Unificazione Italiana Sezione 5 F P
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ENCICLOPEDIA ITALIANA
FONDATA DA GIOVANNI TRECCANI
LUNIFICAZIONE ITALIANA
Capitoli scelti
per il sito di Aspen Institute Italia
SEZIONE V
CULTURA E SOCIET
Capitolo Musica e teatro di Carlotta Sorba
Capitolo La cultura scientifica di Carlo G. Lacaita
Capitolo Le citt di Francesco Bartolini
Capitolo Il patrimonio artistico e culturale di Simona Troilo
Musica e teatro
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Carlotta Sorba
Cultura e societ
Alludendo al fatto che tra le maggiori specificit della tradizione musicale italiana doveva
essere compresa la sua intrinseca teatralit, egli mostrava una chiara percezione del ruolo
che, nella particolare fortuna dellopera romantica, avevano giocato la diffusione e la vitalit dei luoghi teatrali nella societ italiana del periodo.
La funzione culturale e civile svolta dallopera pu essere pienamente compresa solo
considerando la portata della presenza degli spazi teatrali e limportanza che essi avevano
acquisito nei centri urbani piccoli, medi e grandi degli Stati preunitari. La dimensione
quantitativa della loro diffusione rintracciabile nel censimento delle sale teatrali che il
ministero di Agricoltura, industria e commercio effettu alla fine degli anni Sessanta.
Nei primi anni che seguirono lunificazione, una fitta rete di richieste e di sollecitazioni collegava i ministeri del nuovo Regno alle singole prefetture. In questo quadro anche le strutture teatrali furono oggetto di unindagine conoscitiva che doveva accompagnare loperato dei nuovi legislatori, soprattutto in merito al diritto dautore sul quale era
stata emanata nel 1865 una prima normativa. La finalit dellinchiesta non era dunque di
inventariazione storico-artistica, ma di ordine fiscale, legata alla necessit di censire tutti
quei luoghi di spettacolo che ricadevano nellambito della nuova normativa. Nella primavera del 1866 i prefetti del regno ricevettero una circolare in cui erano pregati di inviare
al ministero un prospetto di tutti i teatri esistenti nella rispettiva provincia, che comprendesse le informazioni necessarie a identificarne lo stato e la tipologia e cio: la denominazione e lanno di fondazione della sala; la sua localizzazione e la sua capienza; chi ne avesse la gestione; a quale tipo di spettacoli fosse destinata; se avesse una dote annua; quali
fossero le sue condizioni strutturali.
La documentazione raccolta e inviata a Roma tra il 1868 e il 1869 consente oggi di
cogliere limmagine dinsieme delle strutture teatrali allindomani dellUnit e dellimponente processo di costruzione avvenuto lungo la penisola a partire dalla fine del XVIII
secolo. Si contavano infatti sul territorio allora italiano (ne erano esclusi il Lazio, il Trentino e la Venezia Giulia che vi sarebbero entrati pi tardi) 942 sale teatrali attive, distribuite in 650 comuni. Quasi due terzi di esse erano state costruite o rinnovate dopo il 1815.
In effetti non si pu dire che gli edifici teatrali fossero una presenza nuova nelle citt italiane. La costruzione dei primi teatri per un pubblico pagante risaliva in Italia al XVII
secolo e quelli che sarebbero rimasti gli elementi principali dellarmatura teatrale italiana erano stati edificati nel corso del Settecento. Il cantiere del San Carlo a Napoli era iniziato nel 1735 (anche se il teatro venne poi ricostruito nel 1816 dopo un incendio), quello della Pergola a Firenze nel 1738, il Regio a Torino venne edificato a partire dal 1741,
il Comunale di Bologna dal 1763, la Scala dal 1778, mentre linaugurazione della Fenice
veneziana fu nel 1791. Se, dunque, i teatri erano gi una presenza importante nelle citt
italiane settecentesche, ci che accadde a partire dalla fine del secolo e per tutta la prima
met dellOttocento fu un fenomeno diverso, che non sembra avere riscontri a quella data in altri paesi europei. Si trattava di una diffusione capillare lungo la penisola, anche nei
centri urbani di piccola o piccolissima dimensione, di sale teatrali che riproducevano esattamente, nelle facciate come nellarchitettura e nellarticolazione interna, i maggiori teatri settecenteschi appena citati. Erano in realt edifici molto diversi, per importanza e capacit: grandi sale come il Carlo Felice di Genova (1825) o il Ducale di Parma (1829), che
riproponevano il tradizionale modello del teatro di corte e potevano contenere pi di 2.000
spettatori, fino a piccolissimi teatri per 2-300 persone, disseminati nei comunelli delle
Marche, della Puglia o della Toscana. E poi sale di media dimensione, da 800 a 1.500 posti, costruite in citt forse non di primo piano come Cesena, Rovigo o Viterbo, ma che
non rinunciavano a competere con quelle delle citt vicine in quanto a magnificenza e importanza. Fu una catena di emulazione tra citt, che ben rispecchiava la densit della geografia urbana italiana, a guidare questa moltiplicazione delle sale sul territorio preunitario (Sorba 2001).
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PARTE QUARTA
Musica e teatro
Ad accomunare le varie realt, pur nella diversit dei contesti locali, sono lattribuzione a questi edifici di una sorta di centralit simbolica e rappresentativa allinterno della trama urbana, e lindividuazione di un medesimo meccanismo di finanziamento che faceva del teatro un luogo insieme pubblico e privato. A partire soprattutto dagli anni della
dominazione francese quando il processo di laicizzazione degli spazi urbani aveva conosciuto unaccelerazione importante con la vendita dei beni ecclesiastici e la liberazione
di vaste aree edificabili il luogo teatro aveva gradualmente assunto il ruolo di un nuovo
polo di gravitazione della vita cittadina, diventando quasi ledificio simbolo del periodo.
Qualcosa di simile sarebbe avvenuto pi tardi, nella seconda met del secolo, con edifici
come le stazioni ferroviarie, oppure, sul fronte privato, con le imponenti costruzioni delle grandi banche. Gran parte di questi edifici teatrali presentava infatti un carattere monumentale, facciate neoclassiche che rimandavano al modello del teatro-tempio, una posizione prospetticamente felice che fungeva spesso da raccordo tra parti diverse della citt.
Daltronde si trattava di una centralit per nulla casuale: era infatti tra le loro mura
che si giocava la parte pi importante della vita di societ. Tutti i resoconti dei viaggiatori stranieri del periodo, pi o meno benevoli che fossero nei confronti delle peculiarit italiane, ci dicono che nelle piccole come nelle grandi citt era necessario andare a teatro per
incontrare ogni sera la societ locale e coglierne la natura e i rapporti. Qui, nel quadro della struttura a palchetti tipica della sala allitaliana, che nonostante le critiche egualitarie della pubblicistica illuminista aveva trovato piena conferma nella progettazione ottocentesca,
ci si trovava di fronte a una riproduzione quanto mai efficace delle gerarchie sociali. Fin
dalle sue origini, essa comportava lattribuzione di diverse dignit alle sue varie parti: nelle prime due file di palchi, che venivano definite nobili, sedeva laristocrazia o lalta borghesia del luogo; subito sopra, le file definite mercantili ospitavano il notabilato di fortuna pi recente; mentre in basso, nel parterre, a lungo dotato di sedili mobili per essere
trasformato alloccorrenza in sala da ballo, si aggirava un pubblico pi composito di ufficiali, giovani aristocratici, studenti e anche donne di malaffare. Non poteva mancare infine, almeno nelle sale medie e grandi, la galleria a prezzi popolari, il cosiddetto loggione, situato sopra lultima fila di palchi e a cui si accedeva da un ingresso rigorosamente separato.
Quello della sala allitaliana era dunque un modello architettonico che tendeva a neutralizzare i rischi della promiscuit sociale e per di pi poteva essere facilmente declinato in varie dimensioni, persino in miniatura. Non infrequente trovare nella provincia meridionale sale piccolissime, per poche decine di persone, e tuttavia allestite a palchetti, proprio
perch adatte a una perfetta declinazione del gioco della distinzione sociale.
Ma cera di pi. La rinnovata fortuna ottocentesca di un tale modello architettonico
di origine barocca si collegava anche a un ingegnoso meccanismo finanziario che aveva
consentito la sorprendente crescita degli spazi teatrali in un paese povero di capitali, come certamente era lItalia del primo Ottocento. La costruzione di una sala avveniva infatti attraverso la cosiddetta privativa dei palchi, che suscitava tanta sorpresa e curiosit negli stranieri, dal momento che prevedeva una singolare dissociazione tra la propriet
delledificio nel suo complesso (che poteva essere dello Stato, del municipio, di unaccademia o di una societ di azionisti) e quella dei singoli palchi. Questi ultimi venivano acquistati dai notabili del luogo e divenivano altrettanti salotti privati da cui le famiglie pi
in vista della citt assistevano agli spettacoli e a propria volta si mostravano, in quel mondano gioco di specchi che era tipico della sala allitaliana. Negli edifici ottocenteschi erano inoltre cresciuti rispetto al passato gli spazi di rappresentanza e di ritrovo, cosicch anche nei centri di poche migliaia di abitanti i nuovi teatri comprendevano spazi per il caff,
per la conversazione, per il gioco, proponendosi come luoghi autosufficienti per il loisir
cittadino.
Le stesse autorit politiche locali, anche nei territori che dipendevano direttamente
dallAustria, avevano favorito il diffondersi delle sale, perch considerate luoghi di incontro
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Cultura e societ
meglio controllabili di altre forme di ritrovo come circoli, caff o salotti, anchesse in rapido sviluppo. Alla base di questo vivace processo costruttivo stava infine un elemento
peculiare del sistema italiano: lapertura di un teatro non era sottoposta ad alcuna restrizione da parte delle pubbliche autorit, diversamente da quanto accadeva sia in Francia
che in Inghilterra, dove la piena liberalizzazione del sistema teatrale con labolizione dei
cosiddetti privilegi ai teatri maggiori avverr solo molto pi tardi nel corso del secolo.
Non esistevano in Italia limitazioni al numero dei teatri, n prescrizioni di sorta relative
ai generi in essi rappresentati. Questo rendeva possibile a chiunque, societ o privati, aprire una nuova sala, con il solo benestare delle autorit di pubblica sicurezza che dovevano
garantire lordine allinterno delle sale, mentre gli uffici censori avrebbero regolato e controllato quanto accadeva sui palcoscenici.
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PARTE QUARTA
Musica e teatro
frontiere e in cui le comunicazioni erano ancora scarse e disagevoli, le opere sembrano essere il prodotto culturale la cui circolazione pi puntuale sul territorio, oltre che dotato
del pubblico pi largo e socialmente variegato. Mentre libri e periodici sottostavano al pagamento di dazi doganali anche pesanti, le opere circolavano pi liberamente, fatto salvo
lintervento degli uffici censori. E anche con una certa rapidit, se si pensa che, pochi mesi dopo la prima a Venezia, unopera come Rigoletto venne allestita con quasi lo stesso cast
ad Ascoli Piceno, in un angolo appenninico dello Stato pontificio non certo facile da raggiungere. Nel momento in cui ottenevano successo, i melodrammi venivano poi massicciamente replicati, e richiamavano la stessa quantit di pubblico anche per trenta serate
consecutive, riproponendo le gesta delle eroine donizettiane tratte dai romanzi di Walter
Scott o gli intrecci storico-politici delle prime opere verdiane, in molti palcoscenici contemporaneamente. Il Trovatore, opera di grande popolarit, fu allestita nel corso del 1853
in 27 diverse sale italiane.
allora un quadro articolato e crescente di strutture materiali (spazi, circuiti, contrattazioni tra impresari e notabili locali) a fare da sfondo al grande successo del melodramma di Vincenzo Bellini, di Gaetano Donizetti e infine di Verdi nei decenni centrali
dellOttocento. E se non a predisporre, quantomeno a caricare di efficacia lavvicinamento tra lopera e le vicende patriottiche risorgimentali.
La capacit di proporsi a un pubblico sempre pi ampio e articolato (sia attraverso i
circuiti musicali professionali sia tramite la crescente attivit dilettantistica di bande, cori, accademie e orchestrine) fa s che le musiche e i testi dei melodrammi romantici, che
spopolavano sui palcoscenici, rappresentassero un prodotto culturale unico nel suo genere, la pi importante declinazione italiana del romanticismo popolare. Se dunque i teatri
erano considerati dalle autorit luoghi di incontro ben controllabili, essi diventarono anche i conduttori di un flusso di narrazione che metteva in circolazione lungo la penisola,
in versione melodrammatica, molti dei testi della letteratura romantica europea, da Byron a Scott, da Schiller a Victor Hugo. Si trattava per gran parte di intrecci storici di ambientazione medievale o quattro-cinquecentesca, dotati di una carica emotiva e sentimentale che tendeva a infiammare le platee. Le parole pi utilizzate dalla stampa del periodo
per descrivere la reazione del pubblico di fronte ai melodrammi di maggiore successo erano brividi, pianto, commozione, lacrime, stordimento, strepiti fino alla fine, tremore di
gioia, il tutto a rimarcare lalta temperatura emotiva che si respirava nei teatri.
Una specificit forte del sistema operistico italiano consisteva, infine, nella sua struttura policentrica, che si combinava perfettamente con la dimensione internazionale che
era propria dellopera italiana fin dalle sue origini. Poteva succedere allora, ancora a met del secolo, che lorganizzazione di una prima verdiana avvenisse in provincia, come fu
per Aroldo nel 1857 in occasione dellinaugurazione del teatro di Rimini, o davanti a unillustre platea internazionale come quella dellHer Majestys Theatre londinese, dove nel
1847 il maestro present al pubblico per la prima volta I Masnadieri. In entrambi i casi
erano previste compagnie di canto di tutto rispetto.
I circuiti impresariali del periodo, insomma, riuscivano a tenere insieme queste diverse dimensioni geografiche, che finivano per sostenersi reciprocamente. Qualcosa per
nel corso del secolo aveva iniziato a cambiare. Si stava verificando una crescente polarizzazione produttiva intorno a pochi grandi centri Milano, Roma, in qualche caso Torino dove si concentravano anche le testate e la critica musicali, oltre che gli editori, mentre Napoli e Venezia perdevano progressivamente di rilievo. Allestero, la commissione
di opere a compositori italiani da parte di grandi teatri, una prassi consueta che aveva trovato piena conferma nellOttocento, si concentrava soprattutto su Parigi, vera e propria
capitale culturale del XIX secolo, ma vedeva anche lemergere di piazze inconsuete, come San Pietroburgo, dove and in scena la prima de La forza del destino nel 1862, o Il
Cairo per Aida nel 1871.
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Il Viva V.E.R.D.I! era conosciuto come acrostico allusivo al nome di colui che si apprestava a divenire il primo re dItalia gi dallanno precedente, quando se ne hanno testimonianze in Toscana e persino nella Milano austriaca. Sul medesimo giornale si legge che
tali scritte iniziavano a impensierire parecchio la polizia che tutte le notti mandava intorno una mano de suoi agenti per cancellarle. Ma il giorno dopo, continuava larticolista,
le iscrizioni tornano a farsi a lettere pi cubitali (cit. ivi, p. 126).
