nelle file nemiche (31 agosto1810), il principio di
non eseguibilità delle sentenze capitali nei confronti del militare
“divenuto pazzo” (6 aprile 1811), l’abolizione dei processi contumaciali
per i reati di renitenza e diserzione (14 ottobre 1811) e il divieto di
trattare alcuna capitolazione in aperta campagna (1° maggio 1812).
Ricordiamo infine la sanzione accessoria (irrogata nei confronti dei soli
sottufficiali e militari di truppa) del ritiro delle decorazioni (con
sospensione degli assegni connessi) per tutto il tempo delle punizioni
disciplinari disposta da Fontanelli con circolare del 15 luglio 1813.
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Italiani brava gente


La mancanza di statistiche giudiziarie non può essere supplita dalla
ricerca d’archivio. Dalle fonti disponibili si potrebbe però ricavare una
casistica ben più ricca e interessante di quella che, nell’economia
generale del presente lavoro, siamo in grado di offrire al lettore. Gli
indicatori di cui disponiamo sono tuttavia impressionanti: in 17 mesi,
dal luglio 1803 al novembre 1804, l’esercito perse 455 uomini (uno su
quaranta) per ragioni disciplinari (49 condannati e 406 cassati dai
ruoli, incluso 1 fucilato in Francia). In un anno e mezzo (1805 e primo
semestre del 1806) i soli consigli di guerra dell’interno giudicarono 14
omicidi, 31 risse con feriti, 133 furti e 41 atti di insubordinazione. Nel
solo 1807 transitarono nelle carceri di Foro Bonaparte ben 3.057
militari, di cui 373 giudicati (in maggioranza per aggressioni e furti
con scasso). Nel 1810-11 il 13% dei reati contro la persona commessi
a Milano erano opera di militari. Nel 1812, escluse le truppe in Russia,
l’esercito ebbe 2.977 condannati, di cui due terzi (2.070) dai consigli
di guerra speciali per diserzione (220 alla palla, 1.830 ai lavori
pubblici e 20 a morte). “Diverse” sentenze capitali si ebbero, secondo
Zanoli, anche fra gli altri 907 condannati (722 dai consigli di guerra
permanenti, 51 da commissioni speciali militari e 134 da tribunali
ordinari).
Risse con civili sono testimoniate nel dicembre 1803 (Castelsenio e
Ravenna; a Langres, in Francia, i borghesi aggrediscono gli ufficiali
della 2a MB leggera); Natale 1804 (uno Zappatore ucciso da civili a
Calais); aprile 1805 (la polizia segnala continue risse tra militari e
borghesi a Milano); novembre 1805 (Chiari e Imola); gennaio 1808
(ad Avignone e Perpignano gli abitanti, costretti ad alloggiare la
Divisione diretta in Spagna, chiamano i soldati “foutus italiens”);
febbraio 1813 (con gli studenti di Pavia).
Omicidi: novembre 1804 (l’uccisione di un granatiere della guardia
imperiale da parte di un granatiere della guardia reale italiana provoca
un richiamo di Napoleone a Fontanelli); giugno e agosto 1807 (tre
dragoni Napoleone giudicati per omicidi commessi a Norimberga);
gennaio 1808 (cinque civili assassinati da soldati italiani nel villaggio
di Trebiz presso Wittemberg).
Quanto a rapine, furti e maltrattamenti a danno di civili, per il 1802
abbiamo le cronache della 2a MB di linea (Lechi). I disordini a Como
vanno imputati alla “località”, all’“aria” e alla “cattiva volontà” delle
autorità civili che non hanno impedito le provocazioni; ma il III/2a è
responsabile di “horreurs et vols”, a Modena “l’indiscipline et le
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désordre est à son comble”, continui i furti e le risse. In novembre, a


Bologna, i soldati si spendono tutta la paga in un giorno solo
all’osteria e tutta la brigata è consegnata in caserma, obbligata alla
lettura del codice militare – una copia per ogni compagnia – e al
contrappello 4 volte al giorno. Le sentenze: 10 giorni d’arresto e
pagamento dei danni agli ufficiali che fanno pascolare i cavalli su
terreni privati; 15 giorni a 2 sottufficiali per minacce a mano armata
contro un civile, radiato il collega che non le ha impedite; scarcerati
per insufficienza di prove 1 caporale e 8 volontari accusati di furto.
Nel luglio 1806 disertori graziati e assegnati al 2° leggero fanno
man bassa di pollame durante la marcia: il comandante li fa proseguire
incatenati e scortati dalla gendarmeria. Nel maggio 1807 il consiglio di
guerra di Milano commina 24 anni di ferri a 7 soldati, rei di rapina. In
giugno una guardia d’onore bresciana approfitta del servizio alla Villa
Reale di Monza per rubare una borsa addirittura alla viceregina. Il 10
agosto 1813, a Padova, alcuni dragoni della Regina aggrediscono una
ragazza che passeggia con la madre e il fidanzato, soldato del treno:
l’intervento di un carabiniere del 2° di linea la salva dallo stupro, ma
le strappano gli orecchini. Non manca il falso nummario: nell’agosto
1807 sono arrestate a Milano due guardie reali; il 30 giugno 1811, da
Mantova il generale Julhien riferisce che alcuni soldati hanno alterato
col mercurio monete da 1 centesimo per spacciarle come monete da
mezza lira, obbligando in ogni caso i commercianti ad accettarle in
pagamento.
Lettera di Napoleone al viceré del 31 marzo 1807 da Ostenda : « La
Division italienne (a Colberg) est un peu pillarde, mais du reste je suis
assez content d’elle et l’on m’en fait d’assez bons reports ». Rapporto
a Caffarelli del 15 dicembre 1807: « les troupes italiennes de la
Division Pino continuent à se livrer aux excès les plus condamnables
(…) les routes sont couvertes de traîneurs qui se répandent dans la
campagne et en désolent les habitants par des véxations inouïes ». Nel
1809, durante la marcia in Spagna, il 6° di linea, formato da disertori
graziati, commise tali sopraffazioni contro i civili, che nel luglio 1810
il procuratore generale presso la corte di giustizia di Milano propose
l’istituzione di una commissione militare con poteri capitali; il
ministero della guerra espresse tuttavia parere contrario. Lettera di
Napoleone a Eugenio, da Colditz, 6 maggio 1813: « mettez un peu
d’ordre dans votre corps, qui en a grand besoin. Les Italiens surtout,
commettent des horreurs, pillent et volent partout: faites-en fusiller un
ou deux ».
Non risultano ammutinamenti per ragioni politiche. L’unico caso in
cui la polizia ebbe qualche sospetto avvenne il 21 dicembre 1810,
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quando gli artiglieri del castello di Milano spararono salve di cannone


per la nascita del figlio del loro capitano, parodiando con palese
sarcasmo il saluto fatto il giorno prima per la nascita della principessa
di Bologna.

Le mancanze disciplinari
Le mancanze disciplinari più lievi erano punite, secondo la legge
francese del 24 giugno 1793, dal superiore, quelle più gravi dal
consiglio correzionale del corpo, presieduto dal comandante. Dalle
cronache della 2a MB di linea (Lechi) nel 1801-02 emerge un quadro
delle più frequenti mancanze disciplinari (tab. 26):

Tab. 26 – Questioni disciplinari nella 2a MB di linea (1802)


Questioni Regole e sanzioni
Reclamo per il Minacce del comandante contro chi si lamenta di ritenute o chiede
soldo soldo arretrato (verrà tradotto al consiglio di guerra per essere
fucilato)
Insubordinazione 15 gg. di cachot e 1 mese di sospensione al furiere che ha risposto al
capitano. Deferimento al consiglio di guerra di un caporale che ha
dato un colpo di sciabola a un sergente.
Bastonatura 10 gg. d’arresto a U che ha bastonato un SU.
Saluto militare L’obbligo di saluto agli U deve essere letto alla truppa per tre giorni.
Il SU porta la mano al cappello, la truppa, in più, deve fare fronte al
superiore. 10 gg. di prigione a chi non si cava il cappello di fronte a
un U e altrettanti all’U che non pretende il saluto
Negligenza 10 gg. di prigione di cui 5 a sola carne e destituzione dall’incarico
all’U che ha lasciato la MB senza pane e legna. 10 gg. all’U che ha
lasciato fuggire un prigioniero.
Simulata 5 gg. d’arresto a caporale per simulata infermità.
infermità
Assenza arbitraria Ufficiali: 5 gg. d’arresti per una breve assenza senza permesso. 10 gg.
per un’assenza di 3 gg. o per assenza al contrappello (se recidivi
arresti di rigore e pagamento del fazionario). Un mese per esser
“rimasto a casa” un mese.
Ubriachezza 15 gg. sala di disciplina, in parte a pane e acqua. Se i casi sono
numerosi, tutta la MB consegnata in caserma. Solo il vivandiere può
vendere vino in caserma (9 novembre 1802, Bologna).
Gioco 5 gg. prigione ai soldati (9 maggio 1801 a Codogno); 10 gg. a pane e
acqua e sospensione dal grado per un mese (7 luglio 1801 a Como)..
Uniforme o 5 gg. di prigione a soldati che il 29 gennaio sciupano uniforme e
tenuta cappotto indossandoli in quartiere. 5 gg. a U trovati in calze di seta e
fuori ordinanza scarpe da ballo o senza spalline o con spada in mano anziché al
fianco. Ammoniti i SU che non indossano i distintivi di grado o
portano la spada in mano a uso di bastone.
Norme di tratto E’ disdicevole per gli U darsi del tu in pubblico, fumare fuori della
propria casa, tenere discorsi troppo liberi o libertini nei caffè o in
presenza di civili.

Il Regolamento per il metodo correzionale e punitivo della guardia


del presidente (poi reale) approvato con decreto 21 ottobre 1804 (tab.
27), prevedeva 37 fattispecie di “colpe”: 16 per i militari di truppa e 8
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 14

per i sottufficiali e 15 per gli ufficiali (8 “lievi” e 7 “gravi”). Le colpe


“gravi” erano deferite al consiglio correzionale. Alla seconda recidiva
specifica le colpe della truppa e dei sottufficiali e quelle “lievi” degli
ufficiali erano considerate “gravi”.

Tab. 27 – Mancanze disciplinari (regolamento della Guardia, 21.10.1804)


Categorie Colpe (lievi le prime due volte, gravi alla II recidiva)
Truppa a) negligenza di tenuta, vestito, armamento o proprietà individuali;
b) trascuranza di istruzione;
c) esecuzione inesatta dei propri doveri;
d) alterco clamoroso con camerati o civili;
e) ostentazione di poco rispetto verso i graduati;
f) disobbedienza, se non costituisce rifiuto deciso;
g) ritardo all’appello al rancio, all’ordinario;
h) ritardo alla ritirata
i) assenza per una notte (la prima volta);
j) risposta in tono sconveniente a un graduato;
k) disprezzo e dispetto per qualche correzione;
l) ubriachezza fuori servizio;
m) dissipamento di oggetti di casermaggio;
n) induzione delle reclute a frequentare bettole e luoghi diffamati
o) assenza momentanea dal posto di guardia;
p) slacciarsi gli abiti, levarsi la sciabola o la giberna durante la guardia.
Sottufficiali a) giocare a carte o a dadi coi subalterni;
b) asprezza inopportuna nell’istruzione delle reclute
c) discorsi di disprezzo verso i superiori alla presenza di subalterni;
d) ingiurie contro i subalterni;
e) inesattezza agli appelli;
f) ogni mancanza in servizio che non porti disordine.
Ufficiali a) inosservanza del regolamento di polizia interna del corpo;
(colpe lievi) b) inesattezza di libri e registri;
c) mancata sorveglianza dei sottufficiali;
d) assenza o ritardo all’esercizio o alla parata;
e) mancata presenza ai corsi previsti essendo di servizio;
f) mancato controllo dell’esattezza dei pagamenti di soldati;
g) negligenza nell’adempimento dei propri doveri;
h) ubriachezza fuori servizio.
Ufficiali a) espressioni animose conto i superiori in presenza di inferiori;
(colpe b) punizioni arbitrarie o ingiuste;
gravi) c) sussurri e discorsi maliziosi se non costituiscono reato più grave:
d) violazione delle consegne inflitte per punizione:
e) ubriachezza in servizio se non ne derivano inconvenienti;
f) condotta sregolata e debiti disonoranti;
g) liti indecenti con civili (senza uso di armi o bastoni e senza feriti).
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 15

Tab. 28 – Punizioni disciplinari (regolamento della Guardia, 21.10.1804)


Categorie Punizioni per colpe lievi
Truppa a) servizio di camera o di quartiere;
b) consegna alle porte della città;
c) consegna fino a 15 giorni;
d) sala di custodia da 3 a 4 giorni;
e) 4 giri davanti alla guardia montante con 5 fucili o 3 selle sulle spalle;
f) prigione per una settimana con 2 o 3 giorni a pane e acqua e 1 o 2 giorni
di guardia.
Sottufficiali a) consegna per un mese alle porte della città;
b) sala di custodia per un mese;
c) arresti semplici nella propria camera per un mese;
d) sala di custodia per un mese;
e) 10 giorni di prigione di cui 4 a pane e acqua.
Ufficiali a) arresti semplici per un mese;
b) idem con divieto di ricevere visite;
c) 10 giorni arresti forzati in camera con sentinella alla porta.

Le pene corporali
Benché l’abolizione delle pene corporali fosse un vanto della
Rivoluzione, di fatto era frequente il ricorso a percosse, bastonate e
varie forme di degradazione fisica, tanto da essere notoriamente
considerato una delle cause principali di diserzione.
Assieme alle frodi sulle paghe, le sistematiche bastonature praticato
nella Divisione italiana in Francia furono denunciate ai generali
francesi da vari soldati e sottufficiali italiani, provocando l’ispezione
di Napoleone e la sua dura lettera di richiamo del 13 agosto 1804 a
Melzi. Giustificandosi con Trivulzio, il 23 gennaio 1805 il generale
Bonfanti riferiva che i “modi severi” erano cessati dopo la pubblica
destituzione di alcuni sergenti e il deferimento del tenente Giasterli al
consiglio di guerra. Ma accertare la verità era difficile, da un lato per
l’omertà (i soldati, da lui “continuamente” interrogati, stavano zitti per
timore di ritorsioni) e dall’altro perché «l’appiglio ai cattivi trattamenti
(era) divenuto il comune pretesto di tutti i malcontenti». Certamente,
«se non si tiene mano forte si bastonerà ancora – aggiungeva Bonfanti
– non è per persuasione ma per forza che si è desistito in tutto o in
parte dall’impiegare punizioni cui nessuno dei capi ha diritto. Si
vorrebbero menare i soldati come bestie, perché quando il soldato è
avvilito, è vittima paziente. Questo è il principio che per disgrazia
regna nei capi dei nostri corpi e io li considero tutti intinti nella
medesima vernice».
Con varie circolari del giugno-luglio 1807 Caffarelli raccomandò ai
corpi di impedire i maltrattamenti e gli abusi a danno dei soldati,
indicati dalla maggior parte dei disertori come il motivo del loro
delitto. Tra le varie misure, il ministro proibì a ufficiali e sottufficiali
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 16

di portare la canna e dare piattonate. Il 10 settembre 1808 il ministro


fece un richiamo al comandante dei cacciatori Principe Reale, perché
alcuni ufficiali avevano strapazzato e percosso con pugni e bastonate i
soldati romani aggregati al reggimento. In una lettera anonima del 19
marzo 1810 inviata al ministero, alcuni dragoni del 4° squadrone
Napoleone di stanza a Novara scrivevano: “tutti i giorni si dà la
ciavatta per piccole mancanze e nervate peggio della galera”. In
settembre 5 ufficiali e sottufficiali furono arrestati per maltrattamenti e
sevizie nei confronti di un soldato. Nel 1812 vi furono numerose
punizioni di subalterni e sergenti per percosse ad inferiori, ma in
dicembre un coscritto refrattario dell’Adige morì in ospedale per le
percosse ricevute da un tenente. Anche il capo del collegio degli orfani
fu ammonito per l’uso delle “ciabatte”.

Il matrimonio dei militari


Gli ufficiali dovevano infatti rendere conto non solo delle loro
debolezze, ma anche del matrimonio, L’8 marzo 1793 la convenzione
aveva liberalizzato il matrimonio dei militari ma il 30 aprile aveva
vietato di alloggiare mogli e figli in caserma. Richiamandosi a
quest’ultima legge, il 19 febbraio 1799 il ministro Vignolle ordinò di
allontanare tutte le donne non addette all’armata come lavandaie o
vivandiere. In compenso fu lanciato un fondo nazionale per sovvenzioni
alle famiglie dei caduti e con legge cisalpina del 18 aprile si accordò alle
mogli dei militari la mezza razione di pane, più ¼ di razione per ogni
bambino.
Nell’estate del 1801 Teulié invocò leggi a favore del matrimonio dei
militari e propose di creare un “convento militare” per le mogli e i figli
minori di 5 anni. La legge francese del 26 luglio 1800 aveva però
attenuato la libertà dei militari di contrarre matrimonio, prescrivendo
l’autorizzazione del corpo di appartenenza, norma estesa da Tordorò
all’esercito cisalpino. Nel 1804 Lechi segnalava gli inconvenienti
verificatisi nella sua Divisione per matrimoni affrettati con ragazze
pugliesi senza dote. Nel novembre 1804 Bonfanti propose di
rimpatriare il sottotenente Cavicchioni del 1° leggero, “pessimo
ufficiale”, “sepolto nella miseria, nella crapula e nella letargia”, i cui
“impegni con una donna per la quale (era) perduto lo (avevano)
sempre reso sordo alle correzioni e ai principi di militare”. Non è
chiaro se fosse persona diversa da costui l’aiutante maggiore del 1°
leggero, rimpatriato da Teulié l’11 aprile 1806 “onde togliere lo
scandalo prodotto dal medesimo unendosi in matrimonio con
un’attrice del Teatro di Boulogne”.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 17

Il 5 gennaio 1805 fu prescritta, come misura temporanea,


l’autorizzazione ministeriale: nel giugno 1806 fu resa permanente per
gli ufficiali superiori e generali, bastando per gli ufficiali inferiori il
permesso del colonnello e per i sottufficiali quello del capitano. Nel
1808 l’autorizzazione ministeriale fu però prescritta per tutti i gradi,
con obbligo di produrre un attestato di buona condotta e l’assenso dei
parenti della sposa e, per gli ufficiali, anche l’attestato di un certo
reddito. Dal censimento dei militari coniugati, disposto il 15 novembre
1808 dal viceré, risultò che tra gli ufficiali erano dal 12 al 40% a
seconda delle armi (minimo in fanteria, massimo fra i veterani, ma
anche fra i dragoni Regina), mentre tra i sottufficiali e la truppa erano
al massimo il 4% (la media totale era tra il 2.1 e il 7.8%). I coniugati
avevano in media 1,2 figli.
Il matrimonio senza autorizzazione poteva costare l’espulsione (o il
trasferimento dai granatieri della guardia reale al 6° di linea come
accadde al tenente Brioschi nel 1810). Si ammisero però sanatorie per
i matrimoni contratti all’estero (ad esempio da A. Lechi in Spagna):
inoltre, per incentivare i militari a prolungare la ferma oltre i cinque
anni, si concessero delle doti alle ragazze povere che li volessero
sposare. Nel 1811 furono almeno 112 i militari di truppa che
beneficiarono delle doti concesse per festeggiare la nascita del Re di
Roma.

Adulterio, concubinato, vivandiere e attendenti


La società napoleonica era, com’è noto, una società borghese: vizi
privati, pubbliche virtù. Costumi sessuali e relazioni extra-coniugali
degli stati maggiori napoleonici hanno fatto letteratura. I pappataci
d’alto rango, ricompensati a spese dell’erario per l’oculata gestione dei
vezzi e favori di mogli e sorelle titolate, destavano, almeno in Italia,
più invidia che riprovazione. La severità del giudizio era infatti
commisurata al rango sociale della donna. Le relazioni adulterine
erano ammesse solo con signore coperte da mariti compiacenti; quelle
con donne libere, specialmente le “attrici” (infamiae notatae quanto
più desiderate e irraggiungibili) erano biasimate. Il generale Menou,
che almeno aveva avuto la coerenza di convertirsi all’islam, non era
certo il peggiore, ma i suoi ultimi mesi di vita, trascorsi a Venezia tra
debiti di gioco e donne di teatro, non destarono pietà.
Quod licet Iovi, non licet bovi. Il Giornale Italico del 23 aprile1803
pubblicò un fattaccio di cronaca nera solo perché vi era coinvolto un
ufficiale, il tenente di cavalleria Luigi Bartozzini (ma nei ruoli del 1°
ussari figura solo un sottotenente Antonio Bertuccini), amante della
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 18

signora Lani. Il tradito s’era umiliato a supplicare il rivale, che per


tutta risposta l’aveva sfidato a duello: ma a morire era stata lei, uccisa
dal marito. Più spesso finiva in farsa: il 18 aprile 1810 fu riammesso in
servizio l’aspirante di marina Lorenzo Conte, assolto dall’accusa di
aver “rapito” la moglie del signor Montebelli di Venezia. L’insegna di
vascello Dabovich, che s’era impegnato un collier sottratto ad una
“ragazza” (=prostituta?), se la cavò con 10 giorni d’arresto (26 marzo
1807) e fece poi parte del tribunale di marina.
Il sesso femminile era ammesso in caserma: ma solo mogli e figlie,
che spesso ricoprivano anche i 4 posti consentiti per reggimento (2
vivandiere e 2 lavandaie). Nel 1801, quand’era di stanza a Codogno,
Teodoro Lechi aveva vietato i matrimoni nella sua mezza brigata. Il 6
gennaio 1802, a Monza, istituì un certificato (rilasciato dal capitano e
controfirmato dal capobattaglione) di identità, buoni costumi e
matrimonio contratto anteriormente al divieto di Codogno. Le donne
trovate in caserma senza certificato dovevano essere rapate e scortate
10 miglia fuori città: all’uomo erano promessi 15 giorni d’arresto, al
capobattaglione punizioni imprecisate per omessa vigilanza. Il
capitano d’ispezione doveva inoltre controllare che non vi fossero
vivandiere oltre le due autorizzate. Il 15 ottobre, alla vigilia della
partenza per Milano, Lechi dispose un’ispezione notturna in quartiere:
le donne senza certificato dovevano essere rapate e consegnate alla
polizia per essere avviate a Milano. L’11 aprile 1808 il viceré approvò
un ordine del giorno che vietava il concubinaggio anche agli ufficiali,
abuso tollerato dai comandanti dei corpi, soprattutto in Dalmazia. Nel
1811 furono segnalati come concubini, con prole, pure due cappellani.

Attendenti, capelli, baffi, distintivi di lusso e teatri


Con ordine del giorno del 6 agosto 1808 si ribadì per l’ennesima
volta il divieto di “tenere presso di sé dei soldati sotto titolo di
ordinanza per commettere ai medesimi la cura dei domestici servizi”.
Erano consentiti solo 1 ordinanza al comandante del corpo, 1 piantone
all’ufficio del maggiore e 1 a quello del quartiermastro.
Con ordini del giorno del 10 e 12 luglio, 10 ottobre 1801 e 14
dicembre 1801, Lechi prescrisse il taglio dei capelli “à l’avant-garde”,
ossia rasati sul davanti, con coda di 8 pollici legata vicino alla testa e
nastro fermato con spilla quadrata identica per tutti con la cifra “2”,
corrispondente all’ordinativo della mezza brigata.
Se il taglio delle basette identificava i detenuti per diserzione (liberi di
farsi crescere la barba), ai refrattari si rasava il cranio. Il decreto del 23
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 19

settembre 1810 vietò a tutti gli italiani di portare i baffi, dando incarico
al direttore di polizia di presentare un relativo progetto esecutivo.
L’esercito fu però escluso da questa disposizione e i baffi furono anzi
adottati come distintivo delle compagnie scelte. Il capitano della guardia
reale Pino fu incaricato di far provvedere al taglio dei baffi tra i non
militari della casa reale (palafrenieri, domestici e civili al seguito della
Guardia).
Con circolare del 30 gennaio 1811 fu vietato l’abuso dei colonnelli di
adottare oggetti di lusso come distintivo del reggimento, che
determinava “emulazione” tra i corpi e costringeva gli ufficiali inferiori,
scarsamente retribuiti, a indebitarsi per poterli acquistare.
Tra le usanze dei comandanti c’era quella di portare a teatro ufficiali e
soldati a prezzi scontati. Il 27 dicembre 1802, a Bologna, Lechi dava
notizia di aver stipulato col capocomico Belloni un abbonamento per
ufficiali e consorti, riservando una sola fila di sedie a prezzi scontati di 8
paoli per i subalterni e 5 per le signore. Era inoltre in analoghe trattative
col “teatro in musica”. Naturalmente nessuno era obbligato ad andare a
teatro: ma, naturalmente, se non ci andava, restava consegnato in
caserma … Anche il comandante del 4° squadrone dei dragoni
Napoleone li portava a teatro, a Senigallia, a gruppi di 50.

D. La diserzione

La diserzione abituale (1800-1806)


I due sistemi di reclutamento impiegati dall’esercito italiano –
volontario fino all’estate 1803, obbligatorio in seguito – producevano
due tipi diversi di disertori. All’opposto dei coscritti, che disertavano
per odio della vita militare, i volontari l’amavano tanto che cercavano
di sperimentarla presso il maggior numero possibile di datori di
lavoro. I volontari erano infatti in maggioranza disertori esteri e spesso
si arruolavano col proposito di disertare di nuovo alla prima buona
occasione, non appena ricevuto l’ingaggio e l’equipaggiamento, per
ripetere l’operazione in un altro esercito. Si può dire, in sostanza, che
il numero dei disertori corrispondeva tendenzialmente a quello degli
arruolati, dedotta l’aliquota che man mano si radicava mediante la
promozione a gradi o incarichi convenienti o mettendo su famiglia. Il
traffico dei disertori abituali, organizzato da vere e proprie agenzie di
reclutamento illegale (“subornatori alla diserzione per conto di
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 20

potenze estere”) era al tempo stesso combattuto e favorito da tutti i


governi, incluso quello italiano.
Per questa ragione era possibile tenere sotto controllo il fenomeno,
non stroncarlo, se non cambiando sistema di reclutamento passando
alla coscrizione obbligatoria. La legge di coscrizione non ebbe però
cuore di gettare sul lastrico i poveri subornatori, che anche loro
tenevano famiglia. E infatti ne favorì la riconversione in onesti sensali
di volontari comunali e “cambi” individuali, procacciati (a prezzi di
mercato ma sempre estorsivi) tra la feccia della società, col patto tra
gentiluomini di non disertare prima di una data convenuta. Il tasso di
diserzione dei “cambi”, calcolato su 5 corpi (2° e 4° di linea, dragoni
Napoleone, artiglieria a cavallo e Zappatori), fu in tre anni e mezzo
(secondo semestre 1803 e 1804-06) dell’83 per cento (470 su 565).
Nel dicembre 1802, a Bologna, alcuni granatieri della 2a MB di
linea denunciarono e fecero arrestare un paio di subornatori alla
diserzione per conto di potenze estere. Altri due furono arrestati nel
Vallese nel dicembre 1803, mentre offrivano ingaggi ai soldati della
Divisione Pino in marcia per la Francia. Passata la frontiera, i coscritti
non disertavano più, non sapendo dove andare e come sopravvivere:
per i volontari, adusi al mondo, era invece un’occasione d’oro. I corpi
francesi davano ricetto ai disertori dei corpi italiani, ma accadeva
anche l’inverso.
Perfino un generale francese (Jean Antoine Verdier, che aveva
comandato la piazza del Cairo) si arruolò come fuciliere del 1° leggero
e col nome di “Guillaume” Verdier (la ragione è ignota ma, poiché
apparteneva allo stato maggiore di Murat, è lecito supporre che fosse
stato incaricato di controllare Teulié e cercare di incastrarlo). In ogni
modo, dopo lo scambio d’incarichi tra Pino e Trivulzio, Verdier chiese
il congedo, ma Teulié (forse informato della sua identità e per
ritorsione) glielo negò, costringendo Berthier a rivelargli ufficialmente
(il 2 ottobre 1804) la vera identità del fuciliere e a sollecitarne il
congedo (l’imperatore – aggiunse ad ogni buon conto Berthier – non
gradiva l’arruolamento di francesi nella Divisione italiana).

La diserzione dei coscritti: le pene miti in vigore nel 1803-1808


La legge di coscrizione del 13 agosto 1802 (titolo VI) differenziò la
diserzione dei coscritti da quella abituale. Ferme restando le pene
previste per la diserzione qualificata e per la recidiva, l’art. 70
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 21

comminava per la prima diserzione soltanto tre mesi di carcere, col


prolungamento degli obblighi di servizio o coscrizione per altri 4 anni.
La condanna in contumacia importava inoltre una multa di lire 600,
riscossa per le vie di giustizia ordinaria, inclusa la vendita di un
equivalente di beni mobili e immobili del condannato sino a
concorrenza della somma (art. 72). La somma, versata nella cassa
distrettuale, era impiegata per finanziare l’istruzione della riserva (art.
73).
La semplice negligenza del pubblico funzionario nella ricerca e
nell’arresto dei disertori, renitenti e loro complici comportava la
destituzione e la multa di lire 300 (art. 74). Il funzionario colpevole di
frode, favoreggiamento della diserzione o impedimento o ritardo della
partenza dei requisiti era punito con 2 anni di prigione e multa da 600
a 1.800 lire (artt. 75 e 76). Per gli ufficiali incaricati dell’arresto la
negligenza colposa comportava la sola destituzione, mentre in caso di
dolo a scopo di lucro la pena era di 5 anni di ferri (artt. 77 e 78).
Il favoreggiamento semplice (nascondere un disertore o sottrarlo
all’arresto, specialmente con false dichiarazioni o falsi certificati) era
punito con la multa da lire 600 a 1.800 e con 1 anno di prigione (2 se il
disertore aveva armi e bagaglio). Alla stessa pena soggiaceva chi
l’avesse accolto in casa come domestico senza averne informato le
autorità comunali – a loro volta responsabili per negligenza in caso di
mancato accertamento mediante interrogatorio ed esame delle carte
(artt. 79-82).
Con decreto n. 130 del 14 ottobre 1805 i refrattari furono equiparati
ai disertori e i “padri conniventi” assoggettati al pagamento della
multa. Il ricetto del latitante fu a sua volta equiparato all’istigazione
alla diserzione, punita dall’art. 8 della legge 13 febbraio 1798 con
sanzioni più gravi del semplice favoreggiamento.

Fattispecie e presunzioni legali (decreto del 18 novembre 1807)


Con l’introduzione dei consigli di guerra speciali (ordine del giorno
17 ottobre, decreto del 18 novembre 1807 e circolare del 18 maggio
1808) fu meglio precisala la fattispecie del reato nonché le presunzioni
legali per la dichiarazione d’imputazione.
Le assenze arbitrarie inferiori alle 72 ore in pace o alle 24 (o 48) ore
in guerra erano punite in via correzionale. Trascorsi tali termini il
militare veniva dichiarato disertore (praesumptione juris tantum) e
deferito al consiglio di guerra. La stessa imputazione si applicava
anche al militare che non rientrava al corpo entro 15 giorni dalla sua
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 22

dimissione dall’ospedale o dal termine del congedo temporaneo. La


norma fu poi attenuata, dando facoltà al comandante di dichiarare
“assenti”, anziché disertori, i militari scomparsi “dopo un giorno di
battaglia, dopo marce lunghe e sforzate, in paese nemico o infestato da
banditi”, quando, trovandosi da lungo tempo sotto le armi, avessero
dato prova di “attaccamento al servizio” e a giudizio del capitano non
fossero sospettabili di “essersi dati vilmente alla fuga”.

L’inasprimento delle pene (dal 1° giugno 1808)


Le pene per le diserzioni commesse dopo il 1° giugno 1808 furono
fortemente inasprite, prevedendo, a seconda delle circostanze, da 3 a
10 anni di lavori pubblici (semplici o con palla) o anche la morte
mediante fucilazione, con le pene accessorie della multa di lire 1.500
(con esecuzione forzata sui beni del reo) e della pubblicazione
infamante (“parata” del reo davanti al suo reggimento e affissione
della sentenza nel luogo di emanazione).
La pena per la prima diserzione, all’interno e senza aggravanti,
saliva da 3 mesi di reclusione col raddoppio del servizio a 3 anni di
lavori pubblici, col beneficio però di poter essere inclusi nelle
revisioni fatte semestralmente dal comandante della Divisione di
Mantova per scegliere i condannati meritevoli di amnistia e di invio ad
un corpo di linea (sistema adottato, con decreto 20 agosto 1808, anche
per i refrattari detenuti in deposito: v. P. IIB, §. 6C).
In caso di aggravanti (in fazione o in servizio; con scalata delle
mura, o con complotto o con trafugamento di cavallo, o di baionetta o
di sciabola o di commilitone; dall’Armata o da una piazza di prima
linea; all’estero o al nemico) il disertore era condannato a 3 anni “di
palla” (ossia a speciali lavori in fortezza in condizioni di particolare
durezza, tra cui tenere il cranio rasato e la barba incolta ed essere
incatenati ad una palla di 8 libbre). Anche i condannati alla palla erano
ammessi al beneficio della revisione semestrale, ma potevano essere
assegnati soltanto ad un corpo di punizione (Battaglione coloniale di
stanza all’Elba o 4° RI leggiere destinato in Dalmazia).
La recidiva semplice era punita con 10 anni di lavori forzati, ovvero
10 di palla se si trattava di evasione dal lavoratoio, dal deposito dei
refrattari o da unità punitive. La recidiva aggravata era invece punita
con la morte, da eseguirsi nelle ventiquattrore successive. L’accordo
(“complotto”) fra almeno 3 militari per commettere il reato era punito
anche se la diserzione non si verificava, con la morte per il promotore
e 10 anni di palla per gli altri.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 23

La diserzione all’estero
La legge franco-italiana non faceva differenza tra la diserzione
all’interno con successivo espatrio e la diserzione commessa fuori del
territorio nazionale. Era infatti presuntivamente dichiarato disertore
all’estero il militare trovato fuori dei limiti di presidio a meno di 2
leghe dall’ultima frontiera.
Nell’agosto 1807 fu stipulata una convenzione internazionale con la
Baviera e con l’Impero per la consegna reciproca di disertori e
renitenti. Tuttavia solo con decreto del 24 maggio 1812 i disertori
italiani arrestati nel territorio dell’Impero (inclusi i dipartimenti
italiani confinanti col Regno d’Italia) furono formalmente equiparati ai
disertori all’estero. Il 22 dicembre Napoleone vietò inoltre, sotto pena
di reclusione, il procacciamento di “cambi” francesi (inclusi i “nuovi
francesi” dei dipartimenti italiani) per i coscritti italiani e dispose la
consegna ai rispettivi governi dei disertori italiani e napoletani
arrestati in territorio imperiale (particolarmente numerosi in Toscana,
Umbria e Lazio).
Al contrario dei mercenari, i coscritti disertavano soprattutto in
territorio nazionale, in particolare alla vigilia della partenza per il
fronte e durante la marcia al confine. In mancanza di statistiche, vari
indicatori fanno tuttavia ritenere che il tasso di diserzione restasse
occasionalmente molto elevato anche all’estero. Nel maggio 1807 i
cacciatori bresciani (volontari) ebbero 100 disertori durante la marcia
per il Tirolo (da dove sapevano come tornare a casa). In giugno un
battaglione complementi di 1.047 uomini ne perse 213 tra Brescia e
Innsbruck.
Il 2 novembre 1808 Pino segnalava dalla Spagna che, malgrado una
doppia linea di sentinelle, le diserzioni continuavano e si disertava
pure dagli avamposti: nel maggio 1809 il suo capo di stato maggiore
Jan Dembowski attestava però che il numero era ormai assai limitato.
Nel luglio-agosto 1811 la Divisione Severoli ebbe 515 disertori (il
5.7% della forza, 8.955 uomini) di cui 180 alla vigilia della partenza
per la Spagna e 335 nella marcia fino a Tolosa: il colonnello Pisa
scriveva da San Giovanni di Moriana che il 2° di linea era pervaso da
“un maniaco spirito di diserzione”. Non pochi passavano al nemico,
come fece a Tarragona, il 5 luglio 1812, anche il capitano d’artiglieria
Pansiotti, con 12.000 franchi della sua compagnia.
Nel febbraio-aprile 1812 la 3a Divisione Pino ebbe 382 disertori (il
2.8% della forza, 13.788 uomini) durante la marcia per raggiungere la
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 24

Grande Armée a Glogau. Tuttavia, confermando la regola valida per i


coscritti, il numero diminuiva con l’aumento della distanza fisica e
socio-culturale con l’Italia: 165 nelle prime due settimane, 118 nelle
due successive e poi 40, 36 e 23. Passato il Niemen, nessuno era più in
grado di cavarsela da solo, a meno di non darsi prigioniero. Nel
dicembre-gennaio 1813, durante la marcia in Germania, la Brigata
Zucchi ebbe 335 disertori (4.6% della forza, 7.408 uomini), di cui 250
prima della frontiera e 85 in Baviera.
Anomala era invece la diserzione da Ragusa a Cetinje o Trebinje per
arruolarsi negli eserciti russo o turco (sotto ispettore alle rassegne
Stefano Gelmi, 23 novembre 1811): il colonnello Vandoni del 4°
leggero riteneva che andavano dai montenegrini per ingenuità (7
novembre 1812) e dai “turchi” (bosniaci) per “golosità” (8 maggio
1813). Bastava poco, per star meglio che a Mantova o a Ragusa.

Le dimensioni del fenomeno: denunce e condanne


I disertori delle “leve Melzi” (1803-05), indultati il 5 maggio 1810,
furono circa 18.000. Il calcolo si ottiene sommando i dati noti (4.199
dall’11 giugno 1803 al 31 gennaio 1804 + 3.120 dal 1° febbraio al 30
ottobre 1804 + 4.003 nel 1805) e integrando il risultato con una stima
delle diserzioni verificatesi nel bimestre “scoperto” (ultimo del 1804).
Nel 1806-10 furono altri 21.000. Per questo periodo i dati noti sono:
2.582 nel 1804, 4.104 nel 1807 (meno dicembre), 17.750 nel 1807-10
(meno l’ultimo bimestre del 1810).
L’entità delle diserzioni italiane suscitò un rilievo di Napoleone al
viceré (lettera del 2 marzo 1811, con allegato il prospetto dei disertori
italiani del 1809-10). Eugenio gli rispose il 4, rilevando che nel 1810
erano diminuiti rispetto al 1809 e unendogli lo “stato” dei disertori
francesi in Italia, peggiore di quello italiano. In giugno non mancò poi
di segnalare all’imperatore che nel 1811 le diserzioni francesi erano
aumentate: durante la marcia aveva disertato quasi un quarto dei
coscritti spediti a reclutare i reggimenti dislocati in Italia (128 su 538,
con una punta del 32.5% nel contingente dell’Alta Garonna).
Dal 1° settembre 1811 al 31 dicembre 1812 si verificarono, secondo
Zanoli, 7.339 diserzioni. Applicando lo stesso tasso agli otto mesi
“scoperti” (i primi del 1811) il totale del biennio salirebbe a 11.000. Si
ricava così un totale di 50.000 diserzioni dal 1803 al 1812. Si deve
però tener conto che le cifre si riferiscono alle denunce e non agli
individui e per sapere quanti effettivamente disertarono bisognerebbe
avere qualche elemento sull’incidenza della recidiva. In mancanza si
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 25

può al massimo avanzare l’ipotesi che le recidive si compensino con le


diserzioni del 1813-14, sicuramente superiori al tasso del biennio
precedente e ritenere dunque un totale di circa 50.000 disertori.
Quanto alle statistiche giudiziarie, nel biennio 1805-06 e nel primo
semestre del 1807 i consigli di guerra permanente giudicarono 3.713
disertori, con 94 assoluzioni (2.5%) e 3.619 condanne: 2.405 al doppio
servizio (66.4%), 912 a tre mesi di reclusione (25.2%) e 344 ai ferri
(9.5%). Su cinque condannati quattro erano contumaci (2.863) e uno
presente (756). I giudizi rappresentano solo il 44 per cento delle
diserzioni verificatesi nello stesso periodo.
Nel primo semestre 1811 i consigli di guerra speciali giudicarono
2.554 disertori, di cui 803 in contraddittorio (31.4%) e 1.751
contumaci (68.6%), con 258 assoluzioni (10.1%) e 143 condanne a
morte (5.6%) di cui però 123 di contumaci e solo 20 eseguibili (2.5%
dei presenti). Altri 238 (10.4%) furono condannati alla palla e 1.912
(83.3%) ai lavori pubblici, in maggioranza assegnati direttamente ai
reggimenti 2° (240) e 3° leggero (317) e 3° (188) e 6° di linea (239).
Nel terzo quadrimestre 1811 e nel 1812 vi furono 2.070 condanne:
20 a morte (1%), 220 alla palla (10.6%) e 1.830 ai lavori pubblici
(88.4%).

E. Il bastone e la carota

Incentivi alla costituzione spontanea dei latitanti (amnistie)


Dal 1803 furono concessi ai disertori 8 amnistie condizionate alla
presentazione entro un mese (spesso prorogato), 1 indulto assoluto e
incondizionato (5 maggio 1810) e 1 arruolamento volontario di guerra
(11 novembre 1813).
La I amnistia fu accordata il 14 luglio 1803 (con proroga del 14
agosto); la II il 18 settembre 1804 (con 258 presentati al 7 novembre);
la III il 22 maggio 1805 (per l’incoronazione di Napoleone), la IV il
24 novembre 1805, la V nell’aprile 1808, la VI il 13 settembre 1808,
la VII il 30 dicembre 1809 e l’VIII il 15 settembre 1812. La Divisione
italiana in Francia beneficiò inoltre dell’amnistia francese del 2 giugno
1804.
La VII amnistia (30 dicembre 1809) fruttò la presentazione di circa
un terzo dei disertori latitanti (536 su 1.633, cifre riferite però a soli 9
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 26

dipartimenti: Adda, Olona, Mella, Serio, Mincio, Basso Po, Reno,


Brenta e Tagliamento).
L’indulto del 5 maggio 1810 fu concesso a tutti coloro che avevano
disertato anteriormente al 1° gennaio 1806 (circa 18.000), estinguendo
le pene pronunciate dai consigli di guerra permanenti e sciogliendoli
da ogni ulteriore obbligo di servizio.
Altre due amnistie riguardarono gli italiani al servizio austriaco. La
prima (19 settembre 1806) a coloro che avevano continuato a servire
nelle file nemiche dopo il trattato di Campoformio. Chi non si avvalse
dell’amnistia cadde sotto i rigori del decreto del 10 agosto 1807.
L’altra fu concessa il 18 maggio 1809 (contemporaneamente alla
nomina delle commissioni militari contro gli insorgenti italiani e
tirolesi) ai sudditi che avevano seguito gli austriaci in ritirata, a
condizione di rientrare in Italia.

Sistemi di deterrenza: lettura delle norme e “parata” del reo


La circolare del 18 maggio 1808 ripristinò il sistema – in vigore
negli eserciti d’antico regime e brevemente adottato anche dalla
Cisalpina nel 1801 – della periodica lettura in caserma delle sanzioni
contro la diserzione. Se ne dovevano fare due al mese, la prima e la
terza domenica (una a tutto il corpo riunito, l’altra per compagnie).
Sempre per dissuadere la diserzione, la circolare disponeva che il
giorno successivo alla sentenza questa fosse letta di fronte alla guardia
del giorno: i condannati dovevano ascoltarla in ginocchio, con la
casacca da forzato e bendati e tutto il reggimento doveva poi sfilare
davanti a loro (“parata”).
Secondo Enrico Giuseppe Bozzolino, maggiore del 1° leggero, la
“parata” era controproducente, perché i condannati ostentavano
“baldanza e tracotanza” dichiarando di preferire la condanna ai lavori
pubblici alla vita militare (Trento, 11 giugno 1812). Il comandante del
4° leggero, colonnello Carlo Vandoni, confermava che perfino i suoi
soldati, che avevano provato la durezza dei lavoratoi o del deposito
refrattari, preferivano correre il rischio di tornarci condannati alla palla
piuttosto che servire in Dalmazia: scappavano in Bosnia, allettati dai
reclutatori russi e turchi o ingannati da trafficanti che li rivendevano
come schiavi ai contadini montenegrini (Ragusa, 7 novembre). Nel
1813 il reggimento dette infatti pessima prova: ma bisogna anche dire
che era sparpagliato in piccoli distaccamenti isolati, i quali, salvo rari
casi, passavano al soldo inglese solo dopo essere stati catturati.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 27

L’estensione della pena di morte (31 agosto 1810 – 8 aprile 1812)


Il 31 agosto 1810, da Saint Cloud, Napoleone decretò la pena di
morte per i disertori presi con le armi in pugno nelle file nemiche
(decreto esteso all’Italia il 15 ottobre). Il 23 novembre 1811 la morte
fu estesa ai graziati che disertavano nei primi 6 mesi dall’assegnazione
al 4° leggero o al battaglione coloniale o nel viaggio di trasferimento a
tali corpi e il 12 gennaio 1812 ai graziati assegnati ad altri corpi che
disertassero entro l’anno in corso. L’11 marzo 1812 il giudizio sui
sudditi italiani presi con le armi in pugno nelle file o a bordo di navi
nemiche fu devoluto a consiglio di guerra speciale, con applicazione
dell’art. 75 codice penale. Furono inoltre raddoppiate le pene per i
marinai disertori recidivi (4 febbraio) e comminata la morte agli
italiani catturati a bordo di legni da guerra o da corsa nemici, con
giudizio sommario a bordo dei vascelli (8 aprile).

Incentivi all’arresto e alla delazione dei disertori


Con legge cisalpina del 20 settembre 1798 era stato istituito un
premio di 30 lire per la cattura di un disertore e 15 per la delazione
seguita da cattura, esclusi ovviamente i militari che la effettuavano per
servizio. Con decreto del 21 agosto 1801 il premio fu portato a 6 e 3
scudi, ma ebbe scarso effetto perché (come spiegavano al ministero, il
27 luglio e il 21 dicembre 1803, i prefetti dell’Olona e dell’Agogna) il
sistema di pagamento era troppo macchinoso. Una quota del premio
era infatti a carico del comune del reo e anche se il ministero in
seguito se l’accollò interamente, la riscossione restava laboriosa e
problematica.
Nel gennaio 1804 furono pagati premi per la cattura di 214 disertori
(76 requisiti, 31 supplenti, 32 forzati della legione italiana, 63 militari
di incerta categoria e 3 allievi dell’orfanotrofio). I reclami per ritardi
nei pagamenti erano tanto numerosi che l’impegno dello stato dovette
essere riconfermato con decreto del 3 agosto 1805. Le istruzioni sulla
leva del 14 luglio 1805 accordarono ai coscritti requisiti che facevano
arrestare un disertore un premio al tempo stesso più economico per lo
stato e più prezioso per i beneficiari, vale a dire la concessione del
congedo definitivo.
Con decreto del 13 ottobre 1804 il premio fu esteso anche a
gendarmi e guardie nazionali, di finanza e forestali, segno evidente del
loro scarso impegno. Il 10 agosto 1810 il premio d’arresto fu elevato
da 20 a 30 lire e la circolare del 19 settembre sveltì le procedure di
pagamento. Il 15 maggio 1812 il viceré destinò a tal fine i proventi
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 28

delle tasse di coscrizione (£. 86.675). Nel febbraio 1813 l’entità del
premio fu provvisoriamente raddoppiata sino al 15 aprile.

Compellenza: garnisaires e addebito al contingente comunale


Notoriamente la maggior parte dei coscritti disertava per tornare a
casa e dunque lo faceva soprattutto finché si trovava all’interno del
paese. I disertori vivevano indisturbati grazie al sostegno dei parenti e
alla connivenza delle autorità, non sempre disinteressata: accadeva ad
esempio che il sindaco, ricco possidente, proteggesse i disertori non
per filantropia o pacifismo ma per sfruttarli come braccianti nei propri
poderi. Per rompere il muro d’omertà si rispolverò uno dei più odiosi
sistemi dell’antico regime, quello di alloggiare un militare (garnisaire)
in casa (“in tansa”, ossia in stanza da letto) dei presunti favoreggiatori,
a cominciare dai genitori, con l’obbligo di mantenerlo ad esosa tariffa.
Già nel luglio 1803, durante l’emergenza creata dalla prima leva, si
era fatto ricorso alle colonne mobili e alla tansa. L’istituto fu poi usato
su larga scala nel 1812-13, soprattutto in Romagna e nelle Marche, su
disposizione prefettizia e con indennità commisurate al grado del
militare, da £. 1 a 3.50 per truppa e sottufficiali e di £. 5.50 per gli
ufficiali (ne erano esclusi i gendarmi). Il 30 ottobre 4 fucilieri del 6° di
linea in tansa a Montemilone (Pollenza) furono attaccati da una banda
di disertori, che ne uccisero uno e ne ferirono un altro. In novembre sia
Cortese, direttore delle rassegne e coscrizione sia Polfranceschi,
ispettore della gendarmeria, espressero riserve sull’opportunità di una
misura così severa, in parte revocata dopo le gravi alluvioni per non
infierire sulle famiglie più bisognose. L’istituto fu poi regolato e
limitato con decreto del 23 giugno 1813.
Il cantone (e dal 3 febbraio 1807 il comune) era tenuto a rimpiazzare
i renitenti, ma non i disertori. Solo il sostituito era tenuto a rimpiazzare
il sostituto in caso di diserzione. Le istruzioni sulla leva del 14 luglio
1805 obbligarono i comuni a rimpiazzare i propri disertori rientrati nel
circondario, ma era assai difficile, per non dire impossibile, provare la
presenza, ancorché presumibile o notoria, di un latitante. Nel maggio
1812 il ministero mise allo studio un progetto per addebitare ai comuni
tutti i rispettivi disertori, ma si preferì soprassedere e procedere con le
“perlustrazioni”.

I rastrellamenti del 1809-13 (colonne mobili e “perlustrazioni”)


Il sistema più efficace per la cattura dei latitanti era infatti quello dei
rastrellamenti a tappeto e delle spedizioni mirate (“colonne mobili” e
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 29

“perlustrazioni”). L’ambiente fisico era poco propizio per mancanza di


strade e quantità di aree impervie (paludi, montagne), ma l’ambiente
sociale era meno negativo. Inizialmente, è vero, la gente di campagna
aiutava spontaneamente i latitanti, ma le bande s’erano col tempo date
al brigantaggio, accrescendo la domanda di sicurezza e di repressione.
Non solo per denaro, ma anche per odio e “patriottismo” si trovavano
perciò abbastanza facilmente guide e confidenti in grado di indicare i
nascondigli; ma il problema erano le forze.
Le truppe di linea erano raramente disponibili, vuoi per effettivi
impegni vuoi per la contrarietà dei comandanti a fare un lavoro “da
sbirri”. Gendarmi e guardie di finanza, campestri e boschive, oberati
dai normali servizi d’istituto, erano sparsi in piccoli presidi e per
formare squadriglie, pattuglioni e posti di blocco si doveva ricorrere
alla guardia nazionale e alle compagnie di riserva. Costoro, essendo da
un lato inesperti e dall’altro radicati sul territorio e perciò spesso pieni
di parenti e conoscenti dei latitanti, davano un contributo minimo
quando non facevano fallire la sorpresa avvisando i ricercati.
La lotta contro l’insorgenza del 1809 costrinse però il governo a
potenziare le forze di sicurezza interna e accrebbe l’esperienza. Con le
“perlustrazioni” di dipartimento, in Alto Adige furono catturati 183
latitanti nel 1809 (110 dalla guardia nazionale e 73 dalla gendarmeria)
e 171 nel maggio 1810 (ma solo 14 furono inviati ai consigli di leva,
gli altri furono quasi tutti rilasciati, 22 perché riconosciuti innocenti e
72 per insufficienza di prove). Nel settembre-ottobre 1809 furono
catturati nel Reno 172 disertori italiani, 34 stranieri e 29 refrattari.
Nel marzo 1810, grazie alla delazione di una donna, la gendarmeria
annientò presso Budrio l’intera banda Baschieri (le teste furono
esposte a Bologna sul palco della ghigliottina). La banda Muzzarelli
(“Cemini”), forte di un centinaio di elementi, fu annientata nel 1812 e
il capo ghigliottinato nella piazza grande di Modena.
Con decreto 2 giugno 1811 furono aggregati alla gendarmeria 905
“ausiliari” di linea (inclusi 400 francesi e 40 dalmati). Nel 1812 le
catture salirono a 7.078, di cui 900 in perlustrazioni nei dipartimenti
con maggior numero di latitanti (Alto Adige, Lario e Bacchiglione) e
6.178 in una perlustrazione generale condotta dal 15 settembre al 15
novembre. Erano però retate indiscriminate, in cui poteva incappare
chiunque. Si deduce dal fatto che un’Istruzione generale, emanata lo
stesso 15 novembre, tolse ai sindaci la convalida degli arresti
riservandola ai giudici di pace o ai viceprefetti. La gendarmeria la
prese male: fece sapere che i contadini facevano capo solo al loro
sindaco e col nuovo sistema non collaboravano più; che il giudice di
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 30

pace, impegnato in altre faccende, faceva aspettare giorni e settimane


prima di decidere e intanto bloccava le altre operazioni, obbligando i
gendarmi a custodire gli arrestati. Alla fine, il 21 luglio 1813, la
convalida fu restituita ai sindaci.
Nel dicembre 1812 la colonna mobile del Musone fece solo 4
arresti. Nel marzo 1813, nel Mincio, i disertori presi furono 130; il
rastrellamento di Varese, in aprile, fu diretto da Luigi Balza, futuro
capo della polizia austro-lombarda. L’8 aprile Melzi osservava che la
diserzione, pur inferiore a quello che si temeva, bastava già per dare
problemi di ordine pubblico.
Il 5 maggio l’ispettore della gendarmeria, Polfranceschi, dichiarava
“inaffidabili” le compagnie dipartimentali di riserva; il 12 segnalava
che i disertori di Bormio, Ponte e Tirano rifugiati nei Grigioni s’erano
portati al confine, pronti a collegarsi con gli insorti di Merano. Ma la
gendarmeria coglieva un successo, uccidendo in conflitto a fuoco,
presso Menaggio, il famoso Carlo Pisolo, capobanda di disertori e a
fine mese le colonne mobili bonificavano il confine toscano e umbro.

Le fucilazioni per diserzione


In mancanza di statistiche, si deduce dal complesso delle fonti che la
pena di morte nei casi di diserzione fosse eseguita assai raramente. Il
27 novembre 1808 toccò ad una guardia d’onore, Andrea Brunori di
Corinaldo, “per pensata e non effettuata diserzione” (cioè quale capo
complotto): ma fu un caso eccezionale, voluto dal viceré per dare un
esempio e che gli fu poi virtuosamente messo in conto nel 1814 dai
topi, fino ad allora osannanti dal formaggio, per giustificare il trasloco
dalla nave in procinto di affondare. Nel primo semestre del 1811,
quando era ancora ammesso il processo contumaciale, le condanne a
morte furono 143 (6.3% del totale), ma 123 riguardavano contumaci e
solo 20 (2.5% dei presenti) poterono essere eseguite. Nel 1812 le
esecuzioni capitali per questo reato furono solo 20, meno dell’un per
cento del totale dei condannati, tutti presenti (2.070).
Il 21 marzo 1813, ad Ala, il vecchio generale Fresia fece fucilare per
diserzione il cacciatore a cavallo Veronese, minacciando di costringere
i prossimi 8 disertori a giocarsi la vita ai dadi per sorteggiarne due da
fucilare. Tuttavia fu solo in maggio, col ritorno del viceré dalla
Germania, che si cominciò a fucilare davvero. Il 6 giugno il generale
Bianchi d’Adda, incaricato del portafoglio della guerra in assenza di
Fontanelli, suggerì al viceré “misure di clemenza”, evitando nuove
esecuzioni nelle città in cui s’erano già dati degli esempi. Ma il saggio
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 31

consiglio fu spiazzato dall’impennata delle diserzioni verificatasi alla


vigilia della guerra con l’Austria.

La diserzione in massa del 3° di linea (7-8 agosto 1813)


Quanto a diserzione, i reggimenti peggiori erano il 3° leggero e il 3°
di linea. Il 26 giugno tre disertori del 3° leggero furono fucilati in
piazza a Udine, ma dal reggimento si continuò a disertare per tutto
luglio. Il 3° di linea, formato da coscritti del Reno, Rubicone e
Metauro, si era già reso famoso l’anno prima (il 27 e 29 luglio 1812, a
Treviso) quando 80 uomini avevano scalato le mura forzando le
sentinelle: gli ufficiali li avevano fermati spada in pugno, ferendone
11, ma due giorni dopo altri 50 erano riusciti a scappare.
Il 23 giugno 1813, in partenza da Este per Padova, 2 battaglioni del
reggimento rifiutarono il rancio: 18 riuscirono a scappare, gli altri
furono trattenuti a stento dalla gendarmeria e dagli ufficiali. Ma la
notte del 6-7 agosto, a Conegliano, ne disertarono 445, spargendosi in
bande di 20-25 per il paese. Qualcuna fu intercettata dalla gendarmeria
del Brenta, il cui capitano aveva avuto la presenza di spirito di
bloccare i ponti con la poca gente che aveva sottomano e con 40
riservisti, vi furono anche alcuni scontri a fuoco fra i canneti, ma il
grosso riuscì a farla franca.

Pena di morte e rimprovero alla gendarmeria (17-20 agosto 1813)


Al colmo dell’ira, il 16 agosto il viceré scrisse a Fontanelli da Udine
di essere “estremamente malcontento della gendarmeria” e con ordine
del giorno del 17 equiparò la diserzione dai battaglioni e squadroni di
guerra alla diserzione al nemico, punita con la morte.
Polfranceschi la prese male: il 20 emanò a sua volta un ordine del
giorno in cui scaricava il rimprovero sui suoi dipendenti, esortandoli a
“maggior Zelo” contro i disertori che “traversa(va)no baldanzosi interi
dipartimenti senza cadere negli agguati della gendarmeria”.
Ma al tempo stesso scrisse a Fontanelli che in diciotto mesi (fino al
30 giugno 1813) la gendarmeria aveva arrestato 17.801 persone, di cui
3.463 disertori o refrattari italiani o esteri (e 1.395 solo nel primo
semestre dell’anno) e 437 “fautori di diserzione” (ossia parenti
conniventi e favoreggiatori), più 8.615 oziosi, vagabondi e mendicanti
“validi” (e perciò sospetti di diserzione o renitenza). Dal 1° agosto,
poi, i disertori arrestati erano 218, di cui 126 del 3° di linea (il 28% di
quelli disertati a Conegliano). Il risultato, ammetteva, era ancora
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 32

insufficiente: ma era dipeso dall’“onerosità” del compito, dalla


“gioventù” e “inesperienza” di una parte del personale, dalle paghe
“basse” degli ufficiali (ma se erano strapagati, in confronto agli altri!)
che li “aliena(va)no dal loro stato” (bella giustificazione!). La colpa
maggiore ricadeva però sulla “connivenza” della popolazione.

Fucilazioni a settembre, amnistia a novembre


A fine agosto Bianchi d’Adda propose un’amnistia, ma il viceré la
rifiutò, suggerendo invece di far circolare “sous main”, a cura dei
prefetti, la promessa di avviare direttamente al deposito del 4° leggero
a Venezia, sena processarli, i disertori costituitisi spontaneamente. Il 4
settembre, intanto, furono ghigliottinati a Padova tre disertori recidivi
arrestati undici mesi prima e il 19 furono fucilati in piazza del Castello
due disertori croati. Il 27 il cronista Luigi Mantovani annotava nel suo
diario: “il viceré ne fa fucilare parecchi”. L’esempio serviva ormai a
poco: dal 7 a1 10 ottobre disertarono a Milano perfino 21 veliti reali.
Finalmente l’11 novembre l’amnistia la fece Fontanelli, mascherata
ipocritamente da arruolamento volontario di guerra, alla faccia non
solo dei fucilati ma dei coscritti che erano stati tanto stupidi o paurosi
da farsi vincolare a 4 anni di ferma. Infatti, come abbiamo visto, ai
disertori che si arruolavano volontari veniva garantito non solo il
perdono ma anche il congedo entro tre mesi dalla “cacciata” del
nemico (v. supra, §. 6E). Il 23 il generale Villata scriveva da Mantova
che “l’impunità dei disertori scoraggia(va) i militari alle armi”. In
dicembre una colonna di 558 refrattari del Musone e Tronto perse 141
disertori nella marcia per Bologna.
Intanto i disertori del Veneto si arruolavano nei battaglioni volontari
austriaci, quelli delle Marche e della Romagna nell’esercito murattiano
e altre bande scorrevano Adda, Serio, Mella, Panaro e Reno,
fucilavano le spie del governo a Urbino, Pesaro e Fermo e attaccavano
i posti di finanza in Valtellina col sostegno della gente. L’ultimo
rimprovero alla gendarmeria italiana, accusata di non fare il suo
dovere e di lasciar circolare impunemente i disertori, lo fece il
generale Vignolle, l’antico ministro della guerra cisalpino, nel suo
ordine del giorno del 1° marzo 1814, dal quartier generale di Volta
Mantovana.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 33

F. Carceri ed ergastoli militari

Le carceri ed ergastoli militari


Nel febbraio 1811 il sistema detentivo e penitenziario militare del
Regno era composto da:
• 27 carceri militari per gli arrestati e i detenuti in attesa di giudizio – le più antiche
al Foro Bonaparte, le maggiori alla Rocchetta del Castello di Milano (240 posti), a
Cremona (200), Padova (160) e Ancona (140);
• 1 casa d’arresto della Marina (a Venezia: regolamento del 29 ottobre 1808);
• le sale di disciplina delle caserme (previste dal regolamento del 20 dicembre
1810);
• 3 depositi coscritti refrattari (Mantova, Legnago e Palmanova) istituiti con decreto
del 20 agosto 1808;
• 2 ergastoli militari (Mantova e Legnago) per i disertori condannati “alla palla” o ai
lavori forzati (decreto 18 novembre 1807 e circolare 18 maggio 1808);
• 2 ergastoli militari o bagni penali (Venezia e Ancona) per i forzati addetti alla
marina (regolamento del 6 febbraio 1806).
Tutti questi enti erano sottoposti alla polizia del commissariato di
guerra o di marina. Per le condizioni igienico sanitarie delle carceri v.
P. IIB, §. 8B; per i depositi refrattari v. P. IIA, §. 6C; per la casa d’arresto di
Venezia e i bagni penali della marina v. Tomo III, P. III, §§. 6A e 8D .
In base al decreto 28 gennaio 1803, in mancanza di locali idonei
nelle caserme o in attesa di giudizio presso i consigli di guerra, era
inoltre consentita la detenzione di militari nelle prigioni civili. I
militari dovevano essere tenuti separati dagli altri detenuti. Le spese
erano rimborsate dal ministero sullo stato mensile dei detenuti militari,
a tariffa di centesimi 17 e ½ (di cui 15 per il vitto).

Soldo, vitto e “benvenuta” dei detenuti in attesa di giudizio


Agli ufficiali sotto giudizio competeva un terzo del soldo (ovvero
due terzi del trattamento di ritiro o di riforma). Il vitto consisteva in
pane di munizione, minestra e legumi, questi ultimi provveduti dai
comuni a tariffa di 15 centesimi. Nel 1804 il sergente degli invalidi
Giacinto Ghezzi, già segretario del comandante del castello di Milano,
fu arrestato per aver sottratto decine di migliaia di razioni ai detenuti
di Foro Bonaparte. In teoria i detenuti erano liberi di acquistare cibo
fuori dal carcere, ma di fatto era impossibile, perché gli anziani
davano la “benvenuta” alle matricole sequestrando loro denaro ed
effetti: i carcerieri tolleravano e anzi incoraggiavano, non di rado
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 34

assistendovi di persona, queste rapine, a patto che il ricavo fosse speso


per acquistare cibo e liquori da loro, naturalmente a prezzi
astronomici.
L’ordine del giorno vicereale del 3 febbraio 1809 dava disposizioni
per prevenire tali abusi, ma è facile immaginare i risultati. Secondo
Zanoli con decreto del 15 dicembre 1811 il vitto dei detenuti fu
migliorato, e “con tutto ciò” nel 1812 si ebbe un risparmio di 29.941
franchi rispetto alla media degli anni precedenti. In realtà il decreto si
limitava a dispensare i comuni dal provvedere i detenuti militari,
dandone l’incarico agli stessi carcerieri, a tariffa ordinaria di 18
centesimi e di 25 per i viaggi sotto scorta. La circolare 7 luglio 1813
censurava ancora le frodi e le estorsioni dei carcerieri: imputabili però,
in ultima analisi, alla decisione di ricorrere all’appalto.

Il regime dei condannati ai lavori forzati o alla palla


Polizia, direzione e amministrazione dell’ergastolo erano attribuiti al
commissario di guerra della piazza, al direttore e all’economo o agente
dell’amministrazione, che gestiva in appalto i servizi di alimentazione,
riscaldamento e illuminazione. Il personale di custodia includeva un
brigadiere di gendarmeria e i sorveglianti capisezione. I servizi interni
di pulizia e manutenzione erano svolti dagli stessi detenuti.
La differenza principale tra i condannati ai lavori pubblici (forzati) e
i condannati alla palla era che i primi non portavano catene o ferri se
non per temporanea misura di polizia o disciplinare, mentre gli altri
erano incatenati a una palla da 8 libbre con una catena di due metri e
mezzo del peso di 6 chili. Inoltre, per renderli riconoscibili in caso di
evasione, erano sottoposti ogni otto giorni alla rasatura dei capelli,
basette e baffi, lasciando invece crescere la barba incolta. Tuttavia il
regolamento del 1° giugno 1812 prescrisse che anch’essi, durante le
ore di lavoro in fortezza, fossero liberi da catene e ferri, salvo che per
sanzione disciplinare.
I condannati erano riuniti in sezioni di 12 e queste in “lavoratoi” di
72 (forzati) o 48 (palla), eventualmente impiegabili per lavori esterni.
Le sezioni dei forzati erano comandate da un caposezione scelto fra i
condannati, con diaria di 10 centesimi; le altre da un sorvegliante.
L’orario di lavoro era di 10 ore da aprile a ottobre e 8 negli altri mesi.
La “paga” era inferiore di ¼ (forzati) o di ½ (palla) a quella dei
“giornalieri ordinari del paese” ed era una pura finzione contabile.
Infatti 1/3 era trattenuto a disposizione del ministro della guerra per
“spese di servizio”, 1/3 per pagare metà del vitto spettante nei giorni di
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 35

lavoro e 1/3 per formare una “massa individuale di riserva” su cui


addebitare le spese di rimpiazzo e mantenimento degli utensili
danneggiati dal condannato. Nel caso (assai improbabile) che alla fine
della detenzione vi fosse un residuo attivo, questo era – in teoria –
liquidato all’interessato. In pratica, però, dall’ergastolo si usciva solo
in due modi: o coi piedi davanti (e gli eredi facevano meglio a lasciar
perdere, se non volevano rischiare di dover addirittura pagare i debiti
del de cujus) oppure per assegnazione ad un corpo di linea: e in questo
secondo caso l’eventuale residuo spettava al corpo per la massa di
biancheria e calzatura.

Vitto e vestiario
Il vitto ordinario dei condannati, sia ai lavori pubblici che alla palla,
includeva 1 razione di pane di once 7½, 2 razioni di riso o legumi
secchi di grossi 6, e ¾ di razione di carne (ossia once 1½). La carne e
la seconda razione di legumi non erano però somministrate nei giorni
di consegna per punizioni disciplinari né in quelli di lavoro (dovendo
in tal caso integrare il vitto a proprie spese, con un terzo della somma
guadagnata). Ogni lavoratoio disponeva (teoricamente) di una stufa
comune, alimentata per appalto con l’economo in ragione di 900 libbre
nuove di legna all’anno. Trovandosi accampate, le sezioni ricevevano
in natura il combustibile spettante a un corpo di guardia di 4 uomini,
senza lume. L’agente somministrava inoltre l’illuminazione mediante
convenzione per ogni lucignolo e per ogni ora, di concerto con
l’ufficiale del genio.
Il vestiario dei condannati, di colore imprecisato purché scuro, era
provvisto dai rispettivi corpi a tariffa di 62 lire. In base alla circolare
del 1° giugno 1812 ai condannati ai lavori forzati spettavano: giubba
lunga, calzoni, berretta col numero di matricola, 2 camicie di tela
robusta, 2 paia di calze di lana, un paio di scarpe grosse chiodate sulla
punta e cappotto. Invece della giubba e delle scarpe, i condannati alla
palla avevano giubbetto lungo e Zoccoli. Al decreto era unito l’elenco
delle tre ditte presso le quali i corpi dovevano acquistare il panno per
la confezione del vestiario: due (Gelmi, Bosio & C. e Pietro Testa &
C.) riunivano 8 fabbriche gandinesi consorziate, la terza era la fabbrica
Carrara & C., bergamasca, consorziata con altre quattro (due di
Matelica e due piemontesi, di Torino e Sordevolo).

Arbeit macht frei. Vita e morte nell’ergastolo di Mantova


Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 36

L’intento dei lavoratoi non era la punizione fine a sé stessa, ma il


recupero di personale da spedire al fronte. Li trattavano male non per
“redimerli”, ma affinché l’invio ai corpi sembrasse loro, almeno sul
momento, una liberazione. Furono graziati e spediti al fronte:
- 1000 di rinforzo al 1° leggero e al 5° di linea in Spagna (30 settembre 1809);
- 500 al 2° e 4° di linea e al battaglione coloniale (20 ottobre 1811);
- 639 al 4° leggero nel I semestre 1812 (200 il 10 marzo e 300 il 31 maggio).

Non sembra però che la durezza del regime punitivo fosse davvero
competitiva con quella del fronte o anche soltanto della caserma. Si è
visto che tra i soldati in procinto di disertare per la prima volta era
diffusa l’opinione che in fondo la vita ai lavoratoi di Mantova fosse
preferibile a quella militare: ma in qualche caso, come nel 4° leggero
di stanza a Ragusa, anche quelli che c’erano già stati preferivano
tornarci piuttosto che restare in guarnigioni così sperdute e disagiate.
Eppure i lavoratoi contribuivano in modo determinante ad elevare il
tasso di mortalità dell’ospedale militare di Mantova: solo nel primo
trimestre del 1810 (quando l’ospedale era ancora francese) vi
morirono 66 condannati e un altro centinaio erano in fin di vita. La
spiegazione del comandante della piazza, generale Julhien, era che la
maggior parte si ammalava e moriva perché, non essendo addetti ad
alcun tipo di lavoro, non potevano acquistare vitto integrativo né
biancheria di ricambio. Nel gennaio 1811 i detenuti erano 700, senza
stufe né vestiti pesanti e in sovraffollamento. In agosto, con le febbri
delle paludi, un quarto erano all’ospedale. Il 15 settembre erano 760
(di cui 642 condannati ai lavori forzati e 118 alla palla).

Le evasioni
Per frenare le continue evasioni, spesso favorite per denaro dagli
stessi carcerieri, con decreto del 22 settembre 1806 la negligenza fu
punita con la destituzione e la reclusione da 6 mesi a 2 anni. Ma nel
giugno 1807 evasero della casa di forza di Mantova, dopo aver
sopraffatto le sentinelle, ben 194 detenuti (uno fu ucciso durante
l’evasione, 68 si costituirono entro pochi giorni e 80 furono catturati).
Nel maggio 1811 ne evasero 48 a Padova, 4 a Bergamo e 11
nell’Adige e il 5 ottobre altri 63 dal carcere di Vicenza, dopo aver
sopraffatto le guardie. A seguito di tali episodi, il 31 dicembre si
decretò il deferimento del personale di scorta e custodia negligente
alle corti speciali straordinarie. Il 22 settembre 1813 un condannato fu
fucilato per tentata evasione.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 37

Da Storia Militare del Regno Italico, vol. II, pp. 377-392

19. GIUSTIZIA MILITARE,


CORSO E PREDE

A. La giustizia militare marittima

Il “codice” penale per la Real Marina italiana


Inizialmente nella Reale Marina si continuò l’applicazione delle
norme penali austriache. Solo con decreto 23 aprile 1807 si stabilì un
regime transitorio, istituendo nel porto di Venezia una commissione
speciale militare di marina per giudicare secondo il codice penale
militare vigente per la truppa di terra del Regno i detenuti per delitti
commessi fino all’entrata in vigore delle nuove norme allo studio. La
commissione, a composizione permanente, era presieduta da un capitano
di vascello o di fregata e composta da 2 capitani di fregata o dei
cannonieri marinai, 1 ufficiale addetto ai movimenti del porto e 1
commissario.
Con i decreti n. 159, 160 e 161 del 9 settembre 1807 (stampati lo
stesso anno a Milano dalla Stamperia Reale col titolo Codice penale per
la Real Marina italiana) furono istituiti gli organi giudiziari della
marina, fissandone attribuzioni, composizione e procedura. Secondo il
rapporto ministeriale dell’aprile 1812 il cosiddetto “codice” penale della
marina fu emanato in via d’urgenza, sulla base del codice francese del 22
agosto 1790 e del decreto 26 marzo 1804. Successive modifiche
riguardarono la diserzione (d. 4 aprile 1809, 4 febbraio, 11 e 24 marzo
1812), l’evasione dei forzati (5 settembre 1809) e il furto (31 dicembre
1811). Nel 1812 fu pubblicata a Venezia la traduzione italiana (fatta
dall’ufficiale relatore Jehand) del Trattato di Jean Marie Le Graverend
sulla procedura criminale dinanzi ai tribunali marittimi d’ogni specie.

L’ordinamento giudiziario militare marittimo


L’ordinamento prevedeva un solo collegio giudicante permanente
(tribunale di polizia correzionale) competente per i reati minori e vari di
nomina eventuale costituiti secondo la legge (tribunale marittimo
criminale, consiglio di revisione, consiglio di giustizia e consiglio di
guerra a bordo delle navi, consiglio marittimo a terra, tribunale
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 38

marittimo speciale per le ciurme, consiglio di guerra speciale per i reati


di diserzione) e uno, la cui nomina era riservata al re, di composizione
indeterminata (consiglio di marina). Composizione e competenze dei
tribunali e dei consigli sono esposte nella tab. 28.

Tab. 28 – Composizione e competenze dei tribunali e consigli della R. Marina


Collegi giudicanti Composizione Giudizio su:
Consiglio di Marina Determinata dal re Condotta dei comandanti in
(disposto e nominato dal (possibilmente con mare relativa alla commis-
re) generali se il giu- sione ricevuta e all’econo-
dizio riguarda U mia delle spese e dei consu-
generali) mi effettuati.
Tribunale Marittimo P: 1 USV. Delitti commessi nel porto e
Criminale (nominato dal M: 2 USV, 2 C, 1 arsenale contro la polizia e
CGM) UI, 2 M del TC1I. sicurezza degli stabilimenti
e il servizio della marina.
Consiglio di revisione P: procuratore del sulla sentenza di revisione
(convocato dal CGM) TC1I. M: CGM, pronunziata dal secondo
Capo Militare, Ca- Tribunale Marittimo Crimi-
po Amministraz. nale.
Tribunale Marittimo di P: 1 USV. Trasgressioni punite con
Polizia correzionale M: 1 UA, 1 C, 1 arresti o prigione sino a 3
UA, 1 UV addetto mesi, o con multa sino a
al movimento del 100 lire o privazione della
porto paga sino a un mese o con
l’espulsione dall’arsenale o
dal servizio
Tribunale speciale per le P: CGM o vicario Infrazioni a leggi e regola-
ciurme M: 2 USV, 1 C, 1 menti connessi alla polizia
UI delle ciurme.
Consiglio di giustizia a P: il comandante. Delitti puniti con le pene
bordo dei bastimenti M: 5 UV. della cala o delle gaschette
Consiglio di guerra a P: 1 USV I membri dell’equipaggio
bordo M: 8 UV per viltà davanti al nemico,
(disposto e nominato dal rivolta, sedizione e ogni
CGM o dal comandante in altro atto commesso con
capo o di divisione o flot- pericolo imminente. Gli U
tiglia) deferiti solo su ordine reale.
Consiglio di guerra P: 1 USV. Delitti di diserzione, istiga-
speciale marittimo per i M: 6 UV. zione e favoreggiamento.
delitti di diserzione
C = commissario. CGM = commissario generale di marina. M = membro.
P = presidente. TC1I = tribunale circondariale di prima istanza. UA = ufficia-
le d’artiglieria. UI = ufficiale ingegnere. USV = ufficiale superiore di
vascello. UV = ufficiale di vascello.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 39

Permanenti e comuni ai diversi tipi di tribunali erano il relatore e il


cancelliere. Il primo dirigeva la polizia giudiziaria marittima, inclusa la
sorveglianza sulla casa d’arresto, con funzioni di commissario di
governo (procuratore del re) nel processo. L’ufficio fu ricoperto
inizialmente dal commissario “uditore” (poi “relatore”) Honoré
Desplaces, sostituito nel 1811 da 2 relatori (Foscarini e Campitelli).
Cancelliere era Pellegrino Pasqualigo, affiancato nel 1811 da Belisario
Cinti. Sia i titolari degli uffici (con soldo annuo rispettivo di 4.000 e
1.800 franchi) che il personale esecutivo erano in organico al corpo
amministrativo.
La giurisdizione dei tribunali era limitata al porto e all’arsenale di
Venezia. Negli altri porti le funzioni del commissario generale della
marina erano supplite dal capo del servizio della marina, quelle del
commissario relatore dal regio procuratore del tribunale circondariale di
prima istanza e quelle del cancelliere da un commesso della marina.
Provvisoriamente, però, il sistema si applicava di fatto al solo porto di
Ancona, perché, fino all’istituzione di altri tribunali marittimi, la
giurisdizione degli organi giudiziari di Venezia era estesa agli altri porti
e stabilimenti marittimi dalla Cattolica al confine austriaco. Nei porti
della costa orientale adriatica (Istria, Dalmazia e Albania), i compiti di
polizia giudiziaria marittima erano attribuiti al capo servizio della
marina che, assunta l’informazione, rimetteva gli atti al tribunale di
polizia correzionale di Venezia ovvero al tribunale circondariale di prima
istanza. In ogni caso il giudizio di revisione era rimesso al tribunale
marittimo criminale di Venezia.

La procedura presso i Tribunali militari marittimi


L’organo di polizia giudiziaria marittima competente per territorio (il
relatore per i reati commessi sulla costa occidentale adriatica, il
procuratore per quelli commessi sulla costa orientale, il capo servizio
della marina per quelli commessi ad Ancona) procedeva d’ufficio su
denuncia o notizia. L’arresto poteva essere disposto dal capo e dal
sottocapo dell’amministrazione, dal capo militare del porto e dagli
ufficiali subalterni addetti, con obbligo di immediata denuncia al
relatore. Assunta sommaria informazione, interrogato il reo e redatto il
verbale, il relatore formalizzava il processo dandone rapporto al
commissario generale della marina, il quale procedeva alla nomina e/o
alla convocazione del tribunale competente. Il processo si poteva
svolgere anche in contumacia, con l’assistenza di un difensore di fiducia
o d’ufficio. Il dibattimento era pubblico, con l’interrogatorio
dell’accusato, il giuramento e l’escussione dei testi.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 40

Avverso le sentenze di condanna era ammesso il ricorso del reo, entro


il termine di ventiquattrore, al commissario generale di marina, il quale,
se ammetteva il ricorso, nominava un nuovo tribunale con membri
diversi dagli autori della sentenza impugnata. Avverso la sentenza di
revisione era ammesso ulteriore ricorso al consiglio di revisione,
convocato dal commissario generale ma presieduto dal procuratore del
re presso il tribunale circondariale di prima istanza. Se il secondo ricorso
era fondato sugli stessi motivi del primo, la questione doveva essere
sottoposta al re in consiglio di stato.

I delitti del comandante e il consiglio di marina


Il decreto n. 160 sui consigli prevedeva e puniva come delitti le
seguenti fattispecie relative all’esercizio del comando di bastimento da
guerra o militarizzato o di forza navale:
• il mancato inseguimento (“sospensione della caccia”) di vascelli da guerra o flotte
mercantili nemici fuggenti o battuti dalla propria unità navale, se non per causa di
forza maggiore (cassazione per incapacità a servire);
• il denegato soccorso richiesto da legni anche nemici in caso di naufragio e la
denegata protezione richiesta da legno di commercio italiano (cassazione per
incapacità a servire);
• l’abbandono, in qualsiasi circostanza, del comando del proprio legno per
nascondersi, o non per ultimo dopo averne dato l’ordine all’equipaggio o l’aver
fatto abbassare la bandiera senza aver esaurito i mezzi di difesa (morte a titolo di
viltà);
• la resa a una forza inferiore al doppio della propria o se la quantità d’acqua
introdotta nella stiva è ancora insufficiente a provocare l’affondamento del legno
(morte a titolo di ribellione):
• l’abbandono volontario del convoglio che si ha l’incarico di condurre o del quale si
fa parte (3 anni di galera);
• il mancato adempimento della missione o perdita del proprio bastimento per
imperizia o negligenza (decadenza dal comando per 3 anni) o dolo (morte);
• la disubbidienza agli ordini o segnali del comandante della flotta, squadra o
divisione (privazione del comando), con le aggravanti di aver provocato la
separazione del bastimento dalla formazione (cassazione per indegnità a servire) o
di aver agito in presenza del nemico (morte);
• la mancata esecuzione degli ordini ricevuti da cui derivi la perdita del bastimento
(5 anni di prigione);

L’azione penale per i delitti dei comandanti era riservata al re, il quale
poteva disporre e nominare il consiglio di marina per giudicare non solo
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 41

la responsabilità in ordine alle fattispecie criminose previste dal decreto,


ma in generale la condotta del comandante in rapporto alla commissione
ricevuta, l’economia da lui osservata circa le spese e i consumi relativi e
la necessità delle punizioni sommarie inflitte a membri dell’equipaggio.
La determinazione della composizione del consiglio era riservata al re:
tuttavia il decreto stabiliva che fosse possibilmente composta da ufficiali
generali qualora il comandante deferito avesse tale rango.

Fucilazioni e processi di ufficiali


Il 9 marzo 1809 il consiglio di marina condannò a morte per viltà il
comandante e il secondo ufficiale della goletta Ortensia, catturata dal
nemico il 16 luglio 1808, tenente di vascello Pietro Stalimeni, livornese,
e alfiere di vascello ausiliario Simone Abeille. La sentenza fu eseguita
l’indomani a bordo dell’ammiraglia del porto di Venezia.
Un altro consiglio di marina fu nominato il 22 maggio 1813 per
giudicare gli alfieri di vascello Rossi e Occhiusso, comandanti della
cannoniera Batava e della mosca Intelligente, per la perdita dei due legni
e di un convoglio di barche da trasporto avvenuta nelle acque di Goro il
17 settembre 1812. Il processo fu però subito rinviato per competenza al
consiglio di guerra e sospeso per quattro mesi.
Tra i casi relativi ad ufficiali, citiamo il complotto capeggiato
dall’aspirante Scondella, fallito il 16 maggio 1809 per l’opposizione di
due cannonieri e denunciato da due marinai; la pena irrisoria (10 giorni
d’arresto) comminata il 26 marzo 1807 ad un alfiere di vascello corfiota
(Gregorio Dabovich, probabilmente fratello del giovanissimo tenente di
fregata Spiridione, membro del tribunale di marina) per aver impegnato
a proprio profitto un collier sottratto ad una ragazza (fatto qualificabile
come furto, truffa o appropriazione indebita, mica una marachella);
l’assoluzione, con reintegrazione in servizio, dell’aspirante Conto
dall’accusa di ratto della moglie del signor Montebelli di Venezia; il
trasferimento di un aspirante, per cattiva condotta, al 6° di linea (nel
1810).

Le mancanze disciplinari e il consiglio di giustizia di bordo


La responsabilità penale e disciplinare a bordo dei bastimenti si
applicava non solo allo stato maggiore e agli equipaggi dei legni da
guerra ma anche di quelli naufragati, alle truppe di guarnigione o
trasportate e ad ogni altro individuo imbarcato su legno da guerra.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 42

La polizia disciplinare e giudiziaria a bordo dei bastimenti spettava al


comandante. Il decreto n. 160 sui consigli di marina, di giustizia e di
guerra prevedeva come trasgressioni disciplinari l’ubriachezza senza
disordini, le risse senza feriti né armi, la contravvenzione alle regole di
polizia e al divieto di portare lumi accesi a bordo, l’assenza all’appello o
al turno di servizio (“quarto”) e le mancanze contro la disciplina e il
servizio del vascello per negligenza o infingardaggine.
Le pene disciplinari erano differenziate a seconda del grado. Agli
ufficiali erano comminati gli arresti, la prigione, la sospensione dalle
funzioni per un mese, con o senza privazione del soldo, mentre
all’equipaggio erano inflitti la diminuzione del vino, i ferri sul ponte e la
prigione fino a 3 giorni. Per le mancanze più gravi erano inflitte pene
“afflittive”: colpi di corda sull’argano di prua, prigione o ferri sul ponte
per altri 3 giorni, riduzione di grado e soldo, cala (da una a tre
immersioni in acqua), gaschette (da uno a tre giri di fustigazione tra due
file di 15 uomini), galera e morte per fucilazione. La cala e le gaschette
importavano la cassazione dal grado di ufficiale marinaio e la riduzione
alla bassa paga, la galera l’esclusione perpetua dall’impiego a bordo. Se
la trasgressione era commessa di notte la pena era raddoppiata.
Le pene disciplinari minori potevano essere inflitte dall’ufficiale
comandante il quarto o la guardia nei confronti dell’equipaggio e dello
stato maggiore e dal comandante della guarnigione imbarcata nei
confronti dei fanti. Le pene degli arresti e dei ferri erano riservate al
comandante, la cala e le gaschette al consiglio di giustizia di bordo
presieduto dal comandante e composto da 5 ufficiali. Il capitano poteva
diminuire di un solo grado la gravità della pena inflitta dall’ufficiale di
guardia o dal consiglio. I giudizi del consiglio erano annotati in un
registro particolare di bordo. Le funzioni di relatore erano svolte da un
tenente di vascello e quelle di cancelliere dallo scrivano di bordo.

I delitti e il consiglio di guerra di bordo


Il decreto prevedeva come delitti, fissandone la pena:
• il tradimento o la perfida intelligenza col nemico (morte: con esecuzione sommaria
senza giudizio se ne deriva “disgrazia pubblica”);
• l’aver abbassato la bandiera in combattimento senza ordine (morte);
• la diffusione del panico con grida di arrendersi o abbassare la bandiera (3 anni di
galera e morte se il panico è effettivamente provocato);
• i discorsi sediziosi (6 giorni di ferri sul ponte)
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 43

• il complotto contro la libertà o la sicurezza di un ufficiale di stato maggiore (3 anni


di galera) o l’autorità del comandante del bastimento o superiore (galera a vita);
• la rivolta e il reclamo collettivo avente per oggetto di cambiare la direzione delle
forze navali, evitare lo scontro col nemico o sconcertare i piani confidati al
comandante (autori, istigatori e latori del reclamo messi ai ferri e consegnati al
consiglio di guerra a terra; i promotori passibili di morte, gli istigatori puniti con
10 anni di ferri);
• la mancata ottemperanza all’intimazione (fatta individualmente dall’ufficiale) di
sciogliere un attruppamento (obbligo dell’ufficiale di dichiarare ribelli i non
ottemperanti da lui individualmente intimati, con facoltà di usare la forza per
disperdere l’attruppamento e far porre ai ferri i capi, passibili di morte);
• l’insubordinazione con ingiurie o minacce o violenza al superiore (cala; se il reo è
primo maestro, 5 anni di prigione; se consegue la morte del superiore, il reo è
messo ai ferri e giudicato a terra);
• il rifiuto di obbedienza dell’ufficiale al capitano punito con 2 anni di prigione o
con la morte se ne consegue la perdita del bastimento, o la disfatta o il mancato
conseguimento della preda o della vittoria;
• la ritardata o mancata esecuzione di ordini (4 giorni di ferri ovvero cassazione dal
grado e riduzione per 3 anni alla paga di mozzo): se aggravata da “motivi di
dispetto”, punita con 8 giorni di ferri e riduzione alla paga inferiore;
• l’omesso intervento dell’ufficiale per sospetto o notizia di sommovimenti
(degradazione e 3 anni di prigione);
• la mancanza sul ponte al primo suono della campana di bordo o al quarto di
guardia (3 giorni di ferri, 6 se si manca al turno di notte);
• l’abbandono di posto di giorno (legatura per un’ora all’albero maestro e riduzione
alla paga inferiore) o di notte (legatura per due ore e riduzione alla seconda paga
inferiore) o in presenza del nemico (morte);
• l’assenza arbitraria in rada o in porto (8 giorni di prigione a bordo): se si passa la
notte a terra, arresto fino a un mese;
• il mancato rientro a bordo entro 4 ore dalla chiamata in porto e città (3 o 8 giorni di
ferri, a seconda del ritardo, se il rientro avviene entro ventiquattrore, oltre il
termine dichiarato disertore: un mese di arresto se il reo è ufficiale);
• l’abbandono del quarto da parte dell’ufficiale di guardia per andare a dormire
(riduzione al grado inferiore, con responsabilità per gli eventuali accidenti);
• l’imbarco di generi di commercio clandestino (multa pari al doppio del valore delle
merci a favore della cassa invalidi); se il reo è ufficiale marinaio o di stato
maggiore perde inoltre due anni di servizio sul mare e il diritto all’avanzamento, se
è il comandante, perde per 2 anni l’abilitazione al comando e, in caso di recidiva, è
cassato dal servizio;
• il trasporto clandestino di materie combustibili come polvere, zolfo, acquavite (12
colpi di corda e, in caso di recidiva, la cala): se il reo è ufficiale, è espulso dal
servizio;
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 44

• l’accensione di fuochi proibiti notturni in tempo di guerra o senza precauzione o


omesso o negligente controllo dei fuochi notturni durante il turno di guardia (cala;
se il reo è ufficiale, cassazione; se ne deriva disgrazia, 3 anni di galera);
• le percosse con armi o bastone (12 colpi di corda) e ferimento con pericolo di vita
(cala); se il reo è ufficiale, è sospeso dal servizio e messo in prigione in attesa del
risarcimento da liquidarsi in sede civile;
• la perdita del bastimento anche commerciale che si è incaricati di pilotare per
imperizia o negligenza (3 anni di galera) o dolo (morte);
• l’inosservanza degli ordini ricevuti con l’effetto di provocare il fallimento della
spedizione, missione o comandata di cui si è incaricati (sospensione dalle funzioni
e dall’avanzamento a tempo indeterminato);
• il furto semplice a bordo o a terra in territorio nazionale o a bordo di bastimento
predato prima della divisione (12 colpi di corda). Sono comminate le pene della
cala se il furto è commesso con effrazione o in territorio estero; delle gaschette se
il valore supera le 12 lire o in caso di prima recidiva; di 6 anni di galera alla
seconda recidiva;
• il furto, lo sbarco e la ricettazione di polvere, o di viveri, munizioni e attrezzi
pubblici di bordo di valore superiore a 50 razioni o 50 lire, puniti con 3 anni di
galera; durata tripla anche per il semplice tentativo di furto di denaro dalla cassa
del bastimento o altra cassa pubblica e di polvere dalla santabarbara;
• la rapina di vestiario a danno di prigioniero (24 colpi di corda);
• il danneggiamento commesso a terra, punito con 12 colpi di corda o con pene
afflittive maggiori se il valore era superiore alle 12 lire, salvo il risarcimento del
danno da liquidarsi in sede civile.

Nei casi di viltà di fronte al nemico, rivolta, sedizione e ogni altro atto
commesso con pericolo imminente, il comandante poteva - sul
presupposto della necessità, facendone verbale e rispondendone dinanzi
al consiglio di marina – arrestare, punire e far punire in modo sommario
i membri dell’equipaggio e gli individui della guarnigione.
La cognizione dei delitti commessi dai membri dell’equipaggio o della
guarnigione spettava in via generale al tribunale marittimo criminale.
Tuttavia il commissario generale di marina, il comandante in capo o
della divisione o flottiglia potevano deferirla al consiglio di guerra di
bordo, presieduto da un capitano di vascello e composto da 8 ufficiali, di
cui uno relatore, con lo scrivano di bordo in funzione di cancelliere
verbalizzante.
L’arresto degli ufficiali era riservato al commissario generale di
marina, al comandante delle forze navali del Regno e al comandante
superiore di porto. L’ufficiale poteva essere deferito al consiglio di
guerra solo su ordine del re, che poteva nominare direttamente i
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 45

componenti del consiglio o delegarne la nomina al commissario generale


oppure al comandante in capo delle forze navali.

I consigli di guerra speciali per i delitti di diserzione


I consigli di guerra speciali marittimi per i delitti di diserzione, inclusi
istigazione e favoreggiamento, erano regolati da decreto particolare (n.
161 dell’8 settembre 1807). Le sentenze non erano soggette ad appello
né a revisione. Le fattispecie più semplici erano punite con tre anni di
catena e con la fustigazione (giri di “gaschette”). La pena di morte - da
eseguirsi eventualmente a bordo del legno di imbarco o della nave
ammiraglia - era prevista per i capi di complotto o sedizione, per gli
istigatori e i complici di diserzione collettiva di oltre 10 marinai e per le
fattispecie qualificate (diserzione con passaggio al nemico, o in presenza
del nemico essendo comandato specialmente pel servizio o con asporto
di armi o munizioni da bordo o dall’arsenale). I consigli, presieduti da un
ufficiale superiore e composti da sette ufficiali inferiori (sei giudici e un
relatore) e da un agente contabile (segretario), furono nominati dal
commissariato generale nei porti di Venezia, Ancona, Zara e Ragusa,
nonché presso ogni divisione navale includente almeno una fregata o un
brick.
Con decreto 4 aprile 1809 furono estesi alle truppe di marina i decreti
sui consigli di guerra speciali istituiti per la diserzione dei militari
dell’esercito (decreti del 2 settembre 1803, 8 marzo 1804, 14 marzo e 30
settembre 1805 e 1° maggio 1806). Naturalmente anche i disertori della
marina furono inclusi nelle varie amnistie disposte per l’esercito: il 25
febbraio 1810 il termine di presentazione dei marinai fu prorogato al 1°
aprile. La carenza di personale era tale che in luglio il ministero decise di
sorvolare, una tantum, sul dubbio provvedimento del prefetto
dell’Adriatico che aveva liberato dal bagno penale di Venezia, per
restituirli alla marina, alcuni disertori già condannati.
Ma la diserzione dei marinai cominciò proprio allora a farsi più
frequente, incentivata dalla prassi inglese di formare gli equipaggi con i
disertori nemici. Una diserzione in massa di 19 marinai (14 della
Favorita, 3 del Leoben e 2 altri) è registrata al 15 luglio 1810. Il 28
settembre fu stabilita la pena di morte per i disertori trovati a bordo di
navi nemiche e con decreto 11 marzo 1812 furono attribuiti ai consigli di
guerra speciali della marina i procedimenti nei confronti di tutti i sudditi
catturati con le armi alla mano a bordo di navi nemiche.
Il 24 marzo 1812 fu esteso ai consigli di guerra speciali della marina il
decreto imperiale 14 ottobre 1811 sull’abolizione dei processi
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 46

contumaciali. Il decreto 4 febbraio 1812 fissò a 10 anni di ferri la pena


per la recidiva e al doppio della pena residua quella per l’evasione. Con
decreto 16 agosto furono inasprite le pene per renitenza e diserzione
(detenzione a palla in luogo della catena e morte in caso di recidiva), con
l’obbligo dei comandanti di dare lettura del decreto ogni domenica.
Relativamente alla marina, abbiamo accertato solo sei fucilazioni per
diserzione, tutte eseguite in Venezia il 27 gennaio 1811 (due marinai
veneti, uno dei quali disertore dal Friedland, catturati sul corsaro inglese
Merluzzo) e il 12 e 19 dicembre 1813 (due battellanti correi di diserzione
e altri due una settimana dopo).
Oltre alle diserzioni individuali, nelle ultime settimane del blocco e
dell’epidemia di Venezia si verificarono (il 15 febbraio, il 2, 6, 16 e 22
marzo, l’8 e l’11 aprile 1814) sette casi di diserzioni collettive al nemico,
sei dei quali compiuti mediante imbarcazioni in servizio di ronda (2
caicchi, 1 piroga e 3 lance), per un complesso di 3 aspiranti e 129
marinai.