Le scene operistiche si erano dunque caricate di tali e tante immagini e suoni patriottici nei decenni precedenti da divenire riconosciuto emblema del discorso risorgimentale? La costruzione dellicona di Verdi come padre della patria e vate del Risorgimento
italiano fu perseguita con indubbia efficacia comunicativa fin dalla prima biografia aneddotica nel 1881 e venne arricchita di varianti prima e durante il fascismo. Ci ha sedimentato sul personaggio, e pi in generale sullopera lirica, una carica di mitografia dalla quale non facile districarsi per rintracciare il peso effettivo della dimensione politica nel
teatro musicale del periodo. In effetti non si pu sostenere che Verdi o gli altri compositori le cui opere furono oggetto di letture risorgimentali (si pensi alla Norma di Bellini,
oppure alla Donna Caritea di Mercadante) fossero dei patrioti militanti. E daltronde, se
Rossini dedic a Carlo X il suo Guglielmo Tell (forse la pi profondamente patriottica delle opere di primo Ottocento) e Verdi i Lombardi alla prima crociata a Maria Luigia dAustria, non si pu nemmeno pensare che quei testi portassero in s una carica sovversiva
cos riconoscibile ed evidente. Si trattava nello stesso tempo di prodotti commerciali fatti per il pubblico e di opere prodotte allinterno di un sistema dove i teatri di corte svolgevano un ruolo importante. Ben difficilmente potevano proporre immagini sgradite ai
governanti, cosa che daltronde il controllo censorio avrebbe impedito, o a una parte del
proprio pubblico.
Se a nessuno dei compositori citati pu allora essere attribuita una precisa volont di
informare la propria produzione a obiettivi politici, pur vero che nelle loro biografie non
mancano le occasioni di vicinanza agli ambienti e ai temi risorgimentali. Ad esempio, Donizetti e Bellini frequentavano assiduamente a Parigi il salotto di Cristina di Belgioioso e
il gruppo dei fuoriusciti italiani, allinterno del quale individuarono e assoldarono molti
dei propri collaboratori: il mazziniano Agostino Ruffini ebbe il compito di rivedere per
Donizetti il libretto del Marino Faliero; il fratello di questi, Giovanni, egualmente esule,
compose il testo per il Don Pasquale. Da parte sua Bellini aveva chiesto a Carlo Pepoli, il
conte bolognese fuggito a Parigi dopo i moti del 1830, di scrivere per lui il libretto de I
Puritani. Al di l delle intenzioni dei compositori, tali testi nascevano dunque in un contesto imbevuto di temi nazional-patriottici e ne recavano le tracce.
Per quanto riguarda Verdi e le sue propensioni politiche, sappiamo della fascinazione giovanile per la tradizione repubblicana e anticlericale, che lo port a chiamare i propri figli Virginia e Icilio, personaggi simbolo della tradizione giacobina italiana. Alle posizioni pi radicali di giovent egli aveva sostituito nella maturit unincondizionata
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ammirazione per Cavour, che avrebbe eletto a sua stella politica. Sullintenzionalit verdiana di partecipare e di incidere con la propria musica sulle lotte risorgimentali storici e
musicologi ancora oggi si dividono tra chi tende a negare qualsiasi consistenza allimmagine risorgimentale del maestro e chi invece mette in luce i molti, anche se non sempre
coerenti, fili che legano la sua produzione agli eventi politici del momento.
Se rimaniamo sul piano della biografia del compositore emergono in effetti segnali
contrastanti. Nella sua corrispondenza trapela pi volte una sorta di resistenza a occuparsi di politica, un campo del quale sa bene di non intendersi affatto: una consapevolezza
che forse nasconde qualche timore nei confronti di un possibile eccesso di subordinazione della propria produzione agli imperativi politici del momento, che in taluni casi gli viene effettivamente sollecitata. Come ha scritto Giuliano Procacci, il suo fu piuttosto un impegno politico dal carattere intermittente e fortemente emotivo, che tendeva a dispiegarsi
nei momenti di maggiore tensione e comunque mai a divenire una vera priorit nella sua
produzione (Procacci 2003). Tra quei momenti ci fu senza dubbio il Quarantotto, quando il compositore mise in scena unopera (La Battaglia di Legnano) tratta da una delle vicende storiche pi notoriamente imbevuta di risonanze patriottiche che circolava in quel
periodo, cio la lotta dei comuni lombardi contro Federico Barbarossa, un precedente germano invasore. Negli stessi mesi egli music inoltre, su diretta sollecitazione di Mazzini,
un testo di Mameli, linno patriottico Suona la tromba, che avrebbe dovuto essere cantato nelle pianure lombarde, fra la musica del cannone, come egli stesso scrisse nella lettera che lo accompagnava (Verdi 1913, p. 469).
Se si sposta lattenzione dal piano biografico a quellinsieme di spazi, circuiti e attori sociali che componevano il mondo teatrale, ci si accorge allora che molti altri elementi
contribuirono a caricare il melodramma di aspettative civili, favorendone luso politico.
Gi negli anni Trenta, in uno scritto dedicato alla Filosofia della musica, Mazzini aveva
attirato lattenzione sul fatto che lopera poteva essere un mezzo importante per sollecitare negli italiani una nuova spinta allimpegno politico (Mazzini 1836). Per questo aveva rivolto un appello accorato al mondo del teatro musicale italiano perch abbandonasse le frivolezze su cui aveva fino ad allora indugiato e desse invece vita a unopera corale,
capace di dar voce a ci che aveva definito nei suoi scritti come lindividuale collettivo.
Mazzini era molto interessato in quegli anni alle potenzialit politiche offerte dai linguaggi artistici, che gli parevano un veicolo particolarmente adatto alla diffusione dei messaggi di una politica nuova, capace di rivolgersi non a pochi ma ad un pubblico ampio e vario. Seguendo la riflessione romantica, egli riteneva che il dramma fosse il punto pi alto
nella gerarchia delle arti poich dotato della capacit di comunicare direttamente con il
popolo (Sorba 2008). Ma era anche convinto che, nel caso italiano, quel ruolo doveva essere svolto dallopera, una combinazione di musica e dramma che intrecciava la pi espressiva con la pi sociale delle arti e si candidava a divenire la principale speranza di una nuova arte italiana. Il pamphlet sulla musica, scritto durante lesilio francese e svizzero, il
frutto di un contatto stretto con il dibattito romantico europeo e con un denso mondo di
esuli per i quali politica, arte e letteratura si intrecciavano cos strettamente che diventava difficile distinguerne i confini. Agli ambienti mazziniani va ricondotta una precoce canonizzazione patriottica di Bellini, morto prematuramente nel 1835, subito dopo il successo internazionale dei Puritani.
Il corto circuito che si cre tra opera e Risorgimento negli anni Quaranta part, dunque, da un consapevole tentativo mazziniano di inscrivere il teatro nel quadro degli strumenti dellattivismo patriottico, e si svilupp ben pi tra il pubblico e nei parterre dei teatri che sulle scene stesse. Nonostante il luogo teatrale fosse considerato un luogo dordine,
come abbiamo visto incoraggiato e legittimato dalle autorit in quanto spazio facilmente
sorvegliabile, nel periodo 1846-49 molti allestimenti operistici si esposero a letture politiche da parte di un pubblico sensibile a ogni allusione allattualit politica pi stringente.
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Un caso significativo, proprio perch ben poco patriottico nei suoi intenti originari, fu
quello dellErnani verdiana. In occasione dellelezione nel 1846 di papa Pio IX, evento
carico di promesse per i patrioti italiani, nella provincia pontificia iniziavano ad allentarsi i due principali meccanismi di sorveglianza delle pubbliche autorit sui teatri, cio la
censura e il controllo poliziesco, tanto che il testo verdiano tratto da Hugo divent oggetto di numerose variazioni orientate politicamente che provenivano dal pubblico e dagli
stessi cantanti. Ritroviamo cos vere e proprie accensioni nazionalistiche, difficile dire
quanto improvvise e quanto programmate, di fronte a parole o situazioni che alludessero
a eventi dellattualit. Nel finale dellopera linvocazione alla clemenza di Carlo V si trasform sui palcoscenici della Romagna in un inno al nuovo Papa che aveva appena concesso lamnistia per i reati politici; o ancora il grido Guerra, guerra! lanciato dai druidi
in Norma divenne un richiamo alla battaglia in corso contro gli austriaci, mentre i pezzi
di Macbeth (O patria oppressa), o di Attila (Santo di patria indefinito amor) suscitarono esaltazioni collettive in molti teatri.
Le potenzialit di lettura politica del melodramma in musica furono infine legate al fatto che attraverso di esso circolavano alcuni dei discorsi e dei dispositivi narrativi che pi profondamente percorrevano il dibattito romantico europeo sullorigine delle nazioni. Il pi evidente, almeno prima del Quarantotto, quello che individuava la matrice delle nazioni in
una originaria contrapposizione tra due popoli, di cui uno oppresso e uno oppressore. Si
prenda unopera come Attila (Venezia 1846), la cui idea era venuta a Verdi dalla lettura del
De lAllemagne di Madame de Stael. Gi nei primi approcci con il librettista nella primavera del 1844, Verdi aveva esposto una propria idea compositiva che si distaccava parecchio
dal dramma originario di Zacharias Werner da cui era tratta. Si alzer il sipario su Aquileia
incendiata, aveva scritto, e su due cori di popolo: uno che prega gli abitanti di Aquileia e
uno che minaccia gli unni invasori (Verdi 1913, pp. 432-441). Su questa articolazione narrativa, che ben si prestava a una proiezione sulle vicende del presente, si sarebbe poi sviluppato lintreccio dellopera, che prevedeva la trasformazione della protagonista originaria, la
principessa burgunda Ildegonda, nella romana Odabella, lintrepida donna italica che si
oppone con forza allinvasore Attila. La tragedia originaria subiva cos una revisione narrativa ben leggibile dal pubblico italiano come allusiva al destino della penisola: un susseguirsi di cicliche invasioni e dominazioni a cui avrebbe fatto seguito un futuro di riscatto.
Le allusioni si fecero pi stringenti man mano che ci si avvicinava al Quarantotto e i
riferimenti nel lavoro verdiano a episodi storici, a personaggi e a testi che gi facevano
parte dellimmaginario nazional-patriottico canonizzato divennero pi numerosi ed evidenti, riflettendo il clima politico del momento. Con il librettista Salvatore Cammarano
il compositore lavor alla possibilit di mettere in scena lEttore Fieramosca, dal noto romanzo di Massimo dAzeglio, e a Francesco Maria Piave nel luglio del 1848 propose un
soggetto italiano e libero quale poteva essere il Ferruccio, personaggio gigantesco, uno
dei pi grandi martiri della libert italiana, liberamente tratto dallAssedio di Firenze di
Francesco Domenico Guerrazzi (Verdi 1947, 4 vol., p. 217). Tali idee compositive non
sarebbero andate in porto ma furono il preludio della composizione dellunico vero testo
patriottico verdiano, la Battaglia di Legnano, messo in scena nella Roma repubblicana del
gennaio 1849. Senza pi timori censori lopera si apriva con il coro maestoso Viva Italia!
Sacro un patto tutti stringe i figli suoi e dispiegava molti elementi del repertorio di immagini nazionali ben note: lo scenario comunale della Lega lombarda, il giuramento dei
congiurati, il tradimento del malvagio, il martirio delleroe. Anche nel corso della guerra
successiva, tra il 1859 e il 1860, i teatri si riempirono di politica, seppure lattivismo patriottico parve ora molto pi cauto e contenuto. Uno degli episodi pi noti riguarda una
rappresentazione di Norma alla Scala nel gennaio del 1859, quando applausi scroscianti e
richieste di bis accompagnarono il coro dei druidi Guerra, guerra! di fronte a un parterre
pieno di divise austriache (Notizie politiche, LOpinione, 34, 3 febbraio 1859, p. 3).
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anacronistico sistema di controlli e di privilegi. In uno stato moderno bisognava che larte facesse da s, liberandosi sia dalla tutela che dai sussidi governativi. Questo il discorso che appariva pi diffuso allinterno dellaula parlamentare e tra lopinione pubblica.
Nessuno ignora aveva dichiarato il ministro Ubaldino Peruzzi nel 1863 limportanza dei
regii teatri di Torino, Napoli, Milano e Parma, tanto come istituti artistici nazionali, ricchi
di belle tradizioni, quanto come centri di estese industrie e di gravi interessi privati. Il Governo ha la convinzione che, dicentrata lamministrazione di questi teatri e trasferita nelle
mani dei municipi, i quali hanno pi sicuri criterii per dirigerli secondo le convenienze locali, e pi dirette ragioni per considerare come un proprio profitto il loro prosperamento,
non che scapitare si avvantaggeranno le sorti e crescer il lustro di quegli istituti (cit. in Sorba 2001, p. 237).
Prevaleva cio a livello governativo lidea del decentramento delle competenze, anche se
Peruzzi non nascondeva la necessit di prevenire gli effetti traumatici che la cancellazione delle sovvenzioni poteva avere sulle fragili finanze dei grandi teatri. E per questo raccomandava cautela e gradualit, soprattutto in quanto il dibattito sullordinamento della
finanza locale era ancora del tutto aperto e incerta era dunque la questione delle risorse
che sarebbero effettivamente spettate ai municipi.
A dare manforte allidea della cessione dei teatri maggiori alle autorit locali stava
un ampio fronte liberista avverso a ogni forma di intervento statale in un campo che doveva invece essere lasciato allautonomo dispiegarsi delliniziativa privata. A tale fronte si opponevano coloro che ritenevano invece prioritarie le ragioni storico-artistiche di
natura nazionale. Tra questi un personaggio autorevole come Pasquale Stanislao Mancini, il quale sosteneva con forza lidea che la vita dei grandi teatri riguardava lintera
nazione e non i singoli comuni, indicando a sostegno del proprio ragionamento lesperienza delle grandi capitali europee. Una commissione presieduta da Luigi Torrigiani
era stata allora incaricata di studiare da vicino la questione e di rispondere alla domanda se convenisse allo Stato sussidiare alcuni teatri come faceva per alcune universit, alcuni collegi e conservatori. Le conclusioni raggiunte avevano finito per appoggiare lidea
che lattivit dei grandi teatri andasse considerata un servizio pubblico e dunque sovvenzionata, in modo particolare in una situazione di crisi economica che rendeva difficile lintervento dei municipi e dei privati. Era stato proprio il regime dei sussidi, cos
si leggeva nella relazione, a permettere il grande sviluppo dellarte vocale italiana e la
sua diffusione nel mondo, favorendo una produzione intensa e garantendo allestimenti di qualit (ivi, p. 242).
Si trattava per di una posizione che in quella fase non poteva che apparire di retroguardia, oltre che problematica dal punto di vista economico, cosicch le conclusioni della commissione trovarono ben poco ascolto in un Parlamento dove continuavano a prevalere unavversione pregiudiziale ai sussidi e lidea che alle pubbliche autorit spettasse solo
unazione di stimolo e di regolamentazione, non di protezione e di controllo.
Le emergenze economiche del 1866 avrebbero ulteriormente rafforzato questa posizione: la nuova guerra alle porte, il trasferimento a Firenze della capitale, pi costoso del
previsto, gli impegni per lesercito e per le infrastrutture rendevano indispensabile il taglio delle voci pi controverse del bilancio. Superata cos ogni considerazione di prudenza e gradualit, la spesa per il teatro fin per scomparire del tutto dal bilancio dello Stato
per il 1867, non senza una vera e propria battaglia in Parlamento che si concluse con 172
voti favorevoli e 90 contrari alla cessione dei teatri regi ai municipi.
Va detto che la soluzione municipale appariva anche come unopportunit importante di ammodernamento del sistema. Lautorevole critico Francesco DArcais sulla
Nuova Antologia sosteneva che uninnovazione di quel tipo avrebbe potuto favorire
il superamento del tradizionale sistema impresariale in direzione dellorganizzazione di
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orchestre, cori e repertori stabili, come gi accadeva con ottimo successo in area tedesca (Piazzoni 2001).
Nel frattempo, per, lintero universo teatrale e non solo le quattro citt interessate dal dibattito citato si trovava a vivere una vita sempre pi stentata e precaria, con il
pubblico che scarseggiava (soprattutto quello degli habitus, i palchisti e i militari, su cui
gli impresari pi contavano), e una concorrenza sempre pi forte per il moltiplicarsi delle sale, e in generale delle occasioni di intrattenimento. Limposizione nel 1869 della tassa del 10% sugli introiti lordi teatrali finiva cos per incidere pesantemente sul delicato e
sempre precario equilibrio che presiedeva alla programmazione teatrale, cio la contrattazione tra impresari-capocomici e singole sale. Contro tale tassa si sarebbe per una volta coalizzato, ma con scarso successo, tutto il mondo, per lo pi sfrangiato al proprio interno, della produzione teatrale, sia in musica che in prosa, presentando petizioni
parlamentari e ricorsi fin dalla prima applicazione del nuovo tributo.
Un altro fronte di complicati contenziosi tra i municipi e il ministero fu aperto poi dallapplicazione della prima normativa sul diritto dautore, che inizialmente prevedeva un
intervento diretto dei comuni nel controllo e nella riscossione di quei diritti, previo invio
al ministero di Agricoltura, industria e commercio di rapporti trimestrali dettagliati con il
nome e il titolo di tutte le opere musicali e drammatiche rappresentate nella provincia.
Il nuovo Stato tentava dunque di imporre al settore una sorta di modernizzazione accelerata attraverso lassunzione di unottica di libero mercato. Questa tuttavia non era accompagnata da quel riordinamento organico e coerente del sistema che molti auspicavano, mentre la progettazione di una politica di valorizzazione della produzione teatrale e
musicale veniva rimandata a data da destinarsi. A dibattersi tra le difficolt di adeguamento a un quadro normativo instabile e in continua evoluzione, da un lato, e alle sempre pi precarie condizioni delle economie locali dallaltro, non erano solo i teatri maggiori, ma tutto quel sistema teatrale puntuale e articolato sul territorio che si era consolidato
nei cinquantanni precedenti e che era stato tenuto insieme dai circuiti impresariali. Gran
parte dei municipi italiani si trovava in quel momento in situazioni finanziarie difficili,
cosicch la medesima questione dei sussidi pubblici che abbiamo visto dibattuta in Parlamento per gli ex teatri di corte si riproponeva per tutti i teatri di citt, che conobbero
dopo lUnit un forte ridimensionamento degli allestimenti.
I decenni postunitari sono quelli in cui si accesero a livello locale, da Reggio Emilia
a Cagliari, da Padova a Foggia, contenziosi senza fine e contrasti roventi tra i notabili locali sullopportunit di assegnare o meno la dote (cio la sovvenzione municipale) ai teatri, ma anche sulla necessit di aumentare il contributo richiesto annualmente ai proprietari dei palchi. La dote municipale e il canone annuo dei palchisti, ben pi degli introiti
serali, erano infatti da sempre le maggiori voci di entrata dei teatri di citt, quelle che nella gran maggioranza dei casi ne avevano permesso la costruzione, la gestione e la manutenzione. Esemplare in questo senso il caso di Venezia, dove allinizio degli anni Settanta il consiglio comunale aveva rifiutato di erogare il contributo annuale che forniva al teatro
La Fenice fin dal 1819, e che veniva ormai definito uninutile spesa di lusso poich rivolto a una ristretta fascia di cittadini. A loro volta i palchisti, rappresentanti dellaristocrazia e dellalta borghesia cittadina, non acconsentirono allaumento dei canoni annui, ritenuti gi troppo elevati. Tutto ci costrinse il maggior teatro cittadino a una programmazione
pi che saltuaria, con la rinuncia a 12 stagioni del Carnevale, le pi importanti dellanno,
tra il 1872 e il 1897. Non molto diversa era la situazione del Carlo Felice di Genova, costretto a chiudere tra il 1879 e il 1882, come il San Carlo a Napoli nella stagione 1875-76,
o la Canobbiana a Milano tra il 1875 e il 1885. La Pergola di Firenze, dopo aver perso la
sovvenzione nel 1877, present una programmazione estremamente precaria.
La crisi dei teatri maggiori si rifletteva inevitabilmente sulla vita di quelli minori.
Sale come quelle di Rimini, di Pesaro o di Lucca, un tempo incluse nei maggiori circuiti
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C. SORBA
Cultura e societ
impresariali e dove potevano essere allestiti i medesimi spettacoli che erano passati pochi mesi prima a Venezia o a Firenze, si trovavano ora escluse da quella programmazione molto pi ristretta anche sul piano temporale.
in un contesto di questo tipo, dove gli impresari e i teatri reclamavano aiuti e i poteri pubblici paventavano la bancarotta, che Verdi, da SantAgata, si lasciava andare a uno
sfogo costernato in una lettera allamico Opprandino Arrivabene: Cosa singolare! Quando lItalia era divisa in tanti piccoli stati le finanze di tutti erano fiorenti! Ora che tutti siamo uniti, siamo rovinati. Ma dove sono le ricchezze di una volta?! (Verdi 1931, p. 78).
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PARTE QUARTA
Musica e teatro
Un avvio cos esitante della politica per il teatro da parte del nuovo Stato fin per contribuire al consolidarsi nei decenni seguenti di un dibattito fortemente critico sulle sorti
del teatro italiano, sia in musica sia in prosa, che percorse gran parte dei luoghi culturali
e politici deputati, sollevando tra gli addetti ai lavori una sorta di lamento corale che tendeva a tingersi di una vaga nostalgia per una non ben definita et delloro del teatro italiano. In effetti, luniverso teatrale postunitario era investito, e parzialmente disarticolato, da una serie di trasformazioni che riguardavano aspetti diversi del suo funzionamento
e che spiegano il diffuso senso di disorientamento: da un lato, la modernizzazione giuridica e soprattutto fiscale, che comprendeva, ad esempio, il riconoscimento del diritto dautore, e richiedeva delicati aggiustamenti tra i diversi attori della produzione; dallaltro,
lampliarsi e larticolarsi di un mercato culturale che aveva nellindustria dello spettacolo uno dei suoi terreni pi importanti e anche in Italia cominciava, con estrema gradualit, a moltiplicare e diversificare circuiti e pubblici.
Erano allora tutti gli elementi del quadro produttivo precedente ad apparire inadeguati, non ultimi gli spazi, cio quei teatri di citt che con le loro aristocratiche strutture a palchetti si prestavano a divenire il simbolo dellarretratezza complessiva del sistema.
Come dir Bersezio, scrittore e giornalista molto attivo nel mondo del teatro, riprendendo una polemica gi lanciata negli anni Quaranta dallattore mazziniano Gustavo Modena, quei maledetti palchi aristocratizzano gli spettacoli e non li rendono accessibili alle
cos dette masse, che pure formano il vero pubblico (cit. ivi, p. 297). E in effetti in alcune citt come Torino, Venezia o Brescia si discusse a lungo in sede di consigli comunali
sullopportunit di ristrutturare le antiche sale per allargare e democratizzare la partecipazione. Dal momento che si doveva comunque procedere a una loro modernizzazione
sul piano della sicurezza, sostenevano in molti, si poteva anche cercare di rispondere alla
loro indubbia crisi rendendoli pi accessibili a tutti i cittadini. In modo particolare, come si disse a Brescia, non tanto alle masse quanto a quel ceto medio a cui ora il teatro
poco si rivolgeva, composto comera dai palchi per le classi privilegiate e dal loggione per
quelle inferiori. Si trattava, allora, di espropriare le prime file di palchi, e magari il palco
reale, per costituire gallerie o balconate aperte, il che corrispondeva di fatto alla soluzione pi frequente nella maggior parte dei teatri europei. Non molto si riusc a concretizzare in questa direzione, perch si trattava per lo pi di operazioni tanto complesse dal
punto di vista strutturale quanto poco incisive sulla capienza finale delle sale, oltre che
suscettibili di conflitti accesi coi palchisti. Il dibattito sugli spazi teatrali ebbe quindi esiti scarsi, se si eccettua qualche caso di trasformazione in loggione delle ultime file di palchi (come avvenne a Venezia nel 1878), ma rimaneva comunque indicativo della persistente centralit degli aspetti architettonici nella crisi dei teatri.
A far concorrenza alle vecchie sale municipali e sociali cerano inoltre spazi nuovi e
diversi come i politeama e le arene, sempre pi numerosi lungo la penisola. Si trattava di
sale fatte per un pubblico vasto e popolare, capaci di contenere anche 4-5.000 spettatori,
costruite e gestite per lo pi da nuovi imprenditori dello spettacolo che tendevano a proporre nuovi generi e utilizzavano strategie pubblicitarie pi aggressive, come gli enormi
cartelloni-manifesto che iniziavano a tappezzare le strade delle citt. Erano il simbolo di
una fase pi commerciale della produzione teatrale, che proponeva anche al pubblico italiano forme di spettacolo spesso provenienti dalla Francia, come loperetta, il vaudeville,
la rivista o il variet. Gi negli anni Sessanta queste nuove programmazioni ottenevano
un sorprendente successo, attirando non solo piccoli negozianti e domestici, come scriveva criticissima la Gazzetta Musicale di Milano, cio il giornale delleditore Ricordi, ma
anche un pubblico pi colto e sofisticato che accorreva a Milano al teatro Fossati per vedere le ultime novit degli spettacoli parigini, simboli di una modernit a cui lItalia postunitaria fortemente aspirava (Sorba 2006). Daltronde solo molto gradualmente nei decenni di fine secolo si consumer anche nelle sale teatrali quella distinzione gerarchica tra
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C. SORBA
Cultura e societ
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PARTE QUARTA
Musica e teatro
torn pi volte al centro del dibattito pubblico, nel tentativo di individuarne le strade pi
efficaci. Alla definizione di una politica mirata e coerente parevano tuttavia opporsi da un
lato le scarse disponibilit economiche del nuovo Stato, dallaltro divergenze piuttosto
profonde tra gli addetti ai lavori sulle modalit e le strategie da adottare per lincoraggiamento, come si usava dire, del settore.
Controversie forti si crearono intorno allidea lanciata nel 1868 dal ministro dellIstruzione Emilio Broglio, il quale propose di organizzare forme di promozione dellarte musicale nazionale attraverso una Societ rossiniana che fosse espressione della societ civile invece che dei poteri pubblici, un grande consesso di amatori e dilettanti dotati di comitati
in varie citt, che sottoscrivessero somme annuali a favore di unattivit di alto profilo artistico (Piazzoni 2001). Oltre a urtare la suscettibilit di qualcuno (in primo luogo di Verdi), la proposta aveva suscitato perplessit soprattutto per quanto riguardava leventuale
estensione delle competenze della nuova societ sui conservatori e sugli studi musicali in
genere. Si temeva in sostanza che il governo volesse continuare sulla strada delle economie, sbarazzandosi di unattivit educativa sulla quale molto restava da fare. La proposta
dunque cadde abbastanza rapidamente, sotto il peso delle critiche e di una qualche approssimazione progettuale. Ad essa fecero seguito i lavori di due diverse commissioni (una
per la musica e una per il dramma) promosse tra il 1871 e il 1872 dal ministro Cesare Correnti. Le date sono in questo caso significative, visto che corrispondevano al raggiungimento di Roma capitale, evento che aveva caricato di un nuovo peso simbolico lidea di
promuovere e sostenere unarte schiettamente italiana. Le due commissioni posero nuovamente sul tappeto le maggiori questioni che rimanevano aperte: per la musica soprattutto la necessit di unefficace riorganizzazione dei conservatori che identificasse una
scuola essenzialmente italiana; per il teatro di prosa lopportunit di una compagnia stabile romana, dotata anche di una propria scuola di recitazione, che fungesse da punto di
riferimento per autori e attori lungo tutta la penisola. Su questultimo terreno la commissione Correnti propendeva dunque per la soluzione gi vagheggiata da Gustavo Modena
e da altre personalit del teatro fin dagli anni Quaranta: quella di una compagnia modello, in parte finanziata dallo Stato, che anche in Italia creasse una sorta di virtuoso volano
a uno sviluppo delle arti sceniche non troppo condizionato dalle logiche del mercato.
In realt, per, come si poteva desumere dal dibattito che si svolgeva nel frattempo
sulle maggiori riviste culturali del periodo, le opinioni in materia erano molto contrastanti, sia nel merito che sulle strategie. Non del tutto condivisa rimaneva lidea di una compagnia stabile di riferimento in un paese come lItalia che vantava una pluralit di capitali culturali, e in cui il cosiddetto nomadismo delle compagnie aveva avuto anche effetti
positivi, in primo luogo la creazione di un unico pubblico nazionale, quantomeno per il
teatro lirico. La conformazione della geografia urbana e culturale della penisola rendeva
pericolosa, sostenevano alcuni critici, la scelta di puntare su un unico luogo che divenisse cardine dellintero sistema, dal momento che nessuna citt italiana poteva contare, come accadeva invece a Parigi, su un bacino potenziale di pubblico sufficientemente ampio
e dinamico per sostenere unoperazione di quel tipo.
Intorno a questi stessi contrasti, che riflettevano peraltro uno dei temi chiave dellintero processo di unificazione (promozione centralistica o valorizzazione a partire dalla ricchezza delle localit), si gioc nel corso degli anni Settanta anche la questione, di rilevanza soprattutto mediatica, della creazione di un teatro nazionale, parola dordine che portava
con s almeno due tipologie di problema: da un lato quello pi generale del nazionalismo
culturale nelle sue declinazioni musicali e drammatiche; dallaltro quello specifico della
creazione nella nuova capitale di una grande sala teatrale di rilevanza nazionale.
Anche qui i pareri che circolavano nel dibattito pubblico erano diversi, quando non opposti. Si trattava di combattere lo stranierismo difendendo la tradizione musicale nazionale dal pericolo di una de-italianizzazione delle arti, come scrivevano in molti, o piuttosto
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C. SORBA
Cultura e societ
di evitare come sostenevano altri lisolamento culturale che una sorta di protezionismo
musicale poteva produrre? Sono questi gli anni in cui il tema della nazionalit in musica percorre tutti i paesi europei e in Italia si concentra da un lato contro la presenza sempre pi
consistente dellopera francese e dallaltro contro limpatto dellopera di Wagner, che aveva trovato nel teatro comunale di Bologna la propria principale sede di adozione a partire
dal 1871. Si trattava di contrasti che finivano per coinvolgere contemporaneamente aspetti
politici, artistici e commerciali, con gli editori musicali in prima linea a sostenere luna o
laltra posizione.