La casa d’arresto della Marina


Il regolamento ministeriale per la casa d’arresto della marina nel porto
di Venezia fu emanato il 29 ottobre 1808. La casa doveva avere appositi
locali per il ricevimento degli arrestati, l’infermeria e la custodia, muniti
di porte con spioncino, letti di tavole attaccati al muro con possibilità di
legarvi l’arrestato, anelli a muro e grosse pietre per attaccarvi le catene.
La sicurezza interna ed esterna era attribuita ad una guardia militare
fornita dall’autorità militare del porto, con 2 sentinelle diurne e notturne.
Il personale interno della casa d’arresto - mantenuto dalla cassa della
marina, sottoposto all’autorità del commissario relatore e alla polizia
correzionale del commissario generale della marina e suscettibile di
licenziamento - includeva:
• il custode, incaricato del ricevimento, della polizia e della tenuta del registro di
entrata e uscita degli arrestati e del libro dei detenuti in deposito;
• un numero di assistenti, in uniforme e con armi di difesa personale, sufficiente ad
assicurare una presenza costante di due guardie (incluso il custode) con turni di sei
ore (in pratica almeno 7 assistenti);
• il personale di fatica occorrente.

Il ricevimento avveniva su ordine scritto e motivato dell’autorità


legale. Se il presentante dell’arrestato non apparteneva alla marina, il
custode doveva fargli firmare il registro di consegna e prenderne gli
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 47

opportuni schiarimenti e i connotati onde poterlo rintracciare,


procedendo al suo arresto se ricusava di dichiararsi. Il custode doveva
poi far tradurre l’arrestato dal commissario relatore, dandogli previa
informazione. Era riservata al commissario l’autorizzazione a
comunicare con l’esterno (“dare notizia di sé ad alcuno”) e a ricevere
notizie o visite.
Era vietato infliggere “misure aggravanti” la detenzione (es. il letto di
contenzione) e usare la violenza se non per urgenza (es. violenze
notturne) o pericolo: qualora l’arrestato tenesse un comportamento
“caparbio e disubbidiente” poteva essere punito con più giorni di digiuno
a pane e acqua o di ferri più o meno pesanti. In caso di recidiva con colpi
di corda sino ad un massimo di 50 e previa visita medica.
Gli arrestati dovevano essere separati per sesso. Le passeggiate diurne
in corridoio erano fatte in drappelli separati. Si doveva impedire ai correi
di uno stesso reato di condividere la stessa cella e lo stesso turno di
passeggiata. Il custode doveva conservare personalmente le chiavi,
assistere alla ferratura o incatenatura degli arrestati verificando che ferri
e catene fossero quelli regolamentari, ispezionare ogni giorno le celle,
accompagnato da un assistente, esaminando muri, porte, finestre e tavoli
per rilevare segni o indizi preparatori di fuga. Era vietato accettare il
minimo regalo o entrare in colloquio sulle materie aventi rapporto col
delitto imputato. Era vietato l’uso di lumi a fiamma libera (soltanto
lanterne).
Il denaro e il vestiario non indispensabile dovevano essere ritirati
all’atto del ricevimento, tenuti in deposito e custodia e restituiti alla
scarcerazione. L’arrestato poteva conservare i propri vestiti o
provvedersi a proprie spese di vestiario e di letto, previo controllo da
parte del custode. L’amministrazione del porto forniva a proprie spese
agli indigenti letto (pagliacci e grossa schiavina), cappotto, sottoveste,
calzoni, camicie, calze, scarpe e berretta.
Era consentito ricevere soccorsi dall’esterno e procurarsi qualche
guadagno col lavoro, ma un terzo del reddito prodotto dentro la casa era
confiscato per le spese di mantenimento e il resto tenuto in deposito
presso il commissario, essendo vietato all’arrestato il minimo maneggio
di denaro. Il vitto della casa includeva soltanto la razione di pane, acqua
e minestra calda: all’arrestato era concesso procurarsi vitto di suo
gradimento a proprie spese, non però di assumere cibo preparato
all’esterno, il che significava in pratica obbligarlo ad acquistare o far
cucinare le integrazioni di vitto presso il bettolino della casa, gestito dal
custode. Erano in ogni caso vietati il consumo di tabacco e la detenzione
di lumi.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 48

B. Corso e prede

Le norme sull’armamento in corso e sulle prede marittime


Come si è detto (§. 15C), il 23 maggio 1803 fu esteso all’Italia il
decreto del primo console sulla guerra di corsa contro la bandiera
inglese. L’8 gennaio 1805, a seguito delle contestazioni relative alle
prede fatte dal corsaro Felice (capitano Minoglio), il consiglio di stato
decretò l’istituzione, sanzionata il 1° dicembre dal viceré, di una
“commissione delle prede marittime”, presieduta da Birago e composta
da Testi e Maestri, per giudicare senza appello sulla validità delle prede.
Sospesa nel 1810, con decreto 1° luglio 1811 fu sostituita da un
“consiglio”.
L’Ordinanza austriaca del 1° ottobre 1805, scritta da L’Espine,
assegnava il prodotto delle prede marittime interamente alla marina, un
quinto alla cassa invalidi e il resto agli autori della cattura, fatta riserva
all’arsenale dei cannoni, armi e munizioni da guerra. Due terzi della
quota spettante agli autori della cattura (53.3%) spettava all’equipaggio e
un terzo (26.67%) agli ufficiali. La ripartizione fra gli individui delle due
categorie veniva fatta secondo un punteggio stabilito per ciascun grado e
incarico: si divideva il totale da ripartire per il totale dei punti e si
calcolavano poi le spettanze individuali moltiplicando il risultato per i
punti (detti “parti”) di ciascuno degli aventi diritto (ai capitani di
vascello e di fregata spettavano 12 e 9 parti, ai tenenti 6 e 4, ai cadetti 2,
agli aspiranti 1 e mezza, allo scrivano e al chirurgo 1; altre 12 parti
aggiuntive spettavano però per l’incarico di comandante e 2 per quello di
ufficiale al dettaglio. Venti parti toccavano al comandante sottufficiale: 6
ai primi maestri, 5 agli operai, 4 ai secondi maestri, fanti, artiglieri e al
sottochirurgo, 3 ai sottoguardiani e caporali, 2 al primo cannoniere, 1 ai
marinai e mezza ai mozzi.
Il Regolamento della Marina approvato con decreto 26 febbraio 1806
riservava al ministro il rilascio delle patenti d’armamento, tanto in corso
che in guerra e mercanzia, previa cauzione (“sicurtà”) dell’armatore
commisurata alla stazza del bastimento, a condizione che due terzi
dell’equipaggio fossero composti da nazionali, con l’obbligo di
inalberare la bandiera nazionale prima di tirare a palla sul legno cacciato,
di osservare le norme a tutela dei prigionieri, di condurre la preda in un
porto nazionale e di farne rapporto al capitano del porto, incaricato di
controllare le carte, il carico e l’equipaggio.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 49

Erano dichiarati di buona preda non solo i legni battenti bandiera


nemica ma anche quelli comandati da pirati o fuoriusciti e quelli non in
grado di dimostrare la loro neutralità. I legni predati erano soggetti a
vendita immediata, con facoltà di riscatto dei neutrali e di ricorso al
tribunale delle prede e con vari divieti volti a impedire al corsaro di
trattenere per sé l’intero profitto. Le modalità di liquidazione e
ripartizione, con eventuale ricorso alla commissione delle prede del
porto di Venezia, prevedevano il concorso dello stato maggiore e
dell’equipaggio sull’intera quota spettante agli autori della cattura, con
un massimo di 12 “parti” al capitano, 10 al secondo di bordo, 8 ai primi
tenenti e via seguendo sino all’unica parte del marinaio e alla mezza del
mozzo, con maggiorazioni ai feriti e mutilati e con la rappresentanza dei
caduti attribuita alle vedove e agli orfani.
Con decreto 4 dicembre 1806 fu confermata la disposizione austriaca
che riservava alla cassa invalidi della marina la vigesima sui proventi
delle prede marittime e dei riscatti giudicati validi. Il decreto n. 160 sui
consigli di bordo dell’8 settembre 1807 vietava la cessione e la vendita
anticipata della quota spettante sulle future prede, dichiarate nulle e
senza effetti: all’acquirente era comminata inoltre una multa di lire
1.000. Con decreto del 2 dicembre 1808 furono apportate varie
modifiche e integrazioni alle procedure per l’amministrazione e
liquidazione delle prede e alle competenze spettanti ai predatori e alla
cassa invalidi.
La ripartizione era complicata qualora la cattura fosse avvenuta col
concorso di più unità oppure sottocosta. La ripartizione dei proventi di
due prese tra la Comacchiese e il Napoleone fu infine risolta per decreto
(del 27 luglio 1810). Le Istruzioni e disposizioni del 1° ottobre 1810
riconobbero infine all’erario un terzo dei profitti delle prede effettuate
dai legni corsari, e a questi ultimi metà o un quinto qualora avessero
concorso alla cattura insieme a batterie costiere e/o a dogane dello stato
(la metà spettava se il concorso del corsaro era stato determinante per
impedire la fuga del legno predato, un quinto nel caso in cui il capo di
dogana non avesse provveduto, entro tre ore dal preavviso dato dal
corsaro, alla cattura di un legno ancorato da almeno sei ore. A tal fine era
stabilito ai direttori di dogana, comandanti di porto militare e consoli
l’obbligo di rapporto sulle circostanze della cattura. Pur non essendo
retroattiva, la disposizione si applicava alle liquidazioni pendenti).
La faccenda poteva infatti andare per le lunghe: in attesa della
liquidazione dell’ingente preda fatta a Lissa nel settembre 1810, una
nota ministeriale del 27 febbraio 1811 suggeriva di dare ai marinai, che
ci facevano conto, almeno un piccolo anticipo sulle loro spettanze.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 50

Le prede fatte dai bastimenti dello stato potevano anche finire davanti
al consiglio di marina. Il 14 agosto 1808 al primo capitano dei
cannonieri marinai Calamand furono comminati il rimprovero e
l’esclusione perpetua dal comando di legni reali per una preda illegittima
fatta nel 1807 (un legno russo nel Quarnero); il 2 dicembre 1809 fu
deferito al consiglio il primo capitano Francesco Corner, comandante del
Lepanto, per aver venduto una preda a Lesina, anziché in un porto
nazionale (fu però prosciolto il 21 febbraio 1810 per aver agito in stato
di necessità).

I corsari italiani
Come si è detto, il primo corsaro italiano, lo sciabecco Generoso
Melzi di capitan Puricelli, salpò da Rimini per il Levante il 24 febbraio
1804. Tuttavia la base francese più importante per la guerra di corsa in
Adriatico era Ancona: tre corsari corsi avevano partecipato alla difesa
della piazza nel 1799 e nel novembre 1805 vi si era stabilita una
squadriglia mista di tre corsari, lo sciabecco genovese Masséna del
celebre capitan Bavastro e due trabaccoli, il corso Pino di capitan
Bartolomeo Paoli e il francese Verdier di capitan Prébois. Il 5 dicembre,
nelle acque di Lissa, la squadriglia attaccò un convoglio di 2 brigantini e
3 polacche dalmati armati con 28 pezzi da otto, sei e quattro, catturando
all’arrembaggio, uno dopo l’altro, il brigantino Superbo e le polacche. Il
giorno dopo il corsaro Tigre (capitan Buscia) catturò un altro legno
austriaco armato da 12 fanti. Altre 3 prede fatte durante quella campagna
da un altro corsaro (Il Corso, capitan Muscilai) furono giudicate
legittime il 14 febbraio 1806.
Nell’agosto 1806 il corsaro Sans Peur di capitan Giacomo Carli,
armato dal riminese Antonio Passano, venne affondato dal nemico dopo
aver portato a termine il rifornimento delle Isole Tremiti. Salvatosi con
tutto l’equipaggio e ripreso il mare col nuovo corsaro Italiano, il 20
dicembre Carli mise in fuga un corsaro russo, recuperando uno dei 2
legni predati dal nemico. L’Italiano si segnalò ancora nel gennaio 1807,
assieme al corsaro Lepre. Il 10 agosto una fregata inglese attaccò presso
Trieste il corsaro di capitan Palazzi, che finì arenato a Grignano.
Il 4 dicembre l’imperatore ordinò al viceré di armare in corso un legno
da guerra e di lanciare una sottoscrizione per armare 2 o 3 corsari a
Venezia. Non sembra però che vi siano stati tentativi di fare concorrenza
ad Ancona, dove si era stabilito l’armatore Passano. Proprio nel
dicembre 1807 i suoi 4 corsari (Carlotta, Fortunata, Traiano e Italiana)
catturarono ben 13 prede.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 51

Nel 1808 operarono in Adriatico il corsaro Vittoria (Oberti) di


Civitavecchia, il genovese Diogene (Buonsignore), il sanremese
Coraggioso (Pesenti), il napoletano Ardente (Bastelica) e gli anconetani
Adria e Vendicatore. Quest’ultimo, comandato dal tenente di fregata
Contrucci, venne affondato il 21 maggio, sotto Monte Conero, da una
fregata inglese.
Nelle cronache navali del 1809 compaiono in Adriatico ancora tre
corsari italiani (Sans Peur, Fortunato e l’anconetano Caffarelli di
capitan Cassinelli), nel 1810 soltanto uno (Feroce). Risultano invece
sempre più numerosi e audaci i corsari siciliani e inglesi: il 14 aprile
1809 fu decapitato a Venezia, in piazza San Francesco a Ripa, Sante
Rodin, detto "Francesetto della Giudecca", per aver fatto guerra di corsa
contro la sua patria. Nell'’incursione compiuta dalla divisione Dubordieu
nel Porto San Giorgio di Lissa il 22 ottobre 1810 furono catturati 3
corsari e altri 9 (con 64 cannoni) incendiati (furono anche liberati 14
legni e 25 prigionieri e affondati o incendiati 33 mercantili nemici). Il 28
ottobre 1810 Passano fu nominato tenente di vascello onorario della
Reale Marina. Nel 1813 gli inglesi catturarono 4 mercantili anconetani
(S. Antonio, S. Giosafat, SS. Vergine, Invidia), 1 di Magnavacca e 12
barche di Grottammare. L’8 dicembre un corsaro armato da Passano,
comandato dal francese Gaspard, colse l’ultima vittoria catturando un
trabaccolo inglese nelle acque di Lussino.
Bavastro aveva intanto continuato la guerra di corsa nelle acque
spagnole, cambiando almeno tre volte il suo corsaro (prima il
Giuseppina, poi il Principe Eugenio armato da Balestrieri, infine il
Nettuno). Sotto Barcellona, a fine maggio del 1807, fece una preda da
1.5 milioni di franchi (il mercantile inglese da 300 tonnellate Catherine);
il 10 giugno, nelle acque di Orano, catturò dopo duro combattimento (3
morti e 6 feriti contro 4 e 9) una corvetta inglese, con a bordo tre
ufficiali del 35th Foot, portandola a Tarragona. Il 17 giugno 1808 il
Nettuno fiancheggiò la marcia della Divisione italiana Lechi da
Barcellona al forte di Montgat, mettendo in fuga le cannoniere del
leggendario Lord Thomas Cochrane. Nel dicembre 1812 Bavastro portò
a Tarragona anche la Vicissitude. Nel giugno 1813 erano ancorati a
Tarragona 3 piccoli corsari italiani (Gauthier, Liberati e Caracciolo) con
60 uomini di equipaggio, che si unirono alla sparuta guarnigione,
bloccata per alcuni giorni dalla flotta e dalle truppe inglesi.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 52

Pagina bianca
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 53

Da Storia Militare del Regno Murattiano, tomo I, pp. 481-538

10. LA GIUSTIZIA MILITARE NAPOLETANA

A. Il codice penale militare


(decreto 8 maggio 1807)

L’adattamento del codice francese del 1793


Il codice penale francese per le truppe in campagna del 12 maggio
1793 fu recepito nel regno di Napoli ex–art. 1 del decreto 31 ottobre
1806, che estendeva l’intera legislazione militare francese alle truppe
nazionali di terra e di mare. L’8 maggio 1807 il re decretò la traduzione
in italiano e la pubblicazione del codice, con adattamenti. In particolare
furono omessi 8 articoli (13-20) del titolo VII e 7 (18-23 e 26) del titolo
VIII, che fu inoltre modificato e integrato. Fu pubblicata in italiano
come “supplemento” al codice penale militare napoletano pure la legge
19 vendemmiale XII (12 ottobre 1803). Il codice è incluso nel tomo I,
“parte giudiziaria”, del Manuale militare delle Due Sicilie compilato dal
capitano Felice Lombardi e pubblicato a Napoli nel 1812 presso Antonio
Garruccio, alle pp. 1-23, mentre a fine tomo si trovano due “addizioni”
con la traduzione italiana degli articoli mancanti del titolo VII e del testo
originario dell’VIII.
Il codice originario era in 95 articoli e 8 titoli: I diserzione al nemico
(7); II diserzione all’interno (8); III tradimento (9); IV reclutamento e
spionaggio a favore del nemico (3); V saccheggio, devastazione e
incendio (10); VI scorrerie e furti di campagna (12); VII furto ed
infedeltà nell’amministrazione e manutenzione di beni dello stato (20);
VIII insubordinazione (26). Le novelle riguardavano gli artt. 13-20 del
titolo VII e gli interi titoli VIII (insubordinazione) e I/II (diserzione). Per
le norme sulla diserzione rinviamo al paragrafo C di questo capitolo.

Tradimento, reclutamento e spionaggio a favore del nemico


Nel tradimento rientravano: a) atti tesi a provocare il panico in
presenza del nemico; b) omissioni e false consegne in grado di
compromettere la difesa di un posto, in presenza del nemico; c) la
rivelazione della parola d’ordine o dei piani di difesa; d) la
corrispondenza con l’armata nemica; e) il sabotaggio di artiglierie o
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 54

affusti; f) il distacco del traino [col “taglio delle tirelle” per fuggire dal
campo di battaglia]; g) (per il comandante di una piazza) la resa senza
parere o con parere contrario del consiglio di guerra, prima dell’apertura
della breccia o di aver sostenuto un assalto; h) (per l’ordinatore)
l’omessa distribuzione di viveri e foraggi e l’omessa informazione al
comandante sulle carenze logistiche. In tali casi, come pure per il
reclutamento e lo spionaggio (inclusa la levata di piante militari) a
favore del nemico, era prevista la pena di morte.

Saccheggio, devastazione, incendio, scorrerie e furti di campagna


Era comminata la pena di morte per la devastazione a mano armata o
in truppa e per l’incendio, commessi senza ordine scritto del generale o
altro comandante in capo, nonché per il saccheggio a mano armata o in
truppa, l’attentato alla vita di abitanti disarmati, l’omicidio o mutilazione
a scopo di spoglio e lo stupro seguito dalla morte della persona offesa.
Lo stupro era punito con 8 anni di ferri, aumentati a 12 se commesso con
altri o su vergine di età inferiore ai 14 anni. Per lo spoglio di cadaveri la
pena era di 5 anni di ferri e di 10 per lo spoglio di feriti commessi da
militari: il doppio se erano commessi da vivandieri o altri non militari.
Le spoglie oggetto del reato erano vendute e il prodotto rimesso al
reggimento, tenuto a versarlo alle rispettive famiglie qualora lo
richiedessero. Gli effetti dei condannati per spoglio o ricettazione erano
confiscati e venduti a beneficio degli ospedali e ambulanze dell’armata:
il vivandiere condannato era inoltre scacciato da tutte le armate.
La “scorreria” [detta “busca” nel gergo dell’Armée d’Espagne], ossia
il furto di bestiame, commestibili e foraggi in case o proprietà recintate,
era punito con l’esposizione del reo, costretto a percorrere il quartiere o
il campo di fronte alla truppa schierata in armi, con l’oggetto rubato e un
cartello con la scritta “scorridore”, aumentando l’esposizione di un’ora
se c’era stata scalata di muro o effrazione di porta. La pena era di 5 anni
di ferri se il reo era recidivo, se aveva persistito nonostante l’ordine
dell’ufficiale, oppure era un vivandiere o altro individuo al seguito
dell’armata, e di 8 anni se il furto era stato commesso a mano armata. Il
sottufficiale e l’impiegato erano inoltre destituiti dal grado. Se il reo era
un ufficiale, la pena era di 2 anni di prigione, elevata a 10 anni di ferri se
il fatto era stato commesso con altri subalterni e alla morte se vi aveva
condotto la truppa al suo comando; sempre con la degradazione e la
decadenza dalle ricompense e dal diritto a pensione. L’ufficiale che non
si opponeva o non denunziava subito i rei al superiore, era punito con 3
mesi di prigione e la destituzione.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 55

“Furto e infedeltà” nell’amministrazione e nelle forniture (tit. VII)


I primi 12 articoli del titolo VII del codice francese riportati in quello
napoletano riguardavano solo il peculato e le frodi negli stati di rivista e
nelle forniture della sussistenza. In particolare comminavano 3 anni di
ferri per la falsa attestazione di stati di forza al fine di ottenere fondi e
forniture indebiti, e 5 anni al commissario di guerra connivente, come
pure ai magazzinieri, dispensieri e trasportatori per la distrazione e la
vendita di generi ed effetti in loro custodia, e ai munizionieri e fornai per
la vendita o l’alterazione di farina. La pena era di 3 anni di ferri per la
fornitura di carne di spaccio vietato, 20 per la macellazione di animale
infetto, 2 per l’infedeltà di peso o misura di farina, pane, carne, legumi e
foraggi forniti all’armata attiva o nelle piazze in stato d’assedio: in tal
caso era comminata anche un’ammenda pari al quadruplo delle razioni
da fornire nella distribuzione sanzionata, salva, in tutti gli altri casi, la
riparazione del danno. Il munizioniere che per sua negligenza lasciava
deteriorare farina, legumi e foraggi ne rispondeva col rimpiazzo e 6
mesi di prigione: 3 mesi erano comminati al munizioniere della farina
anche nel caso in cui l’avaria non fosse dipesa da sua colpa.
Gli art. 13-20, omessi nel codice napoletano, punivano con 10 anni di
ferri il furto nell’alloggio fornito dall’abitante, con 6 il furto a danno di
camerati (effetti e denaro per il vitto ordinario) e – paradossalmente –
solo con 3 il furto di forniture di casermaggio, effetti di accampamento o
d’artiglieria, polvere, palle o munizioni. Erano inoltre comminati 5 anni
per la vendita di armi, abbigliamento, equipaggio e cavallo (se forniti dal
governo e non provvisti a proprie spese). Le consumazioni a scrocco di
bevande e alimenti erano punite con 3 mesi di prigione, elevati a 6 se il
fatto era stato accompagnato da minacce e a 2 anni in caso di violenza.
L’attentato alla sicurezza o alla libertà dei cittadini era punito con 6 mesi
di prigione, con 2 anni se il fatto era accompagnato da furto o vie di fatto
e con la morte in caso di assassinio.

Insubordinazione (titolo VIII)


Il titolo VIII del codice francese puniva con la morte il comandante di
posto che mutava la consegna; la sentinella addormentata agli avamposti
o che violava la consegna producendo effetti funesti; i capi di rivolte e
complotti e tutti coloro che, prendendovi parte, non obbedivano
all’ordine del superiore di sciogliere l’attruppamento; l’abbandono di
posto in guerra; la mancata esecuzione di ordini di fronte al nemico; la
violenza verso il superiore. Erano comminati 10 anni di ferri a chi
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 56

partecipava ad una rivolta senza esserne capo; 6 a chi si arrendeva o


buttava le armi; 5 a chi, in una piazza presa d’assalto, abbandonava i
ranghi per darsi al saccheggio; alla sentinella addormentata non in prima
linea; agli arruolati sotto falso nome; a chi falsificava il foglio di
congedo. La pena era 3 anni di prigione per le percosse a un subordinato
(salvo che per impedirne la fuga di fronte al nemico); 2 per le minacce a
un superiore, o l’insulto alla sentinella (raddoppiata o triplicata se il fatto
era commesso da un sottufficiale o da un ufficiale).
La versione napoletana, più articolata, comminava la morte anche per
il rifiuto di obbedienza agli ordini in presenza del nemico e per la rivolta,
la “disobbedienza combinata” e la semplice istigazione degli abitanti di
un paese nemico occupato. Inoltre equiparava alla “rivolta” (punita con
la morte per i capi e gli ufficiali che non si fossero opposti) l’abbandono
collettivo di un posto e l’opposizione con qualunque mezzo all’arresto,
giudizio o esecuzione del reo di un delitto militare; e alla “disobbedienza
combinata” (punita con 10 anni di ferri) ogni violazione collettiva di
consegna generale. Se non si trovavano i capi complotto, gli ufficiali, o,
in mancanza, i sottufficiali o i sei soldati più anziani erano puniti con 10
anni di ferri, mentre per le violazioni individuali della consegna ne erano
comminati 6. In caso di fuga di un detenuto dovuta a negligenza della
scorta o custodia, i superiori e i 4 soldati più anziani erano puniti con la
stessa pena comminata per il reato del detenuto.
In compenso il codice napoletano dimezzava a 3 anni di ferri la pena
per la resa individuale in combattimento e sostituiva la pena di morte
comminata dal draconiano codice del 1793 alla sentinella addormentata
agli avamposti e al comandante di posto per il cambio arbitrario della
consegna, con 2 anni di ferri nella prima fattispecie e 6 mesi di prigione
nella seconda. Riduceva inoltre a 1 anno di prigione, con degradazione,
la pena per percosse all’inferiore (allargando l’esimente alla legittima
difesa e all’intervento per impedire spoglio o saccheggio). L’assenza
all’adunata, punita dal codice francese con 3 mesi di prigione per tutti i
gradi e la radiazione in caso di recidiva, era punita da quello napoletano
con la prigione da 1 a 3 mesi a seconda del grado e con 2 anni di ferri in
caso di recidiva. La condanna ai ferri comportava la degradazione.
Non erano infine riprodotti nel codice napoletano l’art. 26 del francese
che autorizzava il generale in capo ad emanare bandi penali militari, né
gli artt. 18-23 relativi all’“imboscamento” (arruolamento sotto falso
nome del disertore da un altro corpo dell’armata) e alla responsabilità
dei commissari di guerra per omessa denuncia, abbandono di posto e
prevaricazione nell’esercizio delle sue funzioni amministrative (punita
con la morte se comprometteva la sicurezza dell’armata o i successi
delle sue operazioni di guerra).
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 57

L’alto tradimento e il codice dei delitti comuni commessi da militari


L’alto tradimento, il reclutamento e lo spionaggio a favore del nemico
erano previsti, e puniti con la morte, dagli artt. 77-91 del codice penale
ordinario, emanato con legge N. 43 del 20 maggio 1808: ne trattiamo nel
capitolo 30 [v. tomo III].
Le norme penali contenute in provvedimenti particolari, specie in
materia di diserzione e renitenza, nonché il mantenimento del foro
militare per i delitti comuni commessi da militari, mettevano i collegi
giudicanti, oltre tutto privi in genere di cognizioni giuridiche di base, in
gravi difficoltà. In un rapporto al re del gennaio 1812, il ministro della
guerra Tugny annunciava la prossima presentazione di un «code pénal
complet, tant pour l’armée de terre que pour l’armée de mer. Ce code
(était) réclamé par tous les chefs de corps, par tous les militaires amis de
l’ordre et de la discipline, surtout par les conseils de guerre et les
tribunaux militaires, trop souvent embarrassés dans le dédale des lois,
qu’ils sont obligés de consulter et qui en peu d’accord entre elles, faites
pour d’autre temps et d’autres lieux, sont aussi difficiles à bien
interpreter qu’à bien appliquer». Ciò che il ministro artigliere chiamava
codice era in realtà un testo unico; probabilmente si riferiva al Manuale
del capitano Lombardi, pubblicato appunto nel 1812, senza però alcun
crisma di ufficialità. Alla fine il ministro si accontentò di un decreto (N.
1256 del 27 febbraio 1812, da San Leucio) che, “volendo supplire alla
mancanza del codice per le nostre truppe, relativamente ai delitti
comuni, che commettonsi da’ militari”, dichiarò applicabile ai militari il
codice penale ordinario. Nel riprodurlo nel Manuale, Lombardi vi
appose la nota che il decreto non faceva «che confermare l’art. 22 del
titolo VIII del codice penale militare», il quale recitava: “ogni delitto
militare non preveduto dal presente codice, sarà punito conforme alle
leggi precedentemente emanate”.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 58

B. La procedura penale militare

I – Il procedimento nei delitti militari


(legge N. 140 del 3 giugno 1807)

La legge Cianciulli del 3 giugno 1807


Secondo il rapporto al re del 12 settembre 1806, dopo la conquista del
regno era stata provvisoriamente mantenuto l’ordinamento giudiziario
militare preesistente [i tribunali militari provinciali, il supremo consiglio
di guerra, composto di generali e magistrati, e perfino l’udienza di
guerra e casa reale, con nomina di un fiscale ancora nel marzo 1806], e
lo stesso codice penale militare borbonico, limitandosi a sopprimere la
pena delle “bacchette”, non in uso nell’esercito francese [v. Le Due
Sicilie nelle guerre napoleoniche, I, pp. 348-50]. Solo in seguito, su
progetto del ministro della giustizia Cianciulli, la procedura penale
militare fu riformata sul modello francese, con legge N. 140 del 3 giugno
1807 [Manuale, cit., I, pp. 93-118], in 89 articoli e 10 titoli: I tribunali
militari e loro competenza (1-5); II formazione dei consigli di guerra (6-
11); III (12), IV (13-14), V (15-17), VI (18-24), VII (25) composizioni
particolari dei consigli per il giudizio di ufficiali superiori e generali;
VIII procedura (26-58); X consigli di revisione (59-79); X consigli di
guerra e di revisione nelle piazze assediate (80-84); XI soldo dei membri
e spese dei tribunali militari (85-89).

La competenza dei tribunali militari


I tribunali militari comprendevano i consigli di guerra e i consigli di
revisione (dei processi di primo grado), permanenti presso le divisioni
militari dell’interno e temporanei presso quelle dell’armata attiva e nelle
piazze assediate. Erano sotto la loro giurisdizione esclusivamente i reati,
comuni o militari, commessi da soli militari in servizio effettivo e i reati
militari commessi dai civili equiparati: in caso di concorso di “pagani”
in reati commessi da militari o equiparati la cognizione spettava infatti
alla giustizia penale ordinaria. Come si vede, la legge limitava, senza
però abolirlo del tutto, l’antico privilegio del “foro militare”, ossia il
diritto dei militari di essere giudicati da tribunali militari anche per reati
comuni commessi contro civili.
In compenso, le categorie di civili soggetti alla giurisdizione militare
erano assai estese: oltre agli “individui attaccati all’armata o al di lei
seguito”, includevano infatti i reclutatori e gli “spioni” per conto del
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 59

nemico nonché in genere gli “abitanti dei paesi nemici occupati dalle
armate” [e quelli delle piazze e province dell’interno dichiarate in stato
di guerra]. Erano “individui attaccati all’armata” tutti gli addetti ai
servizi amministrativi (stati maggiori e intendenza), sanitari e logistici
(sussistenza, trasporti, casermaggio, maestranze reggimentali), alla leva
e coscrizione e all’esazione delle contribuzioni comunali, inclusi gli
incaricati municipali e gli agenti e impiegati dei fornitori.
Come diremo meglio nel capitolo 30 (tomo III), i cittadini del regno
erano inoltre soggetti alla giurisdizione speciale istituita con legge N.
131 dell’8 agosto 1806 (tribunali straordinari misti) e alle commissioni
militari istituite con decreti N. 116 e 125 del 14 e 31 luglio 1806 per
Napoli e le Calabrie in stato di guerra, e ancora nel 1809 (decreto N. 447
del 1° luglio). Abolite il 10 giugno 1810, le commissioni militari furono
ripristinate in Calabria, Basilicata e Abruzzo per la repressione del
brigantaggio e della carboneria, oltre che per casi particolari (evasione
dai lavori pubblici, contravvenzioni al cordone sanitario).

Composizione dei consigli di guerra e di revisione


I consigli di guerra [divisionali o marittimi] erano composti di 7
giudici (colonnello, tenente colonnello, 2 capitani, tenente, sottotenente
o gradi equivalenti della marina), quelli di revisione di 5 (generale,
colonnello, tenente colonnello, 2 capitani di almeno 36 anni di età e 6 di
servizio) e presieduti dal giudice di grado più elevato. Ai consigli di
guerra erano addetti 2 capitani, uno relatore senza voto e uno con
funzioni di procuratore regio, più un cancelliere scelto dal relatore. Nei
consigli di revisione le funzioni di relatore erano attribuite ad uno dei
giudici scelto dal presidente, che nominava inoltre il cancelliere: le
funzioni di procuratore erano svolte dall’intendente o sottointendente
addetto alla divisione.
Giudici, relatore e procuratore regio dovevano essere “assolutamente”
ufficiali in attività e non essere parenti o affini tra loro, né dell’accusato:
in tal caso dovevano essere rimpiazzati. Quelli dei consigli permanenti
erano destinati dal comandante la divisione; quelli dei consigli
temporanei (istituiti presso le divisioni attive e nelle piazze assediate),
dal comandante in capo dell’armata o della piazza. Il generale destinante
poteva rimpiazzarli in ogni momento, ma non dopo l’inizio di
un’istruttoria. La ricusazione dell’incarico, salvo che per comprovati
motivi di salute, era punita con tre mesi di arresti, comminati dallo stesso
consiglio.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 60

In caso di giudizio di ufficiali superiori o generali i due o i tre giudici


di grado inferiore del consiglio di guerra erano surrogati da parigrado o
superiori dell’accusato, e la presidenza assunta dal più elevato in grado
più anziano, il quale designava come relatore un tenente colonnello:
fungeva da procuratore l’intendente o sottointendente. I surrogati del
grado di generale erano destinati dal comandante in capo dell’armata fra
i più anziani, esclusi quelli della divisione o brigata dell’accusato. Il
consiglio di guerra per giudicare il comandante in capo era nominato dal
ministro fra i generali più anziani, quattro di divisione (di cui uno con
esperienza di generale in capo presidente) e tre di brigata. Norme
particolari erano previste per i consigli di guerra e di revisione nelle
piazze assediate (v. tabella).
Per le funzioni di giudice non spettava alcuna indennità, salvo il
cavallo e il foraggio per eventuali spostamenti agli ufficiali che già non
ne godessero in virtù del loro grado. Al relatore erano assegnati 4 ducati
al mese per spese di cancelleria e segreteria, e al cancelliere 3 ducati per
ciascun processo verbalizzato, incluse le copie e minute degli atti.

Composizione dei consigli di guerra e di revisione (Legge 140 del 3 giugno 1807)
Grado del reo Presidente Giudici * Relatore Procuratore
A. Consigli di guerra divisionali permanenti
da soldato Colonnello 1 TC, 2 capitani, 1 tenente, capitano * capitano *
a maggiore 1 sottotenente, 1 sottufficiale
Ten. Col., Col., Colonnello . 2 parigrado del reo ten. col. ** sottoint. *
Aiut. Com. 1 TC, 2 capitani, 1 tenente
Sottointendente Colonnello 2 SIM di 1a classe, 1 SIM di capitano * capitano *
2a classe, 1 TC, 2 capitani
Intendente Colonnello 1 Intendente, 2 SIM di 1a capitano * capitano *
classe, 1 TC, 2 capitani,
Gen. di Brig. o Div. (il Generale 3 generali parigrado °, ten. col. ** Intendente °
+ anziano) 1 colonnello, 1 TC, 2 capitani
Generale in capo Generale ^ 3 generali di div. e 3 di brig. ^ AC o col.** Intendente ^
B. Consigli di revisione divisionali permanenti
Tutti i gradi Generale * 1 colonnello, 1 TC, 2 capitani cancelliere Intendente o
(di cui uno relatore) * # ** SIM 1a cl. *
C. Consigli di guerra e di revisione nelle piazze assediate
Nominati dal comandante in capo tra gli U e SU della piazza. In caso di rinvio da parte del
consiglio di revisione, i membri del consiglio che ha emesso la prima sentenza non possono far
parete del secondo consiglio. Le copie legali degli atti indirizzate prima possibile dal presidente al
ministro della guerra.
Note
* Nominati e rimpiazzati dal generale comandante la Divisione. ** Destinato dal presidente della
commissione. ° destinati dal generale comandante l’Armata tra i più anziani, eccetto quelli della
Div. o Brigata del reo. ^ destinati dal ministro della guerra in ordine di anzianità di grado: il
presidente è il generale più elevato in grado più anziano. # per i giudici del consiglio di revisione
sono richiesti almeno 36 anni di età e 6 di effettivo servizio nelle armate di terra o di mare.
AC, Aiut. Com. = aiutante comandante. Brig. = Brigata. Cap. = capitano. Col. = colonnello. Cte =
comandante. Div. = Divisione- Int. = intendente militare. SIM = sottointendente militare. Stn =
sottotenente.. TC = tenente colonnello. Ten. = tenente.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 61

L’istruttoria (informazione) (artt. 26-37)


Il comandante superiore del luogo del delitto faceva mettere l’accusato
in stato di arresto e ordinava al relatore di procedere all’istruttoria.
Ricevute le eventuali querele formali delle parti lese e le deposizioni dei
testimoni e verificate le prove materiali, il relatore interrogava l’accusato
sulle sue generalità e sulle circostanze del reato presentandogli le prove.
In caso di pluralità degli accusati, gli interrogatori dovevano essere
condotti separatamente, ma verbalizzati nello stesso incarto. Il relatore
dava poi lettura del verbale invitando l’accusato a firmarlo: in caso di
incapacità o rifiuto, ne dava conto nel verbale, che firmava insieme al
cancelliere. Invitava infine l’accusato a scegliersi un difensore fra tutte
le classi di cittadini presenti sul luogo: se l’accusato dichiarava di non
poterlo fare, la designazione era fatta dal relatore, il quale comunicava al
difensore gli atti coi documenti favorevoli e contrari all’accusato. Non
erano però concessi termini a difesa: “in nessun caso il difensore poteva
ritardare la convocazione del consiglio di guerra”.

Il dibattimento (artt. 40-45)


Una volta riunito, il consiglio non poteva sciogliersi prima di aver
emesso la sentenza. Il dibattimento era pubblico, ma era vietato portare
armi, canne o bastoni, con facoltà del presidente di comminare ai
disturbatori fino a 15 giorni di arresti. La legge richiedeva, a pena di
nullità del processo, che il presidente facesse deporre sul tavolo una
copia della legge di procedura, facendolo constare dal verbale.
Fatta dare lettura degli atti istruttori dal relatore, il presidente faceva
introdurre l’accusato, libero senza ferri né scorta e con accanto il suo
difensore, e lo interrogava, invitandolo a rispondere anche alle domande
poste dai giudici: le risposte potevano essere date anche dal difensore.
La parte querelante, se presente, era ammessa al contraddittorio. Infine,
richiesto all’accusato e al difensore se avevano qualcosa da aggiungere,
il presidente faceva ritirare le parti, il relatore, il cancelliere e il
pubblico, restando in camera di consiglio solo il procuratore.

La formazione del giudizio (artt. 46-54)


A porte chiuse, il presidente formulava il quesito di colpevolezza
dell’accusato per lo specifico delitto e raccoglieva i voti cominciando dal
giudice di grado inferiore e terminando col suo. Per la condanna
occorrevano 5 voti su 7: su istanza del procuratore, il presidente leggeva
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 62

allora la pena prevista dal codice e raccoglieva i voti sull’applicazione:


se non si raggiungeva la maggioranza di 5, si adottava il parere più
favorevole all’accusato. Fatte riaprire le porte, il presidente leggeva ad
alta voce la sentenza e i relativi articoli del codice e applicava la pena
pronunziata dal consiglio: il verbale, redatto dal cancelliere, doveva
contenere la motivazione (“giudizio ragionato”) ed essere firmato dai
giudici e dal relatore e procuratore. In caso di assoluzione, la sentenza
disponeva il rilascio dell’accusato e la reintegrazione nelle sue funzioni.

La procedura di revisione (artt. 66-79)


La sentenza poteva essere impugnata entro 24 ore dal condannato, dal
querelante e dal procuratore, ma solo per i vizi di nullità previsti dall’art.
73: a) composizione del consiglio difforme dalla legge; b) incompetenza
eccepita dall’accusato riguardo alla qualità propria o a quella del delitto;
c) incompetenza propria dichiarata dal consiglio; d) inosservanza delle
forme prescritte: e) applicazione di una pena difforme dalla legge. Il
consiglio di revisione non poteva entrare nel merito. I giudici del
consiglio di guerra che aveva emesso la sentenza non potevano far parte
del consiglio investito della revisione.
Gli atti del consiglio di guerra dovevano essere trasmessi a quello di
revisione entro 24 ore dal ricorso. Il giudizio di revisione aveva luogo
immediatamente. I difensori delle parti, se si presentavano, erano
ammessi a fare le loro osservazioni dopo la lettura della relazione e poi
sulla requisitoria del procuratore. Il consiglio deliberava a porte chiuse a
maggioranza di 3 voti, motivando la decisione. In caso di conferma della
sentenza, rinviava gli atti al consiglio di guerra per l’esecuzione della
sentenza. Se annullava per incompetenza, inviava gli atti al tribunale
competente, negli altri casi al consiglio di guerra più vicino. Se anche la
seconda sentenza era impugnata per lo stesso gravame, la questione era
rimessa al re, che decideva in consiglio di stato. Il consiglio di stato
ritenne poi ammissibile un secondo ricorso al consiglio di revisione (e
un terzo giudizio di merito) se i vizi della seconda sentenza impugnata
erano diversi da quelli della prima (v. estratto del 30 aprile 1814).

L’esecuzione della condanna a morte e le spese di giudizio


Il relatore leggeva la sentenza all’accusato in presenza della scorta e
chiedeva all’ufficiale, in nome del consiglio, di predisporre l’esecuzione.
La sentenza di morte era eseguita entro 24 ore mediante fucilazione, con
le modalità stabilite da un decreto francese del 12 maggio 1793. Il reo
era condotto sul luogo da un picchetto di 50 uomini, di fronte alla truppa
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 63

schierata senz’armi, possibilmente del corpo di appartenenza, dal quale


era tratto anche il plotone d’esecuzione, formato da 4 sergenti, 4 caporali
e i 4 soldati più anziani, e schierato su due righe: il fuoco era comandato
da un aiutante, in presenza di uno dei giudici che avevano emesso la
condanna.
Entro tre giorni dall’esecuzione il relatore trasmetteva copia della
sentenza al reggimento del condannato per la cancellazione dai ruoli,
controruoli e stati di soldo, masse, forniture e deconto. Le minute erano
trascritte su un registro segnato e contrassegnato: le copie dei processi
erano inviate mensilmente al ministro, il quale, entro 15 giorni dalla
ricezione, comunicava le sentenze ai sindaci del comune di domicilio del
condannato per la comunicazione alle famiglie.
La legge N. 306 del 27 maggio 1809 stabilì che le spese di giudizio
(indennità di viaggio per i testimoni di 3 grana per miglio, di 6 carlini a
sessione per gli interpreti e di 24 carlini a processo per il cancelliere)
fossero anticipate dal corpo di appartenenza del reo.

II – La procedura per i delitti di diserzione

La procedura per diserzione (Supplemento al codice penale mil., tit. I)


Il titolo I (artt. 1-23) del Supplemento al codice penale militare
stabiliva una procedura abbreviata per i delitti di diserzione. Sotto pena
di 15 giorni d’arresto o altra maggiore a seconda delle circostanze, il
comandante d’armi, o di corpo o distaccamento era tenuto a denunziare
entro 24 ore i casi di diserzione: la denunzia (“ricorso”) doveva indicare
le generalità del disertore e il suo domicilio all’epoca dell’arruolamento,
ed essere trascritta in copia sul registro delle deliberazioni del consiglio
d’amministrazione del corpo. L’inoltro al relatore del consiglio di guerra
era però subordinato all’autorizzazione del comandante d’armi o del
generale di brigata, che poteva dichiarare il non luogo a procedere.
Ricevuto il ricorso, il relatore compiva l’istruttoria entro 3 giorni,
anche in contumacia del reo, raccogliendo le prove, interrogando il reo
se in stato di arresto, citando i testimoni e trascrivendo le deposizioni su
uno stesso quaderno, una di seguito all’altra, firmate dal cancelliere in
caso di incapacità o rifiuto del teste. In caso di diserzione multipla, si
doveva compilare un quaderno separato per ciascun imputato.
Se il consiglio riteneva incompleta l’istruttoria, poteva ordinare un
supplemento entro 48 ore. Se derubricava il fatto, assolveva il reo dal
delitto di diserzione e lo rinviava all’autorità competente per le sanzioni
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 64

disciplinari. Letti gli atti istruttori e sentiti l’accusato, se presente, poi i


testimoni, e infine le conclusioni del relatore e la replica dell’accusato, il
presidente formulava due quesiti (se la diserzione sussisteva e se era
avvenuta all’interno), in pubblica udienza e in presenza dell’accusato. Il
consiglio proseguiva poi a porte chiuse, presente il relatore: il presidente
raccoglieva i voti, per iscritto e firmati, cominciando dal grado inferiore.
La sentenza, adottata a maggioranza di 4, non era soggetta ad appello o
revisione: l’art. 22 si limitava a sancire il divieto, non sanzionabile, di
commutare o prevaricare la pena comminata dalla legge.

I consigli di guerra speciali per la diserzione (decreto 27 maggio 1809)


Recependo il sistema giudiziario francese stabilito con la legge del 19
vendemmiale XII (12 ottobre 1803), con decreto N. 377 del 27 maggio
1809 la cognizione dei delitti di diserzione dei sottufficiali e soldati e
delle reclute refrattarie disertate dal deposito di Gaeta fu devoluta a
consigli di guerra speciali composti da un ufficiale superiore, 4 capitani
e 2 tenenti. Le funzioni di relatore e commissario del governo erano
attribuite ad un ufficiale di SM o di gendarmeria del grado almeno di
tenente, quelle di cancelliere ad un sottufficiale. I consigli, nominati dal
comandante della piazza, si riunivano in casa del comandante e si
scioglievano dopo ciascun giudizio. I giudici erano designati a turno, la
sera prima della riunione, fra gli ufficiali della guarnigione, i quali non
potevano rifiutarsi se non per malattia o altro legittimo impedimento. Il
consiglio giudicava i soli delitti di diserzione, con le stesse procedure
prescritte per i consigli di guerra permanenti, e poteva irrogare le multe
stabilite dagli artt. 2 e 11 del decreto 13 febbraio 1809 (N. 282) e
dall’art. 2 del decreto 19 marzo 1809 (N. 320). Con decreto N. 740 del
22 settembre 1810 dal campo reale di Piale, si stabilì che in caso di
difformità della multa irrogata dalla misura prevista dalla legge 27
maggio 1809, la cifra fosse rettificata dal tribunale competente per
l’esecuzione, senza bisogno di rifare la sentenza. Ex-art. 14 del decreto
N. 793 del 16 novembre 1810, il giudizio dei favoreggiatori, ingaggiatori
o istigatori alla diserzione era attribuito ai consigli di guerra o ai
tribunali ordinari a seconda della qualità militare o civile del reo.

Abolizione dei giudizi in contumacia (D. N. 1774 del 21 maggio 1813)


Con un provvedimento di clemenza collegato all’amnistia del 18
marzo 1813 e alla recrudescenza della diserzione per il timore di essere
inviati in Germania, l’art. 1 del decreto N. 1774 del 21 maggio 1813
abolì il giudizio in contumacia e l’art. 3 sospese l’esazione delle multe
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 65

non ancora pagate quando fossero state comminate in contumacia. L’art.


5 consentì inoltre al consiglio, se lo riteneva a maggioranza dei voti, di
raccomandare il condannato a morte alla clemenza del re. In tal caso il
consiglio, tramite il comandante della provincia, doveva trasmettere
immediatamente al direttore generale delle riviste e della coscrizione una
copia della sentenza con l’annotazione dei motivi della sospensione della
sentenza: l’eventuale commutazione della pena nei ferri o nei lavori
pubblici a vita era decisa dal re su rapporto del ministro.

Commissioni militari per la diserzione dalle truppe attive (luglio 1813)


Il decreto N. 1846 del 18 luglio dichiarò tuttavia disertore al nemico
chi disertava dalle 5 divisioni poste sul piede di guerra e deferì il
giudizio degli arrestati a commissioni militari nominate dai comandanti
di divisione, con immediata esecuzione della sentenza. Con decreto N.
1851 del 22 luglio a tali commissioni fu attribuito anche il giudizio sui
fautori e complici, ancorché civili. Peraltro il decreto N. 1921 del 25
settembre confermò la giurisdizione dei consigli di guerra speciali per i
disertori dall’armata attiva che si presentavano spontaneamente: in tal
caso, anche se il decreto non lo diceva esplicitamente, il giudizio dei loro
fautori e complici civili doveva essere rimesso alle corti criminali
ordinarie. Infine, con decreto N. 1971 del 18 novembre, la giurisdizione
sui disertori dall’armata attiva fu interamente restituita ai consigli di
guerra speciali: erano però mantenute le commissioni militari divisionali
per giudicare i fautori e complici dei pertinaci. Queste ultime furono
abolite definitivamente il 14 febbraio 1814.