Al delicato e controverso intreccio di interessi privati e pubblici si deve anche lo scarso esito di alcune specifiche proposte di riorganizzazione produttiva del teatro in prosa
emerse nel corso degli anni Settanta: cos il progetto di Righetti, direttore del teatro milanese e autore di un pamphlet intitolato Facciamo un teatro Nazionale, che proponeva la
costituzione di due compagnie stabili, una a Roma e una a Milano, congiuntamente rivolte a un ripensamento complessivo del repertorio; o quella che giunse nel 1875 al ministero dellIstruzione prospettando una soluzione basata su quattro compagnie (a Firenze e
Torino oltre che Milano e Roma), che fossero comunque coordinate e sussidiate a livello
centrale (Piazzoni 2001). Tali proposte provenivano dal mondo stesso del teatro e presupponevano un sostanziale accordo sulla protezione statale alle arti, tema che restava invece alquanto controverso, nel mondo politico come in parte della critica. Un analogo insuccesso, frutto insieme di difficolt economiche e di divergenze strategiche, incontr
anche il progetto di costituire a Roma un grande teatro dopera nazionale, che fin per rimanere uniniziativa privata dellimprenditore Domenico Costanzi, il quale nel 1880 inaugur con la Semiramide di Rossini la grande sala che portava il suo nome.
Sul tema della promozione pubblica alle arti sceniche il dibattito politico sarebbe continuato a lungo sui medesimi binari, riproponendo periodicamente la consueta divisione
tra i fautori di un potenziamento del ruolo dello Stato come sostenitore di una cultura veramente nazionale e chi invece temeva gli effetti di tale tutela, e indicava piuttosto la via
del mercato e della libera iniziativa. Ma, al di l di tale impasse, il settore era tuttaltro che
immobile, e anzi manifestava un indubbio dinamismo che allinizio degli anni Ottanta
raggiunse esiti importanti, sia sul piano dellorganizzazione produttiva che sul fronte normativo e istituzionale.
In primo luogo, lidea delle compagnie stabili inizi a concretizzarsi a livello locale,
attraverso forme di accordo tra i municipi e i privati che portarono alla costituzione nel
1877 della Compagnia drammatica della citt di Torino. Negli anni seguenti esperienze
analoghe si avviarono a Roma, a Napoli e a Milano. In secondo luogo, giunsero a compimento alcuni cambiamenti sul terreno istituzionale che dovevano meglio definire il profilo del quadro successivo. Del 1882 il nuovo Testo unico sul diritto dautore, la cui ridefinizione era stata promossa proprio da un gruppo di deputati che erano anche scrittori
per il teatro. Il testo metteva ordine nella normativa esistente e accordava una maggiore
tutela agli autori di opere destinate alla rappresentazione. Nello stesso anno venne creata, dopo una lunga gestazione e un grave ritardo rispetto alla situazione francese, inglese
e tedesca, la Societ italiana degli autori (Sia poi Siae), che doveva vigilare sulleffettivo
rispetto della normativa, ma anche divenire portavoce della produzione intellettuale della nazione.
Infine una svolta importante, nel medesimo anno, si ebbe quando il ministro della
Pubblica istruzione Guido Baccelli cre la prima Giunta permanente per larte drammatica e musicale, che doveva metter fine al sistema delle commissioni temporanee invalso
fino a quel momento e riconoscere uno spazio istituzionale permanente di riflessione e di
proposta sui temi chiave della vita musicale e teatrale della nazione. Della Giunta fecero
parte personaggi autorevoli e molto attivi nel dibattito dellepoca: scrittori per il teatro
come Cavallotti e Giacosa, compositori come Ponchielli e Boito, critici come DArcais
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Musica e teatro
e Filippo Filippi. Era il meglio del teatro italiano che veniva chiamato a collaborare a una
fase pi matura della politica culturale del nuovo Stato. La transizione postunitaria poteva dirsi a quel punto conclusa, con la definizione di un quadro normativo e di attori istituzionali che avrebbero giocato un ruolo decisivo nelle scelte degli anni successivi.
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C. SORBA
La cultura scientifica
Carlo G. Lacaita
Cultura e societ
Bretagna, le cui capacit produttive sollecitano nei paesi inseguitori la nascita di nuove
istituzioni formative a tutti i livelli della scala sociale.
A diffondere le tendenze in crescita contribuiscono gli strumenti pi diversi di comunicazione, dalle riviste specializzate alle pubblicazioni divulgative, dalle societ promotrici di studi, di esperienze e di riunioni periodiche come la Societ Elvetica dei Naturalisti (1815), la Gesellschaft Deutscher Naturforscher und Aertze (1822), la British Association
for the Advancement of Science (1831), la Association franaise pour lavancement des sciences (1833), alle esposizioni di macchine e di prodotti, che a met del secolo diventano internazionali con la celebre Esposizione di Londra del 1851, da cui ha inizio la serie delle
grandi manifestazioni del secondo Ottocento, destinate a influire sullorientamento e limmaginario di grandi masse.
PARtE QuARtA
La cultura scientifica
tecnologico italiano, di osservazioni meteorologiche coordinate, e di altro ancora, si rafforzava la convinzione che, se per sviluppare leconomia occorreva procedere alla creazione di un sistema comune e integrato in materia di pesi e misure, di comunicazioni, di trasporti e di dogane (la Germania insegnava con il suo Zollverein), per realizzare un movimento
scientifico allaltezza dei tempi erano necessarie esplorazioni sistematiche su tutto il territorio della grande patria italiana, della nostra Italia, come sempre pi spesso si diceva in pubblico oltre che nelle private conversazioni.
Certo, lo scibile umano di per s cosmopolitico, affermava ancora Majocchi, una
scoperta, uninvenzione, un nuovo metodo, un nuovo processo, frutto di un ingegno di
qualsiasi nazione, diventa patrimonio di tutti i colti popoli. anche vero, per, aggiungeva, che un tale cosmopolitismo si compone [...] di parecchie unit, di parecchi carati, di cui ogni civile popolazione vi somministra il suo proprio; pi o meno grande, di
maggiore o minor valore (Annali di fisica, chimica e matematiche, 1843, pp. 3-4).
Dopo aver dato contributi di primo piano con Leonardo da Vinci, Galileo Galilei, Evangelista torricelli, Giambattista Morgagni, Alessandro Volta, lItalia aveva il dirittodovere di entrare nella gran gara sorta fra le nazioni pi evolute sul terreno del progresso scientifico e dellumano incivilimento. Ma per poterlo fare doveva raggiungere
i popoli pi evoluti nelle indagini sperimentali superando la frammentazione che la
danneggiava.
In tal modo le esigenze proprie della ricerca scientifica si univano con quelle dello
sviluppo economico e si intrecciavano con le istanze nazionali nella metafora risorgimentale che le schiere di patrioti declinavano in vario modo e sempre pi di frequente. Naturalmente di sviluppo scientifico italiano (come di riforme comuni alle diverse parti
della penisola) si parlava con maggiore intensit dove i sovrani mostravano di volersi aprire alle istanze degli studiosi e delle forze sociali pi dinamiche.
C.G. LACAItA
Cultura e societ
era possibile anche ascoltare sciocchezze ed errori, tanto scarsa era la preparazione di
chi reggeva linsegnamento (Parlatore 1992, p. 47).
Nella pi grande delle capitali italiane, Napoli, cerano numerose strutture formative e organismi scientifici, capaci di attrarre dalle province del Regno o da altri Stati uomini di qualit come lingegnere Carlo Afan de Rivera, il naturalista Michele tenore,
lastronomo Carlo Brioschi, il fisico Macedonio Melloni, il geologo Arcangelo Scacchi.
Ma la stasi delle istituzioni e il conformismo imposto con la pressione poliziesca e censoria, erano tali da spingere molti a lasciare il Regno o a vivere isolati (Torrini 1989). una
scienza in rapida evoluzione come la chimica era affidata a docenti che si limitavano a tradurre qualche libro straniero, a compilare testi per studenti e a preparare dimostrazioni
didattiche. Era pi che naturale quindi che un giovane di talento come Piria dovesse andare altrove al pari del geologo Pilla e di altri scienziati meridionali. Dopo lesperienza
parigina e le ricerche presso Dumas, il chimico calabrese rientr prima a Napoli verso la
fine del 1839 e insieme al pugliese Scacchi, studioso di mineralogia vesuviana, apr anche
una scuola di scienze sperimentali e avvi una pubblicazione periodica, lAntologia di
scienze naturali. Ebbe come allievo Sebastiano De Luca, che segu le orme del maestro,
partendo dalla Calabria, studiando a Napoli, perfezionandosi a Parigi e approdando a Pisa, dove intanto Piria era giunto nel 1842 con laiuto di Melloni, e dove si trov in buona
compagnia con Mossotti, Matteucci, Enrico Betti e gli altri, che nel 1848 avrebbero preso parte, insieme agli studenti universitari toscani, alla prima guerra dindipendenza.
Ancora pi stagnante era la situazione dello Stato pontificio per la generale subordinazione dei laici al clero e i controlli sullortodossia di ogni affermazione. Non solo nessuno dei nove congressi degli scienziati pot essere ospitato, ma anche la partecipazione
alle riunioni organizzate altrove fu vietata ai sudditi dello Stato della Chiesa. Soltanto con
lelezione di Pio IX e lavvio delle riforme si sper in una maggiore disponibilit di libri
e in un ampliamento degli insegnamenti universitari, il cui numero era ancora tanto ristretto da spingere gli studenti romani a presentare nel 1847 una supplica perch i nuovi saperi e i pi fecondi metodi scientifici potessero finalmente entrare anche nel loro
ateneo (Belardinelli 2002, p. 178).
Il conservatorismo di fondo connotava per anche i maggiori atenei settentrionali. Se
a torino, ad esempio, la chimica continuava a essere insegnata da un medico, Gian Lorenzo Cant, come disciplina ausiliaria della medicina, a Padova, Francesco Ragazzini manteneva in uso un testo di chimica pubblicato nel 1828 da Girolamo Melandri suo maestro.
Qualche novit si registrava a Milano, dove, nella neonata Societ dincoraggiamento darti e mestieri, uno studioso di formazione europea, Antonio Kramer, allievo e amico di Arthur-Auguste De La Rive, Alphonse-Louis-Pierre-Pyramus De Candolle, Louis-Jacques thnard, aveva creato con il suo attrezzato laboratorio personale una scuola
di chimica applicata, che divenne presto un centro di attrazione per giovani tecnici, imprenditori e ricercatori, al quale si aggiunsero via via le scuole di fisica tecnica, di geometria e di disegno meccanico, di setificio, istituite dallo stesso sodalizio (Lacaita 1990).
Lidea di un Ateneo politecnico era stata gi proposta a Milano subito dopo la Restaurazione dal gruppo di nobili e di borghesi liberali milanesi che si era raccolto attorno
a Federico Confalonieri, ma non si era potuta realizzare per lopposizione delle autorit
viennesi. Sorte migliore ebbe allinizio degli anni trenta lidea di due naturalisti, Giuseppe De Cristoforis, appassionato collezionista, e Giorgio Jan, docente a Parma, che decisero di affidare le loro raccolte alla citt perch servissero a costituire un Museo civico
di storia naturale e contribuissero al pubblico decoro, al progresso degli studi e allo
sviluppo dellindustria patria anche mediante corsi di lezioni. Intendevano per industria (secondo laccezione allora corrente) ogni genere di attivit produttiva, a partire dalle attivit agricole, che molti benefici potevano trarre dagli studi naturalistici, riguardanti
la composizione dei terreni, la flora e la fauna dei vari luoghi.
PARtE QuARtA
La cultura scientifica
Lagricoltura, in effetti, dato il ruolo che svolgeva nelleconomia del tempo, era al
centro di molti studi naturalistici, variamente ripresi e divulgati dalla stampa coeva, e di
numerosi esperimenti innovativi (si pensi a Cosimo Ridolfi, a Bettino Ricasoli, a Giovanni Battista Jacini, a Camillo Benso di Cavour, per fare solo qualche nome), nonch di ampi dibattiti che si svilupparono nelle sedi pi diverse, dalle accademie di pi antica origine, come quella dei Georgofili di Firenze, alle pi recenti come lAssociazione agraria
subalpina istituita a torino nel 1842, o alla menzionata Societ dincoraggiamento di Milano, che si applicava anche alla promozione dei miglioramenti agricoli, pur dedicandosi
soprattutto alle attivit manifatturiere, che stavano aprendo nuove prospettive di sviluppo e sembravano gi in fermento in Lombardia e altrove.
C.G. LACAItA
Cultura e societ
PARtE QuARtA
La cultura scientifica
decennio precedente per la promozione del rinnovamento scientifico italiano. Non solo
aumentarono i soggiorni in Europa per conoscere le realt pi avanzate, ma si intensificarono i rapporti con studiosi stranieri e italiani della medesima disciplina o di discipline affini in vista di programmi comuni. un ruolo significativo in tal senso lo svolsero i
periodici che cercarono anche di favorire il perfezionamento mediante una maggiore
specializzazione. Pur mantenendo un sottotitolo molto ampio, Giornale di Fisica, di
Chimica e delle loro applicazioni alla Medicina, alla Farmacia ed alle Arti Industriali,
come il mercato imponeva, Il Nuovo Cimento dedic dal 1855 in poi uno spazio sempre maggiore alla fisica e alla chimica, che erano i campi pi praticati dai due direttori
Matteucci e Piria. A stimolare le ricerche dei matematici che costituivano una massa pi
omogenea di lettori si impegn liniziativa assunta nel 1858 da Betti, professore di algebra superiore a Pisa dopo essere stato allievo di Mossotti, e da Francesco Brioschi, titolare di matematica pratica a Pavia. Rilevati gli Annali di Scienze matematiche e fisiche, in vita dal 1850 sotto la direzione del romano Barnaba tortolini, li rilanciarono su
nuove basi con il titolo di Annali di matematica pura e applicata, coinvolgendo nellimpresa altri due valenti matematici, il piacentino Angelo Genocchi e il siciliano Placido tardy, rispettivamente professori a torino e a Genova (Bottazzini 2000). Per stabilire, inoltre, gli opportuni collegamenti con la cultura scientifica europea Betti e Brioschi
compirono nel 1858 un lungo viaggio in compagnia del giovane Felice Casorati. Passando da Zurigo a Berlino, da Karlsruhe a Parigi, per dieci citt europee, il gruppo incontr i maggiori matematici del tempo (fra cui Bernhard Riemann, che stabil con Betti un
rapporto ricco di stimoli) e conobbe il funzionamento di molte istituzioni, a cui Brioschi si sarebbe ispirato nella sua attivit postunitaria in tema di organizzazione degli studi tecnici superiori.