I consigli di guerra marittimi speciali (D. N. 1903 del 28 agosto 1813)


Con decreto N. 1903 del 28 agosto 1813, considerato che la
mobilitazione delle forze navali rendeva difficile la composizione dei
consigli permanenti e di revisione della marina, il giudizio sugli uomini
di mare in servizio nella reale marina fu provvisoriamente devoluto ai
consigli di guerra dell’armata di terra, tranne la diserzione, che, sempre
provvisoriamente, fu attribuita a consigli di guerra marittimi speciali.
Analoghi a quelli delle piazze terrestri, erano composti da un capitano di
vascello o di fregata presidente, 4 tenenti di vascello (di cui uno relatore
e commissario di governo), 2 alfieri e un agente contabile con funzioni
di segretario cancelliere. I membri erano nominati in Napoli e nel Golfo
dal direttore generale della marina, e in mare dall’ufficiale generale o
superiore comandante la squadra o la divisione. Questi ultimi, in
conformità dell’art. 7 della legge 5 germile XII (26 marzo 1804), si
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 66

tenevano a bordo del bastimento dal quale il reo aveva disertato. Se i


bastimenti erano nel porto, si tenevano a bordo della nave ammiraglia o
nel locale designato dal direttore generale.

III – Norme complementari

La grazia sovrana (legge 13 luglio 1807 e decreto 22 maggio 1809)


La legge N. 187 del 13 luglio 1807 prescrisse che le grazie di condono
e commutazione di pena fossero accordate dal re in consiglio privato,
composto dal ministro della giustizia, da altri due ministri, 2 consiglieri
di stato e 2 membri della corte i cassazione designati di volta in volta, su
rapporto del ministro della giustizia, e con l’assistenza del segretario di
stato incaricato della verbalizzazione.
Il decreto N. 372 del 22 maggio 1809 prescrisse che le domande di
grazia dovevano essere indirizzate al re e contenere la fedele esposizione
del delitto e delle sue circostanze, con l’indicazione della pena e della
corte che aveva emesso la sentenza. Potevano essere presentate anche da
parenti o amici del reo nonché in pendenza di un ricorso in cassazione.
In caso di concessione, il ministro della giustizia indirizzava la lettera di
grazia al procuratore del re presso la corte che aveva emesso la sentenza,
la quale si riuniva in udienza pubblica entro tre giorni dalla ricezione. Il
presidente dava lettura della lettera in presenza del graziato, che doveva
ascoltarla in piedi e a capo scoperto, e gli rivolgeva poi le ammonizioni
ritenute opportune. Su richiesta del procuratore, la corte ordinava la
trascrizione della lettera nei suoi registri e la sua annotazione a margine
della minuta di condanna. Se il graziato non era sotto custodia, la corte
doveva notificargli la concessione della grazia mediante affissione nel
comune di domicilio, con l’intimazione a presentarsi entro tre mesi pena
la decadenza dal beneficio. La grazia non pregiudicava in ogni caso i
diritti delle parti lese.

Il regolamento sulle prigioni militari (D. N. 160 del 12 agosto 1808)


Il regolamento per il servizio amministrativo delle prigioni militari,
emanato con decreto N. 160 del 12 agosto 1808, poneva a carico del
dipartimento della guerra esclusivamente la detenzione e la traduzione
dei detenuti in attesa di giudizio presso i consigli di guerra o le
commissioni militari (inclusi quindi i civili presi con le armi alla mano e
comunque soggetti a giurisdizione militare), mentre le spese di custodia
relative ai militari condannati erano a carico del ministero dell’interno. Il
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 67

regolamento si applicava comunque sia per la detenzione nelle carceri


istituite presso i consigli di guerra permanenti, sia per quella nelle
carceri comunali (in cui i detenuti sostavano durante la traduzione). Le
spese per la giornata di detenzione includevano una razione di pane nero
da munizione, 4 grana per il vitto, 0.89 kg di paglia e 7 calli pagati al
carceriere per diritti di giacitura e custodia (comprensivi della fornitura
di tini e boccali). Al detenuto spettavano 62 kg di paglia cambiati ogni
10 giorni (8 se la paglia era stata usata da altro detenuto). Il carceriere
era sotto la polizia del sottointendente militare incaricato e un gendarme
verificava ogni giorno il rispetto delle spettanze di vitto e paglia per
riferire al superiore gli eventuali abusi. Le spese, imputate alla massa di
accasermamento, erano liquidate sugli stati mensili del carceriere e
trimestrali del munizioniere del pane, previa verifica e rettifica dal
sottintendente e dall’intendente. Con decreto N. 1781 del 27 maggio
1813 le funzioni di custode delle prigioni furono riservate a militari in
ritiro, col godimento del soldo stabilito dal decreto 4 novembre 1809. In
attesa di essere sostituiti da costoro, i custodi in servizio continuavano
nel loro ufficio, ma con soldo ridotto, di lire 26 mensili per i custodi di
carceri provinciali e 17 per quelli delle distrettuali.

Norme sulla testimonianza di militari assenti


Il decreto N. 1143 del 28 novembre 1811 prescriveva ai relatori dei
consigli di guerra, di concerto coi presidenti, di limitare al minimo
indispensabile il ricorso alla testimonianza di militari, dato che per
ragioni di servizio risultavano spesso assenti. Se era ritenuta necessaria
la testimonianza e non anche il contraddittorio, consentiva inoltre di
escuterli per rogatoria, inviando al delegato (relatore di altro consiglio di
guerra, comandante del corpo, distaccamento o della provincia) l’elenco
dei quesiti, eventualmente con un “foglio di lumi” per “regolare
l’esaminatore a soggiungere altre domande” a seconda delle risposte.
Il decreto N. 2216 del 4 agosto 1814 prescrisse che i militari chiamati
a deporre in processi penali, non potessero essere chiamati fuori della
provincia in cui prestavano servizio, se non nei casi in cui la legge
richiedeva il contraddittorio o il confronto o la corte giudicava essenziale
e necessaria la deposizione orale dei militari. Negli altri casi l’escussione
del militare era delegata ad un magistrato della provincia in cui prestava
servizio.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 68

IV – Corti speciali e conflitti di giurisdizione

La giurisdizione penale per la guardia reale e la gendarmeria


In linea di principio la guardia reale e la gendarmeria erano soggette
alla giurisdizione militare comune, ma non mancarono deroghe e norme
speciali. Con decreto N. 873 del 27 gennaio 1810 fu stabilita una
commissione militare speciale e temporanea di 7 ufficiali, inclusi uno
superiore presidente e un relatore con voce deliberativa, nominati dal
capitano delle guardie, per giudicare i soldati della guardia reale accusati
di furto nelle abitazioni dei loro ufficiali, applicando ai rei e ai complici,
in conformità al decreto 31 ottobre 1809, le disposizioni della legge
francese 29 nevoso VI (18 gennaio 1798).
Con decreto N. 664 del 10 giugno 1810 l’abuso di forza commesso da
gendarmi o altri militari contro persone in arresto o in custodia imputate
di delitto non militare fu attribuito alle corti criminali ordinarie, ferma
restando la competenza dei consigli di guerra se l’offeso era imputato di
delitto militare, con obbligo di denuncia del fatto da parte del superiore e
di arresto dell’accusato da parte di ogni autorità militare o civile. Con
parere del 22 marzo 1811 il consiglio di stato approvò peraltro la
proposta del ministro della guerra di adottare la norma francese che in
tali casi subordinava l’azione penale contro l’accusato di abuso di forza
all’autorizzazione a procedere, rilasciata dal ministro della giustizia su
rapporto circostanziato del comandante generale della gendarmeria, e in
ogni caso dopo il giudizio definitivo dell’arrestato. L’art. 1 del decreto
N. 1072 del 12 settembre 1811 attribuì alle corti criminali ordinarie i
reati commessi da appartenenti al corpo di gendarmeria relativi ai servizi
di polizia giudiziaria e amministrativa, ferma restando la competenza del
foro militare se vi fosse concorso di reati militari (art. 2).

Le corti speciali miste (decreto N. 993 del 3 luglio 1810)


Con decreto N. 652 del 27 maggio 1810 Murat ristabilì il regime
costituzionale in tutta l’estensione del regno, abolì le commissioni
militari trasferendo le loro competenze alle corti speciali miste create col
decreto del 1° luglio 1806 e restituì l’alta polizia alle autorità civili. A
seguito di ciò, con o. d. g. del 28 maggio, il capo di SMG Grenier avvisò
i comandanti delle divisioni attive e territoriali che dal 1° giugno le loro
funzioni erano strettamente limitate agli aspetti militari e che le autorità
militari – con l’eccezione della polizia militare della piazza di Napoli e
della gendarmeria – non potevano più dare ordini alle autorità civili né
far arrestare alcun suddito del re.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 69

Con decreto N. 693 del 3 luglio 1810 da Scilla, le corti speciali furono
riorganizzate con 5 giudici criminali scelti dal ministro della giustizia e 3
militari del grado almeno di capitano nominati dal re su proposta del
ministro della guerra, ma soggetti per le loro funzioni alla vigilanza del
ministro della giustizia. La presenza dei 3 militari era sempre necessaria,
mentre il collegio poteva giudicare anche in assenza di 1 o 2 magistrati
civili. Questi ultimi erano suppliti a turno di legge, mentre i militari
erano scelti fra gli ufficiali di SM, della guarnigione, della gendarmeria e
anche della legione provinciale. Tutti i supplenti, magistrati e ufficiali,
erano chiamati dal presidente di concerto col procuratore generale. La
cassazione doveva decidere in 8 giorni i reclami sulla competenza delle
corti speciali.
Le corti procedevano con rito sommario, applicando per le cause di
brigantaggio le pene stabilite dal decreto 1° agosto 1809. Erano abolite
le istruzioni preliminari e i termini e giudizi preventivi per eccezione di
atti nulli e dei testimoni, da proporsi all’inizio del dibattimento, dove gli
ufficiali di polizia giudiziaria competenti istruivano direttamente gli atti
risultanti dalle indagini. Pubblico ministero e difesa avevano solo 24 ore
per la notifica reciproca dei testi e documenti: era nelle attribuzioni della
corte limitare i mezzi di prova della difesa, rigettando quelli ritenuti
irrilevanti e poteva dispensarsi dall’escussione dei testi se riteneva i fatti
sufficientemente provati.

Competenza del giudizio sui delitti dei militari (legge 4 agosto 1812)
La legge N. 1456 del 4 agosto 1812 disciplinò le competenze dei vari
tribunali per i delitti militari e i conflitti di giurisdizione, rinviando in via
generale alla legge del 3 giugno 1807 e attribuendo al foro militare
anche i delitti commessi da “pagani” nel recinto chiuso delle piazze in
stato d’assedio, i delitti commessi da militari in materia di coscrizione
(favoreggiamento di disertori e ingaggio a favore de nemico, puniti dal
decreto N. 793 del 16 novembre 1810) e gli omicidi, ferite e ingiurie tra
militari. Non godevano di alcun privilegio di foro i militari in congedo o
in riforma, gli ufficiali in disponibilità e i militari isolati anche in
commissione fuori dai limiti della guarnigione. [Con parere del 14
maggio 1813 il consiglio di stato assimilò ai militari isolati quelli che
abbandonavano le bandiere del distaccamento in missione: v. estratto N.
1873 del 24 luglio 1813]. Il foro militare non valeva neppure per le
contravvenzioni ai regolamenti sulla caccia (di competenza dei tribunali
correzionali) e per i delitti di competenza delle corti speciali, ancorché
commessi da militari sotto le bandiere e presenti ai loro corpi.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 70

La competenza era determinata in riferimento alla qualità di pagano o


di militare che l’accusato aveva al momento del delitto, senza tener
conto di successive variazioni. In caso di concorrenza tra delitti militari e
non, l’accusato era sottoposto anzitutto al processo militare e deferito al
tribunale civile se restava luogo a pena maggiore. I delitti comuni
commessi da più militari erano sempre deferiti al tribunale ordinario nel
caso in cui uno almeno di essi fosse privo del privilegio del foro. In caso
di calunnia o falsa testimonianza in un giudizio militare, il denunciante,
la parte civile o il testimonio pagano era deferito al tribunale ordinario,
dopo però la decisione definitiva del processo militare. L’autorità
militare doveva dare avviso al giudice di pace del circondario ed entro
24 ore anche al procuratore generale della provincia dell’arresto di
pagani per delitti ritenuti di propria competenza. Tranne il caso di
flagranza del reato, l’arresto di un militare su mandato dell’autorità
giudiziaria ordinaria doveva essere richiesto al comandante del corpo di
appartenenza, che era tenuto ad eseguirlo entro 24 ore.
I tribunali militari e ordinari potevano rivendicare reciprocamente la
propria competenza tramite i rispettivi procuratori e, con dichiarazione
all’altra autorità, sollevare formalmente il conflitto di giurisdizione: le
autorità giudiziarie inferiori ai consigli di guerra e alle corti criminali
potevano però farlo solo per il tramite dell’autorità superiore e del suo
procuratore. Gli atti erano rimessi alla cassazione per il tramite del
ministro della giustizia. In qualunque momento del giudizio, il tribunale
dichiarato competente dalla cassazione poteva, per fatti sopravvenuti,
dichiarare motivatamente la propria incompetenza e trasmettere gli atti
all’altra autorità. La turbativa dell’altrui giurisdizione con mezzi diversi
dal conflitto, era punita con la destituzione del magistrato civile o
militare, salve le pene per eccessi di maggiore gravità.

I conflitti di attribuzione e la giurisdizione sui legionari ordinari


Il decreto della reggente N. 1931 del 2 ottobre 1813 prescrisse che le
decisioni della corte di cassazione sui conflitti di giurisdizione e i ricorsi
contro le sentenze criminali, correzionali e di polizia fossero prese solo
sulla copia autentica della prova generica, sulle delibere motivate delle
autorità ricorrenti e sulle eventuali osservazioni dei pubblici ministeri,
senza esame degli atti istruttori, salvo il diritto della suprema corte di
domandare gli schiarimenti necessari.
In merito al conflitto di giurisdizione tra la corte criminale dell’Aquila
e il consiglio di guerra permanente della 3a Divisione militare, relativo
all’omicidio commesso da un legionario contro un detenuto affidato alla
sua custodia che aveva tentato la fuga, la cassazione riconobbe la
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 71

competenza del giudice ordinario, motivando che la legge organica sulle


legioni provinciali dell’8 novembre 1808 le aveva sottoposte al foro
militare per le sole mancanze disciplinari. La massima fu approvata dal
consiglio di stato (v. estratto del 10 maggio 1814); inoltre il decreto N.
2052 del 3 marzo 1814 stabilì formalmente che tutti i reati dei legionari
non appartenenti alle compagnie scelte, anche se commessi in servizio,
erano di competenza dei tribunali ordinari, salvo il foro militare per le
mancanze disciplinari contro il buon ordine del corpo e per i delitti
commessi quando si trovassero in attività di servizio militare per decreto
reale o per ordine di un generale a ciò specialmente delegato.

I consigli di guerra e di revisione di Roma (14 febbraio 1814)


Con decreti del 14 febbraio e 7 marzo 1814 da Bologna furono
nominati, per i soli dipartimenti di Roma e del Trasimeno, 2 consigli di
guerra e 1 di revisione composti, “il più che possibile”, da ufficiali tratti
dai corpi romani (SM del governo, battaglione veterani, gendarmeria e
guardia doganale e municipale): erano però napoletani i procuratori
(commissari di guerra) e il presidente del consiglio di revisione
(maresciallo di campo). Al ministro erano attribuite funzioni di gran
giudice e la presidenza della corte di cassazione provvisoria, formata dai
membri ordinari del consiglio generale e da 6 magistrati e articolata in
due sezioni, la I incaricata di giudicare l’ammissibilità dei ricorsi civili e
la II quelli ammessi, nonché l’ammissibilità e il merito dei ricorsi
militari. La corte poteva inoltre ripartirsi in corti di grazia, sempre
presiedute dal ministro e composte da 2 membri laici e 2 magistrati.
Furono però costituite anche in seguito commissioni militari e corti
speciali miste (4 magistrati e 3 militari); ad esempio a Fossombrone per
attentato alla sicurezza dello stato nei dipartimenti delle Marche (o. d. g.
del 14 giugno 1814).
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 72

C. Le norme sulla diserzione

I. Il “supplemento del 1807


La diserzione al nemico e la diserzione all’interno (tit. I e II CPM)
Il codice penale militare puniva con la morte la diserzione al nemico
(tit. I): erano equiparati l’aver oltrepassato i limiti del presidio allo scopo
di comunicare col nemico, l’uscita da una piazza assediata o investita,
l’abbandono di posto in presenza del nemico, l’incitazione a passare al
nemico anche se la diserzione non aveva luogo, con responsabilità del
più elevato in grado se non si scopriva il capo complotto. La diserzione
all’interno (tit. II) era invece punita con 5 anni di ferri, aumentati a 7 se
avvenuta da una piazza di prima linea o dall’armata, aggravata a 10
dall’abbandono di posto e a 15 dall’asportazione di armi e bagagli. Con
le stesse pene era punito il favoreggiamento da parte di militari, addetti
all’armata o abitanti del paese nemico, con 2 anni di ceppi se commesso
da “pagani”, aggravati a 2 anni di ferri in caso di asportazione di armi e
bagagli. Era reputato disertore all’interno chi mancava per 36 ore da una
piazza di prima linea, o oltrepassava i limiti del campo o della piazza
dalla parte opposta a quella del nemico o, trovandosi all’armata,
risultava mancante all’adunata o al contrappello.
La legge francese 19 vendemmiale XII (12 ottobre 1803) sulla
diserzione, in 78 articoli, graduava la pena per la diserzione dall’interno,
sostituendo alla pena dei ferri quelle del “trascinamento di una palla” da
cannone e dei lavori forzati. Come abbiamo già accennato, la legge fu
tradotta in italiano con modifiche e adattamenti e pubblicata come
“supplemento” al codice penale militare [testi nel Manuale, cit., I, pp.
24-52]. Il supplemento comprendeva 50 articoli riuniti in 10 titoli: I
procedura (11-15); II sentenza (16-23); III pene (24); IV pena di morte
(25); V pena della palla (26-30); VI pena dei lavori pubblici (31-32); VII
applicazione delle pene (33-40); VIII esecuzione della sentenza (41-45);
IX cessazione della pena (46-48); X lettura mensile delle norme (40-50).
Della procedura abbiamo già trattano nel paragrafo precedente.

Riformulazione delle fattispecie (supplemento al CPM, tit. VII)


Il titolo VII, sotto la fuorviante rubrica “applicazione delle pene”, in
realtà riformulava, articolandole e ampliandole, le fattispecie previste e
punite come diserzione. Erano puniti con la morte i disertori al nemico o
allo straniero, in servizio di sentinella o con asportazione di armi, i
capicomplotto e i condannati alla palla o lavori forzati rei di rivolta. La
rivelazione del complotto garantiva l’impunità. Erano puniti con 10 anni
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 73

di palla i disertori all’estero, i disertori all’interno recidivi o con asporto


di effetti del governo o dei camerati e gli evasi dai lavori pubblici, con
aumento di 2 anni per ciascuna aggravante (diserzione collettiva, in
servizio, da una piazza di prima linea o dall’armata, con scalata di
bastioni o asporto di effetti del corpo o dello stato). Era considerato
disertore all’estero il sottufficiale o comune che oltrepassava i confini o
era arrestato a 2 miglia da essi (salvo il caso che vi si trovasse il suo
domicilio). La diserzione all’interno era punita con 3 anni di lavori
pubblici, aumentati di due per ciascuna aggravante (diserzione collettiva,
da una piazza di prima linea o dall’armata, con scalata di mura o
bastioni).
In guerra era considerato disertore il sottufficiale o comune che
abbandonava il corpo senza permesso, o non rientrava dal congedo entro
8 giorni dalla scadenza senza giustificato motivo o restava assente per 24
ore dall’armata o piazza di guerra o per 48 in ogni altro luogo. In pace la
diserzione si consumava dopo 3 giorni d’assenza dal campo o piazza di
guerra e 8 dagli altri luoghi o 15 dal termine del congedo.
Per le reclute con meno di sei mesi di servizio i termini erano di 15 e
30 giorni, salvo il caso di diserzione collettiva, in servizio o con asporto
di uniforme. [Il beneficio fu esteso anche ai disertori dalle compagnie
provinciali in servizio nelle medesime da meno di sei mesi, con decreto
N. 1219 del 23 gennaio 1812].

La pena del trascinamento della palla (supplemento al CPM, tit. IV)


La pena di morte era eseguita per fucilazione nelle forme prescritte,
previa degradazione sotto le bandiere. La pena della palla – di 8 libbre
(kg 2.56), attaccata ad una catena di ferro di 8 palmi (m. 2,10) –
comportava la reclusione nelle piazze di Gaeta o Brindisi, con 8 ore di
lavoro al giorno d’inverno e 10 d’estate, trascorrendo il resto del tempo
incatenati in prigione. Per limitare la possibilità di fuga rendendoli
subito riconoscibili, erano prescritti lo stesso vestiario dei presidiari, ma
con zoccoli invece delle scarpe, la barba incolta e la rasatura del cranio e
dei baffi ogni 8 giorni: era considerato favoreggiamento procurare abiti o
rasoi. Le giornate di lavoro erano pagate la metà del salario medio dei
braccianti della provincia: un terzo era confiscato dal governo, un terzo
trattenuto per la liquidazione a fine pena e un terzo per il vitto ordinario.
Il tentativo di fuga era punito col raddoppio della pena o con l’aggiunta
di una seconda palla: la misura era irrogata direttamente dal comandante
della piazza, dandone però conto al superiore. I delitti più gravi erano
giudicati da una commissione militare composta dal comandante della
piazza, relatore, e dai 4 ufficiali più alti in grado e più anziani della
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 74

guarnigione. La commissione poteva condannare a morte, a doppia palla


o ad un aumento di pena, ma la sentenza doveva essere approvata dal
comandante della divisione. Scontata la pena, i condannati a doppia palla
erano tenuti a risiedere nel raggio di 10 miglia dalla capitale: l’obbligo
era trascritto nel cartellino rosso consegnato a tutti i condannati alla palla
all’atto della scarcerazione per fine pena. Avevano però l’opportunità di
essere amnistiati per buona condotta e incorporati di nuovo nell’esercito:
ogni anno, infatti, erano passati in rassegna da un ispettore ministeriale,
che segnalava al ministro quelli meritevoli di indulgenza, accordata dal
re su rapporto del ministro.

La pena dei lavori pubblici (titolo VI)


I condannati ai lavori pubblici, detenuti a Brindisi, erano impiegati in
lavori militari o civili secondo l’orario degli artigiani del paese. Come i
condannati alla palla, dovevano tenere il cranio rasato e la barba incolta,
ma a differenza di costoro conservavano i baffi e le scarpe, e abiti di
foggia militare, anche se di colore diverso da quelli della truppa; inoltre
erano liberi da ferri, salvo che fossero inflitti per misura correzionale.
Erano alloggiati in caserme separate da quelle delle truppe con la mezza
fornitura di letto, o in baracche vicine al posto dei lavori con gli utensili
d’accampamento.

Esemplarità della condanna e misure di sicurezza


L’esecuzione della condanna, anche a pena detentiva, aveva carattere
esemplare. La sentenza era letta davanti alle truppe schierate, in testa la
compagnia del reo, che, vestito dell’abito prescritto, ascoltava in piedi se
condannato ai lavori o in ginocchio, e bendato, se condannato alla palla.
Quest’ultimo era inoltre condotto in parata lungo lo schieramento,
mentre nel primo caso erano le truppe a dovergli sfilare davanti. Gli artt.
49 e 50 prescrivevano inoltre la lettura del regolamento, sia alle truppe
che ai condannati, ogni prima domenica del mese. Alla scarcerazione per
fine pena, restavano a disposizione del governo per 8 anni e l’obbligo
era iscritto nel certificato di liberazione, una cartolina bianca per i
condannati ai lavori, e una rossa per i condannati alla palla. Quest’ultima
doveva inoltre specificare se fossero o meno soggetti all’obbligo di
risiedere entro 10 miglia dalla capitale.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 75

Le norme francesi integrative


Erano applicabili nel regno, in virtù della generale recezione delle
leggi militari francesi, anche le norme complementari alla legge del 19
vendemmiale [Manuale, I, pp. 53-88], in particolare le Formule e
istruzioni per l’esecuzione del decreto 19 vendemmiale XII, compilate
dal ministro della guerra di Francia (A. Berthier, 22 glaciale XII = 14
dicembre 1803). La circolare conteneva 10 formule di atti processuali: I
querela di diserzione; II autorizzazione all’informazione del relatore o
III non luogo a procedere da parte del comandante divisionale; IV
chiamata del teste; V indennità per il teste e l’interprete; VI mandato di
pagamento per il cancelliere; VII informazione del relatore; VIII
interrogatorio; IX sentenza di condanna; X sentenza di assoluzione.
Valevano anche per i giudizi in contumacia, omettendo ovviamente
l’interrogatorio e tutto ciò che supponeva la presenza del reo, dando
espressa menzione della sua contumacia. Altre norme integrative erano:
a) una deliberazione del governo francese del 13 marzo 1804 che
escludeva l’aggravante dell’asporto d’armi se il reo aveva disertato con
la sola sciabola o baionetta in sua personale dotazione;
b) un rescritto del ministro Berthier del 6 giugno 1804 che riteneva
applicabile al disertore che avesse venduto le armi o gli effetti asportati
la maggior pena (5 anni di ferri) prevista dal CPM (III, 3) per la vendita
o l’impegno di armi, cavalli o vestiario militare;
c) un decreto imperiale del 30 settembre 1805 che puniva con la morte
il capo di un complotto per disertare o, se non era individuato, il militare
[o l’impiegato, se il complotto riguardava solo impiegati militarizzati] di
grado più elevato più anziano.

III. I provvedimenti del 1808-11

La prima amnistia generale del 16 settembre 1808


Con decreto N. 174 del 16 settembre 1808 furono amnistiati tutti i
militari che avevano disertato dal 17 febbraio 1806, inclusi i detenuti
non ancora condannati: i latitanti erano tenuti a presentarsi entro un
mese alle autorità provinciali o ai loro vecchi corpi, sotto pena di essere
dichiarati disertori al nemico e passibili di morte: la stessa pena era
comminata in caso di recidiva dopo aver fruito dell’amnistia.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 76

Disciplina dei disertori condannati (D. N. 376 del 27 maggio 1809)


Con decreto N. 376 del 27 maggio 1809 ai condannati alla palla fu
attribuito lo stesso regime dei “presidiari” (abbigliamento, obblighi di
lavoro, polizia). Le spettanze erano una razione di pane da 3 grana e 3
cavalli con ritenuta di 1 grano per massa vestiario, sottoveste e calzoni di
grosso panno di lana, berretto, 2 camicie di tela forte di canapa, 2 paia di
calze di lana, zoccoli e cappotto. Gli artt. 2-7 confermavano il regime
disciplinare e penale già stabilito dal supplemento al CPM, inclusi la
possibilità di amnistia annuale, l’obbligo di residenza presso la capitale
in caso di condanna a doppia palla o al raddoppio della detenzione, e la
commutazione della pena nei lavori pubblici in premio per la denuncia
di un complotto. Il titolo II (10-20) organizzava i condannati ai lavori
pubblici in reparti (“riunioni”) di 72 uomini su 6 sezioni di 12, incluso il
capo, preso tra i condannati e con trattamento particolare di 10 centesimi
al giorno. Il reparto era vigilato da una guardia di sicurezza e polizia
presa tra i bassi ufficiali e soldati degli zappatori o, i mancanza, nella
guarnigione. L’abbigliamento, somministrato dal consiglio di
amministrazione, era lo stesso dei condannati alla palla, ma con scarpe
chiodate invece di zoccoli, e si specificava che il berretto e il cappotto
dovevano essere di color grigio ferro scuro. Nei giorni di lavoro
mangiavano pane nero e legumi secchi: nei giorni festivi o di riposo (per
indisposizione o per maltempo) spettavano doppia razione di legumi e
3/5 della razione di carne per le truppe. La giornata di lavoro era pagata
un quarto in meno del salario dei braccianti del paese: un terzo era
confiscato per supplire alle spese di detenzione, un terzo impiegato per
migliorare il vitto e un terzo liquidato a fine pena. Era inoltre garantito il
ricovero ospedaliero. La rivelazione di un complotto era premiata con la
grazia. Le sanzioni disciplinari o di polizia erano comminate dal basso
ufficiale incaricato della vigilanza; i casi gravi erano sottoposti ad una
commissione composta dal comandante e da 4 ufficiali anziani della
piazza che poteva infliggere la morte, fino a 10 anni di palla oppure il
raddoppio dei lavori pubblici. Un incaricato del ministro passava riviste
mensili per segnalare i meritevoli di clemenza, amnistiati e incorporati di
nuovo nell’esercito.

Le multe per diserzione e renitenza (legge N. 306 del 27 maggio 1809)


L’art. del decreto N. 282 del 13 febbraio 1809 comminava ai veliti
refrattari una multa da 100 a 300 ducati, con responsabilità civile del
padre e della madre, e l’art. 11 la estendeva anche ai coscritti ordinari.
La legge N. 306 del 27 maggio estese la multa ai disertori e ai fautori e
complici della diserzione e renitenza, sempre con responsabilità civile di
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 77

entrambi i genitori, e stabilì le relative modalità di esazione e le spese di


reclutazione, incluse le spese di giudizio e la gratifica di 3 ducati ai
gendarmi e guardie civiche, campestri e di dogana per ogni arresto di
disertore o refrattario. Le multe erano da 50 a 300 ducati per il disertore
e il refrattario, da 100 a 400 per i pubblici funzionari che ostacolavano la
coscrizione o ritardavano la partenza delle reclute e da 300 a 500 per i
favoreggiatori, inclusi sanitari, agenti civili e militari che attestavano
falsi titoli di esenzione o riforma. Con decreto N. 1169 del 19 dicembre
1811 la misura delle multe fu stabilita in 1.500 lire. L’esazione fu
definitivamente sospesa con decreto del 18 giugno 1814.

Il deposito refrattari di Gaeta (D. N. 375 del 27 maggio 1809)


[Ripetiamo qui, per completezza di esposizione e comodità del lettore,
cose già anticipate nel capitolo sulla coscrizione.] Con decreto N. 375
dello stesso 27 maggio, fu stabilito in Gaeta un deposito refrattari,
comandato da un capitano e ordinato in compagnie di 160, inquadrate da
4 ufficiali e 10 sottufficiali distaccati a turno dalla guarnigione di Gaeta
o dalla DM di Capua. Il consiglio d’amministrazione, presieduto dal
comandante della piazza, fu poi disciplinato con regolamento del 28
settembre 1809.
I refrattari, riuniti in squadre di 10, incluso un caporale scelto tra di
essi dal comandante della piazza su 3 proposti dal capitano, dovevano
essere occupati tutti i giorni all’istruzione militare (separatamente dalle
altre truppe) o alla riparazione delle opere, senza compenso alcuno.
Vestiti con l’uniforme della fanteria, ma senza paramani, colletti e
risvolti, e con i capelli rasati, calzavano il berretto di polizia ed erano
armati di fucili senza baionetta. Sorvegliati da piantoni, ronde e pattuglie
fornite dalla guarnigione, e alloggiati in una caserma particolare, vi
restavano in perpetua consegna, uscendo solo in truppa per lavori,
esercizi e altri “travagli”, o accompagnati da un basso ufficiale.
Godevano del pane e del soldo del fuciliere di linea, ma il prest era
interamente trattenuto per la massa di biancheria e calzatura, le minute
spese e il vitto ordinario (per un importo di 4 grana e 6 “cavalli” pro
capite consegnati ogni cinquina al capo camerata). Ai refrattari era
garantito il ricovero in OM. Il regolamento sull’abbigliamento (decreto
N. 778 del 2 novembre 1810) stabiliva che il cappotto, abito, sottabito,
pantalone, berretto da polizia e buffetterie erano forniti dal magazzino in
natura. Il deposito non riceveva perciò la massa d’abbigliamento, ma
solo quella di mantenimento di 14 carlini per anno e per uomo,
aumentata con la vendita degli effetti dei morti e disertati.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 78

Le punizioni per le mancanze lievi, irrogate dagli ufficiali e sergenti,


erano le stesse previste per la linea, ma di durata maggiore. Le mancanze
gravi erano giudicate e punite a discrezione da un consiglio composto
dal comandante della piazza, dal capitano e da un tenente. L’assenza dal
deposito per oltre 24 ore era considerata diserzione e giudicata dal
consiglio di guerra speciale.
Il comandante della DM di Capua trasmetteva al ministro, con le sue
osservazioni, i rapporti delle riviste trimestrali d’ispezione passate da un
generale da lui delegato a verificare l’istruzione, condotta e tenuta di
ciascun refrattario, e due volte l’anno passava personalmente l’ispezione
del deposito per scegliere, sui rapporti trimestrali e quelli del capitano, i
refrattari ritenuti degni di essere incorporati, facendone rapporto al
ministro cui spettava ordinare l’invio al corpo.

Statistiche dei depositi di Napoli (presidiari) e Gaeta (refrattari)


Al 15 gennaio 1807 il deposito presidiari di Napoli aveva 232 effettivi;
comandante, custode, 17 capi e 213 “presidiari”, ossia condannati per ai
lavori pubblici o alla palla per reati diversi dalla diserzione, addetti al
servizio dei forti di Napoli o distaccati in altre piazzeforti. Gli effettivi
erano 237 il 9 settembre 1807, e 193 il 1° gennaio 1809, 243 il 1°
maggio, 225, 463 e 186 all’inizio del 1810, 1811 e 1812. I movimenti
del 1810 furono di 262 ingressi e 24 perdite (morti o disertati); nel 1811
di 240 ingressi e 517 perdite, in gran parte a seguito dell’amnistia del 15
aprile. Con circolare del 18 maggio 1811 ai presidiari dei depositi di
Napoli e Gaeta fu attribuita la razione stabilita dal regolamento del 22
agosto 1810 sulle prigioni militari.
I refrattari detenuti al deposito di Gaeta (inquadrato da un capitano e 3
subalterni) erano 64 il 1° dicembre 1810, 59 alla stessa data del 1811 e
278 un anno dopo. Gli ingressi furono 316 nel 1810 e 306 nel 1811, ma
nel 1810 vi furono 299 trasferimenti nella linea (per la Spagna) mentre
non ve ne furono affatto nel 1811. Le perdite per altra causa furono 22
nel 1810 (7 disertori, 7 condannati e 8 morti) e 87 (morti e disertori) nel
1811. Al 1° agosto 1813 i detenuti erano 71.

La punizione del favoreggiamento (D. N. 793 del 16 novembre 1810)


Le pene per il favoreggiamento della renitenza e della diserzione
furono stabilite con decreto N. 793 del 16 novembre 1810, che nel
preambolo dichiarava l’urgenza di mettere un freno al dilagare del
“facile asilo”, dell’“indulgenza colpevole”, dei “mezzi fraudolenti” e
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 79

degli ingaggi a favore del nemico, dei briganti o di estere potenze. Per
gli intendenti, sottintendenti, giudici di pace, sindaci e individui della
gendarmeria era sancito l’obbligo di ricerca e arresto, con “diligenti
perquisizioni” e rapporti quindicinali all’intendente e mensili al ministro.
Il semplice asilo era punito con il carcere da sei mesi a 2 anni a seconda
delle aggravanti; l’intralcio colposo alle operazioni di leva da parte di
militari, ecclesiastici funzionari o impiegati pubblici era punito con la
sospensione dalle funzioni; quello doloso con la destituzione salve le
pene per favoreggiamento e falso. L’estorsione di militare, legionario o
gendarme, con 2 anni di ferri, la “semplice scrocconeria in materia di
coscrizione” con la reclusione da 1 a 3 anni. La certificazione colposa di
false infermità era punita con 3 mesi di sospensione dal soldo; se era
fatta “per deferenza”, il sanitario era sospeso per tre anni dalle funzioni,
e per cinque in caso di corruzione, salve in ogni caso le maggiori pene
per il falso. I condannati per favoreggiamento erano inoltre obbligati in
solido al pagamento della multa imposta al disertore o renitente e ai suoi
genitori. La semplice istigazione alla diserzione era punita con 6 anni di
lavori pubblici, l’ingaggio per l’estero con 10 anni di palla, e quello per
il nemico o i briganti con la morte. Era considerato ingaggiatore chi, con
denaro o altri mezzi, tentava di persuadere un militare a disertare per
farlo passare al nemico, ai briganti o all’estero. Come si è accennato, la
cognizione era devoluta ai consigli di guerra o ai tribunali ordinari a
seconda della qualità, militare o civile, del reo.

Le norme sulla diserzione di amnistiati e trugliati (1810-11)


Con o. d. g. del 15 aprile 1810 il capo di SMG Grenier raccomandò ai
capi dei corpi e comandanti d’arma e di gendarmeria d’inviare sempre ai
consigli speciali, insieme con le querele di diserzione, anche i verbali
d’arresto, indispensabili per stabilire se l’arresto era avvenuto prima o
dopo la scadenza del termine di presentazione accordato dalle amnistie.
Con decisione del 30 giugno 1810, notificata con circolare ministeriale
dell’11 luglio, il re decise che la diserzione in una provincia infestata dai
briganti fosse considerata diserzione al nemico e punita con la morte. Il
decreto N. 750 del 15 ottobre 1810 vi equiparò anche la diserzione di
amnistiati o destinati al servizio militare per misura di polizia. Con
rescritto del 22 gennaio 1812 al comandante della piazza di Gaeta
(Caracciolo), il ministro Tugny chiarì che i briganti che si presentavano
non dovevano essere fucilati neppure se erano ex-militari, e che la pena
di morte doveva essere invece applicata a chi disertava in una provincia
tranquilla per passare in un’altra infestata o viceversa.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 80

L’amnistia per la nascita del Re di Roma (D. N. 944 del 15 aprile 1811)
In occasione della nascita del Re di Roma, con decreto N. 944 del 15
aprile 1811, fu concessa una completa amnistia ai refrattari e disertori,
sia contumaci che detenuti (se non prevenuti di altro delitto), ed ai loro
favoreggiatori (esclusi i reati di falso), con condono anche delle sanzioni
pecuniarie non riscosse. Il termine di presentazione era del 31 maggio,
prorogato al 30 giugno per chi si trovava all’estero. I comandanti delle
province erano incaricati di trasmettere al ministro le liste dei presentati.
I renitenti e ritardatari amnistiati erano reintegrati nei diritti della loro
classe, incluso il rimpiazzo: erano visitati e, se dichiarati idonei, inviati
all’armata (in deduzione del contingente provinciale o in soprannumero
se il contingente era già stato completato). I refrattari dei veliti e guardie
d’onore (che non avevano diritto al rimpiazzo) erano inviati al deposito
di Napoli. I coscritti omessi sulle liste subivano un sorteggio speciale. I
disertori amnistiati, salvo particolari disposizioni del ministro, erano
inviati ai corpi di appartenenza. I refrattari che dopo la presentazione
non si rendevano al loro destino erano condannai come disertori e i
disertori amnistiati che non raggiungevano i loro corpi, come recidivi.
Norme sulla renitenza alla leva di mare e la diserzione in marina
Con decreto N. 973 del 19 maggio 1811 le norme contro la renitenza
furono estese agli appartenenti all’ascrizione marittima: se non si
presentavano entro 3 giorni dalla chiamata, l’intendente doveva spedire
la denuncia, col rapporto del sindaco marittimo, al procuratore regio
presso il tribunale di prima istanza. Il termine era di 8 o 30 giorni per gli
assenti dal comune o dalla provincia: in caso di assenza al regno la
decisione era riservata al ministro. La chiamata doveva essere notificata
personalmente o alla famiglia nel domicilio di residenza e i condannati
erano destinati anch’essi al deposito refrattari di Gaeta. Con decreto N.
1144 del 28 novembre 1811 fu tuttavia concessa l’amnistia ai disertori
dell’ascrizione marittima e degli equipaggi, con obbligo di presentarsi
entro un mese (o due se si trovavano all’estero), sotto pena di essere
puniti come recidivi. Con decreto N. 1197 del 4 gennaio 1812 furono
estese alla marina le pene per i disertori recidivi dell’armata di terra
stabilite con decreto del 15 aprile 1811.

Le guarnigioni a domicilio a carico delle famiglie dei refrattari (1811)


Con decreti N. 1131 e 1132 del 25 ottobre 1811 furono emanate le
norme e le istruzioni ministeriali (in 6 titoli e 43 articoli) sulle
“guarnigioni a domicilio a carico delle famiglie de’ coscritti refrattari”.
L’invio dei militari a domicilio era ordinato dall’intendente, che ne
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 81

stabiliva il numero (fino ad un massimo di 4), ma il ritiro poteva essere


ordinato anche dal sottointendente ed era riservato al direttore generale
della coscrizione autorizzare la permanenza oltre un mese. L’invio
doveva essere preceduto da misure di persuasione e dalla pubblicazione
nel comune interessato, con 8 giorni di anticipo, della lista dei morosi.
Era obbligatorio se il numero dei morosi del comune superava 1/8 del
contingente, oppure se il comune dava ricetto a refrattari o disertori, se
aveva avuto difficoltà a fornire la quota nelle leve precedenti o se si
fossero verificati tumulti durante le operazioni di leva. L’intendente
poteva invece dispensarne i comuni in regola con le leve precedenti e
con basso numero di refrattari e le famiglie che non avevano in alcun
modo favorito “la disubbidienza de’ loro figli”.
Le famiglie erano tenute a fornire l’alloggio militare in natura e pagare
il soldo commisurato al grado (soldato 34 grana, caporale 39,
sottufficiale 50, ufficiale 78) nonché, trattandosi di truppa montata (da
inviarsi “in casa di quegl’individui la di cui disubbidienza sarà più
manifesta”), un’indennità di 44 grani per il mantenimento del cavallo. Il
soldo includeva una ritenuta di 11 grana per un fondo comune a
disposizione del direttore generale della coscrizione, impiegabile per
coprire il deficit provocato da famiglie in tutto o in parte insolventi. I
piantoni non potevano, sotto pena di concussione, esigere nient’altro
dalle famiglie ospitanti. All’arrivo del distaccamento, e in seguito ogni 5
giorni, si doveva intimare alla famiglia di depositare entro tre ore nelle
mani del sindaco l’importo del soldo e indennità anticipato per 5 giorni.
In caso di rifiuto l’usciere delegato dall’intendente provvedeva al
sequestro e alla vendita dei mobili ed effetti, con spese a carico della
famiglia. Durante la permanenza il distaccamento (di gendarmeria, linea
o guardie civiche) era impiegato alla ricerca dei refrattari e disertori. I
reclami di privati dovevamo essere indirizzati al sindaco e da questi
trasmessi al comandante del distaccamento per la soppressione degli
abusi e le eventuali punizioni. Il sindaco aveva il diritto di rifiutare il
rilascio del certificato di buona condotta, senza obbligo di informare il
comandante dei motivi, rendendone conto al sottointendente.

III. I provvedimenti del 1812-14

Il recupero dei renitenti e disertori (D. del 20 febbraio e 9 aprile 1812)


L’art. 7 del decreto N. 1250 del 20 febbraio 1812 da Caserta dichiarò
decaduti dal diritto al rimpiazzo i coscritti destinati a marciare per primi
per aver usato frodi per esimersi dal servizio militare. Con decreto N.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 82

1317 del 9 aprile 1812 i condannati per diserzione furono amnistiati e


incorporati nel reggimento provvisorio (poi 4° leggero) istituito a Capua
con decreto N. 1152 del 20 febbraio da San Leucio e reclutato fra i
detenuti comuni riconosciuti idonei al servizio militare.

La terza amnistia generale del 18 marzo 1813


Con decreto N. 1669 del 18 marzo 1813 i disertori che dopo essersi
presentati per fruire dell’amnistia non si rendevano al corpo di
destinazione erano puniti come recidivi, e i refrattari come disertori
semplici. Gli “addetti al servizio militare” come briganti amnistiati o per
misura di polizia che disertavano nuovamente dopo aver goduto
dell’indulto erano puniti come disertori al nemico. L’art. 4 del decreto N.
1774 del 21 maggio limitò tuttavia la maggiorazione di pena al periodo
di un anno dall’incorporazione. Inoltre il decreto N. 1746 del 3 maggio
da Portici prorogò il termine di presentazione al 15 maggio, e al 15
luglio per gli espatriati, eccettuando però i coscritti autolesionisti.

Le colonne mobili (decreti N. 1774 e 1775 del 21 maggio 1813)


I decreti N. 1774 e 1775 del 21 maggio 1813 sulla disciplina delle
colonne mobili per l’arresto di disertori e renitenti, prescrivevano ai
comandanti, sotto pena di 10 giorni di arresti, di spedire, entro 24 ore
dall’assenza, la filiazione del disertore al direttore generale delle riviste e
coscrizione, all’intendente della provincia di domicilio dell’assente,
nonché al generale comandante la gendarmeria e al posto di gendarmeria
più vicino. In ogni provincia si doveva organizzare una colonna mobile,
divisa in distaccamenti dislocati in modo da impedire l’esfiltrazione dei
latitanti. Erano raddoppiati il premio per la cattura e l’indennità per i
piantoni a domicilio, da suddividersi in parti uguali fra tutti i legionari
scelti e i gendarmi impiegati. Inoltre i comuni, distretti, circondari e
province erano tenuti a somministrare le informazioni e i mezzi per la
cattura e i rimpiazzi di tutti i latitanti che non fossero stati catturati entro
due mesi. Ai disertori e renitenti che non si presentavano entro un mese
dall’arrivo della colonna nel loro comune, erano estese le maggiori pene
previste dall’amnistia per i pertinaci: in compenso erano aboliti i giudizi
contumaciali e concesso al consiglio di guerra speciale di raccomandare
i condannati a morte la clemenza del re per la commutazione della pena
nei ferri o nei lavori pubblici a vita. I parroci dovevano dare pubblicità
per 3 festività consecutive alle disposizioni dei due decreti.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 83

La diserzione dall’armata attiva (D. 18 e 24 luglio e 25 settembre 1813)


Con decreto N. 1846 del 18 luglio 1813 le 4 divisioni attive e quella di
riserva composta dai terzi battaglioni furono dichiarate sul piede di
guerra e la diserzione da tali unità considerata pertanto diserzione al
nemico e punita con la morte, estesa ai favoreggiatori. Gli arrestati erano
giudicati entro 48 ore da commissioni militari nominate dal comandante
della divisione. Con decreto N. 1851 del 24 luglio alle commissioni fu
attribuito anche il giudizio sui fautori e complici, inclusi i civili, soggetti
perciò alla pena di morte. Con decreto N. 1921 del 25 settembre furono
esclusi dalle maggiori pene e dal giudizio delle commissioni divisionali i
disertori dall’armata attiva che si costituivano spontaneamente, giudicati
dai consigli di guerra speciali e puniti (come i loro fautori e complici)
con le pene comminate dalle leggi precedenti. Il decreto N. 1971 del 18
novembre diminuì di un grado le pene per i disertori – sia dall’armata
attiva che da quella dell’interno – che si costituivano spontaneamente,
ferma restando la morte per i disertori dall’armata attiva pertinaci e per i
loro complici e fautori.