La svolta unitaria
La guerra del 1859 segn non solo laccelerazione del movimento unitario, ma anche il
passaggio dai precedenti parziali interventi in materia di pubblico insegnamento alla prima legge quadro, nota come legge Casati, che accolse le esigenze maturate nel corso degli anni Cinquanta, innestandole sul tronco della tradizione piemontese. Continuit e innovazione furono quindi i tratti principali della legge, subito rilevati dai contemporanei.
tra le novit di maggior rilievo la prima certo la nascita, accanto alla Scuola secondaria classica confermata nel ruolo di scuola preliminare per il conseguimento dei gradi
accademici nelle universit dello Stato (art. 188), del secondo canale formativo, costituito dalle Scuole tecniche di primo grado e dagli Istituti tecnici secondari, per i cittadini orientati a determinate carriere del pubblico servizio, alle industrie, ai commerci ed
alla condotta delle cose agrarie (art. 272). Nella fascia degli studi superiori, inoltre, mentre gi si prospettava una semplificazione del vecchio apparato universitario, annunciando la fine dellateneo sassarese a vantaggio degli stabilimenti inferiori e superiori di istruzione secondaria e tecnica (art. 177), si dava vita a due scuole politecniche per ingegneri:
la Scuola di applicazione di torino e lIstituto tecnico superiore di Milano, sullesempio
di analoghe istituzioni europee.
Iniziava in tal modo con la Casati la serie di interventi istitutivi, che via via si ebbero nelle regioni coinvolte dallunificazione, diventandone uno degli esiti pi rilevanti.
sufficiente mettere insieme anche solo una parte di tali interventi compiuti dal 1859 in poi
nel campo dellistruzione per constatare che si tratt di una linea seguita con decisione e
ad ampio raggio. Linea da tempo voluta da Cavour, che ancora poco prima di morire ebbe modo di ribadirla. Scrivendo a Stefano Jacini il 5 gennaio 1861, cos si esprimeva in
merito al progetto di una nuova scuola veramente tecnica:
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Glielo raccomando caldamente. Questa scuola sar il primo passo nella via della riforma dellinsegnamento: prima necessit sociale. Non badi alla burocrazia e ordini che si eseguisca
quanto viene proposto; in quindici giorni sar aperta. [...] Far altrettanto allarsenale di
Genova. Spero che altri mi imiteranno. A poco a poco ritrarremo linsegnamento del fatale
indirizzo che si d; e ci sar per lei un vero titolo alla benemerenza dellItalia da rigenerarsi (Cavour 2008, pp. 54-55).
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Accenti analoghi si trovano in numerosi altri esponenti dei gruppi dirigenti risorgimentali,
fossero ministri come Gioacchino Pepoli e Matteucci, o deputati e pubblicisti come Gabriele Rosa e Mauro Macchi, che, al di l delle diverse posizioni politiche, convenivano sulla necessit e lurgenza di potenziare la cultura tecnico-scientifica. Macchi, in particolare, sottolineava sul Politecnico di Cattaneo che la legge del 1859 aveva di fatto riservato una posizione
privilegiata allistruzione classica tradizionale, stabilendo che i ginnasi fossero pi numerosi
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delle scuole tecniche e che i licei fossero obbligatori almeno in ogni capoluogo di provincia, mentre gli istituti tecnici erano permessi solo nei centri pi popolosi.
In sintonia con questo giudizio critico si mostrava sul Corriere mercantile di Genova Cannizzaro quando criticava la Casati per la mancanza di chiarezza circa il difficile passaggio dalle scuole tecniche alle facolt di scienze fisiche e matematiche. Noi domandiamo sosteneva il chimico siciliano che la licenza del corso tecnico valga quanto quella dei
licei ad essere ammessi almeno alla facolt di scienze fisico-matematiche (Cannizzaro 1992,
p. 310). E sempre a favore degli studi tecnici si dichiarava anche Gerolamo Boccardo, sia
nel 1860 che dieci anni dopo, quando, a nome di una commissione ministeriale chiamata
nel 1870 a occuparsi delle scuole professionali, ribadiva la necessit di uneducazione pi
direttamente operosa, richiesta dal moltiplicarsi delle ricchezze mobiliari, dalla crescita dei ceti borghesi commerciali ed industriali, come dal possente svolgimento assunto
dalle grandi opere di pubblica utilit del periodo (Boccardo 1870, p. 5).
Problemi emergenti
Non si coglie il senso delle precedenti prese di posizione se non le si considera in rapporto ai motivi oggettivi che premevano negli anni dellunificazione sui protagonisti del dibattito culturale e dellazione di governo. opportuno perci richiamare i termini di alcune questioni affrontate dopo il 1861, a partire dalle infrastrutture, necessarie a collegare
una allaltra le diverse parti del paese e a inserirle unite nel circuito degli scambi internazionali. tornato a guidare il ministero dei Lavori pubblici, Stefano Jacini affermava che
per realizzare unit e sviluppo occorreva
aprire nuove vie, escavare o proteggere con nuove opere i porti malsicuri od interrati, estendere e fortificare le difese contro i fiumi, condurre le acque a raddoppiare la fecondit di vasti
terreni, far giungere fino alle pi remote parti della penisola quel mirabile istrumento di civilt, di progresso e di potenza che la vaporiera, far sparire le distanze congiungendo coi fili telegrafici le mille citt dItalia, perfezionare, ampliare e rendere pi rapido e ad un tempo pi
semplice il servizio delle poste, creare una marina a vapore nazionale (Jacini 1867, p. 1).
Non difficile immaginare quanto queste opere pubbliche programmate dopo lunit
sollecitarono la cultura tecnico-scientifica, le istituzioni formative che si stavano creando
e gli stessi apparati tecnici e gestionali dello Stato. Le esperienze e gli strumenti dei governi preesistenti, anche dei pi efficienti (Piemonte, Lombardo-Veneto, toscana), non
erano pi adeguati alle esigenze di un grande Stato e alla complessit dei problemi nazionali. La questione transalpina era una di questi ed opportuno qui richiamarne i termini essenziali e le procedure che si seguirono nella fase conclusiva.
Mentre procedevano i lavori del Frjus, assunti ormai congiuntamente da Italia e Francia, il dibattito sulla seconda trasversale alpina entrava finalmente nella fase decisiva. I progetti si erano accumulati numerosi da quando nel 1838 era stata avanzata una prima proposta e tutte le soluzioni possibili erano state sostenute nel corso del quarto di secolo
successivo. Dopo tante discussioni e iniziative, allindomani dellunit si era ormai fatto
chiaro, per il rifiuto del capitale privato di sottoscrivere impegni giudicati troppo aleatori,
che per unimpresa tanto difficile occorresse lintervento degli Stati interessati (Italia, Svizzera e Germania), e che per giungere a una scelta conclusiva bisognasse passare a una comparazione rigorosa sia dei dati raccolti sia dei progetti fino allora elaborati.
un decisivo contributo in tal senso fu dato proprio da Jacini, tornato nel 1864 ai
Lavori pubblici, dove Cavour lo aveva voluto nel 1860. Si trattava a suo giudizio di
mettere ormai fine alle deduzioni precipitate, alle nozioni vaghe e puramente intuitive che avevano generato grandissima confusione ed eccitato lo spirito di parte, per
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giungere a una scelta finale saldamente ancorata a criteri obiettivi e a dati scientifici
incontrovertibili.
una commissione di tecnici ebbe il compito di studiare i problemi delle tre principali linee concorrenti, Spluga, Lucomagno e San Gottardo, sulla base della letteratura esistente e di oltre trenta progetti, rilevando gli elementi essenziali di ciascuno (chilometraggio, pendenze, punto culminante, gallerie, loro lunghezza e relativo numero di pozzi).
unaltra commissione di esperti si occup dei sistemi disponibili per vincere le forti pendenze e quindi della possibilit eventuale di adottare gallerie elevate al posto di gallerie di
base. Sempre in merito alla questione delle lunghe gallerie furono interpellati tre dei maggiori geologi del tempo, Angelo Sismonda, Felice Giordano e Antonio Stoppani, che appurarono la fattibilit delle gallerie. Intervenne quindi lingegner Severino Grattoni, direttore dei lavori del Frjus, per dire, alla luce delle esperienze fatte sulle Alpi Cozie, quale
dei tre tunnel poteva considerarsi pi agevole. Lingegnere Giovanni Battista Rombaux
a sua volta si pronunci in merito al reale obiettivo geografico del commercio estero italiano. tutto il materiale cos raccolto e vagliato fu infine affidato a una commissione commerciale di competenti e parlamentari, che, ascoltate ancora le ragioni sostenute dalle parti, concluse il 10 febbraio 1866 con un verdetto finale, che indicava come preferibile il San
Gottardo per collegare lItalia unita allEuropa del Nord (Caizzi 2007).
Se le opere infrastrutturali furono un volano di cultura tecnico-scientifica per la
quantit di esperti che mobilitarono, i problemi che posero e i nuovi studi che stimolarono (si pensi a quelli di Valentino Cerruti e di Carlo Alberto Castigliano sui sistemi
elastici), lo furono anche per gli strumenti che sollecitarono, come ad esempio la carta
topografica, per la cui realizzazione, che richiedeva lavori sistematici e regolari di inquadramento geometrico e di rilevamento cartografico, si giunse nel 1872 alla nascita
dellIstituto topografico militare con sede a Firenze, dal 1882 denominato Istituto geografico militare (Igm).
Motivi di riflessione collettiva furono offerti dalla guerra del 1866 contro lAustria,
che mise in evidenza le insufficienze ereditate e le presenti. La classe dirigente unitaria si
interrog sulle ragioni della deludente prova militare del neonato Stato italiano, e si convinse ancor pi della necessit dei cambiamenti appena avviati. Intervenendo nel dibattito col saggio Di chi la colpa? Pasquale Villari richiam lattenzione anche sugli aspetti
tecnici e operativi. Alle masse combattenti scriveva gli ordini oggi si danno col telegrafo e si eseguono colle strade ferrate, il piano di battaglia diventato un lavoro di scienza, e la direzione di queste grandi masse richiede [] grande impegno e grande coltura in
tutti coloro che comandano. Lapprovvigionamento, a sua volta, esige una grande capacit amministrativa, e i mezzi doffesa e di difesa sono divenuti cos complicati, che tutte
le operazioni militari suppongono nellesercito e nella flotta una grandissima forza industriale. Occorrevano quindi concludeva Villari un apparato organizzativo e una base
produttiva comparabili con quelli degli altri maggiori Stati europei. un paese costretto a
chiedere allo straniero rotaie, cannoni, fucili, navi e qualche volta anche macchinisti delle navi, non poteva dirsi neppure indipendente, sosteneva lintellettuale napoletano (Villari 1995, pp. 147-149).
A sua volta Colombo, sottolineando il rapporto fra statualit nazionale moderna e
strutture industriali avanzate, affermava:
Qualunque opinione si porti nelle questioni di libero scambio o di protezionismo, non bisogna dimenticare che ci sono talune industrie che son necessarie allo Stato, che fanno parte
in certa guisa del suo stesso organismo; non bisogna dimenticare che le grandi officine meccaniche e ferroviarie sono altrettanti arsenali in tempo di guerra, e al pari dei grandi cantieri di costruzioni marittime concorrono a formare larmamento della nazione. Quando il paese fosse chiuso da tutte le parti, deve trovare in s stesso i mezzi per rifornire le sue ferrovie,
il suo materiale da guerra e riparare la sua marina (Colombo 1985, p. 255).
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Gi nel 1862 il tecnologo milanese aveva posto il raggiungimento stabile degli obiettivi
risorgimentali in diretto rapporto con lo sviluppo delle capacit industriali. La prosperit industriale di un popolo aveva affermato al pari della libert, che la sviluppa e la
feconda, uno dei primi elementi della sua indipendenza e della sua stessa coesione nazionale. Ma per realizzarla occorrono lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e la loro diffusione fra i fabbricanti e gli operaj (ivi, pp. 154, 160).
Il rinnovamento
Da tutti i punti di vista, quindi, lo sviluppo tecnico-scientifico appariva necessario insieme a ci che doveva renderlo possibile: lo spostamento del baricentro culturale dai saperi tradizionali verso quelli nuovi, mediante unampia trasformazione del sistema formativo esistente. una trasformazione che, come gi osservato, fu s subito avviata con la
creazione delle nuove strutture formative e di ricerca, ma che di fatto si realizz pi lentamente di quanto, nellentusiasmo iniziale, molti avevano pensato e sperato. Ci per diverse ragioni, su cui dovremo tornare pi oltre, che andavano dalle imperiose strettezze
finanziarie del nuovo Stato, gravato dopo lunit da un deficit di bilancio assai pesante,
alle resistenze delle forze legate ai vecchi assetti culturali e sociali, dalle incertezze derivanti dalla novit stessa dei problemi agli antagonismi interni al mondo accademico e ai
conflitti di competenze fra i ministeri preposti al governo delle vecchie e delle nuove istituzioni culturali e formative.
Per molti modernizzatori la nascita delle nuove scuole tecnico-scientifiche doveva essere accompagnata da una parallela riduzione numerica delle tradizionali, peraltro da modificare sia nei contenuti che nei metodi di insegnamento. E tentativi in tal senso furono
anche fatti, secondo le indicazioni di Matteucci, di Sella e di altri esponenti dei primi governi. La difesa per dellesistente da parte di numerose ed estese consorterie, fu tale da
impedire anche la soppressione degli organismi pi esangui ereditati dal passato.
N fu possibile seguire (se non in parte) la via indicata da Cattaneo, che, sollecitato
da Matteucci, ministro della Pubblica istruzione dal 1862 al 1864, prospett per gli studi
superiori un sistema organico di centri specializzati e saldamente ancorati alle diverse realt del paese, in una linea di radicale rinnovamento culturale.
Il principio che abbisogna alle facult italiane sostenne allora Cattaneo adunque ci che
in economia si chiama divisione del lavoro; ci che in psicologia si chiama analisi. La sintesi sar lItalia. La sintesi non la ripetizione, non luniformit; ma la pi semplice espressione della massima variet (Cattaneo 1963, pp. 207-208).
Ai contrasti emergenti si rispose con una serie di compromessi volti a conciliare e tenere
insieme i gruppi dirigenti nazionali. E ci non manc di riflettersi sul cambiamento, che
risult oscillante, ora accelerato ora frenato, complessivamente inferiore ai propositi e alle aspettative iniziali. Non a caso Brioschi esclamava sin dal 1863:
Possiamo noi dire che una rivoluzione sia avvenuta in Italia in fatto di pubblico insegnamento? troviamo noi in questi anni attuato in Italia un solo di quei grandi concetti, i quali [...]
accompagnano le grandi rivoluzioni politiche, e diedero alla Francia la Scuola politecnica,
la Scuola normale, lIstituto nazionale, e furono in Germania la principal causa del movimento scientifico delle sue universit? (Brioschi 2003, pp. 48-49).
Per anni si prosegu s in direzione del rinnovamento, ma senza un piano definito. La stessa legge Casati, che era vaga su tanti aspetti, convisse a lungo con i vecchi ordinamenti, e
sullazione dei governi influirono negativamente i contrasti fra il ministero dellIstruzione e quello di Agricoltura, industria e commercio, orientati spesso in direzioni diverse.