La quarta amnistia del 12 maggio 1814 e le ammende ai sindaci


Nel tentativo di sostituire il reclutamento per coscrizione col recupero
dei disertori e refrattari, il 12 maggio 1814 Murat concesse una quarta
amnistia generale (decreto N. 2114); il termine era inizialmente stabilito
al 31 maggio, ma fu prorogato al 30 giugno e infine al 15 agosto con
decreti N. 2129 e 2160 del 2 giugno e 3 luglio. Diversamente dalle
precedenti amnistie, i pertinaci non incorrevano nella pena di morte
come recidivi, tranne gli amnistiati e gli addetti al servizio militare per
misura di polizia. I risultati dovettero essere ben scarsi se con decreto N.
2304 del 20 ottobre 1814 si comminò un’ammenda da 50 a 200 ducati, a
beneficio del denunciante, ai sindaci che omettevano di fare rapporto sui
disertori e renitenti dimoranti nel rispettivo comune. I sottointendenti
erano incaricati di richiedere d’ufficio ai sindaci che nel mese precedente
non avessero segnalato la presenza di ricercati per diserzione o renitenza
una formale dichiarazione di inesistenza, da valere poi come prova della
eventuale omissione.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 84

Tab. 401 – Leggi penali militari e di procedura penale militare (-diserzione e renit.)
Atto N° data Rubrica
1807
Decreto 08.0 Codice penale militare (adattamento del codice franc. 12 maggio 1793)
5
Legge 140 03.0 Sul procedimento nei delitti militari (consigli di guerra e di revisione)
6
Legge 187 13.0 Consiglio privato per le grazie e commutazioni di pena (generale)
7
1808
Legge 143 20.0 Codice penale – (titolo II – Sezioni I e II, artt. 77-91)
5
Decreto 160 12.0 Regolamento sul servizio amministrativo delle prigioni militari
8
1809
Decreto 372 22.0 Modo per chiedere la grazia di condono e commutazione di pena
5
Decreto 377 27.0 Consiglio di guerra speciale per i delitti di diserzione
5
Decreto 419 17.0 Amnistia e incorporazione dei sudditi che abbandonano il nemico
7
Decreto 425 27.0 Amnistia e incorporazione dei militari nemici rimasti a Ischia e Procida
7
1810
Decreto 873 27.0 Commissione militare per giudicare i soldati della GR accusati di furto
1
Decreto 652 27.0 Abolizione delle commissioni militari e ripristino del regime costituzion.
5
O. d. g. – 28.0 Restituzione dell’alta polizia alle autorità civili (capo di SMG Grenier)
5
Decreto 664 10.0 Giudizio dei gendarmi e altri militari per l’abuso di forza negli arresti
6
Decreto 693 03.0 Organizzazione e istruzione delle costi speciali (miste)
7
Decreto 793 16.11 Art. 14: cognizione dei reati di favoreggiamento alla diserzione
1811
Estratto 1184 11.05 Parere del consiglio di stato sui procedimenti per abuso di forza
O. d. g. – 19.0 Divieto di infliggere punizioni corporali (Capo di SMG Grenier)
6
Decreto 1072 12.0 Competenza sui reati degli appartenenti alla gendarmeria (art. 1 e 2)
9
Decreto 1143 28.11 Rogatoria di testimoni assenti nei procedimenti militari
1812
Legge 1456 04.0 Sulla competenza delle autorità per il giudizio dei delitti dei militari
8
Decreto 1256 27.0 Applicabilità del codice penale ai militari per delitti comuni
2
1813
Decreto 1774 21.0 Art. 1: abolizione del giudizio in contumacia per la diserzione
5
Decreto 1846 18.0 Commissioni militari per la diserzione dalle Divisioni mobilitate
7
Decreto 1851 22.0 Attribuzione alle commissioni militari del giudizio su fautori e complici
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 85

7
Estratto 1873 24.0 Parere del consiglio di stato sulla qualità di “militare isolato”
7
Decreto 1903 28.0 Giudizio provvisorio della gente di mare per delitti militari e diserzione
8
Decreto 1921 25.0 Competenza del consiglio di guerra speciale per i disertori costituitisi
9
Decreto 1931 02.1 Procedura nei conflitti di giurisdizione (decreto della Reggente)
0
Decreto 1971 18.11 Giudizio dei disertori dall’Armata attiva e pene per chi si presenta
1814
Decreto 2052 03.0 Competenze per i delitti commessi da legionari ordinari
3
Estratto 10.0 Parere del consiglio di stato sulla competenza per un delitto di legionario
5
Estratto 30.0 Parere del consiglio di stato sull’ammissibilità di 2° rinvio al consiglio
4
Decreto 2216 04.0 Disposizioni per l’escussione di militari testimoni nei giudizi penali
8
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 86

Tab. 402 – Legislazione napoletana sulla diserzione e la renitenza


Atto N° data Rubrica
1807
Decreto 08.0 Supplemento al codice penale militare – della diserzione
5
1808
Decreto 174 16.0 Amnistia (I) ai disertori dal 17 febbraio 1806 (termine di un mese)
9
1809
Decreto 282 13.0 Disposizioni contro i veliti refrattari
2
Decreto 320 19.0 Proroga di 15 giorni dell’amnistia e aumento delle pene ai pertinaci
3
Legge 306 27.0 Multe per diserzione e renitenza – spese di reclutazione
5
Decreto 375 27.0 Deposito delle reclute condannate come refrattarie
5
Decreto 306 27.0 Disciplina dei disertori condannati alla palla o ai lavori pubblici
5
Decreto 377 27.0 Consiglio di guerra speciale per i delitti di diserzione
5
Decreto 425 27.0 Amnistia e incorporazione dei sudditi al servizio nemico
7
1810
Legge 01.0 Amnistia per i veliti refrattari, con termine prorogato fino al 1° maggio
1
O. d. g. – 15.0 Invio ai consigli di guerra dei verbali d’arresto dei disertori (Grenier)
4
Circol. – 11.07 Sui disertori nelle province ove esistono briganti (ministro Daure)
Decreto 740 22.0 Difformità della multa irrogata dal disposto della legge 27 maggio 1809
9
Decreto 750 15.1 Diserzione di amnistiati o destinati al servizio militare per polizia
0
Decreto 778 02.11 Regolamento sull’abbigliamento dei coscritti refrattari
Decreto 793 16.11 Favoreggiamento della diserzione
1811
Decreto 944 15.0 Amnistia (II) per la nascita del Re di Roma (termine 30 maggio)
4
Decreto 973 19.0 Disertori e refrattari dell’Armata di mare
5
Decreto 1131 25.1 Regolamento sui militari a domicilio dei disertori e refrattari
0
Decreto 1132 25.1 Istruzioni relative
0
Decreto 1144 28.11 Amnistia ai disertori dell’ascrizione marittima (termine un mese)
Decreto 1169 19.1 Conversione in lire delle multe e gratifiche per l’arresto di disertori
2
1812
Decreto 1197 04.0 Estensione delle pene per la diserzione all’Armata di mare
1
Decreto 1219 23.0 Diserzione dalle compagnie provinciali scelte
1
Decreto 1250 20.0 Destinazione dei coscritti che hanno usato frodi per esimersi
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 87

2
Decreto 1252 20.0 Formazione di un altro reggimento sotto il nome di “provvisorio”
2
Decreto 1317 09.0 Amnistia e incorporazione di condannati per dis. nel Regg. provv.
4
1813
Decreto 1669 18.0 Amnistia (III) per i refrattari e disertori (termine di un mese)
3
Decreto 1746 09.0 Proroga del termine al 18 maggio
5
Decreto 1773 21.0 Organizzazione di colonne mobili per la cattura di disertori e refrattari
5
Decreto 1774 21.0 Pene contro i disertori (e abolizione del giudizio in contumacia)
5
Decreto 1793 03.0 Obbligo dei fratelli, benché esenti, di rimpiazzare i coscritti disertori
6
Decreto 1846 18.0 Misure relative alla diserzione dei militari delle 5 Divisioni mobilitate
7
Decreto 1851 22.0 Attribuzione alle commissioni militari del giudizio su fautori e complici
7
Decreto 1921 25.0 La presentazione volontaria esclude le pene comminate dal D. 18 luglio
9
Decreto 1971 18.11 Giudizio dei disertori dall’Armata attiva e pene per chi si presenta
1814
Decreto 2114 12.0 Amnistia (IV) per i disertori che si presentino entro il 31 maggio
5
Decreto 2129 02.0 Proroga del termine di presentazione al 30 giugno
6
Decreto 2160 03.0 Proroga del termine di presentazione al 15 agosto
7
Decreto 2304 20.1 Ammenda ai sindaci per omesso rapporto sui disertori e renitenti
0
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Appendice 1
Il comportamento delle truppe
francesi nel regno di Napoli

Le rappresaglie e le stragi del 1806: rinvio


Per il comportamento dei francesi nel Salernitano e in Basilicata e
Calabria durante la ritirata di Reynier e la spedizione di Masséna,
rinviamo il lettore al nostro Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche (t.
II, pp. 449 seg., con specchio delle 41 rappresaglie commesse nel 1806,
tab. 112 a p. 486).

Il comportamento dei generali francesi: rinvio


Circa le “dilapidazioni” di Masséna, il richiamo di Lechi, Rusca,
Franceschi, Frégéville e Zenardi e la buona fama di Partouneaux, v. cap.
1, §. A. Sulle estorsioni del commissario di guerra Severoli, sul rinvio in
Francia di commissari di guerra colpevoli di dilapidazioni a Cosenza e
Civitella e il trasferimento nelle prigioni di Mantova di 4 persone
innominate, accusate di imprecisati reati amministrativi a Reggio C.
[Giuseppe all’AC Dufresne, 19 aprile 1806] v. cap. 6, §. C.
Naturalmente abbondano gli attestati pubblici e i rapporti elogiativi,
non solo di Partouneaux [il re Giuseppe a Napoleone, da Barletta, 29
marzo 1807: G. all’interessato, 23 maggio 1807] e del suo capo di SM
Lamarre [G. a N., 29 marzo 1807], ma dello stesso Masséna [G. a N., 26
febbraio, 7 e 18 marzo 1806], di Espagne [Il Monitore, 23 settembre
1806], Reynier [G. a N., 7 marzo 1806], Donzelot [G. a N., 26 marzo
1807: «remarquable administrateur»], e ancora di Berthier, Cavaignac,
Digonnet, Goulus, Chavardès, Thomas, Detrès, Cappi, nonché di interi
reggimenti (4e e 6e chasseurs, 10e de ligne, 3° italiano ecc).

La disciplina della guarnigione di Napoli nel febbraio-aprile 1806


Il diarista De Nicola, pur di nostalgie ferdinandee, annotava il 17
febbraio 1806: «non si crederebbe che la nostra città abbia da tre giorni
ricevuto un’armata conquistatrice», tanto dimesso e tranquillo appariva
il comportamento dei francesi. Ma già il 19 aggiungeva che «nella notte,
truppe di cavalieri, nell’alto quartiere di Toledo, (avevano) insultato
delle donne, forzato porte e turbato il riposo pubblico». L’episodio è
confermato da una lettera di Giuseppe Bonaparte a Masséna [“non è
stata ancora eseguita la disposizione di far fare ronde notturne miste di
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 89

francesi e italiani: alle 10 di sera di ieri dei dragoni del 1er hanno rapito
una donna, maltrattato un uomo e forzato dei magazzini di vino: se non
la smettono, rispedire in Puglia il reggimento”]. Il 20 il diarista scriveva
che i francesi provocavano continui disordini «per questioni di donne e
scrocchi di pranzi». La sera, al mercato, ci furono schiamazzi nei locali
pubblici («tapages dans les cabarets»). Partouneaux, comandante della
guarnigione, riportò la disciplina con o. d. g. del 23 febbraio, che puniva
il mancato rientro in caserma dopo la ritirata, aumentava i contrappelli e
vietava agli esercenti di ammettere soldati nei locali pubblici dopo il
calar della notte. Era inoltre vietato pretendere la “tavola” dalle famiglie
presso le quali si era alloggiati e il 27 febbraio gli alloggi furono
ridistribuiti in modo da tenere gli ufficiali il più possibile vicini alle loro
compagnie. Ci volle comunque del tempo per ristabilire la disciplina: la
notte del 4/5 aprile, ad esempio, 2 soldati furono feriti da civili mentre
tentavano di introdursi in case private. Informatone, Giuseppe Bonaparte
reiterò l’ordine di tenere, di notte, i soldati chiusi in caserma.

Abusi e contrasti con le autorità civili in provincia


Gli abusi denunciati dalle autorità locali erano immancabilmente
coperti o scusati dai superiori, che accusavano a loro volta i denuncianti
di calunnia per malanimo o per depistare dalle proprie mancanze. Così
ad esempio Dulauloy difese gli ufficiali dell’equipaggio da ponte che
avevano preso a piattonate il sindaco di Roccasecca: se le era meritate,
secondo il generale, perché non collaborava a trovare i traini rallentando
a bella posta la marcia del convoglio. Anche Frégéville difese Zenardi in
un suo contrasto col sindaco di Foggia: invitato a punirlo, gli dette solo
15 giorni di arresti per «légèreté de conduite» (marzo 1807). Solo nei
casi davvero gravi si arrivava alla destituzione del comandante: avvenne,
ad esempio, nel dicembre 1806 a Bonati (Salerno), per maltrattamento
del sindaco, arresti arbitrari ed estorsioni. Ma le cose venivano fuori solo
per improvvise rotture dell’omertà, come, ad esempio, nel luglio 1807,
quando i comandanti della colonna mobile in Puglia, Goriz e Franceschi,
si accusarono reciprocamente di violenze ed estorsioni. Impunite erano
sempre le contribuzioni arbitrarie imposte dai comandanti [ad esempio
nel giugno 1806 nella provincia di Chieti, in dicembre a Camerota e a
Contursi, dove una pattuglia di 12 cacciatori pretese 100 ducati]. In linea
di principio erano vietate, ma con la scusa dell’urgenza venivano di fatto
consentite.
Partouneaux era sicuramente più severo della media, ma anche a lui
veniva più facile se i responsabili non erano nazionali. Il 23 febbraio
1807 scriveva a Lamarque che «beaucoup, mais beaucoup de saloperies
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 90

(avaient) été commises dans la vallée de Sulmone»; chiese la punizione


del colonnello del 3° italiano Daniele Zannini, poi fece destituire
Durand, aiutante di piazza a Pescara, e arrestare Ricci, comandante della
Valle. Ma nel maggio 1807, il capitano italiano Casolini, comandante del
forte di Civitella del Tronto e in arretrato di otto mesi di soldo, chiamava
a testimoni Senofonte, Turpin [de Crissé], Folard, Polibio e
Montecuccoli che «alle truppe non pagate bisogna consentire qualche
disordine, per evitarne di maggiori».

Appendice 2
Il comportamento delle truppe napoletane
in patria e nell’Italia centrale

Omicidio, furto, rapina, saccheggio, stupro


Sul comportamento delle truppe napoletane in Spagna, e sulla loro
fama, non del tutto meritata, di “saccheggiatori”, rinviamo il lettore al
capitolo 14 (t. II). Le memorie del generale Bigarré, comandante del 1° e
poi del 2° di linea prima del loro invio in Spagna, descrivono, non senza
qualche pennellata caricaturale, le reazioni attonite dei babbei svizzeri e
quelle furiose dei cittadini mantovani nel vedersi borseggiati di fazzoletti
e orologi e le universali proteste dei contadini al passaggio dei galeotti
arruolati nei due reggimenti. Il colonnello ricorreva abbondantemente
alle nerbate e ciavattate [“donner la savate”, ossia far passare il reo fra
due file di camerati che dovevano prenderlo a scarpate], ma nelle
memorie riconosceva che non servivano a niente, e che l’unico rimedio
relativamente efficace era di far pagare a tutta la compagnia i danni e il
valore degli effetti rubati o rapinati. Che poi queste somme fossero
realmente rimborsate ai danneggiati, o non finissero invece nelle tasche
di chi aveva maneggio di denaro, sarebbe tutto da dimostrare.
Gabriele Pepe testimonia la fucilazione, in Provenza, di un soldato del
1° di linea per omicidio. Furono invece concesse le attenuati, a quanto
pare, ad un sergente dei cannonieri di marina che il 5 settembre 1807, a
Napoli, aveva sgozzato l’amante nell’asserito timore che potesse rivelare
“compromettenti notizie politiche”. Nel novembre 1807 il 1° consiglio di
guerra permanente di Napoli (composto di sei ufficiali francesi e del
capitano Riva, della guardia reale) condannò in contumacia a 10 anni di
prigione, per omicidio, 2 operai della sala d’armi. Condannò inoltre a 2
anni un tenente della civica di Napoli, reo di estorsioni e vessazioni, e a
soli 6 mesi, uno della civica di Sessa, per estorsioni, vessazioni e stupro,
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 91

assolvendo due suoi colleghi. Ad entrambi i condannati comminò inoltre


la destituzione dall’incarico, con l’obbligo di risarcire le vittime.
Nell’aprile-maggio 1810 il consiglio di guerra permanente della
marina condannò a 2 anni di ferri un custode di marina per l’evasione di
due forzati e a 20 anni, per omicidio, un soldato del battaglione: assolse
invece un altro soldato accusato di complicità e ancora uno accusato di
rissa. Tra i 166 condannati o detenuti in attesa di giudizio c’erano 30
ufficiali e cadetti e 33 guardie reali. In dicembre furono consegnati alla
giustizia civile 9 cannonieri litorali di Trani e Barletta che avevano
gravemente maltrattato e mano armata marinai del Regno d’Italia. Il
Giornale del dipartimento del Metauro dette notizia che il 18 ottobre
1814 un artigliere era stato condannato a 5 anni di ferri per essersi
impegnato parte del vestiario di cotone bianco di un camerata.

La testimonianza dei cronisti di Macerata, Lucca, Loreto e Modena


Annotando il passaggio per Macerata, il 4 gennaio 1814, di 2.000 fanti
napoletani, il cronista Salvatore Tartuferi annotò: «che si dicono essere
lazzaroni»: si trattava con ogni probabilità del 6° di linea “Real Napoli”,
reclutato in origine nella capitale, ma non solo nei famigerati lazzari.
«Questa truppa [il 6°] commise molte iniquità con le donne e rubarono
molti fazzoletti», aggiunse il 13 giugno. Così anche, generalizzando, il
lucchese Sardini: «e siccome erano napoletani, esercitavano a meraviglia
l’arte di rubare» (22 maggio). A Loreto, secondo il parroco Murri, i
soldati tentarono di portarsi via le statue di bronzo della piazza del
santuario.
E’ però soprattutto la cronaca modenese di Antonio Rovatti a dare
particolari sul comportamento dei napoletani. I contadini non venivano
più al mercato nel timore di essere derubati dai soldati (11 febbraio) e
protestavano per le rapine e percosse dei soldati (12 marzo). Il comune
rivolse una supplica a Murat per far revocare il permesso, accordato dal
comando napoletano di aprire una bisca riservata agli ufficiali, causa di
gravissimi disordini (18 marzo); e accordò un alloggio alle meretrici che
si erano rivolte alla polizia denunciando percosse, brutalità e minacce
dei militari (31 marzo).
Tartuferi scrive che il 4 maggio 1815, dopo la sconfitta di Tolentino, i
napoletani in fuga rubarono polli, bovi, agnelli, panni, ori, formaggio e
ammazzarono delle persone verso Scarrocciano: «insomma non vi fu
casa che non venisse saccheggiata». Aggiunge però che il giorno dopo fu
la volta degli austriaci [di Neipperg], accampati in 12.000 con 2.000
cavalli a Santa Croce e lungo la strada delle Tre Porte fino a tutte le
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mura di San Lorenzo. Nei poderi lungo le mura furono tagliati 200
alberi, i cavalli mangiarono il grano, i soldati saccheggiarono le case e la
cantina del convento di Santa Croce, rubando vino, pane, farina, maiali,
salumi, grano e granturco, e il 6 partirono per Tolentino «con aver
lasciato un lutto generale presso li contadini». Pur non riconoscendosi
una responsabilità civile dello stato per i delitti commessi da militari, è
testimoniato (dal Monitore del 2 marzo 1814) i almeno un caso di
indennizzo (300 lire) alla famiglia di un civile (Domenico Di Napoli),
«ferito mortalmente all’occasione del passaggio delle nostre truppe per
la città di Spoleto».

Ammutinamenti
Gli ammutinamenti si verificarono soprattutto nei corpi stranieri o
speciali. Ne scoppiò uno a Napoli, all’inizio del 1807, tra gli “africani”
che reclamavano la paga, e che contagiò anche i corsi, di passaggio nella
capitale. Si ammutinarono anche due compagnie franche, una abruzzese
(il 14 marzo 1807 a Teramo) e una calabrese (maggio 1808, a Salerno).
L’episodio più grave, avvenuto il 10-11 marzo 1814 a Castellammare,
riguardò tuttavia ancora i corsi, e si concluse col rimpatrio di 750 tra
militari e civili [v. t. II, capitolo 17]. Si ammutinò ad Alessandria, nel
maggio 1814, anche il battaglione dei reduci dalla Spagna. Il 12 maggio
1815, all’ordine di partire per Capua, si ammutinarono a Napoli le
guardie prefettizie di Salerno, asserragliate nel quartiere SS. Apostoli,
assaltato il 13 dalla guardia di sicurezza. Il 31 maggio si ammutinarono
infine a Gaeta il deposito del 10° di linea e i legionari scelti campani. Il
26 giugno, infine, fu scoperto, sempre a Gaeta, un complotto ordito da
zappatori e soldati del treno.

Risse tra corpi militari e coi civili a Napoli


Il diario napoletano di De Nicola segnala in più occasioni gigantesche
risse e faide tra differenti corpi militari di stanza nella capitale. Le più
gravi avvennero nel 1809 tra veliti a piedi e fucilieri (11, 16 e 31 maggio
e 27 novembre, quest’ultima nel palazzo in cui erano esposte le spoglie
di Saliceti) e nel 1811 tra guardia reale e 5° di linea (16 luglio, con
assalti sistematici ai corpi di guardia dei “cocuzzielli” calabresi e 40
morti e feriti). Una minore, tra cannonieri e linea, il 10 giugno 1811 (al
quartiere Monte Oliveto). Altre assai gravi ve ne furono nel 1813 tra
guardia reale e civici (11 aprile, 30 giugno, con tentativo di assalto al
corpo di guardia, spari e 2 o 3 morti fra gli assalitori), tra veliti e linea
(primi di luglio), tra linea e civili a Soccavo (14-18 luglio, con feriti, per
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 93

furto di frutta). E ancora nel 1814 tra corsi e popolani a Borgo Loreto
(15 aprile, con morti), tra reduci da Danzica al quartiere Ponte (10 agost,
con 20 morti), tra veliti e guardie d’onore (27 ottobre, con feriti); e nel
1815, tra civici e cannonieri di marina (3 aprile).
Gli incidenti erano suscitati da provocazioni e sfide, o dall’intervento
dei civici per impedire gravi reati, come aggressioni alle donne e
ferimenti di civili, oppure alla reazione della popolazione contro i furti e
le aggressioni dei soldati, specie nell’estate-autunno del 1813, quando le
truppe furono accampata sulle colline da Capodimonte a Posillipo per
sottrarle all’epidemia (anche di tracoma) scoppiata in aprile-maggio al
campo di Capodichino. Il 22 novembre De Nicola annotava con sollievo
la definitiva partenza di «questi incomodi ospiti, che dopo aver
saccheggiata la campagna di frutta nell’està, di uva nell’autunno, ora la
stavano spogliando di legna per farne fuoco. Gli ufficiali poi vi
andavano disseminando il loro libertinaggio e debosciando tutte le
figliole che potevano avere tra le mani».

La tolleranza del re
Il diarista sottolineava, il 1° giugno 1809, che il re sembrava non
darsene peso, anzi apprezzasse questa aggressività. In effetti non pare
che, nonostante i morti, vi siano mai state conseguenze giudiziarie né
disciplinari a carico degli ufficiali che, invece di impedire le violenze, le
tolleravano o addirittura le incoraggiavano e perfino capeggiavano. Il 27
agosto 1809 una ventina di ufficiali della guardia, capeggiati da un
maggiore, irruppero in un commissariato di polizia e sequestrarono un
funzionario che giorni prima aveva arrestato un loro collega mentre, in
borghese, maltrattava una signora: il funzionario fu portato a forza in un
caffè dirimpetto al Palazzo Reale e percosso per essersi rifiutato di
chiedere scusa. Murat scrisse al capitano della guardia di turno e al
ministro della polizia di mettere agli arresti tutte le persone coinvolte,
poi promosse l’ispettore commissario, degradò l’ufficiale arrestato e
retrocesse di un grado i più scalmanati, spedendoli tutti alla Grande
Armée, ma li salvò dalle sanzioni ben più gravi previste dalla legge. Il 20
maggio 1810 il re graziò 4 veliti a cavallo della guardia condannati a 12
anni di prigione per aver liberato a viva forza un camerata arrestato,
rinviandoli al corpo senza ulteriori sanzioni. Pochi giorni dopo graziò
altri 10 individui della guardia condannati ai ferri, sanzionati comunque
col trasferimento nel Real Africano.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 94

Il divieto di punizioni corporali (11 giugno 1811)


Con o. d. g. del 19 giugno 1811 il capo di SMG Grenier rese noto il
biasimo del re perché vari capi di corpo si erano permessi d’infliggere ai
subordinati punizioni arbitrarie contrarie al regolamento, come colpi di
bastone e altre pene corporali. Per l’avvenire tali punizioni erano
assolutamente proscritte. «Il soldato napoletano – proseguiva Grenier –
dev’essere trattato come il soldato francese e l’onore deve essere la sola
sua guida: egli non può divenire buono, che per sentimento, mentre al
contrario i colpi di bastone, o altre pene corporali avviliscono sia lui, sia
chi le ordina». Si ordinava perciò sai generali «d’invigilare con tutta la
severità acciò che nei circondari del loro comando non s’infliggano ai
militari altre punizioni che quelle prescritte dai regolamenti».
Con circolare del 18 dicembre 1811 ai capi dei corpi, il ministro li
informò che per volere del re i sottufficiali non potevano essere destituiti
dal grado se non su rapporto scritto del capitano, da trasmettersi in copia
al ministro e da trascriversi nei registri del corpo.

Duelli
Benché proibiti, i duelli erano tollerati e imperversavano, non solo per
questioni private di gioco e di donne, ma anche per questioni di servizio,
o di precedenza, o per l’“onore nazionale”. Nel febbraio 1807, a Capua,
il capitano Gabriele Pepe, dei granatieri del 1° di linea, ebbe tre mesi di
arresti per aver sfidato il maggiore Pégot. L’8 aprile 1809 il capitano
della guardia Decoquevilliers uccise alla pistola, alle Grotte di Posillipo,
il tenente dei corsi Giuseppe Zerbi [incaricato dal suo comandante di
consegnare di persona un dispaccio al re, Zerbi era stato schiaffeggiato
da Decoquevilliers, il quale, di guardia al Palazzo Reale, pretendeva di
impedirgli l’accesso]. Lo stesso anno C. Filangieri fu rimpatriato dalla
Spagna per aver ucciso in duello il milanese Franceschi Losio, generale
di brigata francese e scudiero del re Giuseppe, che si era permesso
spezzanti giudizi sui napoletani. Numerosi duelli in difesa dell’onore
nazionale si ebbero nell’aprile 1811 a seguito della sorpresa di Figueras,
imputata dai francesi e dagli italiani all’inettitudine e alla viltà dei
napoletani (in gran parte convalescenti) che si trovavano nel forte.
La mania dei duelli si diffuse però anche nella capitale, soprattutto tra
veliti e guardie d’onore, come testimonia De Nicola nell’agosto 1809, il
quale registra al 30 settembre l’uccisione in duello, a Napoli e Aversa, di
2 ufficiali della guardia. Il 26 maggio 1810, a Nocera, il maggiore Costa
fu ferito ad un braccio da Rossarol; era l’undicesimo duello in un mese e
si era svolto con la spada non essendo stata permessa la pistola. I duelli
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 95

avevano luogo anche fra sottufficiali e soldati. Il 6 giugno 1811 un


sergente dei veliti uccise in duello un parigrado francese che aveva
maltrattato una donna. Nel giugno 1812, a Verona, Pellegrino Lise del 5°
di linea sfidò il sergente maggiore della sua compagnia.

Appendice 3
Cronache della diserzione

La diserzione per imboscamento


Anche nelle armate napoletane troviamo ovviamente i due tipi di
diserzione caratteristici del periodo napoleonico, in cui alla diserzione
organizzata tipica degli eserciti mercenari dell’antico regime, si era
aggiunta quella individuale dei coscritti “pigliati a forza”. Formata dalla
riunione di corpi di origine e reclutamento eterogeneo, l’armata di terra
napoletana presenta un alto tasso di “imboscamenti” (embauchages),
cioè il dirottamento clandestino di militari, e soprattutto reclute, da un
corpo all’altro dello stesso esercito ovvero a spese di un esercito alleato.
La pratica, organizzata dagli stessi capi di corpo per completare gli
organici e assicurare le promozioni agli ufficiali e sottufficiali a spese
dei colleghi di un altro corpo, non era considerata diserzione ed era
anche tollerata o addirittura incoraggiata dal sovrano se avveniva a spese
dell’alleato. Con o. d. g. del 16 aprile 1807 il capo di SMG napoletano
dispose un’ispezione generale per il 1° maggio, per identificare in ogni
corpo i militari arruolati sotto falso nome e rispedirli ai reggimenti di
origine, ammonendo che gli ufficiali responsabili ne avrebbero “reso
conto”. Il 24 marzo 1809 la festa delle bandiere [t. III, cap. 26] fu turbata
da un alterco tra i colonnelli dei veliti della guardia e del 10e de ligne
che, durante la rassegna ai Granili aveva riconosciuto tra i veliti alcuni
disertori del suo reggimento e, chiamatili per nome, li aveva fatti uscire
dai ranghi. La questione era grave, perché i veliti dovevano essere tratti
dalla “classe dei proprietari” benestanti; premeva però pure al re mettere
insieme in ogni modo il reggimento che non riusciva a reclutare. Così, il
30 marzo, decise di tenere nei veliti i sostituti (sia pure ordinando al
comandante di farli processare e punire in via correzionale) e di far
servire nella linea coloro che li avevano pagati per farsi sostituire.
Diverso era il caso dei cavalleggeri e altri corpi stranieri della guardia
reale: irritato per il mancato invio dei 500 coscritti francesi promessigli
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 96

dall’imperatore, Murat si rifece con almeno 977 imboscati tratti in gran


parte dalle reclute destinate ai 3 reggimenti esteri dell’Armée de Naples,
costringendo lo stesso Napoleone, dopo un cartaceo quanto estenuante
braccio di ferro, ad accettare il fatto compiuto, salvo un indennizzo al
1er suisse, per i premi d’ingaggio pagati direttamente dalla cassa del
reggimento [t. II, cap. 12, par. C].

La diserzione per ingaggio o cattura


L’ingaggio a favore di stati esteri, punito, come si è detto, con 10 anni
di palla, era largamente praticato a Napoli, in particolare a favore della
Spagna che, in ricordo dei bei tempi andati, aveva ancora un reggimento
napoletano. Nel luglio 1804 il generale Lechi, allora comandante della
Divisione italo–polacca del corpo d’occupazione francese in Puglia, fece
fucilare il reclutatore napoletano Giuseppe di Paolo, accusato con deboli
prove di aver subornato soldati cisalpini per farli disertare, provocando
un incidente diplomatico col governo borbonico. I reclutatori spagnoli
continuarono ad operare clandestinamente nel regno fino al 1808, mentre
si aggiunsero borbonici e inglesi, che facevano leva sulla dissidenza
politica o sui legami di parentela o nazionali (questi ultimi specialmente
per corsi, svizzeri e tedeschi), ma soprattutto offrivano premi d’ingaggio,
paghe e condizioni di servizio migliori di quelli franco-napoletani. Il
passaggio al nemico avveniva spesso a seguito di cattura, ma anche in
modo sistematico attraverso i canali del contrabbando con Messina o con
le isole in mano anglo-siciliana (Capri fino al settembre 1808, Ponza
fino a tutto il 1809, Ischia e Procida nel giugno-luglio 1809). Del resto
anche numerosi corsican rangers catturati a Capri passarono nel Real
Corso. Nonostante la rivendicazione di sovranità anche sulla Sicilia, ai
siciliani catturati non si applicavano le norme sul tradimento. Del resto
non venivano fucilati neppure i napoletani catturati nelle file borboniche,
nemmeno se disertori. Coi decreti N. 419 e 425 del 17 e 27 luglio 1809,
mentre si confermava in teoria la pena di morte per i sudditi napoletani
presi con le armi in pugno a combattere per il nemico, si offriva loro di
passare o tornare al servizio del re col grado conseguito al servizio
nemico e si perdonavano tutti i militari di terra e di mare rimasti nelle
isole (Ischia e Procida) abbandonate dal nemico. Pur non potendo
quantificarli, sembra che fossero numerosi, e non solo tra gli ufficiali, i
prigionieri borbonici che rifiutavano di passare al servizio francese o
napoletano. Neppure costoro rischiavano però la morte, per quanto dura
fosse la detenzione nelle galere o nelle piazzeforti di Alessandria e
Fenestrelle.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 97

La diserzione in Spagna (rinvio)


Nel luglio 1808 il 2° di linea, composto di galeotti, ebbe 70 disertori e
3 fucilati nella marcia da Mantova a Torino e in settembre, in soli tre
giorni d’impiego nell’Ampurdan, altri 250 disertori e 5 fucilati. Nei nove
mesi seguenti ne ebbe altri 196, per un totale di 516. La diserzione di
massa riguardò tuttavia i rinforzi spediti nel 1810, formati da briganti o
criminali comuni amnistiati; e fu organizzata dalla resistenza spagnola,
che li avviava a Tarragona, dove venivano imbarcati dagli inglesi e
portati in Sicilia. Qui erano in parte ammessi nell’esercito borbonico o
inglese, ma parecchi tornarono nel continente, in tempo per essere
nuovamente catturati e rispediti in Spagna. Nel 1810 i disertori furono
circa 3.400, di cui 1.600 tra aprile e luglio, 400 in agosto e 1.400 dal 1°
settembre al 20 ottobre, quando la diserzione cessò di colpo, un po’
perché ormai tutti i buoi erano scappati, e un po’ perché il blocco di
Tarragona e il trasferimento della divisione napoletana sull’Ebro resero
troppo difficile e rischioso cercare di raggiungere un porto d’imbarco.
Per i particolari rinviamo il lettore al tomo II, capitolo 14, paragrafo C.

La diserzione nelle marce al Nord e dalla piazza di Mantova (1807-08)


La diserzione occasionale, individuale o di gruppo, era provocata in
genere da nostalgia, maltrattamenti dei superiori, gravi insufficienze dei
servizi logistici essenziali, timore di punizioni o di destinazione in paesi
dal clima rigido. Dai resoconti delle marce verso Nord, sembrerebbe che
il percorso adriatico (Capua – Pescara – Ancona) fosse meno favorevole
alla diserzione di quello umbro: passata la frontiera e le paludi pontine, i
soldati disertavano soprattutto a Roma e Foligno, dov’erano attesi dagli
ingaggiatori, la cui attività si ridusse ma non cessò del tutto neppure
dopo l’annessione del Lazio e dell’Umbria all’Impero francese. Passate
le Alpi, i soldati della Penisola non avevano più opportunità di disertare,
non solo in Germania ma neppure in Provenza: già da Bologna, però, le
accresciute differenze di costumi e di idiomi, la maggiore capillarità dei
controlli di polizia e la generale diffidenza verso i napoletani tagliaborse
rendevano man mano più difficile trovare sostegno e mimetizzarsi tra la
gente. Scarso affidamento si poteva fare sulle scorte napoletane: anche
se talora i convogli delle reclute marciavano incatenati e la notte erano
rinchiusi in chiese o capannoni sorvegliati, riuscivano sempre, in un
modo o nell’altro, a seminare un 5 o 10 per cento di disertori, creando
vari problemi di ordine pubblico nelle campagne: nell’aprile 1807 il
Teramano fu messo a soqquadro da 50 amnistiati disertati dal 2° di linea
durante la marcia di trasferimento a Mantova, base intermedia verso i
Pirenei.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 98

Il clima di Mantova era talmente micidiale, soprattutto d’estate, che


Napoleone aveva ordinato di tenervi di guarnigione solo truppe di poco
conto. Il 6 luglio 1807 venti amnistiati del 2° di linea, tra cui l’intera
guardia al bastione Sant’Alessio, disarmarono la guardia di Porta
Pradella e scalarono le mura, aiutati da una donna napoletana che aveva
procurato loro abiti borghesi. La fuga verso Napoli durò poco: presso
Suzzara la guardia nazionale ne riprese 18. In settembre fu fucilato per
diserzione un granatiere. Un convoglio di 350 amnistiati, spedito di
rinforzo a Mantova e partito il 3 novembre da Napoli, perse 40 disertori
in 45 giorni di marcia: la scorta – 30 birri e 100 uomini del 2° leggero –
tollerò inoltre che i rimanenti si vendessero strada facendo scarpe e
camicie in cambio di viveri. Un altro convoglio partito il 6 marzo 1808,
formato di regolari borbonici catturati a Reggio Calabria, seminò per
strada 18 disertori. Il 12 maggio il 2° di linea segnalava di aver avuto 72
disertori in 2 mesi e chiedeva il permesso di dare un esempio fucilando i
primi due catturati. Nel solo mese di novembre 1807 il 1° consiglio di
guerra permanente del governo di Napoli giudicò 20 disertori (17
artiglieri di cui due operai, 1 cacciatore, 2 fanti del 2° leggero e del 3° di
linea), con 16 condanne a 12 anni di palla, una a 10, una a 4 e due (gli
operai) a 5 anni di ferri. Il manifesto della sentenza relativa ad uno dei
rei del 2° leggero, di nazionalità francese, era bilingue.

La diserzione dei rimpiazzi e degli amnistiati (1808-12)


Nel rapporto al nuovo re del 3 settembre 1808, il ministro della guerra
Saliceti spiegava che il richiamo alle armi delle classi più giovani della
leva borbonica del 1805 aveva prodotto un nuovo tipo di disertori, ossia
i rimpiazzi ingaggiati dai comuni per completare i loro contingenti senza
ricorrere al sorteggio. Inizialmente i comuni erano liberi di ingaggiare
rimpiazzi anche di altre province: si determinò così un vero mercato, non
di volontari ma di disperati i quali, arraffato l’ingaggio e il vestiario dato
alle reclute dal governo, si eclissavano alla prima occasione, magari
ripetendo il colpo sotto altro nome e in un’altra provincia. Il diritto al
rimpiazzo, sia individuale che comunale, fu mantenuto anche dalle leve
murattiane, ma limitato prescrivendo che i rimpiazzi fossero presi nello
stesso comune.
Saliceti aveva avvisato Murat che il fenomeno era “considerevole”. Il
20 giugno 1809 il re scriveva al colonnello del 2° leggero, che in due
mesi aveva avuto 110 disertori su 1.726 effettivi, di dire in adunata che
gli aspiranti disertori erano liberi di imbarcarsi a Gaeta per la Sicilia, ma
che sarebbero stati giudicati in contumacia e, se ripresi, fucilati davanti
al reggimento. Il 14 luglio scriveva a Napoleone che il battaglione del 3°
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 99

di linea inviato a Roma aveva avuto 150 disertori su 800 uomini, per la
voce che sarebbero diventati ciechi se restavano al servizio dei sovrani
scomunicati dal papa. Il 5 settembre aggiungeva però con soddisfazione
che il reggimento non aveva avuto un solo disertore su 2.200 uomini in
addestramento, pur contando nelle sue file 250 galeotti amnistiati. Il 4
ottobre protestava invece per il disservizio della sussistenza francese in,
Italia centrale, che aveva costretto gli ufficiali del 1° leggero a vendersi
gli orologi per sfamare i soldati e provocato 30 diserzioni, soprattutto tra
Foligno e Spoleto, dove erano state incoraggiate da persone del posto.
Le leve murattiane produssero moltissimi renitenti, ma pochi disertori.
Anche nel regno e in Italia, come in Spagna, a disertare erano soprattutto
rimpiazzi e amnistiati. Uno, disertato nell’aprile 1810, era ad esempio un
ex-brigante, amnistiato per aver ammazzato il capocomitiva: promosso
informatore della polizia, era finito nell’esercito solo a seguito di nuovi
efferati delitti. Nel solo bimestre aprile-maggio 1810, il consiglio di
guerra permanente della Marina giudicò 95 disertori: 85 contumaci (tutti
condannati a 5 anni di ferri, tranne 2 a “castigo economico per la minore
età”), e 10 in contraddittorio, di cui 7 assolti, uno condannato a 5 anni di
lavori forzati e due a 3 anni. Il 20 maggio Murat graziò 55 disertori del
Real Corso e 46 individui della gendarmeria ausiliaria. La diserzione
organizzata dagli ingaggiatori nel regno di Napoli non faceva poi
distinzioni di nazionalità. Fu contagiato anche il 22e légère, ultimo
reggimento francese rimasto nel regno per controllare la piazza di Gaeta:
«cette désertion ne peut avoir lieu que dans le Royaume de Naples»,
chiosava Napoleone il 16 febbraio 1812.

La diserzione per non finire in Germania (1813)


Uno dei benefici indiretti della renitenza alla leva, era di scremare i
reggimenti di potenziali disertori. Come fra i coscritti francesi e italiani,
anche fra i napoletani il tasso di diserzioni crollava dopo sei mesi di
servizio, il tempo necessario per l’ambientamento. Diversamente da
come ci appare oggi, la prospettiva di essere impiegati in guerra non era
di per sé un incentivo alla diserzione: a fare paura non era la morte, ma
la fame, il freddo, la prigionia. La partenza per la Russia suscitò più
entusiasmi che apprensioni: si pensava che sarebbe stata una gloriosa
passeggiata estiva, occasione di svago e di pingue bottino. La Divisione
napoletana ebbe pochissimi disertori, quasi esclusivamente fra i veliti a
piedi (che, essendo ricchi, avevano maggiore considerazione di sé), e
nessuno più dopo il Brennero.
La diserzione cominciò invece a serpeggiare fra le truppe rimaste nel
regno, alla fine del 1812, un po’ per le cattive notizie dalla Russia, ma
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 100

soprattutto per il peggioramento del sostegno logistico, conseguenza di


un esercito molto sovradimensionato rispetto alle risorse disponibili.
«Disertai perché scoraggiato e morto di fame», dichiarava un arrestato
nel suo interrogatorio del 16 gennaio 1813, aggiungendo di non essersi
portato appresso «vestiario o arme, per non averne ancora ricevuto». La
diserzione esplose in aprile, con la partenza del 4° leggero e poi del 2°
cavalleggeri per la Germania, e col ritorno dei primi rimpatriati da
Danzica, i cui racconti sul rigore del clima nordico sparsero il terrore
nella truppa.
Il 21 maggio, come abbiamo visto, fu decretata, per due mesi, la
caccia ai disertori e refrattari in tutte le province del regno. Al 14-18
luglio il diarista De Nicola annotava che c’erano moltissime diserzioni
tra le truppe che, per sottrarle ad un’epidemia scoppiata al campo di
Capodichino, erano state trasferite sulle colline di Napoli: si diceva
inoltre che il re minacciava di punirle con la morte. La notte sul 29 le
stesse truppe furono impiegate per effettuare una retata notturna dei
disertori nascosti nella capitale, e il 1° agosto furono ritirate negli
accampamenti. Il 19 agosto la Reggente – con studiata esagerazione – si
giustificava col viceré Eugenio del mancato invio delle truppe richieste
per il corpo d’osservazione dell’Adige dichiarando che le truppe,
impressionate dai racconti dei reduci sul clima della Germania, stavano
disertando in massa, addirittura 750 in 4 giorni, e con armi e bagagli.
Inoltre la diserzione «par bandes» aveva inondato le campagne di
briganti, che le poche truppe rimaste bastavano a tento a contenere. Il 22
agosto anche l’ambasciatore austriaco Mier scrisse a Metternich che
tutto il paese era infestato dai briganti, e che la truppa avrebbe disertato
in massa se avesse ricevuto l’ordine di partenza.

La diserzione nelle campagne del 1813-14 e 1815


Le diserzioni di massa cessarono in autunno, quando si sparse la
certezza del prossimo passaggio del regno nel campo degli alleati. Ve ne
furono però ancora alla partenza per l’Alta Italia: il Monitore del 24
novembre scrisse che il re, sdegnato dalle diserzioni verificatesi nel 5° di
linea, gli aveva ordinato di restare a Napoli perché indegno di marciare
con le altre truppe. Mosso infine alla clemenza dalle proteste e dalle
suppliche degli ufficiali, aveva accordato al reggimento di “marciare ai
punti più pericolosi”. Secondo il colonnello Tschudy, i disertori del 5°
erano appena 26, ed era stato il generale Carrascosa, suo nemico, ad
ingigantire la cosa per screditarlo agli occhi del re. Secondo Guglielmo
Pepe le diserzioni furono massicce soprattutto nel 9° di linea, composto
di renitenti graziati: oltre ad un migliaio disertati nella marcia da Napoli,
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 101

a Fano ne disertarono in gruppo un altro centinaio, armati e facendo


fuoco contro la guardia: quattro, riacciuffati, furono subito giudicati e
fucilati.
Il 4 febbraio 1814 furono arruolati ad Ancona 72 disertori del 6° di
linea italiano. Lo stesso giorno, a Modena, un civile implicato in un
complotto di diserzione fu condannato a 9 anni, mentre i 7 imputati
militari (il più vecchio dei quali appena diciannovenne) furono fucilati in
piazza tre giorni dopo. Il 14 febbraio, sempre a Modena, fu perquisito il
ghetto nella vana ricerca di 10 disertori, e fu pure arrestato il rabbino. Il
18 Murat graziò un disertore condannato a morte, ma altri due furono
fucilati a Modena il 24 e il 25 (un granatiere ventottenne del 1° di linea
che si era avventato con la sciabola contro un ufficiale e un calabrese
ventunenne disertato dal 3° di linea), e ancora uno, due volte recidivo, a
Napoli il 26 (nonostante il suo colonnello avesse chiesto la grazia). Il 22
fu concessa l’amnistia ai disertori italiani che si arruolavano nella
guardia dipartimentale del Tronto, ma il 19 l’intendenza di Avellino
segnalava di non poter reperire i fucili dei disertori, venduti o nascosti.
Il 12 marzo si promettevano ai gendarmi e alle guardie nazionali del
Tronto 30 lire di premio per l’arresto di un disertore, ma lo stesso giorno,
alla Taverna di Calvano presso Silvi Marina, una banda di 100 disertori
armati di fucile liberò 41 coscritti del 6° italiano tradotti da Ancona a
Pescara, sopraffacendo la scorta (fornita dal 2° di linea). Il 9 aprile
D’Ambrosio segnalava che il 9° di linea aveva avuto 50 disertori in due
giorni, tutti con armi e bagagli. Ancora il 22 maggio fu fucilato a Lucca,
per diserzione, il lanciere Ferdinando Conca: un’altra esecuzione vi fu a
Teramo il 15 luglio, una a Iesi nel febbraio 1815. Gli esempio erano
inefficaci, se ancora il 31 agosto 1814 si segnalava un nuovo aumento
delle diserzioni. Il 22 e 29 ottobre il ministro austriaco a Roma,
Lebzeltern, segnalava a Metternich e al maresciallo Bellegarde che la
diserzione delle truppe napoletane non accennava a diminuire, e che era
provocata dall’irregolare corresponsione del soldo e da “ripugnanza” al
servizio militare.