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La classe dirigente, inoltre, per il suo carattere composito aveva al suo interno diversit
di visioni e di interessi e gran parte delle famiglie che mandavano i figli a scuola restava
legata ai modelli culturali e sociali del passato, rafforzati dalla sovrabbondanza di strutture formative tradizionali.
E tuttavia va riconosciuto che il rinnovamento continu ad affermarsi per lintero periodo della Destra e oltre, grazie al progressivo radicamento delle nuove istituzioni, al
cambiamento dei vecchi organismi, al nuovo modo dei docenti sperimentatori di fare scienza e di insegnarla.
Emblematica la trasformazione dellateneo napoletano, voluta da Francesco De Sanctis e realizzata con la sostituzione di 34 professori, e la creazione o lampliamento di istituti, gabinetti e musei nei settori pi diversi, dallanatomia alla fisiologia comparata, dalla
fisica alla chimica, dalla geologia alla farmacologia. Fra gli uomini di scienza costretti a lasciare Napoli cera anche Salvatore tommasi che, staccatosi dallhegelianismo iniziale,
dopo lesperienza pavese e la lettura della Patologia cellulare di Rudolf Virchow, propugn
quellindirizzo positivo e sperimentale, da lui considerato ormai superiore non solo in ambito medico, ma in ogni attivit conoscitiva e pratica. Lavvenire del mondo scriveva nel
1865 la scienza e c da sperare che trionfi da per tutto: nella vita pubblica e nella privata, nellofficina del fabbro come sul letto dellinfermo! (Tommasi 1883, p. 202).
Inquadrando storicamente il cambiamento avvenuto, tommasi affermava che il nuovo indirizzo della medicina era nato poco per volta in questi ultimi trentanni, per opera di medici che, stanchi dei sistemi e delle fantasmagorie, avevano ricominciato a studiare lanatomia alla luce della fisiologia e in modo sperimentale. Oggi aggiungeva nella
celebre prolusione del 1866 Il naturalismo moderno ci vivifichiamo ogni giorno alla sorgente purissima della realt studiata con losservazione e lesperienza; e il presente movimento delle scuole e de gabinetti, trae origine appunto dai diversi orizzonti scientifici,
che si affacciano e succedonsi a brevi intervalli (Tommasi 1913, p. 108).
Sostenitori dei nuovi metodi di ricerca fisiologica furono pure Arnaldo Cantani, direttore della seconda clinica medica napoletana dal 1868 e Giuseppe Albini, che nella prolusione Il positivismo nella medicina ribad la necessit di abbandonare le astratte speculazioni, per sviluppare losservazione clinica e sperimentale nellanalisi dei processi morbosi.
Milanese di origine e partecipe delle vicende risorgimentali (combatt nelle Cinque giornate e nella successiva battaglia di Novara) Albini si form, come quasi tutti i nuovi docenti, in Europa, lavorando con Ernst Wilhelm von Brcke a Vienna e con mil Du BoisReymond a Berlino, quindi insegn fisiologia alluniversit di Cracovia fino al 1859, quando
rientr in Italia a seguito della mutata situazione italiana. Chiamato a Napoli nel 1861 divenne direttore dellIstituto di fisiologia nel quale organizz un moderno laboratorio finalizzato a un ampio programma di ricerche riguardante il diabete e le malattie infettive.
ugualmente incisivo fu il rinnovamento degli altri settori scientifici napoletani. Se
Luigi Palmieri, professore di Fisica terrestre, svilupp presso lOsservatorio vesuviano
unintensa attivit con il suo sismografo elettromagnetico che gli procur numerosi riconoscimenti internazionali, il chimico De Luca (allievo di Piria come sappiamo) port a
Napoli i moduli appresi dopo il 1848 a Parigi con Dominique-Franois Arago, AntoineJrme Balard, thophile-Jules Pelouze e Dumas, e applicati a Pisa, dove, oltre che insegnare, aveva coordinato la redazione del Nuovo Cimento. Rientrato a Napoli continu dal 1862 a svolgere accanto allattivit di docente quella di organizzatore culturale,
animando lAssociazione delle conferenze chimiche e pubblicando LIncoraggiamento.
Anche per Palermo il dopo-unit fu linizio di un cambio di fase per larrivo di nuovi ordinamenti, nuovi docenti e nuove attrezzature. Il friulano Pietro Blaserna, giunto in
Sicilia dopo che si era formato a Vienna e perfezionato a Parigi sotto la direzione di Henri-Victor Regnault, provvide a organizzare su nuove basi linsegnamento e il laboratorio
di Fisica, nel quale pot completare i lavori poi apparsi sotto il titolo Sullo sviluppo e la
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durata delle correnti di induzione e delle extracorrenti e Sulla polarizzazione della corona
solare. Il toscano Corrado tommasi-Crudeli, a sua volta, port con s le idee maturate a
Parigi presso la scuola del fisiologo Claude Bernard e del neurologo Guillaume-Benjamin
Duchnne, nonch a Berlino accanto al patologo Virchow, ma anche un forte impegno civile. E mentre in ambito medico sostenne la correlazione tra listopatologia e i reperti macroscopici, non esit a entrare nella Guardia nazionale di fronte alla rivolta palermitana
del 1866, durante la quale, cos come durante il colera scoppiato subito dopo a Palermo,
si espresse pubblicamente sui problemi dellisola e del nuovo Stato unitario.
Con Cannizzaro, poi, Palermo riacquist uno dei suoi figli migliori, emigrato per ragioni politiche e giunto alla ribalta mondiale nel 1860 grazie al riconoscimento del primo
Congresso internazionale di chimica, a Karlsruhe, della teoria atomica e molecolare basata sul principio di Avogadro e della regola, detta legge degli atomi, che rendeva possibile la classificazione periodica degli elementi.
Non diversamente da altri scienziati del periodo, Cannizzaro intese esplicitare i cardini del suo magistero. NellOrazione inaugurale per lapertura degli studi dellanno scolastico
1864 richiam la linea del pensiero moderno che aveva dimostrato, contro il principio dellautorit, lefficacia del metodo induttivo coadjuvato dalla deduzione matematica e che,
in quanto finalmente autonoma dalla teologia, aveva ampliato il campo della libert intellettuale. Il metodo scientifico che ormai guida la mente al libero esame delle cose naturali e umane affermava Cannizzaro consente di scoprire sempre meglio il nesso fra tutti
i fenomeni fisici e morali delluniverso e di realizzare lintegrazione e il reciproco aiuto fra
le varie scienze. Di qui anche la tendenza, sempre pi presente nei corpi legislativi e nei
governi, ad incoraggiare e promuovere egualmente gli studi diversi e a considerare la
coltura e lo accrescimento di tutte le scienze come uno dei pubblici doveri da esser soddisfatto, immediatamente dopo quello della difesa nazionale (Cannizzaro 1995, pp. 22, 34).
Famoso ormai a livello internazionale, Cannizzaro attrasse a Palermo studiosi italiani e stranieri, fra cui laustriaco Adolf Lieben, il francese Alfred-Joseph Naquet e il tedesco Wilhelm Krner. Proprio a Palermo Krner pubblic sul Giornale di scienze naturali ed economiche il suo contributo maggiore alla fondazione della chimica dei derivati
aromatici. Chiamato poco dopo a Milano, insegn dal 1870 nella Scuola superiore di agricoltura e dal 1875 anche al Politecnico, contribuendo a formare agronomi, ingegneri, ricercatori e docenti, come il lombardo Angelo Contardi o lemiliano Angelo Menozzi.
Allinizio degli anni Settanta, Cannizzaro, Blaserna e tommasi-Crudeli passarono a
Roma per contribuire alla costruzione del volto scientifico della nuova e definitiva capitale dItalia. Subito dopo la breccia di Porta Pia Francesco Brioschi era stato incaricato di
esaminare la situazione degli studi in vista degli interventi riformatori. E il rapporto del
matematico-ingegnere non manc di evidenziare le maggiori carenze indicate nella diffusa insufficienza delle attrezzature sperimentali e nella generale considerazione delle scienze, che erano insegnate a ogni livello in modo parziale, circoscritto, strumentale, non come cosa che avesse un valore per s e potesse dar lume a scientifiche conseguenze e aiuto
al progresso degli studi in generale. Insomma, concludeva Brioschi, queste scienze, tanto importanti per tutto lo scibile umano, vi erano impartite a spizzico e con tale parsimonia che appare il sospetto col quale si guardavano (Brioschi 2003, p. 112).
Nella trasformazione di Roma in un centro di alta e libera cultura scientifica doveva
culminare per il ceto dirigente risorgimentale la gi avviata rigenerazione scientifica italiana. A theodor Mommsen che chiedeva cosa intendessero fare i governanti italiani in
una citt cos ricca di storia (a Roma non si st senza avere dei propositi cosmopoliti, diceva), Sella rispondeva risoluto: S, un proposito cosmopolita non possiamo non averlo
a Roma: quello della scienza (Sella 1887, p. 292). Il che voleva dire innanzi tutto introdurre nelluniversit di Roma la grande scuola italiana, la scuola galileiana, la scuola degli esperimenti e quindi realizzare pienamente la libert di pensiero e di ricerca.
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importantissimo affermava Sella in Parlamento che vi sia qui la discussione delle idee
moderne, anche le pi ardite, che avvenga qui il cozzo di teorie, delle opinioni scientifiche,
onde da questo urto emerga la luce. E niuno vorr negare, io credo, che siano appunto le
scienze sperimentali quelle che danno luogo a criteri scientifici, che meglio giova sviluppare in Roma (ivi, 229).
La riforma degli studi romani pass attraverso listituzione del corso di filosofia, la soppressione della facolt di teologia, la creazione della nuova facolt fisico-matematica, dal
1874 chiamata facolt di scienze matematiche fisiche e naturali, lattivazione di nuovi insegnamenti e linserimento di personalit di spicco. Nel settore dellingegneria si pass
dallesistente Scuola pontificia alla nuova Scuola di applicazione, affidandone la direzione a uno scienziato di valore come Luigi Cremona, gi vanto delluniversit di Bologna.
un altro matematico eminente, Eugenio Beltrami, formatosi come Cremona alla scuola
pavese di Brioschi, fu chiamato a Roma per insegnare meccanica razionale e analisi superiore e qui svilupp le ricerche gi iniziate a Bologna sulla cinematica dei fluidi e sulla teoria del potenziale, della propagazione del calore, dellelettricit e del magnetismo.
Per fare di Roma un polo avanzato di ricerche si punt, ovviamente, alla creazione di
nuove strutture sperimentali e in particolare di tre grandi laboratori, dove, per usare le parole di Giovanni Cantoni, docente di fisica a Pavia e membro del Parlamento nazionale come tanti altri scienziati di quel periodo, il professore, pi che un insegnante cattedratico,
il direttore di una officina, e dove ciascuno studente ha i suoi materiali per eseguire esperienze ed osservazioni (Atti Parlamentari, Camera, sessione del 1871-72, pp. 3014).
Nel laboratorio di chimica, sorto nellarea scientifica di via Panisperna, Cannizzaro
pot dare vita a un centro di eccellenza, a cui si legarono studiosi di ogni parte dItalia: il
senese Raffaello Nasini, il triestino Giacomo Ciamician, il palermitano Emanuele Patern, lalessandrino Gerolamo Vittorio Villavecchia, e altri ancora che divennero protagonisti della ricerca chimica italiana di fine Ottocento e contribuirono allo sviluppo degli
studi lavorando in diversi atenei della penisola (Di Meo 2003).
Blaserna a sua volta pot fondare lIstituto fisico e organizzare insieme a Filippo Keller (fino al 1870 non inserito nellorganico della Sapienza perch protestante) la Scuola
pratica di fisica, destinata a emergere nel panorama italiano, come laltro centro di ricerche sorto presso il nosocomio di Santo Spirito in Sassia, dove tommasi-Crudeli organizz listituto di anatomia patologica, inizialmente denominato istituto fisiopatologico. In
campo medico-biologico si segnalarono Ettore Marchiafava e Angelo Celli con le loro ricerche sulla malaria e i notevoli contributi che diedero dopo Alphonse Laveran e prima
di Camillo Golgi e di Giovanni Battista Grassi.
A completamento della ristrutturazione universitaria e del riordinamento degli studi superiori si pass anche a fare dellAccademia dei Lincei la massima istituzione culturale italiana, affidandone la presidenza prima a Sella, poi a Francesco Brioschi, che della
rigenerazione scientifica postunitaria erano stati propugnatori e protagonisti.
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alle difficolt finanziarie del nuovo Stato, dallo sviluppo limitato delle forze produttive
agli orientamenti culturali dei ceti istruiti e ai contrasti interni alla stessa classe dirigente
(Maiocchi 1980).
Si gi accennato alla carta geologica dItalia e alle difficolt che subito incontr la sua
attuazione. Significativo anche il ridimensionamento del primo progetto di Museo industriale italiano a torino e ancor pi il complicato intreccio di Museo, scuola di applicazione e universit nello stesso percorso formativo degli ingegneri torinesi. Non meno eloquenti sono le vicende del Politecnico di Milano (inizialmente Istituto tecnico superiore) che
pure ebbe modo di emergere nel panorama nazionale. Come si gi accennato, per ragioni finanziarie, ma anche per influenza delle facolt universitarie, la formazione dei nuovi
ingegneri italiani fu affidata sia alle scuole di applicazione (di due o di tre anni: quella milanese era di tre), sia alle facolt scientifiche, che per lindirizzo dei loro studi prevedevano un biennio preparatorio non pienamente rispondente al profilo culturale e professionale degli ingegneri. Rifacendosi ai politecnici dOltralpe, pienamente autonomi dalle universit
e articolati in sezioni specializzate, listituzione milanese punt alla realizzazione di un percorso formativo articolato al proprio interno (con una distinzione finale fra ingegneria civile e ingegneria industriale, una scuola per architetti civili e un corso, attivo solo nel primo periodo, per la preparazione degli insegnanti secondari di materie tecniche) e insieme
dotato del biennio propedeutico interno. Per la resistenza nellAteneo pavese e del mondo
universitario in genere, questo secondo obiettivo per non pot essere raggiunto che nel
1875 (primo e unico caso per molto tempo in Italia) grazie al contributo determinante degli enti locali. Da ogni parte affermava Brioschi sentivo intorno a me che una tradizione per quanto nobile mi impediva il passo, [ed] ero pur costretto per non dubitare di me
stesso di ricorrere agli esempi stranieri (Brioschi 2003, p. 330).
Allesiguit dei finanziamenti, che ostacolava la rapida creazione di strutture tecnologiche avanzate, il Politecnico reag anche coordinandosi con le altre istituzioni scientifiche milanesi e intensificando i rapporti con la societ civile, che nel Politecnico trov il
perno di una strategia industrialista di largo respiro. Da un lato, infatti, diversi docenti
intervennero nella fondazione di nuove imprese: si pensi alla Filotecnica, industria meccanica di precisione e di strumenti ottici creata nel 1865 da Ignazio Porro titolare di celerimensura, poi affidata ad Angelo Salmoiraghi uno dei primi laureati del Politecnico, oppure alla Pirelli e C. per la lavorazione della guttaperca, avviata nel 1872 con la partecipazione
di Brioschi e di Colombo. Dallaltro lato le forze imprenditoriali emergenti si strinsero
attorno allistituzione politecnica. Cos limprenditore tessile Eugenio Cantoni finanzi
nel 1871 un corso di economia industriale volto a integrare la formazione dei nuovi ingegneri, dando un esempio che fu replicato in grande da Carlo Erba, con la donazione a met degli anni Ottanta di un ampio capitale finalizzato a incrementare gli studi elettrotecnici e a fare di Milano un centro avanzato di ricerca.