La diserzione nella campagna di Tolentino (1815)


Già nella fase iniziale della campagna di Tolentino, l’Armata di Murat
fu investita da un’ondata impressionante di diserzioni, cominciate com
sempre prima nelle retrovie che al fronte, e sicuramente almeno in parte
motivate da dissidenza politica o dalla facile previsione della sconfitta.
Già il 1° marzo 1815, “attese le frequentissime diserzioni” in marina, si
dava disposizione di trasferire nella linea i marinai ripresi. Il 23 marzo vi
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 102

fu presso Tolentino uno scontro a fuoco, con 2 morti, fra 48 disertori del
9° di linea e finanzieri, gendarmi e soldati leali.
Ignorando l’episodio, Dalrymple si stupiva che le colonne in marcia su
Bologna avessero avuto pochissime diserzioni: ma le cose cambiarono
presto, perché già il 4 aprile, durante il combattimento del Panaro, la 1a
Divisione ebbe almeno 300 disertori. Il 7 aprile il comandante della
gendarmeria transpadana (l’ex 2a legione della gendarmeria italiana),
colonnello Piella, e vari sindaci segnalavano al prefetto del Reno,
Agucchi, un gran numero di disertori, quasi tutti della 2a Divisione, che
scorrevano le campagne spargendo il terrore. Il 10 aprile il commissario
generale Pellegrino Rossi raccomandava ad Agucchi di adoprarsi per
l’arresto dei disertori e ordinava alla guardia nazionale di concertarsi al
fine con la guardia di finanza.
La diserzione dilagava anche nella Guardia, in Toscana: il 7 aprile
Nugent ordinò alle autorità granducali di accogliere bene i disertori e
avviarli con foglio di via a Livorno. Il 15 aprile Lord Burgersh valutava
a 1.200 i disertori della guardia in Toscana: la cifra corrisponde con la
forza di 1.518 raggiunta il 6 maggio dalla legione austro-napoletana
comandata dal colonnello Church, abbastanza inquadrata e animosa da
poter essere impiegata sul fronte del Liri, dove la 4a Divisione di riserva
si era sfaldata davanti a pochi partigiani e soldati papalini. Il 7 aprile, da
Velletri, il maresciallo di campo Roche scriveva al capo di SMG Millet
che molti soldati del 10° di linea disertavano per passare nelle truppe
pontificie: l’11 il console napoletano a Roma, Zuccari, confermava che il
governo pontificio arruolava i disertori.
Il fenomeno si accentuò ulteriormente durante la ritirata da Bologna: il
22 aprile la Brigata Haugwitz rastrellò sugli Appennini 400 disertori
delle tre divisioni di linea fuggiti dalla linea del Ronco; lo stesso giorno
il generale Bianchi scriveva a Frimont da Montevarchi che la diserzione
imperversava sempre di più nell’amata nemica e che ogni giorno
aumentavano i disertori che si presentavano alla sua avanguardia. A
partire dal 6 maggio, la diserzione si trasformò in sbandamento di intere
brigate superstiti della battaglia: i soldati si dirigevano senz’ordine verso
casa, frammischiati ai pochi reparti ancora inquadrati. Passando per
Teramo, 2.000 superstiti della 1a Divisione vendettero in massa le
uniformi in cambio di cibo. I decreti dell’11 maggio da Sulmona e del 15
da Napoli ordinavano agli sbandati di riunirsi a Capua, ma la guardia di
sicurezza si preparava a impedir loro l’entrata nella capitale.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 103

Appendice 4
La condanna a morte
di Gioacchino Murat

La decisione politica e l’imputazione giuridica (10 ottobre 1815)


Impegnato nella pacificazione del regno, il governo borbonico non
mancò di cercare un accordo con Murat, che a Bastia e poi ad Aiaccio
progettava rivincite e insurrezioni. Nel settembre 1815 il ministro
Medici mandò in Corsica, con l’incarico di dissuaderlo, l’ex segretario
generale della Capitanata Ignazio Carabelli e il fratello Simone, capitano
dei Corsican rangers, ma la missione non mutò le decisioni e il fato di
Murat.
Informato per telegrafo che la mattina dell’8 ottobre era stato catturato
a Pizzo Calabro, il consiglio dei ministri si riunì il 10 alle nove. Alla
seduta prese parte anche il ministro inglese A’Court, il quale, contro
l’opinione espressagli dal corpo diplomatico, si pronunciò per la
condanna a morte del maresciallo, decisa all’unanimità. Secondo lo
storico Weil, A’Court era informato che anche Metternich aveva già
autorizzato una soluzione di questo tipo. A mezzogiorno fu spedito al
comandante della Calabria, maresciallo di campo Nunziante, l’ordine di;
a) riunire un consiglio di guerra o commissione militare per giudicare
Murat quale «pubblico nemico»; b) procedere all’esecuzione non appena
emanata la sentenza e sbrigati i conforti religiosi; c) fare lo stesso per i
nazionali catturati insieme a lui e d) attendere ulteriori ordini circa gli
stranieri. In termini più precisi, l’imputazione era quella di “cospirazione
interna” (art. 87 della legge penale del 20 maggio 1808): un reato che, in
base al decreto borbonico del 28 giugno, era giudicato col rito sommario
della commissione militare, le cui sentenze erano inappellabili ed
eseguite entro 24 ore.

L’interrogatorio di Murat a Pizzo


Inseguiti e catturati sulla spiaggia dai paesani che avevano aperto il
fuoco dai balconi e dalle finestre, i 30 murattisti erano stati presi in
consegna, perquisiti e interrogati dal capitano Gregorio Trentacapilli,
della gendarmeria di Cosenza, che si trovava a Pizzo in licenza, ospite
del fratello Raffaele. Trentacapilli consegnò poi a Nunziante effetti e
carte di poco conto, e trattenne invece i documenti più compromettenti
che spedì direttamente a Napoli al comandante del corpo Cancelliere: fu
anche sospettato di aver preso per sé parte dei 22 brillanti che ornavano
il fermaglio di Murat. L’ex re denunciò poi al relatore della commissione
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 104

militare di aver subito violenze durante la perquisizione. Sfuggito a


misure di rigore grazie al principino di Canosa, Trentacapilli fu fatto
colonnello e commendatore del Real Ordine di San Ferdinando e del
Merito, con dotazione annua di 1.000 ducati.

Il giudizio e l’esecuzione (13 ottobre 1815)


Dopo l’arresto Murat aveva scritto a Ferdinando, a Metternich, alla
moglie, al viceconsole inglese di Messina, convinto che tutti sarebbero
intervenuti per liberarlo e punire quelli che l’avevano offeso. L’illusione
cadde nel pomeriggio del 12, quando Nunziante, ricevuto l’ordine del
governo, gli comunicò con vivo dispiacere che l’indomani avrebbe
dovuto essere processato per alto tradimento. La commissione da lui
nominata era presieduta dal suo capo di SM Giuseppe Fasulo [il quale
proveniva dalla gendarmeria ed era stato promosso aiutante generale in
aprile]. Gli altri giudici erano il colonnello legionario di Catanzaro,
Raffaele Luigi Scalfaro [fatto barone 13 mesi prima dall’imputato], i
tenenti colonnelli Tommaso Lanzetta (genio) e Saverio Natoli (marina),
il capitano Francesco Devouge ed i tenenti Matteo Cannilli e Francesco
Paolo Mortillaro. Pubblico ministero era il procuratore generale di
Monteleone (Giovanni La Camera), relatore Frojo, segretario Francesco
Paparossi e difensore d’ufficio il capitano Starace.
Interrogato da Frojo, Murat negò la competenza della corte, precisò di
chiamarsi “Gioacchino Napoleone” e non “generale Murat”, si dichiarò
prigioniero di guerra, e rifiutò di comparire, rimettendosi al difensore. In
dibattimento, l’incompetenza del consiglio fu eccepita anche da Starace,
ma per la sua composizione: dato il grado dell’accusato, doveva infatti
essere formato da soli generali. Altri rilievi riguardavano la nullità degli
atti istruttori, compiuti di propria iniziativa da un ufficiale in congedo
temporaneo; la mancanza del corpo del reato (bandiere, passaporti,
carte); l’istituzione della commissione (decisa la mattina del 10) prima
della conclusione dell’istruttoria (“spedizione del processo”, avvenuta
nel pomeriggio dell’11). Dopo l’escussione di 5 testi sulle circostanze
dello sbarco e la requisitoria dell’accusa, fu pronunziata la sentenza già
scritta. A Murat fu concesso il tempo di scrivere una lettera d’addio alla
famiglia e di ricevere i conforti religiosi amministrati dal canonico
Masdea. Fu fucilato nel cortiletto del castello di Pizzo, comandato dal
capitano Stratti, che concesse al condannato di comandare lui stesso il
fuoco. Pare abbia detto: «Bravi soldati, coraggio, ecco tirate!». Lo spazio
era tanto stretto che le canne dei fucili quasi toccavano il suo petto.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 105

Da Storia Militare del Regno Murattiano, t. III, pp. 183-241

30. LA LEGGE MARZIALE


CONTRO BRIGANTI
E CARBONARI

A. La giurisdizione militare e speciale


sotto re Giuseppe e Saliceti (1806-08)

Le nuove autorità di polizia


Con editto del 22 febbraio 1806 Saliceti fu nominato “segretario di
stato della polizia generale del regno”, organizzata con altro del 28, che
incaricava il “ministro della polizia generale” “della pubblica sicurezza,
del buon ordine e della tranquillità interna”, investendolo (fino a
“diffinitiva organizzazione”):
• della sovrintendenza generale sulla posta delle lettere e dei cavalli;
• del controllo sulla polizia municipale, la sanità e l’illuminazione pubblica;
• della facoltà di far arrestare e detenere le persone accusate di delitti di stato,
concedere le licenze di caccia e di porto d’armi e fare regolamenti sulla stampa e i
teatri.
Erano poste agli ordini e alle immediate dipendenze del ministro le
autorità periferiche di polizia (a Napoli il commissario generale di
polizia e i 12 commissari di quartiere, nelle province i presidi e poi gli
intendenti). Il commissario generale (e i presidi) erano incaricati:
• della spedizione dei passaporti per l’uscita dal regno e della concessione delle carte
di sicurezza e di ospitalità agli stranieri residenti, esclusi i ministri francesi e
gl’impiegati dell’Armata;
• dell’esecuzione delle norme di polizia relative alle locande e della vigilanza sulle
case da gioco e “luoghi di dissolutezza”;
• della prevenzione e repressione di attruppamenti e tumulti;
• della prevenzione e dello spegnimento degli incendi;
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 106

• della vigilanza sui luoghi e sugli addetti al pubblico smercio (fiere, mercati, piazze,
stazioni di vetture pubbliche, rivendite ambulanti) e sull’edilizia pubblica e
carceraria.
Dietro autorizzazione del ministro, il commissario generale poteva
emanare specifici regolamenti, corrispondeva con l’autorità militare e
aveva ai suoi ordini i commissari dei quartieri, gli ispettori delle piazze e
dei mercati e quelli dei porti e a sua disposizione la gendarmeria, con
facoltà di richiedere l’intervento della forza armata. I commissari di
quartiere esercitavano la polizia giudiziaria sui delitti puniti con pene
superiori a 8 giorni di detenzione o 12 carlini d’ammenda, con potere di
ordinare l’arresto o la comparizione e con obbligo di verbalizzare.
Con determinazione N. 50 del 27 marzo furono nominati il
commissario generale di polizia (Onorato Gaetani dell’Aquila
d’Aragona, 9° duca di Laurenzana) e 12 commissari di quartiere, tra cui
“Lamanna figlio”, ossia Gabriele, figlio del giudice Gregorio Lamanna,
già “capo subordinato e assessore” per la città di Napoli del capo della
polizia borbonica (Troiano Marulli duca d’Ascoli). Gli altri erano
Gregorio Muscari, Giuseppe De Stefano, Michele Lopez Fonseca,
Francesco Sedati, Francesco Canofari, Pietro Vollaro, Giuseppe
Laghezza, Pasquale de Laurentiis, Giuseppe Castaldi, Luigi Trenca e
Alessandro Vitale duca di Tortora. Furono inoltre nominati un
commissario di polizia nel porto di Napoli (Audibert), uno per le isole e
il litorale del Golfo [Monglas, che tredici mesi dopo avrebbe arrestato a
Castellammare il presunto attentatore del re] e tre per i circondari di
Casoria, San Giorgio a Cremano e Mugnano.
Da Genova Saliceti si era portato Antonio Maghella, già referente di
Saliceti nel governo della Repubblica ligure e nella sua annessione alla
Francia nonché nella leva di 2.000 marinai per la marina imperiale
[l’ambasciatore cisalpino a Genova, Giulio Cesare Tassoni, l’aveva
definito, in un dispaccio del 19 novembre 1800, «noto per i suoi delitti»,
mestatore, austriacante, fautore della controrivoluzione.] L’entourage del
ministro includeva il corso Cipriano Franceschi [suo intendente
personale]; il giureconsulto toscano Tito Manzi [già professore
giacobino all’ateneo pisano, poi segretario generale del consiglio di stato
e di fatto capo della polizia politica napoletana, divenuto dopo la
restaurazione informatore di quella austriaca]; il capuano Alessandro
d’Azzia [sostituto procuratore regio presso la corte d’appello di Napoli
nonché capo della divisione ministeriale della città e governo di Napoli,
che secondo il colonnello borbonico Carbone divenne poi estortore
abituale degli incauti trovati in corrispondenza compromettente con
Palermo]; e infine l’ex-tenente del corpo reale Pietro Colletta [radiato
dall’esercito, sopravvissuto col gioco e con temporanei incarichi civili
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 107

per il prosciugamento delle paludi di Fondi e il terremoto di Napoli sino


all’arrivo dei francesi, redattore, dal 1° marzo 1806, del Monitore di
Napoli e in predicato come preside di provincia, infine nominato, su
raccomandazione di Saliceti, primo tenente della compagnia artisti
d’artiglieria e inviato all’assedio di Gaeta, poi capitano del genio,
aiutante di campo di Parisi e giudice militare del tribunale straordinario
della Campania].
Con determinazione del 31 marzo furono istituiti i comandi militari
delle province (“commandances de province”), incaricati dell’alta
polizia militare, del mantenimento dell’ordine, della difesa della costa e
delle comunicazioni, della formazione delle guardie provinciali e della
sorveglianza e polizia degli ufficiali senza truppe residenti o distaccati
nella provincia. Con decreto del 26 luglio furono regolati i rapporti tra i
comandi provinciali e le Divisioni territoriali.

Il controllo delle armi da fuoco (det. 23 marzo e L. 26 agosto 1806)


Con determinazione N. 39 del 23 marzo furono revocate le licenze di
porto d’armi da fuoco concesse dal passato governo, con obbligo di
dichiararne il possesso entro 8 giorni ai commissari di quartiere (a
Napoli) o ai governatori (nelle province), sotto pena di tre mesi di
prigione e 500 ducati d’ammenda, raddoppiata in caso di recidiva. Le
nuove richieste di autorizzazione al porto d’armi dovevano essere
indirizzate al commissario di polizia (a Napoli), al commissario di
campagna (nella Terra di Lavoro) o al preside (nelle altre province).
Con legge N. 158 del 26 agosto 1806 fu vietata anche la semplice
detenzione di armi da fuoco nel proprio domicilio non autorizzata dal
ministro di polizia generale nel limite di quote massime provinciali,
eccettuati i militari in attività di servizio e le guardie provinciali o
civiche. Le richieste, corredate da certificato di buona condotta e
attaccamento al governo rilasciato dal commissario di polizia di
quartiere (a Napoli) o dal sindaco (con visto dell’intendente), dovevano
essere presentate al commissario di polizia di Napoli o all’intendente
provinciale e inoltrate al ministro tramite il governatore di Napoli o il
comandante militare provinciale. Erano autorizzate perquisizioni
domiciliari diurne alla presenza del commissario di quartiere o del
sindaco. I contravventori erano puniti con la confisca delle armi, tre mesi
di prigione e ammenda di 500 ducati, raddoppiate in caso di recidiva. La
detenzione non autorizzava al porto d’armi, concesso solo se
indispensabile per l’esercizio dell’impiego: il porto non autorizzato era
punito in via correzionale ad arbitrio del commissario di polizia di
Napoli o dell’intendente provinciale. Fu inoltre bandito un concorso per
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 108

l’illuminazione pubblica della capitale dal tramonto alle 2 del mattino:


iniziata il 16 novembre l’installazione dei lampioni nelle strade, fu
inaugurata il 15 dicembre.
Il controllo delle armi comportava anche la responsabilità per la
custodia di quelle regolarmente detenute. Con circolare del 24 ottobre
l’intendente dell’Abruzzo Citra comminava ai comuni e ai privati che si
fossero fatti disarmare dai briganti senza opporre resistenza un’ammenda
pari al triplo del valore delle armi.

Le esecuzioni sommarie dei volontari borbonici e le rappresaglie


Il 2 marzo, a Sapino (SA), un parlamentare inviato dal maresciallo di
campo borbonico Minutolo aveva notificato al generale Compère,
comandante dell’avanguardia francese in marcia verso la Calabria, che
parte delle reclute e i volontari dei corpi volanti, privi di uniformi,
avevano comunque speciali contrassegni militari (in particolare la
coccarda o il pennacchio rosso) e dovevano perciò essere considerati
legittimi combattenti. Secondo Luigi Blanch i francesi ne avrebbero
preso atto, ma nelle sue memorie Compère travisa l’episodio di Sapino,
presentandolo come una ridicola e proterva minaccia borbonica di
fucilare i prigionieri francesi (v. Le Due Sicilie nelle guerre
napoleoniche, I, pp. 367-68), forse col recondito scopo di giustificare gli
“esempi” che rivendica di aver ordinato nello scontro di Lagonegro del 6
marzo. Fucilazioni di prigionieri senza uniforme vi furono anche a
Campo Tenese, sommariamente giustificate con gli usi di guerra del
tempo, per non parlare delle esecuzioni sommarie (spesso all’arma
bianca o mediante impiccagione) di civili (spesso inermi, inclusi donne e
bambini) presi nei paesi che avevano fatto resistenza (salvo speciali
amnistie accordate nei patti di resa dai comandanti di provincia o di
corpi d’assedio). La geografia delle rappresaglie (v. Le Due Sicilie, cit.,
II, p. 486, tab. 112) sembra confermare l’amaro proverbio cilentino
“Cristo s’è fermato ad Eboli”: ad eccezione di Civitella del Tronto e di
Sora, tutti gli altri 40 paesi e borghi saccheggiati, dati alle fiamme e
talora massacrati dai francesi nella fase più acuta dell’insurrezione (dal 9
marzo al 27 dicembre 1806) si trovano infatti a Sud di Eboli (8 nel
Cilento, 1 in Basilicata e 31 in Calabria). Comportamento più umano si
ebbe invece nelle altre province: il 31 maggio, ad esempio, Saliceti
rimproverava il preside dell’Aquila per la distruzione delle case dei
briganti a Pacentro.

L’illegale condanna del marchese Rodio (25 aprile 1806)


Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 109

Grande impressione suscitò nel regno l’esecuzione del marchese


Giambattista Rodio, giudicato con rito sommario da una commissione
militare. Dal punto di vista giuridico la questione verteva sulla qualità di
legittimo combattente di Rodio, in quanto colonnello e ispettore dei
corpi volanti alla frontiera. Questi ultimi erano stati disciolti dalla regina
con ordine del 3 febbraio, ma l’ordine era stato implicitamente
sconfessato dal re, che il 27 febbraio, da Palermo, aveva nominato i
direttori dei corpi volanti di Salerno, Basilicata e Calabria. Rodio era
stato catturato in Basilicata (in uniforme e insieme al suo stato maggiore
e a 31 dragoni) il 14 marzo, pochi giorni dopo la rotta di Campo Tenese.
Trasferito a Napoli, rinchiuso a Castel Sant’Elmo, incriminato per
cospirazione e dichiaratosi non colpevole, il 25 aprile fu assolto. La
sentenza fu però impugnata da Saliceti, il quale fece convocare una
commissione di revisione che dieci ore dopo, in base a nuove prove
documentali, emise la condanna a morte mediante fucilazione alla
schiena.
Paul Louis Courier riferì in una lettera l’opinione corrente che la morte
di Rodio fosse «un assassinat et une basse vengeance». Il nuovo re, che
al momento del giudizio era impegnato nella sua ispezione alle province
meridionali e che, nella sua qualità di avvocato, era ben consapevole
dell’assoluta illegalità della procedura, scrisse poi a Napoleone che
Saliceti l’aveva informato a cose fatte. La sua corrispondenza prova che
mentiva: aveva scritto da Catanzaro (il 21 aprile a Masséna e il 24 a
Saliceti) di sbrigare la faccenda prima del suo trionfale ritorno a Napoli.
Del resto Saliceti mantenne il portafoglio e il 15 maggio fu incluso nel
consiglio di stato.

La Commissione militare di Napoli (D. N. 116 del 14 luglio 1806)


Con una retroattiva sanzione politica alla procedura usata contro
Rodio, il decreto N. 116 del 14 luglio attribuì al ministro di polizia
generale l’azione penale per i “delitti contro la pubblica sicurezza” (ossia
brigantaggio, “assassinio” sulle strade pubbliche, spionaggio,
arruolamento a favore del nemico e corrispondenza con esso allo scopo
di rovesciare il governo). La cognizione era devoluta ad una
commissione militare sedente a Napoli, composta da un colonnello
presidente, 1 capobattaglione, 2 capitani di cui uno relatore, 1 tenente e 1
sottotenente, nominati dal governatore generale di Napoli. La
commissione comminava le pene previste dal decreto del 1° marzo; le
sentenze, inappellabili, dovevano essere eseguite entro ventiquattrore. In
caso d’insufficienza di prove, gli indiziati restavano a disposizione del
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 110

commissario generale di polizia oppure erano rimessi ai tribunali


ordinari (che, in caso di condanna, comminavano pene straordinarie).

La punizione per l’eccidio di Augusta del 1799


Napoleone aveva ripetutamente intimato al governo borbonico di fare
giustizia sull’eccidio di 89 militari francesi (inclusi l’aiutante generale
Beauvais, i colonnelli Poitevin del genio e Charbonnel d’artiglieria e il
commissario Fournier), molti dei quali feriti o ciechi per oftalmia,
compiuto il 10 febbraio 1799 dalla plebaglia nel porto di Augusta,
dov’erano sbarcati reduci dall’Egitto. Il governo borbonico aveva
sempre risposto che gli autori erano rimasti ignoti e che le prove di
colpevolezza delle autorità locali erano equivoche. Benché la strage
fosse avvenuta in Sicilia, il nuovo regime si rivalse sul barone del luogo,
incautamente rimasto a Napoli, giudicato e condannato a morte come
istigatore, insieme al fratello, al curato e al farmacista, tutti impiccati in
piazza Mercato.

Le Commissioni militari in Calabria (L. N. 125 del 31 luglio 1806)


Il 28 luglio, informato dell’insurrezione calabrese, Napoleone scriveva
sprezzante e furioso al fratello “troppo buono” di “non perdonare i
calabresi”, di farne fucilare seicento, sempre meno dei soldati che gli
avevano “scannato”, di distruggere 5 o 6 villaggi e di confiscare 30
patrimoni come indennizzo ai reggimenti. Il 31 luglio, prima ancora di
aver ricevuto la lettera, il re proclamò la legge marziale in Calabria. La
legge N. 125 dichiarava le due province “in stato di guerra”, poneva le
autorità civili e militari agli ordini del comandante in capo della
spedizione (Masséna) e lo autorizzava a nominare commissioni militari
con sentenze inappellabili da eseguirsi nelle ventiquattrore. Inoltre le
truppe erano poste a carico dei paesi “rivoltati”; i beni dei condannati,
anche contumaci, erano confiscati e venduti a rimborso delle
somministrazioni per le truppe; i proprietari espatriati erano dichiarati
nemici dello stato e puniti con la confisca dei beni; la contravvenzione
all’ordine di consegna immediata delle armi da fuoco e proibite era
punita con la morte. Si disponeva la chiusura dei conventi che entro
ventiquattrore non dichiaravano quali religiosi avessero preso le armi,
servito da spie al nemico o istigato alla rivolta, con trasferimento degli
ultrasettuagenari in altro convento dello stesso ordine ed espulsione
degli altri dal regno, sotto pena di morte se contravventori al bando. Era
invece garantita l’esenzione da ogni prestazione alle comunità che
consegnavano gli autori degli assassinii e i capi della rivolta. I presidi
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 111

erano infine incaricati di formare uno stato dei danni subiti dai privati
“attaccati alla loro patria” e un altro dei beni dei ribelli soggetti a
confisca.
Presieduta successivamente dai colonnelli Desgraviers Berthelot,
Goguet, Thullier, Saint Martin, Monneret, de Duret de Tavel, la
commissione militare di Cosenza si comportò, secondo uno storico
imparziale come Luigi Maria Greco, in modo “sagace e giusto”: un
presidente, in effetti, non lasciandosi ingannare dal rinvenimento di
tracce d’arsenico nel pane per le truppe, volle andare a fondo e costrinse
i testimoni a confessare che si trattava di una falsa prova costruita per
incastrare un giovane fornaio, inviso ad un capitano della civica di cui
corteggiava la figlia. Greco riferisce però anche il caso di un giovane,
costretto dal padre a seguirlo nei corpi volanti, che rifiutò la grazia
offertagli a condizione di fare da boia; e scrive che pochissime furono le
assoluzioni, poche le condanne al confino, parecchie quelle ai ferri e
molte a morte, anche nei confronti di donne, preti, frati e giovinetti,
valutando ad oltre 230 le impiccagioni eseguite solo a Cosenza nel
secondo semestre del 1806. Per prassi i cadaveri dei giustiziati venivano
decapitati: testa e braccia mozzate erano esposte in gabbie di ferro nei
paesi d’origine, sia a monito sia per testimoniare de visu l’effettiva morte
del reo (col progredire della civiltà, le precarie e inquinanti gabbiette di
ferro a circuito locale furono poi rimpiazzate da artistiche fotografie
color seppia e infine da comode gabbiette domestiche a tubi catodici e
circuito mondiale). Oltre alle condanne “regolari”, continuarono le
esecuzioni sommarie ad arbitrio delle autorità militari, spesso in modi
raccapriccianti (impalamento, interramento, rogo), senza omettere prassi
tollerate come i linciaggi popolari e la lucrosa vendita dei detenuti ai
parenti delle vittime (specie durante le traduzioni da un carcere ad un
altro e certificando i decessi come abbattimenti durante tentativi di
fuga).

I tribunali straordinari misti (legge N. 131 dell’8 agosto 1806)


Una settimana dopo la proclamazione della legge marziale in Calabria,
la legge N. 131 dell’8 agosto istituì una giurisdizione speciale,
intermedia tra quella ordinaria e quella eccezionale delle corti marziali.
L’azione penale per i delitti contro la sicurezza pubblica commessi nelle
province fu conservata alla magistratura e la cognizione deferita a
tribunali misti composti da cinque giudici civili, compreso il presidente,
e tre militari di grado non inferiore a capitano, con un segretario e un
procuratore regio. I tribunali erano 4 (Salerno, Foggia, Cosenza e
Chieti), ciascuno competente per tre province (tenuto conto che il Molise
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 112

era ancora incluso nella Capitanata): da notare che anche le Calabrie


erano soggette, in via normale, alla giurisdizione speciale, essendo le
commissioni militari istituite facoltativamente, caso per caso e solo per
la durata dello stato di guerra.
I delitti contro la sicurezza pubblica comprendevano gli omicidi e le
rapine a mano armata commessi in campagna o sulle pubbliche vie, gli
attruppamenti sediziosi e armati, le unioni clandestine e sediziose, le
sommosse popolari, la reclutazione, lo spionaggio e ogni altra colpevole
corrispondenza a favore del nemico, la diffusione di libelli e di voci
manifestamente diretti a turbare la pubblica quiete e perfino il
vagabondaggio. Nella giurisdizione speciale erano inoltre assorbiti gli
eventuali reati comuni connessi. I tribunali procedevano d’ufficio, su
querela delle parti offese ovvero su denunzia, queste ultime ricevute
indistintamente dal procuratore regio, dagli agenti di polizia o da
qualsiasi altra autorità militare o civile e sottoscritte dal funzionario
ricevente e dal querelante o denunziante (ovvero da loro procuratore
speciale). Le sentenze erano inappellabili e dovevano essere eseguite
entro ventiquattrore (a pena di nullità). Era comminata la pena di morte
per i delitti più gravi e per i soli capi e autori degli attruppamenti e
sommosse. L’appartenenza alle unioni clandestine, la custodia di depositi
segreti di armi e munizioni e la propagazione di libelli sovversivi erano
puniti con la detenzione semplice o ai lavori forzati o con l’esilio
temporaneo o perpetuo secondo le circostanze del reato. Per i reati
commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge continuavano
ad applicarsi le pene più lievi previste dal decreto del 1° marzo, ma i
processi pendenti presso i tribunali ordinari dovevano essere trasmessi
entro otto giorni a quelli speciali.
La procedura iniziava col sopralluogo, la verbalizzazione dei delitti e
l’inventario degli effetti e carte rinvenuti nelle perquisizioni, alla
presenza di due testimoni del luogo. Seguivano l’interrogatorio entro
ventiquattrore dell’accusato da parte di un giudice delegato dal
presidente del tribunale, con obbligo di menzionare le circostanze
attenuanti e le prove addotte a discarico; l’interrogatorio separato dei
testi, il trasferimento del reo, entro 3 giorni, alle carceri del tribunale; la
pronuncia di quest’ultimo, inappellabile, sulla propria competenza (con
eventuale trasferimento del processo al tribunale competente); la notifica
entro ventiquattrore all’accusato, con trasmissione in copia ai ministri
della giustizia e della polizia criminale; la destinazione di un difensore
d’ufficio in mancanza di uno di fiducia, con termine di due giorni per
l’indicazione di testi a difesa e la fissazione dell’udienza in data tale da
consentirne la presenza. L’udienza era pubblica, con escussione prima
dei testi d’accusa e poi di quelli a difesa e facoltà del difensore e
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 113

dell’accusato di interrogare i testi a carico. Seguivano la requisitoria del


procuratore, le eventuali dichiarazioni dell’accusato e l’arringa del
difensore. La sentenza era pronunciata a porte chiuse. Il numero dei
giudici doveva essere o di otto o di sei. In caso di impedimento di un
giudice militare o civile doveva astenersi il più giovane dell’altra
categoria. In caso di parità prevaleva l’opinione più favorevole al reo.
Colletta (Storia, VI, xxvii) celebrava il nuovo rito accusatorio:
«Si composero quattro nuovi tribunali, e si dissero straordinari, perché restavano
cassi alla promulgazione dei codici. (…) Le antiche barbare forme di procedura furono
abolite; un’autorità locale raccoglieva le prime pruove, altra maggiore componeva il
processo, il pubblico accusatore accusava il reo; e da quello istante divenivano di
ragion pubblica le querele, i documenti, i nomi dei denunziatori e de’ testimonii. Il
processo non istava nelle carte scritte, ma nel dibattimento, quando l’accusatore
coll’avvocato, l’accusato coi testimonii, alla presenza de’ giudici e del pubblico,
disputavano, e dalle opposte sentenze scaturiva la verità e s’imprimeva nella coscienza
de’ magistrati e del popolo. Erano i giudici di numero pari, acciò nella parità dei voti la
più mite sentenza prevalesse; si ammetteva la privata accusa, scritta e giurata, ma
l’accusatore falso era condannato per taglione».

Le amnistie di Masséna (1° settembre) e Reynier (14 dicembre 1806)


La legge moderatrice fu emanata lo stesso giorno dell’eccidio di
Lauria, il maggiore per dimensioni (1.600 vittime) e l’unico effettuato in
Basilicata, ritenuto necessario da Masséna per dare un esempio. Tuttavia
già il 17 agosto, non appena ripresa Cosenza e rialzate le forche
all’ingresso della città, il maresciallo ordinò di cessare le rappresaglie
indiscriminate, cominciando a mandare sotto processo qualche militare
per incendio, stupro, esecuzioni o assenze arbitrarie. Il 1° settembre
accordò l’amnistia «à la partie du peuple calabrais que des intrigants ont
entraîné dans la révolte pour se mettre eux-mêmes à l’abri des
châtiments qui méritent leurs crimes», promettendo premi per la
consegna dei capi. Anche Lamarque scriveva a fine agosto al capo di
stato maggiore C. Berthier di aver risparmiato Catona e Pisciotta,
quartier generale dei “briganti”, perché credeva che il re volesse
pacificare e non distruggere e che non pagava dei francesi per fare delle
sue province un deserto; ciò non gli impedì, pochi giorni dopo, di fare
590 morti a Camerota e Vibonati. L’ordine del 17 agosto non fermò
infatti le rappresaglie: in Calabria ve ne furono ancora 15 entro dicembre
(e altre ancora l’anno seguente).
Il 14 dicembre, da Monteleone, Reynier concesse una seconda
amnistia, con esclusione dei capimassa e degli “eccitatori di rivolte”. Gli
altri, a condizione di consegnare le armi al comando militare del
circondario entro il 31 dicembre e di giurare fedeltà a re Giuseppe con
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 114

l’impegno a non turbare più l’ordine pubblico, potevano scegliere tra


l’arruolamento nei corpi franchi calabresi e il confino nel loro paese, in
questo secondo caso sotto la responsabilità di tre proprietari del luogo
disposti a garantire per iscritto la loro condotta futura. Entro il 10
gennaio 1807 le autorità locali (parroci, sindaci, comandanti della
guardia civica e governatori) dovevano inviare ai rispettivi superiori
(vescovo, colonnello e intendente) lo stato nominativo delle persone del
paese assenti dal momento dell’insurrezione, in modo da poter stilare
liste provinciali di coloro che avevano ricusato l’amnistia. Le liste
dovevano essere affisse nei paesi, “con ordine ai comandanti e
governatori di curare l’esterminio dei renitenti” e gratificazioni per il
loro arresto. I favoreggiatori (inclusi i governatori, sindaci e notai autori
di false certificazioni) erano trattati come complici e fautori e deferiti
alle commissioni militari.
Per quanto riguarda l’Abruzzo, alla metà di novembre del 1806 si
stimava che nelle tre province l’insurrezione avesse fatto, da una parte e
dall’altra, 4.000 vittime, malgrado il passaggio di campo dei principali
capi della resistenza. La commissione militare di Teramo, presieduta dal
colonnello Orazio Delfico e composta dal comandante della piazza
(Guasco, del 32e légère franco-ligure) e da tre capitani civici (tra cui
Marozzi, successore di Delfico), due francesi e un sergente francese,
comminò decine di condanne a morte. Centinaia, secondo il Coppa
Zuccari, le esecuzioni extragiudiziali: nel febbraio 1808 tre quarti dei
400 detenuti spediti da Chieti a Napoli per essere giudicati, furono man
mano baionettati durante il viaggio: dei 140 partiti dall’Aquila, 96
furono fucilati nel Piano delle Cinquemiglia.

La morte di Brouyère e Fra Diavolo (28 ottobre-11 novembre 1806)


Una rappresaglia fu attuata nel settembre 1806 anche contro Sora,
dove Fra Diavolo si era brevemente fortificato all’apogeo della sua
ultima anabasi. Era ormai già in rotta quando, alla fine di ottobre, il
colonnello del 4e chasseurs Noël Brouyère, inviato dall’imperatore a
Napoli per illustrare al fratello i dettagli della campagna di Prussia, fu
sorpreso e ucciso tra Itri e Fondi. Con decreto N. 224 del 28 ottobre, da
Portici, furono concessi alla madre un vitalizio annuo di 600 ducati e
l’esecuzione, per rappresaglia, di 11 “briganti” detenuti [il Corriere di
Napoli del 16 dicembre 1806 annunciò la decisione di erigergli un
monumento funebre sul luogo dell’uccisione, con un basamento capace
di contenere un corpo di guardia di 20 uomini].
Arrestato sotto falso nome a Baronissi il 1° novembre, riconosciuto a
Salerno e tradotto a Napoli il 3, il colonnello Michele Pezza fu giudicato
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 115

in due ore il 10 da un tribunale straordinario speciale, la cui


composizione fu segretata distruggendo l’incarto. La condanna a morte,
eseguita l’11 per impiccagione in piazza Mercato, fu deplorata dal
colonnello Hugo, che chiese invano di incontrare l’uomo al quale aveva
dato la caccia per due mesi e che, a suo parere, doveva essere
riconosciuto legittimo combattente. Colletta, invece, la giustificò con la
distinzione (ideologica, più che giuridica) tra terrorists e freedom
fighters:
«Frà Diavolo, se veniva nel Regno con grande o piccolo stuolo di soldati a
combattere con regole della milizia, fortunato era ammirabile, sventurato e preso era
prigione; ma Frà Diavolo, già assassino, di assassini capo, da assassino operando, in
qualunque forma era infame e colpevole. Non si confondano popolo armato e
brigantaggio: l’uno difenditore de’ suoi diritti, libertà, indipendenza, opinioni,
desiderato governo; l’altro fazione iniqua, motrice di guerre civili e di pubblico
danno».
Sotto il profilo strettamente giuridico, l’unico argomento rilevante
contro Pezza era di aver usato coccarde francesi per camuffare i suoi
uomini da guardia provinciale; sembra certo, peraltro, che la maggior
parte indossava un’uniforme (blu con calzoni bianchi secondo alcune
fonti, bianca con mostre azzurre secondo il Corriere di Napoli),
ancorché non sufficiente a farli identificare come soldati nemici.

La retata del 22 maggio e la sommossa del 2 giugno 1807


La giurisdizione speciale era limitata dalla successiva estensione dello
stato di guerra e delle commissioni militari anche ad altre province. Con
decreto N. 83 del 29 marzo 1807 da Trani, fu abolita la commissione
militare della provincia di Bari, trasmettendo i processi pendenti al
tribunale straordinario. Un incauto sgarbo a Saliceti (la soppressione
dell’incarico di comandante d’armi a Sorrento ricoperto dal nipotino
Ignace) costò a Miot de Melito l’incarico interinale di ministro della
guerra, che il 15 aprile fu assunto dallo stesso Saliceti. La spedizione
borbonica di Mileto offerse poco dopo al superministro il pretesto per
rafforzare ulteriormente il suo potere con un giro di vite contro
l’opposizione. Ricevuta a Napoli la notizia dello sbarco a Reggio del
principe d’Assia, la notte del 22-23 maggio la polizia politica arrestò in
tutto il regno 84 oppositori, inclusi molti di rango, pazientemente
incastrati nei sei mesi precedenti con l’intercettazione della
corrispondenza con Capri (tramite il corso Antonio Suzzarelli,
contrabbandiere e postino di fiducia del credulo irlandese Hudson Lowe
e agente di Saliceti).
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 116

Un tribunale straordinario speciale condannò la maggior parte alla


deportazione a Fenestrelle e una dozzina a morte, inclusi due giovani ex-
colonnelli borbonici, il duca Tommaso Frammarino e il marchese
Palmieri. Quest’ultimo fu impiccato alla chetichella il 2 giugno, dopo un
vano tentativo di fuga reso possibile da una sommossa popolare
arringata dallo stesso condannato e dal cappuccino che lo confortava sul
patibolo eretto al Largo dei Castelli sotto il cannone del Castelnuovo.
Inizialmente sopraffatti, gli svizzeri e i civici, rinforzati da alcuni corsi,
inseguirono i rivoltosi in via Toledo, sparando e caricando alla baionetta.
Sembra che sul momento vi siano stati 8 morti e 40 feriti: ma la polizia
effettuò subito dopo una retata dei presunti capi sommossa e parecchi
(forse 42) furono a loro volta giudicati col rito militare e afforcati il
mattino seguente (il frate, accusato dal generale Mathieu e fatto ricercare
da Saliceti su ordine diretto del re, riuscì ad eclissarsi).

Gli indennizzi alle vittime dei briganti (decreti 4 e 16 giugno 1807)


Con decreto del 4 giugno fu stanziato 1 milione di ducati per
l’indennizzo delle vittime del brigantaggio. Con decreto N. 159 del 16
giugno furono messi a disposizione del commissario straordinario per le
Calabrie 100.000 ducati oro per le famiglie dei caduti nell’ultima
incursione (ossia la campagna borbonica di Mileto). Un campione di 21
concessioni (decreti N. 248-49, 263-64, 293-95, 316-21/1807, 18-
19/1808), per un totale di oltre 20.000 ducati, ne registra una di 5.000
(alla famiglia de Curtis di Rocca Gloriosa, Salerno), una di 2.400 (a
Vincenzo Bucci di San Severo, Foggia), una di 1.200, una di 1.050, una
di 1.000 e 2 di 100 per danni; una di 2.400 (alla famiglia del comandante
civico di Montepagano), una di 1.200, una di 1.000, una di 900, due di
800, una di 600, quattro di 500, due di 400 e una di 200 per l’uccisione
del capofamiglia.

Il processo per il presunto attentato al re (13 giugno–12 luglio 1807)


Il 13 giugno 1807 il commissario Monglas arrestò a Castellammare (si
disse su denuncia di una ragazza corteggiata, più probabilmente su
delazione di alcuni arrestati del 23 maggio) il sedicente colonnello
Agostino Mosca, di Gragnano, già difensore di Maratea e agente di
Palermo, con l’accusa di progettare un attentato al re durante la sua
visita a Salerno (preannunciata in modo tale da far sospettare una
trappola architettata dalla polizia). Condannato a morte (su prove
documentali, forse falsificate per tirare in ballo personalmente, come
mandante, la regina Carolina, e convalidate da una confessione, forse
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 117

dettata da megalomania o estorta con false promesse d’impunità) Mosca


fu impiccato il 12 luglio a Napoli, nella sua rossa uniforme siciliana e
completamente ubriaco. In segno di magnanimità, con legge del 13
luglio fu stabilito un consiglio privato del re per l’esame delle domande
di grazia (condono o commutazione della pena). Il 28 luglio Saliceti
diffuse un rapporto sulla cospirazione, in seguito confutato dal
principino di Canosa, comandante della base borbonica di Ponza e
indicato da Saliceti come organizzatore dell’attentato.

La responsabilità dei comuni per i danni dei briganti (27 agosto)


La mancata resistenza contro i briganti era sanzionata dalla prassi
militare: ad esempio, con o. d. g. del 7 aprile 1807, Partouneaux punì a
tale titolo i comuni di Guardiagrele, Palombara e Villamagna con la
fornitura di 500 paia di scarpe al 10e de ligne, raddoppiata se non
completata entro 10 giorni. La prassi divenne norma con decreto N. 242
del 27 agosto, che dichiarava “responsabile dei danni provocati nel suo
distretto dalle loro incursioni” e tenuta a risarcire le vittime “ogni
comune convinta di non avere impiegati contro i briganti tutti quei mezzi
di difesa, che era in sua facoltà di adoperare”. La ripartizione era fatta
inoltre su tutti gli individui, inclusi gli indigenti, soggetti ad esecuzione
personale ad arbitrio del comandante della provincia. I beni di chi avesse
invitato i briganti nella sua comune o li avesse comunque favoriti erano
confiscati a beneficio della comune assalita. Il parroco che non avesse
“adoperata tutta la sua personale influenza per incoraggiare il popolo alla
difesa o per persuadere i briganti a desistere dall’aggressione” era
passibile di arresto e sospensione dall’esercizio delle sue funzioni.

Il processo per l’attentato a Saliceti (31 gennaio 1808)


Grazie alla sua passione per il teatro, la notte del 30-31 gennaio 1808
Saliceti sfuggì per poco all’esplosione di un ordigno (“macchina
infernale”) collocato sotto il suo appartamento privato da Pasquale
Viscardi, giunto appositamente da Ponza. L’attentato fece un morto e 22
feriti, inclusi il genero e la figlia del ministro, incinta di sei mesi
(incolume il nipote Ignace). La perizia tecnica sulle cause del sinistro fu
affidata a Colletta che ne accertò la natura dolosa. Viscardi riuscì a
fuggire, mentre fu arrestato il padre Onofrio, farmacista (con bottega al
pianterreno del palazzo di Saliceti) e già membro di un’unione realista
del 1799, il quale ebbe salva la vita facendosi delatore del figlio
Domenico, poi impiccato a Piazza Mercato. Un terzo figlio, Francesco,
denunziato da Pignatelli per opinioni antifrancesi, fu condannato a 15
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 118

anni di ferri. In seguito furono giustiziati altri quattro presunti congiurati,


incluso il cavalier Talamo, ricco mercante di Napoli.

La prefettura di polizia di Napoli (D. 22 ottobre 1808, titolo III)


Il decreto 22 ottobre 1808 per la municipalità di Napoli disciplinò nel
titolo III (art. 17-22) le attribuzioni del prefetto di polizia di Napoli,
posto sotto gli ordini immediati del ministro della polizia generale, cui
spettava l’autorizzazione dei regolamenti proposti dal prefetto.
Quest’ultimo era incaricato delle seguenti funzioni:
• (controllo delle persone): rilascio dei passaporti per l’espatrio dei nazionali e il
viaggio degli stranieri all’interno del regno; esecuzione dei regolamenti sulle
persone sconosciute, i mendicanti, i vagabondi, con facoltà di disporne la
reclusione in apposite case di detenzione; ricerca dei disertori e prigionieri di
guerra fuggitivi;
• (prigioni) polizia delle prigioni e delle case di forza e di correzione, con potere di
nomina dei carcerieri, custodi e domestici conformemente al decreto del 7
settembre 1808;
• la polizia annonaria; la vigilanza sulla vendita delle polveri e dei salnitri;
• (polizia dei costumi): esecuzione delle leggi e dei regolamenti di polizia sugli
alberghi, locande, case mobiliate e di piacere; sulla stampa e le librerie per la tutela
dei costumi e della pubblica onestà;
• (polizia dei teatri e feste pubbliche); sicurezza delle persone, prevenzione di
incidenti e mantenimento della pubblica tranquillità nei teatri; disposizioni per il
buon ordine nelle feste pubbliche;
• (polizia urbana); prevenzione di crolli (mediante demolizione, riparazione,
puntellamento degli edifici pericolanti) e incendi (con comando e vigilanza sul
corpo civico dei pompieri); soprintendenza alla conservazione delle pubbliche
strade, dei monumenti e degli edifici pubblici; illuminazione e annaffiatura delle
pubbliche strade; esecuzione delle norme sulla spazzatura delle strade, piazze,
giardini ed edifici pubblici e dei regolamenti sui condotti di scolo delle acque
piovane e sulle grondaie.
Al prefetto spettavano inoltre la prestazione del braccio forte per
l’esecuzione delle esazioni fiscali e la richiesta all’intendente dei corpi di
guardia dei pompieri e della forza del buon ordine. Aveva infine ai suoi
ordini, per l’esercizio delle sue funzioni, la guardia civica e la
gendarmeria reale e corrispondeva col comandante della piazza per il
servizio della guardia civica e la distribuzione dei corpi di guardia.

Le commissioni militari in Calabria e l’amnistia Partouneaux (1808)


Nel 1808 le commissioni militari di Cosenza furono presiedute dai
capibattaglione Simeoni (artiglieria), Monneret (granatieri reali), de
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 119

Duret (Isembourg), Cristophe (25e chasseurs) e Cassan (20e ligne):


Greco le definì «precipitose assai nei dibattimenti per provvedere
all’urgente bisogno di spurgare le carceri zeppe di borbonici» e focolaio
di una mortale epidemia. Furono emesse tuttavia soltanto 54 sentenze,
con 39 condanne a morte, 25 ai ferri (tra cui il cappellano del maggiore
Necco) e 20 alla custodia cautelare fino alla pace, 2 rinvii al tribunale
ordinario e 27 assoluzioni.
Il decreto N. 131 del 12 maggio 1808 deferiva alle commissioni
militari e comminava la pena di morte agli individui non appartenenti ad
un’armata regolare e in particolare i galeotti sbarcati dal nemico “per
turbare la tranquillità pubblica” del regno e “organizzarvi l’assassinio”.
In compenso, col bando del 19 maggio da Cosenza, già citato,
Partouneaux minacciò pene esemplari ai calunniatori e garantì la tutela
agli accusati, invitando i cittadini e le autorità a denunciare gli abusi
delle guardie civiche.
Con decreto del 5 giugno Compère fu incaricato della distruzione dei
briganti nelle diverse province del regno, ma i comandanti provinciali
conservarono di fatto l’autonomia. Subentrato il 2 giugno a Maurice
Mathieu nel comando superiore in Calabria, Partouneaux proclamò
l’amnistia, facendola annunciare nei vari distretti con particolari
solennità. Il 3 settembre, su ordine del colonnello degli svizzeri
comandante la piazza di Palmi, una solenne processione con l’immagine
del Venerabile, tutto il clero e i galantuomini, si recò ai vigneti del Cropo
a tre miglia dall’abitato, e vari contadini furono spediti ad annunciare
alle comitive che era stata concessa l’amnistia: dovevano presentarsi e
giurare fedeltà a re Gioacchino, “alleato a re Ferdinando”; avrebbero
ricevuto in cambio una diaria da 8 a 18 carlini, con l’obbligo di non
dimorare né a Palmi né a Seminara. Era l’ultima chiamata: se non ne
approfittavano, se la sarebbero vista con 2.000 soldati già pronti. Dei
sette capi comitiva della zona se ne presentarono solo due, ma l’amnistia
indebolì anche gli altri, seminando sospetti e discordie.