Ben pi difficile fu la vita dellIstituto di studi superiori e di perfezionamento di Firenze, una delle istituzioni postunitarie. Concepito inizialmente come istituto postuniversitario sia per le scienze umane che per quelle naturali, esso avrebbe dovuto articolarsi in quattro sezioni. Ma mentre la sezione giuridica cadeva presto del tutto e quella di filosofia e
filologia restava molto debole, priva di sede e di studenti regolarmente iscritti (era seguita
per da un consistente numero di uditori), la sezione di Scienze naturali trovava sede sino
al 1875 presso il Museo di fisica e di storia naturale e quella di medicina e chirurgia, presso
lo Spedale di Santa Maria Nuova, dove gi cerano le cliniche generali e quelle speciali. Per
evitare lestinzione dellintero Istituto furono previste borse di studio e fu data lautorizzazione a conferire labilitazione allinsegnamento e soprattutto si procedette alla progressiva
equiparazione alle facolt universitarie. In discussione era il fine stesso dellistituzione: se
avesse dovuto puntare al culto della scienza per la scienza, o anche a una cultura finalizzata
alle esigenze pratico-applicative. una questione che si ripresent pi volte dopo lunit
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nelle strutture formative chiamate in modi diversi a coniugare la duplice esigenza di incrementare il sapere con la ricerca libera e fornire, mediante corsi orientati a specifici obiettivi, conoscenze e competenze richieste dalla modernizzazione e dallo sviluppo economico.
A condizionare ogni scelta, in una prima fase, stava soprattutto larretratezza complessiva del paese, rispetto alla quale linsieme delle istituzioni culturali risult per molti
versi sovradimensionato e pletorico. Gli esiti della specializzazione, inizialmente perseguita, sono al riguardo pi che eloquenti. Le nove sezioni, create negli istituti tecnici secondari col proposito di favorire i diversi settori produttivi, risultarono alla prova dei fatti in gran parte prive di allievi. Si dovette perci riorganizzare liter formativo lasciando
solo quattro sezioni: la fisico-matematica, lindustriale, lagronomica (poi sdoppiatasi in
agronomia e agrimensura) e la commerciale. La formazione degli ingegneri rimase a lungo generalista in tutte le scuole di applicazione, e lo stesso Politecnico di Milano, che sin
dallinizio cerc la differenziazione in sezioni, la realizz progressivamente e solo nella
parte finale del percorso, seguendo per un verso il progresso tecnico-scientifico e per laltro levoluzione del tessuto produttivo nazionale.
Di fronte alla debolezza istituzionale di tante scuole e alla disparit di livello rispetto a quelle dOltralpe, non manc chi, riprendendo la linea indicata pi di dieci anni prima da Matteucci, propose a met degli anni Settanta una drastica riduzione di numero.
Con riferimento agli studi politecnici in particolare, Dino Padelletti sostenne che le risorse disponibili dovessero concentrarsi sulle tre principali scuole di applicazione (Milano,
torino e Napoli) per poterle portare ai massimi livelli (Padelletti 1874, pp. 679-680).
Parallelamente, in campo universitario, si discusse sulla necessit di contrarre il numero
degli atenei. Ma al punto in cui si era giunti per lopposizione delle forze locali, la tesi del
taglio drastico risultava pi un artificio retorico, per sollecitare i finanziamenti necessari,
che una proposta realmente praticabile. tanto pi che ormai, mediante listituto dei consorzi, a met degli anni Settanta fu data la possibilit agli enti locali (comuni, province,
camere di commercio) di intervenire a sostegno degli atenei. Di l a poco, infatti, nel 187577 veniva aperta unaltra scuola di applicazione per ingegneri, quella richiesta da Bologna, nella linea del policentrismo e della luce diffusa, anche se tenue, che si era ormai
affermata nel paese delle tante citt.
A rendere definitivo il sistema nato con lunificazione intervenne anche il miglioramento della situazione finanziaria legato alle maggiori entrate e alla congiuntura economica, di cui erano segni la nascita di nuove industrie e di nuove banche, la maggiore quantit di costruzioni e di opere pubbliche, con conseguente aumento della richiesta di personale
tecnico qualificato. Non a caso, mentre attraverso i consorzi gli enti locali cominciarono
a sostenere universit e scuole politecniche, il nuovo ordinamento generale degli studi superiori varato nel 1876 aumentava a venticinque le materie obbligatorie e a tre anni liter
formativo degli ingegneri, rendendo in tal modo possibile un pi elevato livello e una maggiore omogeneit di preparazione su tutto il territorio nazionale.
Editoria e associazionismo
Il notevole aumento delle pubblicazioni a indirizzo tecnico-scientifico registrato dalle statistiche unulteriore testimonianza dei cambiamenti postunitari, essendo il maggior numero di titoli tanto in relazione con quello degli autori quanto con quello dei lettori dei
testi messi in circolazione dagli editori o dagli enti che ne promuovevano la pubblicazione. Con lunit e la libert politica sorsero, infatti, accanto a editori di nuovo tipo, numerosi organismi associativi impegnati a dibattere i problemi di determinate categorie professionali e la diffusione di conoscenze specifiche fra gli associati. La Societ italiana di
scienze naturali nata nel 1860, lAssociazione medica italiana nel 1862, la Societ italiana
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Cultura e societ
di antropologia ed etnologia nel 1870, ma anche i collegi degli ingegneri, che operavano
nelle principali citt italiane (Genova e Firenze gi a met degli anni Cinquanta, Milano
nel 1865, torino nel 1866, Roma nel 1871, Napoli nel 1875, Palermo e Bologna nel 1876,
quindi via via gli altri), sono tutte espressioni di un fenomeno in crescita.
Allaumento progressivo dei lettori legata anche la vicenda delle riviste di aree disciplinari e professionali diverse, come, per citarne alcune, Il Morgagni di tommasi per
le scienze mediche; gli Annali di matematica pura e applicata rilanciati dopo lunit da
Brioschi e da Cremona e il Giornale di Matematiche di Giuseppe Battaglini per le varie scienze matematiche; Il Politecnico tutto dedito ai problemi degli ingegneri, dal 1869
sotto la direzione dello stesso Brioschi e del suo gruppo; e Il Nuovo Cimento, che, specializzandosi al pari delle altre testate, si concentr sulla fisica, seguendo lindirizzo generale che si stava affermando ovunque. Di questo stesso orientamento erano espressione il Nuovo Giornale Botanico Italiano, le Memorie della Societ Italiana di Scienze
Naturali, e la Gazzetta chimica italiana, la cui origine merita un cenno perch mostra
chiaramente, accanto alla volont di associarsi per meglio incidere collettivamente, le difficolt che ostacolavano le iniziative dei gruppi pi avanzati.
Promotore della riunione che a Firenze var nel 1870 il progetto della Gazzetta chimica, fu il giovane Luigi Gabba, garibaldino nel 1866 e frequentatore del laboratorio della Societ dincoraggiamento di Milano. Nelle intenzioni dei partecipanti, la riunione
avrebbe dovuto fondare anche la Societ chimica italiana. Ma il numero ridotto dei convenuti consigli di dar vita solo al nuovo foglio scientifico, che sotto la gestione di Cannizzaro e il coordinamento redazionale di Patern divenne presto la pi autorevole rivista della disciplina.
Nel campo della comunicazione scientifica un ruolo di primo piano fu svolto anche
dalleditoria imprenditoriale, che cerc di utilizzare sia lunificazione del mercato che
levoluzione tecnologica per diffondere la produzione italiana ed estera. Dal 1865 in poi
lAnnuario scientifico-industriale italiano di Emilio treves forn agli interessati unagile rassegna di ci che di rilevante e di innovativo andava verificandosi nei settori pi diversi. La fortunata iniziativa rafforz il successo della Biblioteca utile, della quale faceva parte lAnnuario e nella quale comparvero libri come le Conversazioni scientifiche di
Michele Lessona, le Escursioni nel Cielo di Paolo Lioy, Il Regno Animale di Filippo De
Filippi, lautore della celebre conferenza su luomo e le scimmie del 1864, che tanto contribu a far discutere in Italia di Darwin e di evoluzionismo. Sempre treves lanci unaltra collana di successo, La Scienza del Popolo, nei cui testi (oltre cento in pochi anni) la
divulgazione scientifica si intrecci sovente con la diffusione delletica borghese, attiva,
razionale, laica, e con i cardini del positivismo pedagogico.
A inaugurare la nuova collana fu la conferenza su La Pila di Volta, tenuta da Carlo
Matteucci al Museo di fisica e storia naturale di Firenze nel 1867, nella quale lapproccio
sperimentale era indicato come il pi valido in ogni ambito. Capace di nutrire leducazione intellettuale e insieme leducazione morale, il metodo sperimentale affermava Matteucci scuola perenne di sincerit, di pazienza, di precisione, di amore alla verit; indispensabile in campo naturale, aggiungeva, esso scuola di ricerca anche per le verit
sociali e morali (Matteucci 1868, p. 7).
In sintonia con i nuovi indirizzi positivi fu anche leditore Hoepli che, giunto in Italia nel 1870, gi nel 1872 firmava la Guida per le Arti e i Mestieri, quindi le Pubblicazioni dellOsservatorio di Brera, e nel 1874, con i Principi fondamentali di una teoria generale delle macchine di Franz Reuleaux, nella traduzione di Colombo, inaugurava la
Biblioteca tecnica per i cultori di scienze applicate. Lanno successivo lanciava la pi popolare collana di Manuali, destinata a una diffusione straordinaria. Il solo Manuale dellingegnere civile e industriale di Colombo (1877), vademecum dei nuovi ingegneri, in poco pi di ventanni ebbe 14 edizioni con una tiratura complessiva di 30.000 copie.
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Cultura e societ
Ma ci che qui va specialmente segnalato il dibattito che si svilupp oltre che sulla
natura antidogmatica della scienza, sul rapporto tra dati empirici e teoria, sulla distinzione tra la ricerca rigorosa e le affermazioni aprioristiche o le enunciazioni generali non sufficientemente suffragate da prove e verifiche. Accanto allo scontro tra i fautori del naturalismo moderno, che con Jacob Moleschott o Aleksandr Ivanovi Herzen o Moritz Schiff,
sostenevano una concezione materialista della realt vivente, e gli spiritualisti come Raffaello Lambruschini che contrapponevano il santuario della coscienza quale gabinetto
di pi alta fisica, di pi alta chimica e di pi alta fisiologia (Rogari 1991, pp. 117-118),
non tard a emergere anche quello fra i positivisti che praticavano il metodo sperimentale in modo disinvolto su tante questioni, e gli scienziati pi rigorosi, che, come Golgi,
contrapponevano la distinzione fra le ipotesi legittime, perch fondate su unadeguata
messe di osservazioni, e quelle prive di solide basi sperimentali (Cimino 1975).
Consolidamento ed esiti
Nonostante la descritta debolezza delle istituzioni nate con lunit, il sistema di scuole
tecnico-scientifiche continu nel corso degli anni Settanta a consolidarsi sia pure in modo diseguale nelle diverse aree del paese, e ad arricchirsi anche di nuove strutture formative e di ricerca. tra queste ultime una menzione particolare va dedicata alla Stazione zoologica di Napoli per il carattere e la rilevanza che assunse sin dallinizio. Voluta e realizzata
dal biologo tedesco Anton Dohrn per lo studio della vita del mare, la Stazione sorse nei
primi anni Settanta col sostegno del municipio di Napoli, del governo italiano e di quello tedesco e funzion come un istituto estra-territoriale e internazionale (Dohrn 1897,
p. 15). Scienziati di vari paesi confluirono a Napoli per le loro ricerche e vari aiuti materiali e morali giunsero a sostegno della nuova struttura (anche Darwin fu pi volte largo
di doni), al cui regolare mantenimento giovarono per soprattutto i finanziamenti assicurati dallaffitto dei tavoli di ricerca a istituzioni pubbliche e a privati.
Intanto cominciavano a farsi sentire gli effetti della svolta unitaria. Le schiere di allievi che si erano formate nelle nuove scuole di ingegneria, nelle cliniche rinnovate, nelle facolt di scienze matematiche, fisiche e naturali, nei laboratori di nuova concezione e sotto
la guida di docenti collegati con gli ambienti scientifici europei pi avanzati, entravano in
azione sviluppando la loro attivit nei campi pi diversi della ricerca e dellinsegnamento,
delle professioni e della produzione. Dei primi 161 laureati della sezione industriale del
Politecnico di Milano, annotava Colombo nel 1881, gran parte operava nelle industrie o
nel campo ferroviario, mentre 34 erano registrati come direttori, gerenti o fondatori di stabilimenti importanti e si erano distinti, insieme ad altri ex allievi delle scuole politecniche,
nellEsposizione industriale tenutasi a Milano nel 1881. Il progresso incontestabile, che
si era potuto registrare a ventanni dallunificazione e dalla prima Esposizione di Firenze,
era dovuto, a suo giudizio, alla presenza attiva dei tecnici-imprenditori (da Giovanni Battista Pirelli ad Angelo Salmoiraghi, da Bartolomeo Cabella a Giulio Prinetti, da Ercole Porro a Ernesto Galimberti, da Alberto Riva a Egidio e Pio Gavazzi, da Pio Borghi ad Aristide Rubini e altri protagonisti della nascente industria italiana) capaci di comprendere le
innovazioni tecnologiche e di applicarle nei vari comparti produttivi nazionali. Proprio in
ci sta la pi sicura garanzia che il progresso solido, stabile, concludeva Colombo,
avendo ben presente che poco prima dellunit, allinizio del suo percorso di ingegnere industriale, aveva dovuto imparare tutto da solo (Colombo 1985, pp. 256-257).
Brioschi, per parte sua, nel 25 di fondazione dellIstituto milanese, riferiva compiaciuto che su 1.339 ingegneri censiti, e ormai sparsi in molte province italiane, 123 operavano nelle strutture tecniche dello Stato e nelle istituzioni formative, 67 negli uffici tecnici degli enti locali, 137 nelle societ ferroviarie, 154 in societ industriali, 60 in imprese
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private di lavori pubblici, 21 in societ di assicurazione e in aziende rurali, 208 nella libera professione, 38 attendevano ai propri interessi o alla vita pubblica. Alla fine degli anni
Ottanta, quando Brioschi illustrava questi dati, il numero complessivo degli ingegneri laureatisi presso le sette scuole di applicazione erano gi pi di 9.000 e costituivano un richiamo per molte famiglie della borghesia italiana che, come annotava Lessona, mandavano i loro figli alle scuole politecniche, come in passato li destinavano in gran numero
alla chiesa (Lessona 1884, p. 87).