I delitti contro la sicurezza dello stato nel codice Cianciulli (1808)


Il codice penale del regno, elaborato dal ministro della giustizia
Cianciulli ed emanato con legge N. 143 del 20 maggio 1808, in 287
articoli, era ripartito in tre soli titoli. Il I (disposizioni generali), dava per
la prima volta il sistema del diritto penale, con la divisione,
classificazione, competenza ed estinzione dei delitti (artt. 1-45) e la
natura e applicazione delle pene (46-76). Le fattispecie erano invece
ripartite in “delitti contro la società” (titolo II) e “delitti contro gli
individui” (titolo III). Questi ultimi comprendevano omicidio (170-201),
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 120

ferite (202-207), ingiurie e diffamazione (208-221), violenza carnale


(222-239), furto (240-271), truffa e falso privato (272-287). Il titolo II
era a sua volta ripartito in delitti contro la sicurezza esterna e l’ordine
interno dello stato (77-91), violenza pubblica (92-122), abuso di potere,
corruzione ed estorsione di magistrati, pubblici funzionari ed esecutori
(123-136), vilipendio della religione (137-141), delitti contro la salute
pubblica (142-143) e contro la proprietà dello stato e la pubblica fede
(144-149), inclusi contrabbando, usura e falsità in misure e atti pubblici.
I delitti contro la sicurezza esterna e l’ordine interno dello stato,
qualificati “alto tradimento”, erano puniti con la “morte esemplare”, che,
in deroga all’art. 68 dello stesso codice, era comminata anche al reo
ultrasettantenne. Il tentativo era punito come il delitto consumato,
purché la mancata consumazione non fosse dipesa da resipiscenza
operosa del reo, che, a seconda degli effetti prodotti, era considerata
esimente o semplice attenuante di un grado: l’attenuante era concessa
anche ai semplici esecutori che non avessero piena cognizione dello
scopo degli atti. Le fattispecie previste erano la cospirazione e la
corrispondenza col nemico al fine di rovesciare l’ordine costituito o
attentare alla vita del re, la corrispondenza criminosa con qualunque
nazione estera che avesse progetti ambiziosi sul regno, gli atti ostili
come arruolamenti e leve di truppe e depositi di armi e munizioni, lo
spionaggio e la rivelazione di segreti di stato, la presa d’armi contro la
patria o nazioni alleate, la violazione dei trattati, le offese agli
ambasciatori e ministri esteri, la pirateria contro sudditi di nazioni
amiche o alleate, le cospirazioni formate con le forze interne dello stato
e i libelli, scritti o discorsi diretti ad eccitare il popolo contro il re o il
governo al fine di rovesciare l’ordine costituito (quest’ultimo reato era
punito con la semplice deportazione e col bando perpetuo se non era
connesso ad una cospirazione, e in via solo correzionale se commesso
col solo fine di spargere il malcontento, salvo la maggiore pena in caso
di recidiva). L’art. 79 considerava “specialmente rei di alto tradimento
verso la patria, gli ufficiali, i consiglieri del re o del governo, militari o
politici” che si fossero macchiati di tali atti. Ve ne furono non pochi,
soprattutto nel 1814-15 tra i generali, ma nessuno fu ovviamente
perseguito, mentre le sanzioni contro la prevaricazione dei magistrati
disonesti costarono a Cianciulli il ministero.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 121

B. Tra pacificazione ed emergenza (1809)

La cessazione dello stato di guerra e la missione di Saliceti a Roma


Saliceti era stato l’unico civile inserito tra i primi 8 dignitari delle Due
Sicilie nominati da re Giuseppe alla vigila della partenza per la Spagna e
il direttore generale della polizia Laurenzana uno dei due civili (l’altro
era il barone Nolli) fra i primi 57 commendatori. Alla spedizione di
Capri Saliceti aggregò anche due commissari di polizia (de Stefano e
Laghezza) incaricati di istruire i processi politici contro la popolazione
che parteggiava per gl’inglesi. Quest’ultima fu però salvaguardata dal
patto di resa convenuto il 16 ottobre 1808 tra Lamarque e Hudson Lowe
e che lo stesso Saliceti convinse Murat a ratificare. L’8 ottobre, mentre
ancora si combatteva a Capri, Briot e Poerio, di ritorno da Napoli alle
loro intendenze, caddero in un agguato nella terribile conca di Campo
Tenese e furono salvati in extremis dalla colonna legionaria accorsa da
Castrovillari. Malgrado la brutta esperienza, in dicembre Briot trasmise
al nuovo re, col suo parere favorevole, la petizione delle popolazioni
calabresi che chiedevano la fine dello stato di guerra, sul presupposto
che i briganti erano fuggiti in Sicilia per arruolarsi nei Calabrian Free
Corps oppure avevano approfittato dell’amnistia. Murat aggiornò di suo
pugno la richiesta dei cosentini e anzi mandò a Reggio [come tenente di
re, e perciò ritenuto localmente superiore allo stesso comandante
provinciale Cavaignac, che pure era divisionario] un “duro” come il
colonnello Manhès, il cui primo atto fu il confino a Napoli
dell’arcivescovo e la sua sostituzione con un servizievole canonico pro-
francese.
Rinforzato dalla presa di Capri, che Saliceti considerava un suo
successo personale, il ministro accrebbe ulteriormente il suo potere: il 7
novembre Laurenzana fu nominato intendente di Napoli e Maghella lo
sostituì come prefetto di polizia. Il 14 dicembre furono sostituiti tutti i
commissari di polizia di quartiere tranne uno (Pasquale de Laurentiis).
La magnitudo del terremoto fu tale da essere registrata dall’osservatorio
di Parigi e da provocare un intervento dello stesso imperatore, che il 20
gennaio 1809 scrisse direttamente al suo vecchio commissario politico
dell’Armée d’Italie: «un roi qui laisse dans de maines comme les vôtres
deux portefeuilles de telle importance il ne peut pas régner, il abdique».
Richiamato a Parigi, ma destinato poi a Roma a presiedere la
commissione per la riforma amministrativa dei territori pontifici annessi
all’impero, Saliceti partì il 6 febbraio, dopo aver restituito il portafoglio
della guerra, e supplito temporaneamente da Manzi in quello della
polizia generale. Fu perciò a Manzi che il 25 febbraio Murat ordinò di
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 122

far perquisire le case degli aderenti al “partito patriottico” che sognava


“la riunione di tutta Italia”; lo stesso giorno ne scrisse a Napoleone,
aggiungendo che i «bureaux de correspondance» dei patrioti erano le
logge massoniche, finanziate dagli inglesi. Tornato da Roma a fine
aprile, Saliceti riassunse il ministero di polizia.

L’ordinanza di alta polizia per la Calabria dell’8 marzo 1809


In realtà (come abbiamo visto a proposito della riorganizzazione della
gendarmeria) anche Murat intendeva dichiarare la pacificazione del
regno a partire dal 1° febbraio 1809. Tuttavia il re concepiva la
pacificazione in un modo del tutto diverso da Briot e dal notabilato
calabrese: costoro la vedevano come una semplice presa d’atto che
l’emergenza era ormai superata, mentre per Murat era un obiettivo
politico da conseguire con un’ulteriore stretta di freni, per farla finita una
volta per tutte coi briganti. Ciò spiega l’apparente contraddizione tra la
dichiarazione di cessazione dello stato di guerra e la successiva
ordinanza di alta polizia dell’8 marzo, valida per la sola Calabria, che
anticipava i draconiani provvedimenti in seguito disposti col decreto del
1° agosto.
L’ordinanza estendeva e quantificava la responsabilità dei comuni per
i delitti pubblici non impediti commessi dai suoi abitanti o sul suo
territorio e quella dei possidenti e padroni per le persone da loro
dipendenti, gravandoli dell’indennizzo dei furti subiti dal procaccio, dai
viaggiatori e dai corrieri, del pagamento di un premio di 50 ducati ai
militari o civici di altri comuni per la cattura o uccisione di un brigante
del luogo, nonché di ammende (applicate con ordinanza dell’intendente)
di 200 ducati per ogni paesano datosi al brigantaggio dopo l’8 marzo e di
1.000 per ogni militare ucciso nel territorio comunale, riscattabili solo
con la consegna del reo vivo o morto.
L’eventuale concessione del perdono era riservata esclusivamente alle
più alte autorità civili e militari della provincia. Ai briganti erano
accordate ventiquattrore per costituirsi, pena la persecuzione fino allo
sterminio. L’ordine di ucciderli era esteso ai “buoni cittadini”, dando
incarico agli intendenti di assoldare e organizzare una “forza armata
straordinaria”, composta sia da colonne mobili per dare la caccia ai
briganti che da agenti segreti (reclutati tra i pentiti) per spiarli e
ucciderli. La forza doveva essere finanziata dai proprietari con
sottoscrizioni volontarie, anche segrete, che garantivano l’immunità
dalle ammende.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 123

Corti speciali e commissioni militari (decreto 1° luglio 1809)


La spedizione anglo-siciliana nel golfo di Napoli provocò ulteriori
misure repressive sull’intero territorio del regno. Con decreto N. 447 del
1° luglio la competenza dei tribunali straordinari misti, di fatto aboliti, fu
ripartita tra le corti criminali del regno (composte solo da magistrati) e le
commissioni militari. Le corti criminali erano però autorizzate a
procedere “quali speciali e delegate” (ossia con la stessa procedura
sommaria introdotta dal decreto dell’8 agosto 1806). Fino a nuove
disposizioni, erano di loro competenza i delitti di cospirazione e
corrispondenza col nemico, cospirazione interna contro lo stato e
l’ordine pubblico e diffusione di libelli e stampe sediziosi, nonché quelli
di brigantaggio, attruppamento e “incesso” (incursione) per le campagne,
furto su pubbliche strade o in case di campagna commessi da almeno tre
persone. Erano invece deferiti alle commissioni militari gli arruolamenti
e la diserzione a favore di nemici e ribelli, lo spionaggio militare e i
procedimenti contro gli emigrati che avessero preso le armi contro lo
stato. Erano inoltre riservati alle commissioni i casi flagranti e certi di
brigantaggio e attruppamento (cattura con le armi in pugno o con
documenti inequivoci), e generalmente tutti i delitti di brigantaggio
“quando l’urgenza del bisogno” facesse giudicare al re “necessaria
questa misura di rigore”. Un decreto del 16 dispose la confisca dei beni
degli emigrati in Sicilia con vendita all’asta a beneficio in parte del fisco
e in parte delle vittime e dei militari distintisi nella repressione, nonché
per il finanziamento di taglie di 20-25 ducati sui singoli briganti e di 500
sui capi. Con decreto N. 419 del 17 fu concessa l’amnistia ai sudditi
napoletani che abbandonavano le bandiere del nemico, con facoltà di
essere ammessi al servizio di Murat col proprio grado, e sotto minaccia
di giudizio militare e pena capitale se presi con le armi in pugno. Con
altro del 27 (N. 425) i militari nemici rimasti nelle isole evacuate furono
invitati a presentarsi entro otto giorni al prefetto di polizia di Napoli, con
promessa di perdono della loro emigrazione e ammissione col loro grado
e qualità, e sotto minaccia di essere altrimenti trattati come “spioni del
nemico”. L’8 agosto fu approvato anche l’arresto cautelare dei parenti
dei principali emigrati (duchi d’Ascoli e del Gesso e principe di Canosa),
liberati poi dietro fortissimi riscatti.

Il decreto antibrigantaggio del 1° agosto 1809


Nominato in giugno commissario straordinario in Basilicata e
Calabrie, con ordine del giorno del 18 luglio da Palmi Poerio notificò le
restrizioni al commercio con la Sicilia e le nuove misure repressive
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 124

(incendio dei boschi in cui si rifugiassero briganti, arresto dei sospetti di


connivenza senza riguardo alla posizione sociale).
L’art. 11 del decreto N. 430 del 1° agosto disponeva che entro un mese
dalla pubblicazione “non (dovessero) più esistere briganti nel regno”.
Apposite commissioni, nominate dall’intendente e dal comandante
militare, dovevano redigere la lista provinciale dei briganti in armi e dei
capi notori, pubblicata mediante affissione nei capoluoghi di circondario.
Chi si trovava iscritto aveva 8 giorni per presentarsi personalmente
all’autorità civile o militare, restando in stato d’arresto sino a verifica del
reclamo. Spirato tale termine gli iscritti erano dichiarati “fuorgiudicati”
(cioè condannati a morte e a confisca dei beni), con premi di 25 ducati
per la loro cattura e di 20 per la loro uccisione, o di 500 se erano
qualificati come capi, e con arresto immediato delle famiglie dei capi e
dei briganti più noti. In caso di cattura i fuorgiudicati erano deferiti alle
commissioni militari, con esecuzione immediata per quelli presi con le
armi in pugno e differita, per gli inermi, fino ad accertamento (entro tre
giorni) della loro identità e verifica della loro eventuale qualità di capi
comitiva soggetti a taglia di 500 ducati. Unico temperamento alla
sommarietà della procedura era l’obbligo delle commissioni, qualora
sedenti nello stesso luogo del tribunale criminale, di sentire il parere del
procuratore generale del re. Nel confermare i perdoni e le amnistie già
concessi, si revocava alle autorità civili e militari la facoltà di
concederne altri, salvo che ai pentiti i quali avessero preventivamente
concordato la cattura o l’uccisione di un capo (e ai quali spettava anche
la taglia di 500 ducati). I favoreggiatori volontari erano trattati come i
fuorgiudicati: gli aiuti estorti dai briganti dovevano essere denunciati
entro sei ore alle autorità locali, pena il deferimento ai tribunali
competenti.
Colletta (che nel 1809-11 partecipò personalmente alla repressione del
brigantaggio calabrese, coi metodi di Manhès) nella Storia del reame di
Napoli commentò così il provvedimento:
«La facoltà di incarcerare le famiglie dei fuorgiudicati produsse miserevoli arresti;
ma si aveva almeno alla crudeltà la certa guida del parentato: la facoltà d’incarcerare i
promotori e gli aderenti, vaga, arbitraria, facile agli errori ed agli inganni, produsse
mali smisurati ed universale spavento. Tal rinacque il rigore, che se la benignità del re
non avesse temperato in molti casi l’asprezza delle leggi, e se gli afflitti non fossero
stati ultima plebe, di cui sono bassi non sentiti i lamenti, quel tempo del regno di Murat
avrebbe pareggiato in atrocità e mala fama i più miseri tempi di Giuseppe».
L. M. Greco, storico della Calabria Citra, osservò che nel 1809 le
commissioni militari di Cosenza emisero pochissime sentenze. Ma il
dato si spiega con le esecuzioni extragiudiziali: nei rapporti del 7
settembre e 29 ottobre il sottointendente di Monteleone, de Thomasis,
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 125

affermava, ad esempio, che dei 454 ricercati del suo distretto, 310 erano
già stati uccisi e ne restavano perciò meno di un terzo (144).
Con circolare del 28 ottobre dell’intendente di Terra di Lavoro, fu
proibita la caccia ai bufali con cani e furetti, come si usava allora in
molti paesi, perché «non conv(eniva) abituare il popolo, e soprattutto le
donne e i fanciulli, al funesto spettacolo del massacro e del sangue».

La morte di Saliceti e la successione di Daure (23 dicembre 1809)


Dopo aver dato notizia, il 2 luglio, che Maghella era stato insignito
della croce di cavaliere delle Due Sicilie, il Monitore del 3 luglio
pubblicò una criptica precisazione che “fino ad allora” le funzioni del
prefetto di polizia erano state esercitate da Gabriele Lamanna. In ogni
modo la spedizione anglo-siciliana dette modo a Saliceti di tornare a
Napoli di gran carriera e di dare una nuova dimostrazione del suo sangue
freddo e della sua capacità politica sostenendo la regina sua
connazionale e scongiurando in extremis il disastroso abbandono della
capitale già deciso dall’ondivago Gioacchino. Il 6 dicembre, da Parigi, il
re scrisse a Saliceti di arrestare tutti gli amnistiati con una retata notturna
simultanea su tutto il territorio nazionale. L’ordine non fu eseguito,
perché il 23 il ministro morì improvvisamente, tre giorni dopo una “cena
col diavolo”, ossia con Maghella. L’autopsia riscontrò una colica di
fegato di origine nefritica, mettendo a tacere le voci di avvelenamento,
sufficienti però per precludere a Maghella la successione al ministero di
polizia, che fu di nuovo riunito interinalmente a quello della guerra: ma
stavolta sotto un militare, il generale Daure. Al cambio si accompagnò
tuttavia (con decreto N. 529 del 29 dicembre da Parigi) l’estensione dei
poteri del prefetto di polizia di Napoli alla provincia, trasferendo le
competenze di polizia giudiziaria dei giudici di pace ai commissari,
ispettori commissari e ispettori ordinari di polizia, posti a tal fine alle
dipendenze del procuratore generale.
Secondo l’Almanacco di Corte del 1810, il ministero aveva sede al N.
287 della Riviera di Chiaia. Il capo gabinetto centrale, Brechon, era
incaricato di trasmettere, regolare e distribuire la corrispondenza e le
decisioni del ministro nelle divisioni, dirigere la corrispondenza segreta
e istruire gli affari di cui il ministro si riservava l’esclusiva cognizione.
Capo della divisione della città e provincia di Napoli era Alessandro
d’Azzia, sostituto procuratore regio della corte d’appello di Napoli,
capoburò era Gaetano Pecheneda.

Il contrasto tra intendenza e magistratura a Cosenza (1809-10)


Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 126

Se il notabilato locale temeva la legislazione d’emergenza che, col


pretesto di tutelare la proprietà privata e l’ordine pubblico, pretendeva di
ficcare il naso nelle clientele sociali e criminalizzare il secolare istituto
del “manutengolo” (ossia il contratto di protezione tra un potente e un
latitante rifugiato nelle sue terre in cambio di piccoli favori, inclusi le
estorsioni e gli omicidi su commissione), la noblesse de robe,
potentissima nel Mezzogiorno d’Italia, non gradiva le invasioni di
campo dei traîneurs de sabre e degli intendenti che giocavano ai piccoli
Saint Just. Passata la prima fase di emergenza si scatenò il braccio di
ferro corporativo, ovviamente combattuto ore rotundo, a colpi di cavilli
legali, sonori principi universali e ipocrita filantropia.
Il più noto di questi conflitti di potere, ben raccontato da Luigi Maria
Greco, riguardò l’amnistia collettiva concessa nell’agosto 1809 dal
generale Amato alla banda Bisceglia. Il procuratore generale di Cosenza
impugnò infatti l’atto di clemenza nei confronti di uno solo degli
amnistiati (Ferdinando Aiello), come reo di omicidio aggravato dalla
qualità della vittima (il sindaco Mansi). Malgrado il crescente contrasto
con Amato, l’intendente Briot lo sostenne contro i togati, incurante di
scontentare così il notabilato cosentino, fino a provocare l’intervento del
ministro della giustizia Ricciardi che il 21 dicembre ordinò il processo.
Anche Amato fu indirettamente sconfessato dal suo superiore, generale
Cavaignac, comandante delle Due Calabrie, che il 25 gennaio 1810 fece
effettuare una retata notturna di tutti gli amnistiati della provincia che
non avevano ottemperato al minaccioso ordine, dato pochi giorni prima,
di presentarsi a Cosenza (misura geniale: ne sfuggirono parecchi, che
ovviamente ripresero a fare i briganti, incattiviti dalla mancanza di
parola). Ancor dopo il rinvio a giudizio di Aiello (20 febbraio) Briot
ostacolò il processo con tattiche dilatorie, ma la visita di Murat (19-24
maggio), l’inchiesta segreta e il trasferimento di Amato e Briot (18
settembre) consentirono di portare a termine la vendetta legale ed
esemplare del notabilato cosentino.

L’abolizione delle commissioni militari (decreto del 10 giugno 1810)


Malgrado pagine infami come l’esecuzione del duca d’Enghien e il
Dos de Mayo, dovuti del resto più al servilismo verso Napoleone e ad
incapacità di comando che ad un temperamento sanguinario, Murat
desiderava essere amato e teneva perciò ad apparire e anche a sentirsi
interiormente magnanimo. Il 10 maggio 1810, alla partenza per la grande
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 127

impresa dello sbarco in Sicilia, decretò una nuova amnistia, con termine
di presentazione al 4 giugno, poi prorogato al 15. Come abbiamo già
detto, la sosta a Cosenza (dal 19 al 24 maggio), e in particolare il
rapporto riservato dell’ordinatore Colbert sul carcere provinciale e sugli
abusi di forza, lo riempirono di sdegno.
Con decreto N. 652 del 27 maggio da Monteleone, Murat ristabilì il
regime costituzionale in tutta l’estensione del regno, restituì l’alta polizia
alle autorità civili revocando il potere di arresto agli ufficiali di linea e
legionari e abolì le commissioni militari, devolvendo le loro competenze
alle corti speciali di cui al decreto del 1° luglio 1809. Con o. d. g. del 28
maggio il capo di SM Grenier comunicò ai comandanti di divisione che
dal 1° giugno le autorità militari non potevano più impartire ordini a
quelle civili né arrestare un suddito del re: la disposizione non si
applicava però “alla polizia militare della piazza di Napoli né tampoco
alla gendarmeria”.
Secondo Colletta, Murat graziò un brigante il quale, condotto da lui in
catene presso Palmi, l’aveva scaltramente lusingato raccontando che il
giorno prima, appostato fra le rupi, aveva avuto l’occasione di sparargli,
ma non ne aveva avuto il coraggio, folgorato dall’«aspetto grande e
regio» di Gioacchino. Il 10 giugno, da Scilla, il re decretò il deferimento
alle corti criminali ordinarie della cognizione sugli abusi commessi “dai
gendarmi e qualunque altro militare” sugli imputati in stato di arresto,
custodia o traduzione. Il 9 giugno scriveva a Napoleone, da Scilla: «il
était bien temps, sire, que je vinsse visiter ce malheureux pays que j’ai
trouvé en proie à l’anarchie, aux factions et au plus affreux brigandage.
J’espère rémedier à ces maux par les mesures énergiques que j’ai prise.
La plus salutaire de toutes est sans doute celle d’avoir rendu la haute
police à l’autorité civile. Depuis quatre ans les deux provinces de
Calabre étaient absolument gouvernées militairement et la contrebande
de détail s’y faisait d’une manière effrayante par tous les militaires et par
tous les pêcheurs. Je dirai même franchement à V. M. qu’il est
impossibile de l’empêcher entièrement et qu’il n’y a que la prise de la
Sicile pour y mettre un terme».

La responsabilità civile dei comuni (decreto del 21 giugno 1810)


Questa misura moderatrice fu però bilanciata dall’inasprimento, con
decreto N. 672 del 21 giugno, del principio della responsabilità civile dei
comuni e di tutti gli abitanti per i delitti commessi nel loro territorio
“con pubblica violenza da almeno tre persone”. A meno di non avere, in
data anteriore al delitto, perseguito ed espulso dal proprio territorio i
delinquenti, o di aver fatto certificare l’impotenza delle proprie forze dal
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 128

sottointendente del distretto, i comuni erano tenuti a rifondere


integralmente i danni, nonché ad un’ammenda pari ad un quarto del
danno in caso di concorso nel reato di un abitante del comune e ad una
di 100 o 200 ducati (a seconda della popolazione inferiore o maggiore di
2.000 abitanti) per ogni militare ucciso, mutilato o rimasto invalido nel
territorio comunale, a beneficio della famiglia o della vittima. I comuni
erano tenuti (sotto la responsabilità del sindaco e dei decurioni) a
formare un elenco (aggiornato ogni anno a novembre) di tutti gli abitanti
maggiori di 15 anni, nonché un altro speciale degli oziosi, facinorosi e
vagabondi, da sottoporre a speciale vigilanza. Provvisoriamente le spese
per gli indennizzi e le ammende erano a carico dei 20 maggiori
contribuenti; in seguito si sarebbero ripartite tra tutti gli abitanti,
portando in detrazione il ricavo dei beni confiscati agli abitanti del paese
eventualmente concorrenti nel delitto.
Con decreto N. 677 del 23 giugno fu rinnovata l’amnistia ai sudditi
che abbandonavano le bandiere nemiche, estesa ai calabresi emigrati in
Sicilia, con la promessa di non essere “ricercati per nessuna loro colpa
anteriore” e la facoltà di “rientrare liberamente nella loro patria” oppure
di essere ammessi, col grado e il soldo goduti, al servizio napoletano.

Le corti speciali miste per i fuorgiudicati (decreti 2-3 luglio 1810)


Anche i successivi decreti da Scilla riflettevano le apprensioni per il
brigantaggio. Così il decreto del 30 giugno che amnistiava gli ex-
briganti arruolati “per grazia” nei corpi franchi e disertati per tornare al
brigantaggio; e i due (N. 690 e 693) del 2 e 3 luglio su competenze e
composizione delle corti speciali. Il giudizio sui fuorgiudicati, sempre
ristretto al solo accertamento dell’identità personale e all’applicazione
della pena, veniva infatti sottratto alle commissioni militari e deferito a
corti speciali miste, composte da un numero pari di giudici (6 o 8, di cui
3 o 5 civili, suppliti nei termini di legge ma su chiamata del presidente
d’accordo col procuratore generale). La nomina dei tre giudici militari
era riservata al re su proposta del ministro della guerra e la chiamata
degli eventuali supplenti al presidente (civile) della corte. Di grado non
inferiore a capitano, erano inoltre posti, per l’esercizio delle funzioni
giudiziarie, sotto la vigilanza immediata del ministro della giustizia.
La procedura era accusatoria: l’istruttoria era finalizzata allo “sviluppo
della verità nel pubblico dibattimento”. Su requisitoria del pubblico
ministero il presidente poteva delegare e far rettificare gli atti istruttori
da altro ufficiale di polizia giudiziaria anche fuori del proprio
circondario ovvero da uno dei giudici della corte criminale e militare. In
compenso veniva accentuato il carattere sommario del rito abolendo
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 129

ogni altra istruzione preliminare al dibattimento e ogni termine e


giudizio preventivo per le eccezioni di nullità degli atti e dei testimoni.
La corte doveva tuttavia tenerne “quel conto che sarà di giustizia” e
restava il termine di ventiquattrore per la notifica reciproca dei testi
prodotti dalle parti, fatta salva la facoltà della corte di rigettare gli
articoli di difesa non pertinenti, limitare i testi e dispensarsi
dall’esaminarli quando ritenesse i fatti già accertati. Era infine consentito
il ricorso in cassazione secondo la procedura ordinaria, salvo il termine
di ventiquattrore per la trasmissione degli atti da parte del ministro della
giustizia e di otto giorni per la pronuncia della gran corte.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 130

C. Lo stato di terrore in Calabria e Basilicata


1810-1811

La situazione dell’ordine pubblico in Calabria nell’estate 1810


La fase relativamente garantista inaugurata coi decreti di Scilla non
sopravvisse alla cocente delusione del re per il fallimento della grande
impresa che si era caparbiamente illuso di realizzare contro la volontà di
Napoleone. In autunno si scatenò infatti, come ora diremo, la fase più
sanguinaria e feroce della repressione, un vero e proprio “stato di
terrore”. L’unica differenza tra il rivoluzionario e il criminale comune è
che il primo sa (o dovrebbe sapere) quando fermarsi. Ma lo storico degli
stati d’eccezione li vede sempre, in ogni epoca e luogo, degradarsi dal
ferreo coraggio della necessità politica alla vile voluttà della vendetta e
della sopraffazione, prima che gli interessi forti (e forse il tedio che
aduggia i piaceri protratti, mai la pietà o il timor di Dio) vi pongano fine.
Sempre eseguite da monatti selezionati per esser deboli coi forti e forti
coi deboli, è una costante che le repressioni raggiungano il culmine della
violenza quando il “nemico interno” è già stato sconfitto sul piano
militare e politico, com’era appunto avvenuto in Calabria già nell’estate
del 1807 e si era confermato nell’estate del 1809.
Il sistema di sicurezza delle coste e delle retrovie terrestri creato alla
vigilia della campagna di Calabria dell’estate 1810 aveva dato ottima
prova: i tentativi di sbarco erano stati tutti impediti e i conati di
guerriglia soffocati sul nascere: ormai la maggior parte dei superstiti
dell’insurrezione era emigrata in Sicilia e circa tremila volontari
calabresi erano inquadrati nei corpi franchi inglesi o siciliani (v. Le Due
Sicilie, cit., II, pp. 815-26). Sappiamo, da un rapporto di Colletta del 23
aprile 1810, che in Calabria Ultra c’erano 420 amnistiati (e che per
poterli mantenere aveva dovuto contrarre un debito personale con il clan
Gagliardi). Il colonnello borbonico Carbone (lettere del 5, 20 e 31
luglio), che aveva interesse a gonfiare i dati, stimava ancora attive, nelle
due province, una decina di bande, per un totale di 1.800 latitanti (di cui
700 controllati da Bizzarro, 400 da Cicco Perri e 300 dal capitano
Giuseppe Monteleone Ronca, che l’anno prima aveva comandato i corpi
franchi anglo-calabresi alla presa di Zante). Un rapporto del 13
novembre del nuovo intendente di Cosenza, stimava i briganti della
provincia a 800-1.000, di cui un quarto presso il capoluogo.
Dalle cronache emerge in ogni modo che nell’estate 1810 la guerriglia
era ormai finita (a parte due successi riportati da Parafante contro le
colonne mobili che gli davano la caccia e l’attacco del 3 ottobre contro
la batteria di Cirella) e che anche il banditismo, pur con rari episodi
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 131

efferati che atterrivano la popolazione, tendeva ormai verso la forma


tradizionale dello scrocco. E’ illuminante, al riguardo, il caso di Greca,
«feracissimo granaio e appartata contrada», ben analizzato da L. M.
Greco. I padroni erano i galantuomini di Acri, che avevano finanziato o
anche partecipato a ripetute spedizioni contro Friddizza e accusavano i
loro enfiteuti di Greca di averle fatte fallire rifornendo e avvisando il
capobanda. Taglieggiati da Friddizza, i contadini avevano smesso di
pagare i canoni e avevano replicato ai padroni che era troppo comodo
atteggiarsi a patrioti sulla pelle degli enfiteuti. Dopo lunghi quanto vani
scambi di accuse, alla fine era prevalso il buon senso e si era cercato un
modus vivendi con Friddizza, facendogli chiedere, tramite intermediari,
di «scusare le ostilità come unicamente cagionate da superiori comandi
irrecusabili; e come riuscite vane per riguardo dei legionari non già
avversi ai battaglioni volanti, ma per vero sentimento loro soccorrevoli
amici, nemici solo alle apparenze».

Il despota delle Due Calabrie


Abbiamo già tratteggiato la figura di Manhès, figlio di procuratore del
re, capitano al seguito di Murat dal 1805, campagne di Capri, Cilento e
Scilla, salito ai vertici del regime grazie alla fama di mangiapreti e ad un
matrimonio eccellente, rivelatosi, nel 1815, inetto a comandi operativi.
Commendatore delle Due Sicilie, generale di brigata il 25 marzo 1810,
comandante superiore delle province di Chieti e L’Aquila, considerato il
“pacificatore” degli Abruzzi, il 29 luglio Manhès fu nominato
comandante della 6a Divisione militare (Due Calabrie e Basilicata),
avendo alle proprie dipendenze, quali comandanti provinciali, il generale
di brigata Laboulaye e l’aiutante comandante Montigny (noto alle
cronache cosentine per aver rapito da un convento la famosa Grazia De
Pretiis di Amantea, rinchiusa dai parenti per la “vergogna” di essere stata
stuprata da un sanguinario capomassa, già assassino dei suoi tre fratelli,
in seguito amnistiato e ucciso a sua volta da un sicario, ufficialmente per
una faida tra ex-capimassa). Comandanti dei distretti della provincia di
Cosenza erano il maresciallo di campo Vincenzo Pignatelli Strongoli
(Rossano) e il colonnello Freret (Paola e Castrovillari), della
gendarmeria il caposquadrone Genuino.
Il 1° agosto (in uno dei momenti di massima depressione circa le sorti
della campagna) il re dette istruzione a Manhès di “non togliersi gli
stivali finché i briganti non avessero cessato di esistere”. La ragione
dell’improvvisa collera di Murat contro i briganti è forse il loro ruolo
(testimoniato da un rapporto di Colletta del 13 agosto) nel contrabbando
di grano e carne con la Sicilia in cambio di coloniali e zucchero: e
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 132

vedremo (cap. 2, §. D) quanto in quel momento il re fosse assillato dal


rifornimento dei viveri.

La Medaglia d’Oro Vincenzo Pignatelli Strongoli


Pignatelli aggiunse ai legionari una «grossa banda di malfattori, parte
indultati, parte sdebitati con la giustizia per espiate condanne»,
«spargendo il terrore» (L. M. Greco). Inoltre, pur privo dei poteri di
polizia, il generale esautorò il sottintendente, l’onesto Vanni,
proclamando una finta amnistia con promessa di sussidio, coperse la
giustizia sommaria fatta da una vittima contro uno dei costituiti (“non
l’hai avuta da me, l’amnistia!”) e il 9 settembre, riuniti gli amnistiati col
pretesto di un controllo, li fece scannare sotto il portico del vescovado.
Disgustato ma impotente, Vanni riuscì a salvarne 50, scortandoli
personalmente fino a Cosenza. I decurioni di Rossano insignirono
Pignatelli di una medaglia d’oro per aver «in poco tempo procurato
l’esterminio del brigantaggio».

L’alta polizia delle Calabrie e l’ordinanza del 9 ottobre 1810


Daure, ministro di guerra, marina e polizia, fu estromesso dalle
decisioni relative alla Calabria, prese personalmente dal re: in quel
momento, come appare da una sua lettera dell’11 settembre, si sentiva
già (ma a torto) sull’orlo del licenziamento da entrambi gli incarichi
ministeriali, ambiti – scriveva – rispettivamente da Lamarque e dal duca
di Laurenzana. Il 18 settembre, lo stesso giorno della rinuncia alla
spedizione di Sicilia, Briot e Amato furono trasferiti, ancora in coppia, a
Chieti. Con decreto N. 742 del 24 settembre fu richiamato in osservanza,
fino all’aprile 1811, il decreto antibrigantaggio del 1° agosto 1809,
ristabilendo le commissioni militari a Cosenza e Monteleone per
giudicare i fuorgiudicati e i briganti presi con le armi in mano. Il 27, con
decreto N. 745, Murat tolse di nuovo all’autorità civile “l’alta polizia
delle Due Calabrie”, attribuita a Manhès, con l’incarico di “liberare
queste province dai briganti che ne turbano la tranquillità”, e mise a sua
disposizione “tutta la gendarmeria e le legioni provinciali”. Comandanti
distrettuali erano Genuino (Rossano), Dufresne (Paola), Manthoné
(Scigliano) e G. Labonia (Cosenza):
L’8 ottobre la banda Quagliarella uccise il generale di brigata L. de
Gambs mentre, da Napoli, si recava ad assumere il comando militare
della Basilicata. Con ordine del giorno nella stessa data, Manhès promise
di sterminare sia i latitanti che i “grandi colpevoli”, gli “uomini vili
quanto perfidi” che li istigavano e aiutavano “con viveri, consigli e
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 133

notizie bugiarde” e di essere “un amico, un protettore, un fratello” per i


“buoni calabresi e brave guardie civiche, sempre fedeli alla causa della
giustizia”. Con circolare del 9 ai giudici di pace, eletti di polizia e
decurioni, li rimproverò per la loro negligenza, minacciandoli di morte ai
sensi del decreto del 1° agosto 1809, quali “fautori” del brigantaggio.
Con decreto N. 772 del 29 ottobre la schedatura dei banditi fu limitata
alle province sottoposte a legge marziale (Calabrie, Basilicata, Principati
e Teramo). Con ordinanza di polizia nella stessa data Manhès intimò ai
3.000 schedati calabresi di presentarsi subito alle autorità, sotto pena di
essere passati per le armi, con scelta tra l’arruolamento in un corpo
militare e il confino con sussidio di un carlino al giorno; prescrisse la
presa in ostaggio dei parenti e la morte per il minimo soccorso ai
latitanti, con eccidio dell’intera famiglia e abbattimento della casa che, a
qualsiasi titolo, avesse dato loro ricetto; ribadì la responsabilità collettiva
dei comuni, vietò di portare viveri, foraggi e animali in campagna o
tenerne depositi nelle masserie non presidiate, e infine ordinò ai parroci
di leggere l’ordinanza dal pulpito.
I metodi di Manhès erano così riassunti in un appunto del colonnello
borbonico Carbone: a) arresto dei parenti fino al 4° grado, in particolare
delle donne; b) confisca dei beni; c) sterminio delle famiglie dei
favoreggiatori con incendio della casa; d) continue esecuzioni a
Monteleone (spesso costringendo uno dei condannati a fare il boia degli
altri); e) improvvise ispezioni del generale nei paesi con esempi
immediati e terroristici; f) rastrellamento simultaneo di tutte le Calabrie,
approfittando dei rigori invernali per stringere i latitanti in una morsa
inesorabile. Il terrore di stato era efficace: solo un pugno di paesi
(Bivongi, Spadola, Simbario, Bagnaturo, Gagliano, Gasperina) continuò
infatti a subire le minacce dei briganti.
L’11 novembre s’insediò a Cosenza il nuovo intendente, il pugnace
giornalista salernitano Matteo Galdi, un proscritto del 1794, esule in
Francia, impiegato nell’ufficio politico dell’Armée d’Italie, docente di
diritto pubblico a Brera, dal 1799 al 1802 ministro cisalpino in Olanda,
al servizio napoletano dal 1809 come intendente del Molise: nel suo
primo ordine del giorno, del 13, tuonò contro i calunniatori («son di
lunga mano avvezzo a conoscere questa genia latrice e infame»),
millantò di saper scoprire non solo i fatti, ma anche i pensieri e ingiunse
ai funzionari di obbedire a Manhès senza discutere e d’impegnarsi
piuttosto nell’abolizione del riparto feudale, decretata quattro anni prima
nel regno e rimasta lettera morta in Calabria.
Il 7 dicembre Galdi registrava la distruzione della casa e la cattura
della famiglia di Parafante, il 16 l’annientamento delle comitive di
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 134

Rosarino e Friddizza e l’uccisione di 500 briganti, inclusi Occhiuzzo e


Carnefice, luogotenenti di Parafante, e Luigi Gallo di Melito, eliminato
dai compagni per ottenere amnistia e taglia. Con ordine del giorno del 17
dicembre Manhès elogiò i legionari: dei 15 maggiori ricercati, ne
restavano solo quattro: Parafante, Bizzarro e Benincasa, per i quali la
taglia era raddoppiata a 1.000 ducati, e Friddizza, la cui testa restava a
500 (contro i 600 pagati per Rosarino). Secondo Colletta (Storia, cit.)
«di tremila che al cominciare di novembre le liste del bando
nominavano, né manco uno solo se ne leggeva al finire dell’anno».

La morte degli ultimi


Nei rapporti del 29 dicembre, 5 e 8 gennaio 1811, Galdi segnalava la
costituzione di quattro capi minori, l’esecuzione di Cicco Perri («con
trabante e druda»), la cattura di Carminantonio, la distruzione di una
comitiva di 42 maschi e 7 donne ad Acri. Con proclama del 12 gennaio
da Potenza Montigny estese alla Basilicata, fino all’uccisione dei “tre
mostri” (Taccone, Quagliarella e Carminantonio), le pene previste per i
comuni d’origine dei malviventi e l’obbligo di evacuare viveri, foraggi e
bestiame dalle masserie non presidiate a cura e spese del padrone.
Sorpreso in una grotta grazie alle indicazioni del collaboratore di
giustizia Facciale, Cicco Perri sopportò fieramente, assieme alla sua
donna, la gogna e le atroci sevizie cui furono entrambi sottoposti a
Cosenza prima dell’esecuzione. Dal patibolo maledisse il traditore, il
governo e il generale Manhès. Un rapporto di Colletta, del 21 gennaio
(confermato da uno del 31 del borbonico Carbone), dava la versione
ufficiale sulla morte di Bizzarro, rivendicata, per godere di taglia e
amnistia, sia dai suoi compagni (che avevano consegnato la testa mozza
alla polizia di Palmi), sia dalla sua “druda” Nicolina Licciardi, scesa
dall’opposto versante dell’Aspromonte col resto del cadavere caricato
sulle spalle. Con decisione salomonica, la taglia fu divisa a metà,
credendo, ma non del tutto, alla granguignolesca versione della donna
(entrata poi nel repertorio dei cantastorie) di avergli sparato nel sonno,
ancora livida delle botte con cui lui l’aveva azzittita dopo aver sbattuto il
loro bimbo contro una roccia, nel timore che il pianto attirasse una
pattuglia di legionari; i compagni, troppo vigliacchi per ammazzar da
soli quell’Oloferne, si sarebbero limitati a trarre profitto dall’ira
dell’Erinni. (Piccavano, ai galantuomini, quelle tozze ninfe in armi nei
boschi, le “drude” dei capi comitiva e le 60 “brigantesse” censite dagli
intendenti).
Friddizza fu catturato l’8 febbraio. Braccato da 1.500 legionari dal 9 al
20 febbraio, rimasto con la sua donna e un solo uomo, Parafante fu
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 135

infine scovato nel bosco Migliuso presso Nicastro. Sulla sua morte
fiorirono leggende: che avesse, con un morso, amputato il pollice al
legionario che lo scannava; che avesse fatto in tempo a pugnalare il
traditore che aveva guidato la colonna e sparato il colpo mortale. La
morte non guastò la festa già pronta per lui a Cosenza: Manhès la fece
scontare all’intera famiglia, già in ostaggio, condannata a morte in
blocco per favoreggiamento. Dal balcone della prefettura, col vescovo e
le altre autorità, si godette la consueta sfilata al patibolo, aperta dal
fratello prete in groppa all’asino (inforcato, more temporum, a rovescio e
col cartiglio infamante sulla schiena), seguito dalle donne, la madre con
la testa mozza, la druda e le sorelle ciascuna con un arto del fu Paolo
Mancuso, ultimo luogotenente del leggendario pastore Nierello.
Costretto col terrore ad eseguire personalmente, manhesiano ritu,
l’impiccagione delle sorelle, il pretonzolo svenne: dovette pensarci il
boia, rovinando il finale.
Ci pensò il re, ad addolcire l’amaro del generale: accordando a lui,
stratega dell’ultima operazione, la taglia su Benincasa, sorpreso nel
sonno ai primi di marzo nel bosco di Cassano. Secondo Colletta
sogghignò udendo la sentenza pronunciata da Manhès: porse con calma
le mani al boia che gliele mozzò e gliele appese sul petto; mangiò di
gusto, facendosi imboccare dalla scorta, durante la marcia a piedi fino a
San Giovanni in Fiore, sua patria; dormì placidamente l’ultima notte,
rifiutò i conforti religiosi e salì da solo, regale, sul palco della forca.
Il 27 aprile Montigny riferiva che Quagliarella era stato ucciso sulla
riva campana dell’Ofanto dai contadini di Ricigliano e l’intera banda
Caputo carbonizzata dentro una caverna dai contadini di Forestella di
Spinazzola. Un rapporto dell’8 aprile informava dell’uccisione di
Taccone (linciato dalla civica e dalla gente di Potenza dopo che si era
costituito) e di altri due capi da parte della civica a Pescopagano e Ascoli
Satriano.

La sorte dei carcerati di Cosenza e Castrovillari


Con decreto del 10 gennaio 1811 Murat attenuò la repressione
disponendo il censimento dei casi meritevoli di grazia, individuati da
commissioni di scrutinio provinciali presiedute dall’intendente e
composte dal comandante militare (a Cosenza lo stesso Manhès) e dal
procuratore generale. All’epoca, secondo L. M. Greco, c’erano nel
carcere di Cosenza (nell’ex-chiesa dei gesuiti) mille detenuti tra briganti
e ostaggi (inclusi donne e bambini), e 600 nella torre di Castrovillari,
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 136

vittime delle violenze, del peculato e delle estorsioni dei custodi


(Scorzafave e Minervini, sergenti degli armigeri: il secondo estorceva
tangenti promettendo evasioni, concluse invece con la consegna, a
pagamento, ai parenti delle vittime). Parecchi si suicidarono con la
cantaride o in altri modi, spesso per sottrarsi al patibolo. La febbre
carceraria ne uccise 90, soprattutto ostaggi, nell’apposita infermeria di
Cosenza e 60 a Castrovillari, finché, il 28 gennaio, su rapporto
dell’ispettore di salute Savarese, la commissione di scrutinio non decise
di sfollare il carcere di Cosenza. Quattrocento furono spediti a Brindisi e
poi altri 400 a Napoli, sotto scorta dei 2 tenenti di gendarmeria ausiliaria
(Raggio e Ammirato) che, strada facendo, ne vendettero almeno un terzo
ai parenti delle vittime. Secondo Greco lo fecero anche, in altre
occasioni, il capobattaglione legionario e protopatriota Abbate, il
capitano De Conciliis del Reggimento Isembourg e altri capiscorta.

Atrocità ricordate da P. Colletta e L. M. Greco


Affettando commozione, nella Storia del Reame Colletta cita tre
raccapriccianti episodi, e del primo (l’eccidio di 11 donne e bambini di
Stilo trovati in possesso di pane mentre raccoglievano olive in un podere
lontano, più l’umiliazione di una contadina, offertasi all’orco gallonato
nella vana speranza di ottenere la grazia almeno per il figlio dodicenne)
indica anche il responsabile (il tenente dei gendarmi di Catanzaro,
Gambacorta) affinché «ne serbi il nome la istoria». Taceva però ai lettori
la sua responsabilità personale, essendo all’epoca dei fatti intendente di
Calabria Ultra e inserito perciò nella catena di comando da cui
dipendevano Catanzaro e Stilo: non lo scusa una delazione postuma su
un’infamia che, almeno moralmente, pesava anche su di lui.
Gli altri due episodi sono l’esecuzione, a Cosenza, di un vecchio per
aver passato un tozzo di pane al figlio latitante (e costretto a «morir
secondo, ed assistente alla morte del figlio»); e di una donna di Nicastro,
rea di aver allattato il figlio di un’amica, che seguiva il marito latitante
nel bosco di San Biase.
Oltre a quelle del capitano civico Talarico e di due fratelli armigeri, di
cui abbiamo già parlato, Greco menziona altre quattro esecuzioni per
favoreggiamento: quella di dieci su tredici ostaggi, parenti di Luigi
Priolo, emigrato in Sicilia; quella di due avidi mugnai di Rose; di Maria
Antonia de Marco di Pedace, impiccata per aver portato da mangiare al
marito Andrea Basile, volontario nei corpi volanti dal 1807, caduto armi
in pugno inneggiando alla chiesa e a Ferdinando [come ultima grazia
aveva chiesto, e ottenuto, di poter morire a capo velato, come donna
onesta che s’era sciolta i capelli solo di fronte al marito: il nodo del
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 137

fazzoletto impedì al cappio di finirla: graziata dal superstizioso


mangiapreti, sopravvisse storpiata]. Manhès aveva idee avanzate sugli
embrioni: debitamente pregato, degnò concedere la vita a due citoli figli
del favoreggiatore Saverio Roda, non al ventre pregno della madre.
Draconiano con gli straccioni e i tozzi di pane, non risulta che lo sia
stato coi manutengoli eccellenti che brindavano untuosi ai suoi successi.

Benemerito della patria


Imparziale, Colletta sentenziò del correo (Storia, cit., VII, xxix):
«l’immagine di felicità pubblica, nuova e insperata, generò lodi altissime al generale
ed al governo. Ma dipoi, satollo del bene, e come usa il popolo per leggerezza ed
ingratitudine, andava rammentando le crudeltà delle Calabrie, ai fatti veri aggiungendo
i falsi, inventati da maligno ingegno, creduti dalla moltitudine, registrati perfino ne’
libri che dicevano d’istoria. Perciò doppia, buona o pessima, è la fama del generale
Manhès; ed io, fra le opposte sentenze, dirò la mia. Egli, inumano, violento, ambizioso,
corrotto dalla fortuna e dalle carezze del re, tenendo come principii di governo gli
eccessi delle rivoluzioni; ma sommamente retto, operoso, infaticabile, tenace del
proponimento, riguardava la morte dei briganti come giusta, e le crudeltà come forme
al morire, che, poco aggiungendo al supplizio, giovano molto all’esempio. Credeva
necessaria l’asprezza delle sue ordinanze, e, poiché pubblicate, legittimo
l’adempimento. La sua opera quale fosse per l’avvenire l’ho detto altrove,
considerando i mali e i pericoli che derivano dallo sciogliere i legami di natura e di
società, ma fu di presente utilissima. Il brigantaggio del 1810 teneva il regno in foco,
distruggitore d’uomini e di cose cittadine; senza fine politico, alimentato di vendette, di
sdegni, o, più turpemente, d’invidia al nostro bene, e di furore. E perciò, raccogliendo
in breve le cose dette, il brigantaggio era enormità, ed il generale Manhès fu istromento
d’inflessibile giustizia, incapace, come sono i flagelli, di limite o di misura».
Secondo L. M. Greco Manhès «ebbe maledizioni segrete, lodi ed
onorificenze palesi». Dalla Calabria riportò una sciabola d’onore con la
seguente iscrizione: «per ristabilita tranquillità – il distretto di
Castrovillari, riconoscente». Con parere del consiglio di stato del 25
gennaio 1811, approvato con decreto N. 908 del 22 febbraio, la città di
Cosenza fu autorizzata a conferirgli la cittadinanza onoraria. Non furono
tuttavia attuate le delibere di erigergli una lapide marmorea e inviargli
una medaglia d’oro.
Con ordine del giorno dell’8 aprile 1811 Manhès estese alla Basilicata
le norme speciali per la Calabria, minacciando le più severe punizioni
contro preti, sindaci, decurioni e proprietari in caso di mancata
ottemperanza e contro i paesi che avessero lasciato passare un solo
brigante: se i briganti prendevano un solo capo di bestiame l’intera
mandria era confiscata. I sindaci dovevano compilare le liste degli atti
alle armi, tenuti a 2 giorni di servizio settimanali (pagando un sostituto
in caso di malattia), i parroci suonare a martello in caso di pericolo. I
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 138

lavoratori potevano andare in campagna solo armati, in gruppo e senza


viveri (inviati a parte sotto scorta) e le greggi al pascolo solo sotto scorta
di 30 armati. Meno immemore e ingrata di Cosenza, sotto il fascismo
Potenza gli dedicò la rampa che collega la stazione ferroviaria con Porta
San Luca: il toponimo è noto, perché vi sorge un palazzo, già sede del
consiglio regionale, ora acquistato dall’università.

L’opposizione del ministero della giustizia


La repressione indiscriminata non mancò ovviamente di suscitare
contromisure sotterranee da parte del notabilato che temeva di esserne
lambito. In mancanza di indizi diretti, si può solo ipotizzare che vi siano
state pressioni discrete dietro il decreto N. 833 del 27 dicembre 1810, da
Napoli, che estendeva le competenze delle corti speciali ai protettori,
fautori, complici e corrispondenti dei briganti. Il motivo ufficiale era
che, “in caso contrario”, “il fine salutare della legge (antibrigantaggio)
sarebbe (stato) manifestamente tradito”; ma la sostanza era di sottrarre
questi casi delicati alla giustizia sommaria dei militari.
Ci siamo già occupati, a proposito della gendarmeria (capitolo 1, §. B)
della bocciatura da parte del consiglio di stato (con parere del 22 marzo)
della bozza di decreto proposto dal ministro della guerra che sospendeva
i procedimenti per violenza nell’esecuzione di un arresto sino al giudizio
definitivo dell’individuo arrestato. Un altro parere reso nella stessa data,
era però di segno opposto: dava infatti torto al ministro della giustizia,
che voleva conservare la competenza delle corti speciali anche sugli
amnistiati che, arruolati nell’esercito, disertavano tornando al
brigantaggio, e ragione, almeno in parte, al ministro di polizia generale
che proponeva di farli giudicare dalle commissioni militari (ma soltanto
nelle province in cui erano già state istituite). Murat approvò i due pareri
con decreti dell’11 maggio, da Parigi.
Nel consiglio dei ministri del 9 maggio il ministro della giustizia
Ricciardi si oppose alla proposta del ministro degli interni Zurlo di
estendere la legge marziale e le competenze di Manhès alle province di
Lecce, Bari e Avellino e criticò le misure stabilite dal generale. Le
critiche non vertevano però sulla saevitas, ma sul danno economico che
provocavano ai grossi proprietari agricoli, specie d’estate, il divieto di
portar viveri in campagna e tenerne nelle masserie e l’obbligo di riunire
nell’abitato tutti gli animali del paese e di fare la guardia anche due
giorni di seguito (sottraendo un terzo dei braccianti ai lavori). Ricciardi
accusava pure il generale di eccesso di potere per non aver esentato
magistrati, funzionari e clero dall’armamento e aver “portato la mano”
sul giudice di pace di Tolve, con grande scandalo in tutta la Basilicata;
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 139

nonché le commissioni militari di Salerno e Matera di aver condannato a


morte o ai lavori pubblici molte persone, inclusa una donna, graziate col
decreto del 10 gennaio.
Schierandosi con Ricciardi, il ministro delle finanze Mosbourg
propose di limitare i poteri del generale, ma quello degl’interni Zurlo
difese Manhès, dichiarando che il consiglio non poteva pronunciarsi in
merito ai rilievi senza averlo sentito, «per non lasciar esposto alla
calunnia un uomo che agiva con vigore e con zelo» e che anche nel caso
di Tolve aveva «agito secondo giustizia e bene pubblico richiedevano».
Nel consiglio del 16 maggio Mosbourg mutò campo: bocciata l’amnistia
generale proposta da Ricciardi, fu approvato invece il mantenimento dei
larghi poteri da parte del generale.

I decreti del 19 e 20 giugno 1811 su corti speciali e “pentiti”


Con decreti del 19 e 20 giugno (N. 1001-02) le future nomine di
giudici militari nelle corti speciali furono limitate agli ufficiali in ritiro o
riforma, concedendo loro il soldo di attività (agli ufficiali in attività già
nominati giudici era invece concessa una gratifica mensile di 30 ducati
sul bilancio della giustizia).
Con decreto N. 1003 del 20 giugno le commissioni provinciali di
scrutinio istituite con decreto del 10 gennaio furono incaricate di
classificare “a misura delle loro colpe” i collaboratori di giustizia (“gli
imputati che han procurato di espiare le loro colpe con distinti servizi
resi allo stato nella distruzione del brigantaggio”), annotando la natura e
l’epoca delle colpe e l’importanza dei servizi, facendone poi rapporto,
entro il 15 settembre, al ministro della giustizia, per le proposte di grazia
da sottoporre al consiglio privato. Nel frattempo erano sospese le
esecuzioni dei mandati di cattura e le emissioni di nuovi, a condizione di
presentarsi entro il 15 settembre e con decadenza dal beneficio se
commettevano nuovi delitti puniti con pena afflittiva o infamante. [Con
quesito del 14 agosto Galdi chiese al ministro di polizia
un’interpretazione autentica sull’intento del decreto, per chiarire se
rifletteva “una politica d’indulgenza” (verso tutti i pentiti) ovvero era
“diretto allo stretto interesse di giustizia” (di premiare i collaboranti a
seconda dei servizi resi).]
Sul presupposto che “la tranquillità ristabilita in ogni parte del regno”
consentiva “di diminuire (…) un rigore che (era) stato fin qui tanto
penoso al cuore (del re), quanto necessario al ristabilimento dell’ordine”,
il decreto N. 1004, sempre del 20 giugno, estese a tutti i briganti
presentati o detenuti le disposizioni del decreto del 10 gennaio e limitò la
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 140

competenza delle commissioni militari al solo caso dei briganti presi con
le armi in pugno.

La grazia ai congiurati di Mondragone e altri atti di clemenza


La congiura di Fra Giusto, ricordata da Colletta, per uccidere il re
durante una partita di caccia nelle foreste di Mondragone, offerse a
Murat l’occasione di mostrarsi magnanimo, graziando, dopo la
requisitoria del pubblico ministero e prima della sentenza della corte, i
28 imputati, per i quali erano state richieste sette condanne a morte e
ventuno ergastoli.
Creato conte il 23 marzo 1811, Daure dovette dimettersi il 17 agosto,
quando Maghella mostrò al re le prove irrefutabili della relazione
adulterina tra il ministro e la regina, ottenendo in premio il portafoglio
della polizia. Con decreti N. 1079 (settembre) e 1108 (ottobre) furono
sottratti alle commissioni militari (e dunque alla pena di morte) il furto
sulle pubbliche strade e il ricatto e “incesso” per le campagne e attenuate
le misure contro il banditismo previste dal codice penale.

Immunità per gli abusi di forza e nuove commissioni militari


Questi primi segni di moderazione furono bilanciati dalla nomina di
Manhès (28 febbraio 1812) a Primo ispettore della gendarmeria e dal
successivo decreto N. 1407 del 13 luglio che, rovesciando il parere
garantista reso sedici mesi prima dal consiglio di stato, accordò a
gendarmi e legionari l’immunità per gli eventuali abusi durante
l’esecuzione di arresti ordinati da autorità superiori. Con decreto della
reggente N. 1606 del 28 gennaio 1813 fu deferito a commissione
militare il giudizio sui briganti calabresi evasi dai lavori pubblici a
Brindisi, tenendo conto non solo dei delitti commessi dopo l’evasione
ma anche di quelli anteriori e già giudicati. Con decreto del N. 1675 del
1° aprile la polizia giudiziaria nella provincia di Napoli, eccetto che nella
capitale, fu tolta ai funzionari di polizia e restituita ai giudici di pace.
Con decreto N. 1867 del 29 luglio furono istituite nuove commissioni
militari (nominate dal comandante militare su richiesta dell’intendente)
per giudicare le contravvenzioni al cordone sanitario stabilito con decreti
del 26 e 28 maggio e del 10, 111 e 28 giugno (con esecuzione delle
condanne a morte entro 6 ore). Nell’intento di ridurre il brigantaggio a
mera criminalità, si usò invece clemenza nei confronti degli agenti
inglesi: il Monitore del 24 luglio 1812 dette risalto alla grazia concessa a
14 persone trovate in possesso di passaporti, commissioni e istruzioni di
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 141

Bentinck (due ebbero la pena commutata a 20 anni di reclusione, sei


furono sottoposto a misure di vigilanza e gli altri rilasciati).

D. La repressione della carboneria


1812-15

La nuova minaccia della carboneria e la destituzione di Maghella


Non entriamo nella vexata quaestio delle origini della carboneria
[Colletta la faceva risalire al 1809; la storica Angela Valente retrodata al
1807 in base ad un documento considerato falso da Nino Cortese;
secondo l’opinione prevalente sarebbe stata infatti “introdotta” in
Calabria e in Abruzzo da Briot, esponente della setta dei buoni cugini
della Franca Contea, considerata anche dal generale piemontese Rossetti
la casa madre dei carbonari; un rapporto da Milano della polizia
austriaca, del 1815, la faceva addirittura risalire al 1718 e alla famiglia
Pignatelli, considerandola come una lega del popolo minuto per la difesa
della religione e contro i soprusi dei potenti]. Certamente essa fu, tra le
sette tollerate nel regno [massoneria, filadelfi, fratelli patriottici –
derivanti dalla società patriottica del 1792 e dai due club, repubblicano e
moderato, in cui si divise nel 1794 – patrioti europei e infine i “calderari
del contrapese” creato con l’appoggio di Canosa per infiltrare le vendite
carbonare e, sfuggiti di mano, sciolti nel 1816] la referente degli agenti
dell’arciduca Francesco d’Austria Este (genero di Vittorio Emanuele I e
futuro duca di Modena) e di lord Bentinck che agitavano l’idea
romantica e liberale della resistenza popolare, dell’indipendenza italiana
e della costituzione parlamentare contro il dispotismo napoleonico, la cui
influenza, iniziata già nel 1809, si estese negli strati superiori della
società meridionale a partire dal 1812.
Pur senza tener conto del ruolo svolto dagli empori insulari inglesi di
Lissa e Ponza nella conquista dei capitali, e perciò dei “cuori e delle
menti”, della borghesia italiana creata dal dominio napoleonico ma
rovinata dal blocco continentale, Colletta (Storia, cit., VII, liii) testimonia
il forte impatto che ebbe anche nel regno di Napoli la pur effimera
rivoluzione parlamentare siciliana appoggiata da Bentinck, creando le
premesse ideologiche per un’inedita alleanza tattica tra legittimisti
borbonici e liberali delusi dal regime murattiano.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 142

La carboneria era appoggiata alla rete delle logge massoniche [17


nella capitale, 23 in Terra di Lavoro e 304 nelle altre province, secondo
il rapporto fatto il 15 marzo 1815 al principe ereditario borbonico dal
consigliere di stato Vecchione, noto doppiogiochista]: nonostante la
differenze ideologiche (laici i massoni, cattolici i carbonari) i fratelli
iniziati potevano avere la doppia appartenenza, e i “cavalieri Kadosh”
anche presiedere le vendite. Sul piano politico la carboneria era anzitutto
antibonapartista; ma ciò non significava che dovesse necessariamente
allearsi coi legittimisti borbonici e non potesse invece cooperare col
regime murattiano nel momento in cui difendeva l’autonomia del regno
contro l’impero e anzi scendeva in campo dalla parte degli Alleati. La
parte più avvertita dello stesso governo, in particolare Maghella, pensava
quindi di utilizzarla nel processo di distacco del regno dalla Francia e di
riavvicinamento all’Inghilterra, al punto che, secondo Colletta, il
ministro tentò di convincere lo stesso re ad assumere la direzione della
setta.
Le manovre di Maghella non sfuggirono all’ambasciatore e alla polizia
francesi: il 29 febbraio 1812 Napoleone incaricò il ministro degli esteri
di far notificare al collega napoletano il richiamo in patria del “signor
Maghella”, cittadino francese, «prévenu d’intrigues contre la sûreté de
l’Empire, et (…) d’intelligence avec les Anglais pour faire un
mouvement de soi-disant patriotes en Italie», intimandogli l’espulsione
immediata con obbligo di rientrare in Francia, pena l’arresto. Il 21 marzo
l’ex intendente di Salerno Mandrini fu nominato prefetto di polizia di
Napoli e il 18 aprile il dicastero passò a Ottavio Mormile duca di
Campochiaro, il diplomatico che nel 1798 aveva firmato a Vienna
l’alleanza con l’Austria e il 13 febbraio 1806 aveva portato a Giuseppe
Bonaparte la sottomissione del consiglio di reggenza. Il maresciallo di
campo e barone Giuseppe Rossetti, torinese e non ostile alla carboneria,
fu poi nominato comandante militare delle forze impiegate dal ministero
di polizia, bilanciando così i poteri di Manhès. La svolta repressiva nei
confronti della carboneria avvenne infatti solo tredici mesi dopo, con la
circolare ministeriale del 7 aprile 1813 [contemporanea cioè all’inizio
del negoziato segreto con il comando inglese di Ponza, aperto dallo
stesso Campochiaro su ordine di Murat ma all’insaputa del ministro
degli esteri Gallo] che invitava gli intendenti a vigilare sulle vendite
carbonare.

L’esecuzione di “Capobianco”
A far precipitare i rapporti con la carboneria, benché non ancora messa
formalmente fuorilegge, provvide l’ottuso Manhès, mantenuto al
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 143

comando della 5a Divisione territoriale (Calabria), che [sentendosi anche


personalmente offeso dalla scoperta di una vendita carbonara nel 4° di
linea Real Sannita, da lui formato in Abruzzo e all’epoca di stanza a
Tropea] perseguitò la setta con le commissioni militari e le condanne a
morte, senza tener conto (come rilevava Colletta) che «le violenze e le
asprezze poco innanzi adoperate contro il brigantaggio non si poteva
riadoperarle contro la setta dei Carbonari, perocché il brigantaggio
esercitava misfatti, la setta chiedeva leggi; ed erano i briganti i più tristi
della società, Carbonari gli onesti: la Carboneria si depravò col crescere,
ma in quel tempo era innocente; venne richiesta o approvata dal
governo, aveva riti e voti benèfici e civili».
Esponente di spicco della carboneria in Calabria era Vincenzo Federici
di Altilia, uno dei “patrioti” del 1809, detto Capobianco («giovine
potente, audace capitano della milizia urbana nella sua terra»). Non
osando andarlo ad arrestare nell’imprendibile Altilia, «si faceva
sembiante di non crederlo reo, mentre egli, sospettoso e scaltro, sfuggiva
le secrete insidie». Fu preso infine con l’inganno dall’aiutante generale
Jannelli, comandante provinciale di Cosenza, che, fingendosi suo amico,
lo invitò a pranzo a casa sua con gli ufficiali della legione e le autorità
civili ed ecclesiastiche. Temendo un agguato per strada, Capobianco
arrivò a Cosenza per vie traverse e con scorta armata, ma fu arrestato
dalla gendarmeria dopo il pranzo, appena uscito dalla sala. Condannato a
morte il giorno dopo dalla commissione militare, fu decapitato in piazza.
L’esempio sparse il terrore, provocando molte fughe in Sicilia.

La cautela della reggente (30 settembre e 21 ottobre 1813)


Il consiglio dei ministri del 30 settembre cercò di circoscrivere il
danno: ascoltati i rapporti, la reggente ordinò infatti ai ministri del culto,
dell’interno, della guerra e delle finanze d’inviare circolari riservate
(«concepite con senno, animo e destrezza») a «tutti quei funzionari che
si crederanno capaci di secondare le vedute del governo», con ordine di
«screditare e far cessare le riunioni suddette, evitando però di attaccar la
società in massa ed i principii ch’ella affetta di professare, perché pieni
di filantropia, di beneficenza e di virtù; ma insistendo al tempo stesso
vigorosamente sull’abuso che alcuni mal intenzionati (avevano) fatto
delle riunioni medesime, ove (erano) stati ammessi, ed ove (avevano)
macchinati dei complotti tendenti a ladronecci, ad assassinii, ed a
saccheggi delle pubbliche cose». Il consiglio del 21 destituì il rettore, il
vicedirettore e alcuni maestri del collegio reale di Cosenza per
propaganda carbonara, ma, su rapporto del ministro di polizia, biasimò
la decisione di Manhès di aver trascurato la confisca dei beni di
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 144

Capobianco e di aver invece obbligato la sua famiglia a pagare (a


Jannelli?) la taglia di 1.500 franchi. La reggente tuttavia non volle
revocare il provvedimento, pur disponendo che si facesse “sentire al
generale l’irregolarità della sua condotta”.

L’ordine del giorno di Murat all’esercito (6 novembre 1813)


Secondo Colletta «i più amici di Gioacchino, i più legati alla sua
fortuna, non settari, non torbidi, lo pregavano a disarmare la Carboneria
con gli usati mezzi di pubblicità e di lusinghe, come già in Francia e tra
noi erasi praticato per la Massoneria; ma lo sdegno, potente in lui, lo
teneva saldo nel mal preso consiglio». Informato della “congiura”
calabrese e delle infiltrazioni carbonare tra le truppe mentre si trovava
ancora in Germania, alla vigilia del rientro a Napoli (6 novembre) inviò
al capo di stato maggiore Aymé un ordine del giorno all’esercito, in cui,
dopo aver garantito che «le truppe napoletane, le quali (erano) in viaggio
verso la Patria, d’ora innanzi (sarebbero state) adibite solo per la difesa e
l’indipendenza della Patria», manifestava dolore nell’apprendere che
«alcuni ufficiali e soldati suoi avevan continuato a far parte di queste
società criminali vietate dal governo: il re si (era) dichiarato gran
maestro dell’ordine massonico, e ne (sarebbe stato) protettore finché si
(fosse comportato) bene. Ma non (avrebbe saputo) tollerare l’esistenza di
queste logge di carbonari composte di uomini senza morale, senza fede,
infine di nemici del Governo e della patria. In conseguenza, il re (aveva)
ordinato di chiudere tutte le logge carbonare del Reame, e in quarantotto
ore quelle che (fossero esistite) nei corpi (dovevano essere) ugualmente
chiuse; (aveva) ordinato che i registri e gli stati (fossero) rimessi al
colonnello che li (doveva far) pubblicamente bruciare, e che tutti gli
ufficiali, sottufficiali e soldato che ne (facevano) parte ne (dovevano
fare) la dichiarazione al loro colonnello; infine S. M. intima(va) la
destituzione a chi non (avesse) in quaranta otto ore dichiarato».
L’8 dicembre Maghella rientrò a Napoli da Parigi. Il 21 gennaio 1814
fu nominato direttore generale di polizia degli stati romani e il 28 anche
dei dipartimenti meridionali italici, avendo come segretario Domenico
Montone, già segretario generale della prefettura di polizia di Napoli.
Furono inoltre nominati commissari generali di polizia a Roma Giacomo
Zuccheri e a Firenze Giustino Fortunato. In febbraio, Campochiaro seguì
Murat in Alta Italia e fu in seguito inviato a Vienna in missione
diplomatica. Il ministero, assunto interinalmente da Maghella, passò
infine al duca di Laurenzana.
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 145

Il moto carbonaro nel distretto di Penne (19-31 marzo 1814)


Neppure un autore attento ai retroscena clandestini come Maurice
Weil ha rintracciato interventi di agenti di Bentinck o di Nugent (l’uno
cobelligerante e l’altro alleato di Murat, ma entrambi a lui fieramente
ostili) nel moto carbonaro scoppiato nell’Abruzzo Ultra I nel marzo
1814; ma la sua concomitanza col braccio di ferro anglo-napoletano
circa la base toscana e con le operazioni di Nugent in Romagna, nonché
la scelta dei congiurati di riunirsi in prossimità del litorale (nel casino di
Vincenzo Clemente in località Castellammare di Pescara) destano
qualche sospetto. Secondo Colletta il disegno dei congiurati era di
proclamare decaduto Gioacchino e re costituzionale Ferdinando, e il
fatto che l’esercito fosse impegnato sul Po contro i resti dell’Armée
d’Italie dava loro speranze di poter sollevare il regno e imporsi alle
truppe di sicurezza interna. Il piano insurrezionale, definito il 19 marzo,
prevedeva d’impadronirsi di Pescara il 25, onomastico della regina,
sopraffacendo la guarnigione quando fosse schierata in piazza per il
previsto Te Deum. Il colpo fu però dissuaso dalle misure di sicurezza
prese dal comandante della piazza, capitano Filieu (Feliù?, Filleul?),
avvisato per resipiscenza dallo stesso gran maestro della carboneria
pescarese (Gennaro Sabatini). I carbonari di Città Sant’Angelo, più
audaci degli altri, decisero allora di agire da soli e il 27, disarmati i 6 o 7
soldati del posto, formarono un triumvirato provvisorio, abbatterono i
telegrafi costieri di Silvi e Castellammare per ritardare l’allarme,
riunirono 300 guardie civiche e la sera del 29, rinforzati dai contingenti
di Penne, Castiglione Messer Raimondo e Penna Sant’Andrea,
marciarono su Pescara col tricolore carbonaro (rosso–nero–celeste).
Mentre attraversavano la pineta, un colpo partito per errore bastò a
gettarli nel panico e a disperderli come passerotti. Il 31 lo stormo ritentò
su Teramo, ma a metà strada, dopo un breve scambio di fucilate col
battaglione di sicurezza provinciale, volse di nuovo in fuga (secondo
Colletta furono e «i provvedimenti dell’intendente Monteiasi ed il
sollecito muovere d’alcune squadre di gendarmi» ad impedire loro il
passaggio della Pescara). A quel punto il triumvirato si sciolse e, fidando
nel perdono, rimise il potere ai funzionari deposti.

L’esame in consiglio dei ministri (30 marzo e 1° aprile 1814)


Nel consiglio dei ministri del 30 marzo Ricciardi e Maghella si
opposero alla richiesta di Zurlo, Mosbourg e Pignatelli di affidare di
nuovo l’alta polizia ai comandanti delle Divisioni militari e la reggente
deliberò di affidare fino a maggio al generale Amato quella sola dei Tre
Abruzzi. Il governo deliberò inoltre di opporre il solo disprezzo ai settari
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 146

perché ogni misura rigorosa sarebbe servita solo «ad indurarli e ad


accrescerli». Nella sessione del 1° aprile Maghella e Macdonald
comunicarono i rapporti ricevuti da Amato e dagli intendenti e
comandanti militari delle tre province, ravvisando una certa debolezza
da parte delle autorità civili e in particolare del sottointendente di
Lanciano che aveva dato motivo d’istigare la follia dei traviati. Ricciardi
concordò sulla necessità di estendere ancora le commissioni militari ma
si oppose alla proposta di Pignatelli di aumentare i poteri del consiglio
già autorizzato dalla polizia. La reggente deliberò l’invio in Abruzzo di
500 uomini del 1° leggero e la riunione delle truppe a Pescara presso il
deposito del reggimento “italiano” (il vecchio 6° di linea, reclutato nelle
Marche).

Il decreto di Bologna contro la carboneria (4 aprile-1° maggio)


Murat fu informato degli eventi dal barone Tulli, accorso a tal fine a
Bologna. Secondo Colletta, «essendo nell’esercito molti soldati
abruzzesi, uniti a reggimento [il 4° di linea] fu prima cura del re
nascondere quei casi». Ma poi, su proposta del ministro degli interni
Zurlo, vietò con decreto N. 2068 del 4 aprile le associazioni dei
carbonari, punendo ai sensi del codice penale le riunioni successive alla
pubblicazione del decreto (cospirazioni contro lo stato, ex–art. 87 e 88)
le nuove affiliazioni e il semplice proselitismo (proposizione di
cospirazione, ex–art. 90). In compenso l’art. 4 del decreto metteva una
pietra sopra il passato, limitando le indagini e l’azione penale ai soli rei
delle insorgenze avvenute nel distretto di Penne e del tentato attacco del
31 contro Teramo, puniti con tutto il rigore delle leggi.
Il consiglio dei ministri del 7 aprile lamentò che il re avesse ricevuto
rapporti esagerati sulla situazione del regno, che in fondo era quieto. Gli
unici eccessi degni di castigo erano avvenuti a Civita di Penne e a Città
Sant’Angelo, anche se Lanciano era rimasta tranquilla solo per il pronto
intervento delle truppe di Amato. Non occorrevano inoltre commissari
straordinari: Zurlo era partito con pieni poteri e de Thomasis era in
missione all’Aquila. Le uniche persone adatte erano semmai M. Delfico
(che era però a letto malato) e il consigliere di stato barone Nolli
(impegnato però nella commissione di finanza).
Ricevuto il decreto solo l’11 aprile, la reggente ne fece diramare copie
a Ricciardi e Maghella e il 15 deliberò che fosse eseguito dai due capi
della gendarmeria e polizia, Manhès e Rossetti. Il 13, con decreto N.
2069, la reggente aveva già richiamato in vigore in tutte le province del
regno, fino a nuova disposizione, tutte le disposizioni antibrigantaggio
del 1° agosto 1809 e 29 ottobre 1810. Il 16 aprile arrivò di rinforzo a
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 147

Pescara, attraversando anche i centri ribelli, la brigata di Florestano Pepe


(3 battaglioni dell’8° di linea, 1 squadrone e 2 pezzi). Il 18 la reggente
nominò comandante militare di Teramo il generale Montigny, arrivato il
1° maggio con nuove truppe da Chieti, il quale fece subito occupare
Civita S. Angelo.

L’“intentona” dei generali (Borgo San Donnino, 26 aprile 1814)


Intanto la Gazzetta dell’Arno del 21 aprile dette notizia del progetto
murattiano di nominare tre commissioni incaricate di predisporre un
progetto di costituzione e la riforma del codice civile, della pubblica
amministrazione e del sistema tributario. Non credendo alla sincerità del
re, il 26 aprile, mentre iniziava il ritiro delle truppe dalle Legazioni, i
generali del corpo d’armata (alcuni dei quali creati baroni appena il
giorno prima da Murat), si riunirono al quartier generale di Borgo San
Donnino per decidere di marciare su Napoli e imporre la costituzione
con la forza. Condizionarono però l’impresa al sostegno inglese e
inviarono Filangieri a Genova per chiedere a Bentinck un sussidio di
50.000 sterline, pari a due mesi di paga delle truppe. Bentinck pose però
la condizione che proclamassero la restaurazione di re Ferdinando e quei
velleitari non se la sentirono di essere conseguenti con la decisione
d’intromettersi in politica fino al punto di sbarazzarsi cinicamente
dell’uomo cui dovevano carriere e patrimoni. Non è noto se Murat abbia
sempre ignorato l’“intentona” di San Donnino oppure abbia deciso
(com’era nel suo fatuo carattere) di far finta di niente. Del resto, anche
se li avesse fatti fucilare, non avrebbe saputo con chi sostituirli.

Il divieto di pubblicare la dissociazione della massoneria (28 aprile)


Il consiglio dei ministri del 28 aprile esaminò un rapporto riservato di
Maghella circa la decisione dei massoni di “espellere dal loro seno” i
carbonari e la richiesta di poter convocare a tale scopo una riunione
generale delle logge e diffondere un relativo opuscolo a stampa tra i
delegati e poi tra tutti gli altri fratelli. Rilevato «che tutta sorta di unioni
essendo riprovata dalli Governi ben stabiliti, e che ove talvolta si
toll(erassero) ciò (era) per effetto di politiche riflessioni» il consiglio,
con l’approvazione della reggente, deliberò di respingere la richiesta
della pubblicazione, per non «dare alla (carboneria) una notorietà che
serv(iva) a maggiormente scaldare la testa dei settari».

L’annuncio dell’intenzione di concedere la costituzione (8 maggio)


Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 148

Tornato a Napoli il 2 maggio, il 4 Murat ridusse lo stipendio dei


ministri da 10.000 ducati a 6.000 (cifra percepita sotto i Borboni). Il 6
seguirono l’abolizione di varie imposte e una prima liberalizzazione del
commercio estero e l’8 l’annuncio, alle deputazioni del consiglio di stato
e della gran corte di cassazione, dell’intenzione di concedere una
costituzione. Il 10 Carrascosa fu nominato comandante del corpo
d’armata d’Ancona e con decreto N. 2107 dell’11 le competenze delle
commissioni militari furono limitate al brigantaggio e al tradimento [a)
arruolamento a favore del nemico; b) diserzione al nemico; c)
spionaggio militare; d) cattura di emigrati in atto di servire contro lo
stato; e) cattura di prigionieri di guerra mancanti alla parola di non
combattere].

Nuove rivolte in Abruzzo e Puglia (12 e 16 maggio 1814)


A placare gli animi non bastava più la politica degli annunci. Il 12
maggio vi fu una nuova rivolta a Montereale (AQ) capeggiata da un
fabbro, un calzolaio, un usciere e una guardia campestre; un’altra rivolta
a Maglie (LE) il 16, lo stesso giorno in cui il re dava alle nuove bandiere
e stendardi dei reggimenti golpisti la divisa “Onore e Fedeltà senza
macchia”. Le rivolte indussero il governo a dare un esempio di fermezza
e il 15 dispose l’arresto dei capi del governo provvisorio di Civita
Sant’Angelo, provocando la fuga di parecchi carbonari in territorio
pontificio. Inoltre con decreto N. 2118 del 20 maggio fu aggiunto alle
competenze delle commissioni militari un settimo caso, ossia l’arresto
«in fragranza o quasi, di clamori o di fatti commessi in luoghi pubblici
ad oggetto di eccitare il popolo alla rivolta contro del Governo». [Il 19
maggio, a Torino, 4 cospiratori napoletani e romani avevano partecipato,
con 2 corsi, 2 genovesi, 2 italici e 4 piemontesi, di cui almeno sue
appartenenti ai Sublimes Maîtres Parfaits, al congresso costitutivo del
«piano per la rinascita dell’Impero Romano», e approvato un’adresse
che offriva la corona a Napoleone redatta dal consigliere di stato nonché
primate teramano Melchiorre Delfico].

Il “pronunciamento” dei generali (Ancona, fine di maggio 1814)


La pubblicazione, sul Monitore del 24 maggio, dei decreti di nomina
di 4 commissioni per la riforma dei codici civile, penale, di procedura e
di commercio, fu interpretata dall’opinione pubblica napoletana come la
revoca implicita della promessa di concedere la costituzione.
Per la seconda volta Carrascosa riunì al suo quartier generale (ora ad
Ancona) i 15 generali del corpo d’armata. Guglielmo Pepe propose di
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 149

rompere ogni indugio e marciare senz’altro su Napoli. Con la sua brigata


di Senigallia (rinforzata da un reggimento di lancieri e dal 6° di linea
“italiano”, ossia marchigiano) avrebbe marciato per primo per Iesi in
Abruzzo, dove avrebbe riarmato i carbonari. Spaventati, i colleghi
appoggiarono la proposta temporeggiatrice di D’Ambrosio di limitarsi
per ora a firmare un’adresse (“indirizzo”) che intimava al re di
proclamare subito, spontaneamente, la costituzione, sotto minaccia di
marciare su Napoli. Firmarono in tredici, incluso Colletta (che tace il
fatto nella sua Storia): Macdonald e Caracciolo di Roccaromana (non
presenti ad Ancona) rifiutarono la firma che, a quanto sembra, fu
richiesta in seguito anche a loro. Incluso da Pepe tra gli «eunuchi
politici», firmò, riluttante, pure Carrascosa, ma si cautelò informando
segretamente il re: lo stesso fece D’Ambrosio.

Un re repubblicano
In preda all’ira, Murat ordinò a Pepe di presentarsi a Napoli per essere
giudicato dal consiglio di guerra: ma invece di farlo arrestare al suo
arrivo, lo ricevette a Palazzo Reale e, dopo averlo investito di aspri
rimproveri, si abbandonò more solito al melodramma («croyez-vous
donc que j’ai oublié que moi aussi, j’ai été républicain?») e si limitò ad
ordinargli di restare a Napoli sotto parola d’onore. La pace con l’esercito
fu celebrata con la grande parata del 28 maggio a Chiaia, seguita da un
banchetto alla Villa Reale offerto alle truppe dal consiglio comunale.

Il giro di vite e le condanne esemplari (14 giugno – 13 luglio 1814)


A fare le spese del pronunciamento furono i congiurati di marzo, fino
ad allora non molestati, perché, preso dal panico, il governo tolse il
guinzaglio a Montigny. Con ordine del giorno del 14 giugno, mentre
proseguivano le retate di carbonari in Abruzzo, fu inoltre istituita una
corte speciale di 4 giudici civili e 3 militari anche a Fossombrone, per
giudicare gli attentati alla sicurezza dello stato commessi nelle Marche.
Il 15 giugno un rapporto del generale Rossetti raccomandava
moderazione, sostenendo che la carboneria era solo la versione italiana
della setta francese dei buoni cugini. Ma un paio di settimane dopo
Murat rimproverò a Maghella le misure troppo blande decise dal
governo in sua assenza: «io non mi ricordo di avervi autorizzato a tali
misure; non voglio misure di severità; ma non saprei sopportare ulteriori
fastidi da parte dei carbonari».
Finalmente, dopo lunghe esitazioni, ci si decise a far giudicare gli
arrestati. Il 13 luglio la commissione militare di Teramo emise sei
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 150

condanne a morte, di cui una in contumacia (dottor Michelangelo


Castagna) e 2 commutate in ergastolo: il canonico Domenico Marulli, il
dottor Filippo La Noce e il capitano Bernardo de Michelis furono fucilati
a Penne e decapitati, con esposizione delle teste nei paesi di residenza. A
compensare i galantuomini dell’esecuzione di tre di loro, lo stesso 13
luglio, con decreto N. 2182, fu abrogata la responsabilità solidale dei
possidenti di un comune per i danni provocati nel loro territorio da
briganti non contrastati (introdotta dal decreto del 21 giugno 1810).
Toccò a un omicida inaugurare la ghigliottina arrivata a Teramo nel
dicembre 1813: per i reati politici e militari si continuò a fucilare. Il 15
luglio toccò ad un disertore unitosi ai briganti, il 22 luglio a tre gendarmi
che avevano dato manforte ai carbonari.
Dal 9 luglio Murat prese ufficialmente il titolo di re di Napoli,
dimettendo così ogni pretesa di sovranità sulla Sicilia. Il 26 agosto,
contestualmente all’apertura indiscriminata dei porti, anche alle navi
battenti bandiera siciliana, concesse un’amnistia piena e intera ai sudditi
che si trovavano al servizio di re Ferdinando, a condizione di rientrare
entro il 15 ottobre o di chiedere formale autorizzazione a restare al
servizio estero, offrendo ai sottufficiali e militari di truppa che
scegliessero di rientrare l’arruolamento in un nuovo reggimento da
formarsi a Castellammare, con gratifiche rispettive di 6 e 4 ducati. Il 17
ottobre partirono da Fenestrelle e Alessandria anche i borbonici che vi
erano stati deportati dai francesi.

L’editto papale contro le sette (24 maggio–23 agosto 1814)


I carbonari avevano stampato una pretesa bolla di Pio VII datata
Savona 17 luglio 1809, ovviamente apocrifa, in cui la setta era
accreditata come sostenitrice della giustizia e della religione, secondo lo
spirito evangelico dei primi secoli, e si invitavano tutti a darle assistenza
e a propagandarla, non con la violenza ma con la mitezza e l’amore dei
peccatori. A Pio VII si attribuiva inoltre di aver dichiarato che i carbonari
avevano “sentimenti italiani” e che era italiano anche lui [E’ del resto
provata una corrispondenza tra elementi carbonari e ambienti vicini al
Sacro Soglio, accomunati dall’antibonapartismo e dalla difesa della
religione contro l’impero ateo e anticlericale.]
Il 24 maggio, il giorno dopo che le truppe napoletane avevano fatto ala
al ritorno del papa a Roma e non appena insediato il nuovo governo
pontificio, il re incaricò il ministro degli esteri Gallo di ottenere dal papa
la sconfessione della bolla apocrifa. La richiesta entrò nei difficili
rapporti con Roma, che poneva come pregiudiziale la restituzione, senza
contropartite, delle Marche e delle enclaves di Benevento e Pontecorvo,
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 151

che Murat sperava invece di usare come pegni territoriali per ottenere il
riconoscimento del papa. Il 28 maggio il marchese di Montrone, il
ciambellano di Murat che, in mancanza di relazioni diplomatiche, curava
i suoi interessi a Roma, riferiva a Gallo di aver parlato della bolla
direttamente al papa, il quale gli aveva assicurato di aver intenzione di
scrivere in generale contro tutte le sette, aggiungendo che i principi
avrebbero dovuto fare la loro parte facendo eseguire le bolle di Clemente
XI e Benedetto XIV contro la massoneria.
Il 14 giugno Montrone comunicava che il papa aveva nominato una
commissione di tre cardinali e tre prelati per procedere ad una bolla
contro i carbonari. L’editto, emanato in agosto, riguardava però tutte le
sette, inclusa la massoneria; in ogni modo Murat se ne accontentò, e il
23 ne trasmise il testo a Maghella, con l’ordine di stamparne 600 copie.

La cospirazione di Moliterno e i fuoriusciti nello stato romano


Una nuova fonte di apprensioni fu l’arrivo a Roma, ai primi di luglio,
del principe di Moliterno (Girolamo Pignatelli), vulcanico cospiratore,
consigliere e compagno d’esilio della regina borbonica, tornato da
Trieste dopo la morte di lei. Le sue avances con l’amico Roccaromana,
rimasto fedele a Murat, furono seccamente respinte e il cavalier Medici,
agente borbonico a Roma, lo isolò, giudicandolo «un democratico
incorreggibile, amico di tutte le canaglie di Napoli». Zuccari, inviato
murattiano a Roma con uffici a Palazzo Farnese, ma riconosciuto dal
papa solo come console della nazione napoletana, enfatizzava però la
pericolosità di Moliterno. Scriveva direttamente a Murat che il principe
faceva la spola con Livorno e Genova per consultarsi con Bentinck,
corrispondeva col duca di Laurenzana, nuovo ministro della polizia,
aveva contatti coi carbonari, progettava l’insurrezione delle Marche e
dell’Umbria, pagava 50 piastre ogni disertore napoletano, prometteva
impieghi e sfornava a getto continuo proclami e “indirizzi”. Il re prese la
cosa sul serio e già l’8 agosto invitò Maghella a tener gli occhi aperti.
Anche Gallo fu costretto a metter le mani avanti, scrivendo l’11 alla
legazione napoletana a Vienna che la dinastia era sostenuta dall’opinione
pubblica e che il governo disprezzava le trame del principe.
Trasformato da Zuccari nel miglior piazzista di Moliterno, il 15 il re
ordinò a Maghella di mandare agenti segreti a Sora e all’Aquila per
stroncare i complotti di «quel miserabile» e scoprirne i complici, e di
inviare circolari allarmistiche agli intendenti (con istruzioni geniali come
quella di dire in giro che Moliterno raccoglieva firme a favore di
Ferdinando per compromettere le persone). L’intendente di Chieti eseguì
con circolare del 23, ammonendo gli amministrati a non credere alle
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 152

«cabale, illusioni, false voci per sedurre le popolazioni, armi da vili


intriganti».
Il 18 Carrascosa e i generali del corpo d’armata firmarono ad Ancona
una nuova adresse, questa volta su richiesta di Murat, in cui gli
ribadivano la loro fedeltà ed esprimevano sdegno per una lettera
provocatoria fatta circolare a Napoli da Moliterno. Il 27 il re ordinò al
capo della polizia di pubblicarla sul Monitore in mille copie da mandare
in Sicilia.
Il 23 l’informatore di Zuccari (Pasquale Guadagni) gli scriveva da
Sora di aver appreso che sulla montagna, al Prato di Campoli, c’erano
venti fuoriusciti armati di carabine, «vestiti chi da galantuomo chi da
mezzo soldato», venuti dalla Puglia, raccomandati da Moliterno al
bargello di Frosinone e pronti a marciare sul regno. Secondo Zuccari i
capi del movimento carbonaro in Abruzzo erano, oltre al latitante dottor
Castagna, il notaio Rossi, padre Spaventa, il medico Jezzi, i fratelli Ferri
di Moscufo (uno dei quali era segretario di Moliterno) e tre militari (il
colonnello Casimiro Rossetti, già comandante dei cacciatori Marsi
borbonici, il maggiore Pronio e il capitano Rossi).
Finalmente, il 9 settembre, Murat informò Maghella che il governo
pontificio, cedendo alle pressioni di Zuccari, aveva espulso Moliterno da
Roma. Tuttavia Murat continuò a preoccuparsi e l’8 ottobre ordinò a
Maghella di far trasferire a Napoli, per precauzione, i tre militari
menzionati nel rapporto. Il 9 Montigny confermò che effettivamente 60
briganti pugliesi, molisani e abruzzesi, già implicati nella rivolta, s’erano
rifugiati sotto falso nome in territorio pontificio, capeggiati da Fulvio
Quici di Trivento (CB), Pasquale Preside di Scerni (CH) e Furia di Panni
(FG). [Nel marzo-settembre 1809 Quici aveva operato con una piccola
comitiva presso Larino (CH) ed era tenuto in gran conto dalla polizia
napoletana, secondo la quale riceveva emissari inglesi ed era consultato
dai capi di comitive molto più attive e numerose della sua.] Una piccola
sommossa si verificò in novembre a Pacentro (AQ) ad opera di popolani
e piccoli borghesi.

La centrale “italianista” di Palazzo Gravina (gennaio 1815)


Secondo un rapporto del 15 febbraio 1815 del capo della polizia
austriaca a Milano (Raab) al capo dell’Oberste Polizei und Censur
Hofstelle a Vienna (barone Hager), nel palazzo Gravina di Napoli si
tenevano riunioni di alti funzionari e generali napoletani con agenti di
Bentinck per provocare insurrezioni in Toscana e nelle Legazioni e
proclamarvi l’indipendenza italiana. Secondo Raab il club di Palazzo
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 153

Gravina aveva assunto la direzione della carboneria, corrispondeva col


comando del corpo d’armata d’Ancona e aveva ramificazioni in molte
città dell’Italia centro-settentrionale, in particolare Firenze, Bologna,
Brescia e Milano. Vi appartenevano i ministri Macdonald, Zurlo,
Ricciardi e Maghella, tre consiglieri di stato tra cui Poerio (procuratore
generale della cassazione), i generali Pepe, Arcovito, Colletta, Pignatelli
Strongoli e Lechi, i colonnelli Giulietti e Jordi, e ancora cortigiani
(marchese di Montrone e duca Riario) e aiutanti di campo del re
(Roccaromana, di Sangro, Châteauneuf).
Anche il governo napoletano diffidava della popolazione e dei suoi
stessi funzionari. Incaricato dal consiglio dei ministri del 18 aprile di
riferire sulla loro affidabilità, Maghella presentò il rapporto già nella
sessione del 20 e propose di sostituire subito 5 intendenti (cioè più di un
terzo) con commissari straordinari. Un intervento di Ricciardi fece però
bocciare la proposta.

L’insurrezione di Polistena (19-25 aprile1815)


In realtà l’unica insurrezione carbonara si verificò in Calabria Ultra,
dove, grazie a Manhès, la setta era ormai controllata dalla carboneria
siciliana, di cui si era proclamato capo il principe ereditario e vicario
generale del regno Francesco di Borbone. Capeggiata da Domenico
Valensise, appartenente ad una potente famiglia di Polistena (RC),
l’insurrezione scoppiò il 19 aprile con la cattura del comandante
provinciale (il corso Galloni), sorpreso tra Polistena e Laureana mentre
attraversava la foresta di Rossano con 30 gendarmi (catturati insieme a
lui) e 200 legionari scelti (che lo abbandonarono). Galloni fu poi
obbligato a marciare inneggiando all’indipendenza italiana per far
credere che si fosse unito spontaneamente agli insorti, decuplicati in due
giorni. “Peppino”, il segretario di Galloni, era però riuscito a scappare e
a dare l’allarme. Presi al campo della Melia due battaglioni del 4° di
linea Reali Sanniti, il comandante divisionale Desvernois intercettò gli
insorti a Casalnuovo d’Africo; attaccati alla testa e alla coda dai regolari
abruzzesi, i volontari calabresi si sbandarono, lasciando sul campo 53
morti, 150 feriti, 1.500 armi e la bandiera. Occupata Polistena,
Desvernois prese in ostaggio il fratello di Valensise (che riparò in Sicilia)
e concesse il perdono agli insorti che entro il 23 avessero fatto ritorno
alle loro case.
L’episodio fu discusso nel consiglio dei ministri del 26 aprile. Si mise
in rilievo che gli insorti inneggiavano all’indipendenza italiana e
usavano come parole d’ordine “Nazione, Ferdinando, Repubblica e
Costituzione”. Si convenne infine di inviare in Calabria il barone Nolli,
Ilari - La Giustizia Militare 1800-1815 154

già commissario straordinario in Abruzzo e che «per non eccitare


vieppiù il furore delle sette, si (dovevano) quelle disprezzare, o cercare
di guadagnarle, avendo per altro su di esse una sorveglianza continua».
[Un mese più tardi, il 26 maggio, Maghella fu ricevuto dal principe
Leopoldo, entrato il 21 a Napoli col tenente maresciallo Bianchi. Il
principe lo confermò provvisoriamente nelle funzioni di ministro di
polizia, ma il 4 giugno, a bordo del vascello Queen, re Ferdinando formò
il nuovo governo, attribuendo l’interim della polizia al ministro delle
finanze cavalier Medici. Lo stesso giorno Maghella ricevette l’ordine di
tenersi pronto a partire. Rifiutatogli il passaporto per Genova, il 16 fu
spedito a Mantova, dove fu trattenuto dagli austriaci dal 27 giugno al 18
ottobre. Condotto a Pavia e consegnato il 21 alle autorità sarde, fu
imprigionato a Fenestrelle. Nel 1834 Carlo Alberto lo liberò e lo nominò
sindaco di Varese Ligure: morì a Borsa, Varese, nel 1850.]

Tab. 929 – Membri dei 4 Tribunali straordinari (14 e 20 agosto 1806) (*)
Tribunali 1° Salerno 2° Foggia 3° Cosenza 4° Chieti
Province T. di Lavoro Capitanata Basilicata Abruzzo Citra
Salerno Bari Calabria Citra Abruzzo Ultra I
Montefusco Lecce Calabria Ultra Abruzzo U. II
Presidenti Sansone Farina De Fabritiis Canofari
Domenico Giacomo Giacinto
Procuratori Agresti Libetta Calenda Luigi Scarciglia
Regi Michele
Giudici Presta Laudari Gatti Stanislao; Melchiorre
civili Gennaro; Saverio; Mazzei Fabrizio; Paolo;
Valeri; Vecchioni De Rinaldis Cipriano
Martucci Carlo; Giuseppe; Giacinto;
Giacinto; Terracina Riola Stanislao. (Arcovito
Marini. Michele; (mutati il 10 Girolamo);
(Michitelli ottobre, v. nota) Mazzoni F.
Biagio). Saverio.
Giudici ten. col. ten. col. Del cap. Francia magg. Cicconi;
militari Amato; Fuerte Franc.; Giovanni B.; cap. ten. col.
magg. cap. De Felice magg. d’Espinosa Eusebio;
Cecconi; Silvestro; Ferdinando; col. Salinetti
cap. Pietro cap. Navarro ten. col. de Witte Pasquale
Colletta. Pasquale. Antonio.
segretari Beneventano Fournier (Minieri) Marchesano
Rocco Giovanni Vincenzo
(*) Decreti N. 139, 142, 143, 144 e 146 del 14 e 20 agosto. I nomi tra parentesi
indicano quelli nominati coi decreti N. 153-56 del 26 agosto.
Mutamenti disposti con decreti N. 205-07 del 10 ottobre: Carlo De Laurentis al
posto di Massari Francesco Antonio (4°); Saverio Laudari, Baldassarre Parisi da
Bocchigliero, Teodoro Ardente di Lama e il capo squadrone De Gennaro nominati
giudici del 3° tribunale al posto di Riola, Mazzei, De Rinaldis e d’Espinosa. Resta
vacate il posto di Laudari al 2° tribunale.
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Tab. 930 – Commissari di polizia di quartiere a Napoli (1806 e 1808)


Quartieri 8 aprile 1806 14 dicembre 1808
Chiaia Vollaro Pietro Lopez Giuseppe
S. Ferdinando Di Stefano Giuseppe Di Franco Raffaele
M. Calvario Lopez Michele Di Maio Carlo
San Giuseppe Canofari Francesco Guardati Antonio
Avvocata Lamanna Gabriele Morbili Carlo
Stella De Laurentiis Pasquale Montone Domenico
S. Carlo Arena Castaldi Giuseppe Albanese Francesco Antonio
Vicaria Sedati Francesco De Laurentiis Pasquale *
San Lorenzo Tortora Alessandro Sacco Francesco
Mercato Trenca Luigi Rinaldi Giuseppe
Pennino Muscari Gregorio n. d.
Porto Laghezza Giuseppe Bartolucci Francesco
Vomero Frisicchio Sergio n. d.
Casoria Caracciolo Gaetano n. d.
S. G. a Cremano Vasaturo Giuseppe n. d.
Mugnano Perrotta Vincenzo n. d.
Portanova – Giuliani Filippo
* unico confermato.

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