La rilevanza di questi dati (a cui vanno aggiunti, ovviamente, quelli delle altre scuole speciali a carattere tecnico-scientifico ed economico, sia di grado superiore che di grado medio e inferiore, comprese le scuole professionali darti e mestieri e di disegno applicato per operai) risulta evidente quando si considera che proprio allora, con lavvento
dellindustria elettrica e limpiego di tecnologie a carattere scientifico sempre pi accentuato, si stava entrando nella seconda rivoluzione industriale, e cera quindi bisogno di un
capitale umano adeguato ai processi in atto, per potervisi inserire come paese, in modo efficace e durevolmente.
Si era appena conclusa nel 1881 lEsposizione internazionale di Parigi dedicata allelettricit, che Colombo dava vita a iniziative imprenditoriali e applicative di punta (prima centrale termoelettrica continentale per lilluminazione urbana e fondazione della Societ elettrica Edison a Milano), mentre Galileo Ferraris, docente di fisica tecnica al Museo
industriale di torino, dopo essere stato tra i primi suoi laureati, sviluppava le ricerche che
gli consentirono di scoprire il campo magnetico rotante e di ideare il motore elettrico a
corrente alternata.
bens vero, ed stato pi volte sottolineato a riprova dello scarso spirito industriale dellItalia postunitaria, che anche Ferraris, come gi Antonio Pacinotti con la sua macchinetta elettromagnetica allinizio degli anni Sessanta, non trasfer sul piano produttivo e imprenditoriale limportante acquisizione. anche vero per che a met degli anni
Ottanta Ferraris non era pi, come Pacinotti ventanni prima, un isolato, incompreso e
pronto a passare dalla fisica allastronomia. N il mancato sfruttamento in campo industriale del motore elettrico da parte sua vuol dire che egli fosse indifferente al nesso sempre pi stretto fra scienza, tecnica e industria, e quindi agli aspetti tecnologici e applicativi della ricerca, che invece Ferraris coltiv con impegno sul piano che gli era proprio:
quello della ricerca, della sperimentazione e dellorganizzazione degli studi. Non a caso
fu a torino che nacque la prima Scuola superiore di elettrotecnica italiana, nella quale
sotto la guida del maestro si formarono numerosi ricercatori e docenti, da Pietro Paolo
Morra a Luigi Lombardi, da Ettore Morelli a Riccardo Arn, destinati a operare anche
in altri atenei italiani, nonch numerosi imprenditori elettrotecnici come Ettore thovez,
Giulio Daina, Antonio tessari, Camillo Olivetti, per citarne solo alcuni (Ferraresi 1995).
ugualmente efficace fu il contributo dellaltra scuola elettrotecnica, che contemporaneamente sorse a Milano, grazie alla gi ricordata donazione di Carlo Erba. Dallistituzione elettrotecnica milanese uscirono sia tecnologi di vaglia, come Giuseppe Sartori, Alberto Dina, Giacinto Motta, Angelo Barbagelata, sia industriali elettrici di successo, come
lo stesso Motta, Carlo Clerici, Giuseppe Gadda, Ettore Conti, Guido Semenza (Regoliosi, Silvestri 1988).
N meno rilevante fu lapporto che nei diversi campi della ricerca diedero le schiere
di scienziati (Giulio Bizzozero, Giuseppe Veronese, Augusto Righi, Gregorio Ricci-Curbastro, Camillo Golgi, Giovanni Giorgi, Guglielmo Mengarini, Vito Volterra) che furono allevate dalle altre istituzioni formative e di ricerca postunitarie.
Insomma, se a pochi decenni dal 1861 fu possibile linserimento dellItalia nel processo di modernizzazione e di sviluppo di fine Ottocento, un merito non secondario va riconosciuto alla svolta che fu compiuta negli anni dellunificazione e alla trasformazione culturale che ne deriv ai diversi livelli della realt nazionale, nonostante le molte resistenze
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Cultura e societ
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Francesco Bartolini
Le citt
Alla vigilia dellunificazione il rapporto tra citt e nazione si fonda su un evidente paradosso. Da una parte le citt, con le loro antiche e gloriose storie, costituiscono un connotato essenziale della nazione italiana, uno dei fondamenti stessi per la legittimazione di un
legame dappartenenza. Dallaltra, per, rappresentano anche il principale elemento di
divisione e indebolimento della nazione, lo scenario per eccellenza dellesaltazione delle
differenze locali e della resistenza alle politiche di omogeneizzazione. unambivalenza,
questa, che sembra riflettersi anche nella morfologia dello spazio nazionale: un territorio
punteggiato da numerose citt di significative dimensioni che, se consente di riconoscere
lesistenza di una trama comune nellintera penisola, ne esalta anche larticolazione, la
frammentazione, la suddivisione per aree raccolte intorno a centri poco o per nulla comunicanti tra loro.
Non c dubbio tuttavia che, al di l di questa ambiguit, ogni possibile rivendicazione di un primato italiano sia inevitabilmente legato alle citt e alle loro secolari storie di
egemonia culturale, sociale, economica. Non a caso il nazionalismo italiano si nutre quasi esclusivamente di urbanesimo e non riesce a dar vita a nulla di paragonabile a una saga
rurale, fondata sullidealizzazione del contadino-patriota, come accade in molti altri paesi europei. N stupisce che, dalla riflessione politica e storiografica del movimento patriottico, la citt non solo emerga come indiscussa protagonista della mobilitazione nazionale, luogo identitario e depositario della tradizione italiana, ma anche come un antico
modello di convivenza civile e di modernizzazione politica, destinato a essere emulato negli altri paesi. Al riguardo, significativo che Simonde de Sismondi, uno dei pi efficaci
narratori della civilt urbana, esalti i comuni medievali sia come parcelle e primi elementi della nazione italiana sia come interpreti di quelle virt pubbliche di cui offrirono lesempio allEuropa (Simonde de Sismondi 1996, p. 7).
A questa lettura, fondata sulla vocazione politico-istituzionale della citt italiana, se
ne affianca per anche unaltra, pi attenta alla dimensione economico-sociale. Una tendenza, questultima, che scaturisce soprattutto dal riconoscimento dellimportanza del
dominio urbano sul territorio rurale circostante. Ne costituisce un paradigma esemplare
lanalisi di Carlo Cattaneo, che individua proprio in questa egemonia il carattere costitutivo della storia nazionale. La citt, lunico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua, il fattore dinamico che trasforma la campagna, la modernizza, ne costruisce unidentit culturale. La citt form
col suo territorio un corpo inseparabile. Per immemorial tradizione, il popolo delle campagne, bench oggi pervenuto a larga parte della possidenza, prende tuttora il nome della sua citt, sino al confine daltro popolo che prende nome daltra citt. In molte provincie quella la sola patria che il volgo conosce e sente (Cattaneo 1957, pp. 383, 386).
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PARTE QUARTA
Cultura e societ
Il sistema urbano
Questo indiscusso prestigio urbano, per, fiorisce in un paese in larghissima parte rurale e che conserva, al momento dellunificazione, ancora molte caratteristiche sociali ed
economiche proprie dellantico regime. Non solo, infatti, in molte aree della penisola
non c stata una modernizzazione agricola simile a quella avvenuta nelle campagne dellEuropa nord-occidentale, ma lo stesso sistema urbano, modellato da una frammentazione politica di lungo corso, non ha ancora subto gli effetti dellindustrializzazione, di
cui del resto possibile cogliere solo qualche traccia in zone molto circoscritte del territorio nazionale.
A differenza dellInghilterra, infatti, dove lavvento della fabbrica ha gi stravolto
lantica rete urbana, lItalia non ha ancora registrato agli inizi degli anni Sessanta dellOttocento una massiccia urbanizzazione, n ha assistito a unimprovvisa espansione di piccoli centri destinati a trasformarsi in grandi metropoli industriali connesse in una rete di
scambi internazionali. Nel corso della prima met del secolo, alcune citt della penisola
hanno significativamente aumentato la loro popolazione residente (in particolare Torino
e Milano), ma non c stato nulla di paragonabile a quanto accaduto per esempio a Manchester o Liverpool, piccole cittadine con qualche migliaio di abitanti, trasformate nel giro di pochi decenni in grandi citt con oltre mezzo milione di residenti (Hohenberg,
Lees 1992, pp. 221-227; Zucconi 2001, pp. 7-11). L, in Inghilterra, alla met dellOttocento le trasformazioni del sistema produttivo hanno gi spazzato via antiche gerarchie
urbane consolidate da secoli. Qui, in Italia, alla vigilia dellunificazione, larticolazione
medievale delle reti cittadine ancora perfettamente riconoscibile e conserva una connotazione sociale ed economica in gran parte tradizionale. Nel 1861 la citt italiana soprattutto un centro politico, amministrativo, commerciale e culturale, pi che un laboratorio
di innovazioni tecnologiche ed economiche.
Detto questo, per, non irrilevante notare che lItalia comunque da secoli una delle aree europee con il pi alto tasso di urbanizzazione. Ancora agli inizi dellOttocento,
con circa il 30,5% della popolazione totale che vive in centri di oltre 5.000 abitanti, al secondo posto nella gerarchia europea, preceduta solo dai Paesi Bassi (34,5%) e ben al di sopra dellInghilterra (23%), della Francia (12,5%) e della Germania (10,3%). Persino alla
met del secolo, quando gli sviluppi dellindustrializzazione hanno gi proiettato lInghilterra in cima alla classifica (50%), la penisola riesce a conservare la seconda posizione
(41,6%), superando i Paesi Bassi (35,9%) e lasciando a notevole distanza Francia (19,5%)
e Germania (15,5%) (Bairoch 1977, p. 11, tableau 3).
Peculiare del sistema urbano italiano anche la presenza di un numero significativo
di grandi citt, quelle con oltre 100.000 abitanti. Sono cinque nel 1808 (al Nord Milano e Venezia, al Centro Roma, al Sud Napoli e Palermo), diventano undici nel 1861 (al
Nord si aggiungono Genova, Torino, Bologna e Trieste, al Centro Firenze, al Sud Messina). Nel corso del secolo, dunque, aumenta la concentrazione di grandi centri nelle regioni settentrionali, un fenomeno che enfatizza le differenze tra i modelli insediativi consolidatisi nelle diverse aree della penisola. Mentre infatti al Nord la quota massima della
popolazione urbana vive appunto nei grandi agglomerati, al Centro e al Sud la distribuzione invece pi omogenea, con percentuali significative di presenze nei centri di piccole e medie dimensioni (Sori 1973, p. 305). indubbio, tuttavia, che siano ovunque le
grandi citt a rappresentare lidea della modernizzazione urbana e a godere in particolar modo del prestigio connesso a una tradizione secolare. Tanto pi che, oltre alla forza
dei numeri, possono generalmente contare anche sullo status di capitale.
Questultimo aspetto avr profonde conseguenze anche sulla configurazione del sistema urbano nazionale allindomani dellunificazione. Tante citt, di significative dimensioni, ricche di storia e cultura, sono costrette a spogliarsi del ruolo di capitale e a
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Le citt
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PARTE QUARTA
Cultura e societ
A questo desolante quadro degli standard residenziali si accompagnano naturalmente le immancabili esplosioni di epidemie infettive che, nel corso dellOttocento, continuano a colpire con insistenza le citt italiane. Particolarmente virulento si rivela il morbo del
colera nel 1836-37, nel 1867, nel 1884. Nel corso della prima ondata, il tasso di mortalit
raggiunge a Napoli il 39 e a Palermo addirittura il 135.
Se tutto questo sembra ridimensionare i progressi della vita in citt durante la prima
met dellOttocento, altrettanto vero che le trasformazioni dei centri italiani, avviate gi
negli anni del dominio francese, assicurano a chi fa parte di una comunit urbana la possibilit di usufruire di opportunit e servizi pressoch inesistenti nelle campagne. Dallassistenza alla sanit, dallapprovvigionamento idrico-alimentare alla disponibilit di lavoro, i cittadini godono spesso, anche tra gli strati pi poveri, di privilegi e condizioni di vita
migliori rispetto ai contadini.
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Le citt
sapere urbano. Non a caso, per esempio, le elaborazioni catastali avviate in et napoleonica in alcune citt italiane (tra le altre, Napoli, Venezia, Torino) si rivelano strumenti utili anche per lamministrazione postunitaria, chiamata negli anni Sessanta e Settanta a una
complessa operazione di omogeneizzazione nazionale dei criteri di rilevamento e classificazione delle propriet immobiliari. Cos come le suddivisioni interne delle citt elaborate nel periodo francese (Torino divisa in quattro zone nel 1801, Napoli in dodici nel 1812)
divengono precedenti significativi per tracciare i confini amministrativi nei decenni successivi. O anche i nuovi sistemi razionali di numerazione civica (emblematico il caso di Firenze, dove la progressione dei numeri avanza allontanandosi dal Palazzo dei Priori) vengono ripresi e modificati nel periodo postunitario, con lidentico scopo di migliorare
lorientamento degli abitanti e il funzionamento dei servizi.
Durante let napoleonica questo sforzo di organizzazione della citt consegue i risultati pi significativi nellavvio di un nuovo lavoro di pianificazione urbana e nella
costituzione di specifici organismi municipali incaricati di gestire e controllare lattivit edilizia. Su impulso dellamministrazione francese, infatti, nei primi anni dellOttocento si cominciano a elaborare piani di intervento pubblico che hanno lambizione
di ridisegnare le strutture complessive delle citt. Accade cos, per esempio, a Milano,
Torino, Roma, Napoli, Venezia, al centro di ambiziosi programmi di trasformazione,
in gran parte irrealizzati, che segnano per tappe decisive nella costruzione di una moderna cultura urbana in Italia. In alcuni casi questi piani sono accompagnati dallistituzione di uffici tecnici (per esempio, le Commissioni dellOrnato a Milano e Venezia,
il Corpo reale di ponti e strade a Napoli) e dallemanazione di nuove norme per ledilizia. Non dunque azzardato individuare in questi avvenimenti lesordio di un nuovo processo di tecnicizzazione e regolamentazione delle trasformazioni urbane, destinato poi a proseguire negli anni della Restaurazione e a consolidarsi dopo la formazione
dello Stato unitario.
Cosa prevedono, in generale, questi piani? Nelle zone centrali, per lo pi allargamenti e allineamenti delle strade principali di attraversamento, aperture di nuove piazze, arginamento dei fiumi nei tratti pi esposti. Nelle aree marginali, invece, giardini pubblici
e nuove espansioni urbane localizzate lungo direttrici selezionate. I princpi guida, dunque, sono il diradamento del tessuto edilizio antico e la costruzione di nuovi nuclei direzionali. Allinterno di questo quadro generale, per, lintenzione progettuale pi significativa senza dubbio labbattimento delle mura. Ovvero la liberazione della citt dalla sua
cintura perimetrale di contenimento: un atto anche simbolico che vuole segnare la fine
dellantico regime e lingresso nella modernit.
Per gli amministratori francesi, sono numerose le ragioni per compiere questa scelta. Innanzi tutto militari, legate sia allevoluzione delle tecniche di combattimento sia alla volont di ridurre il rischio di possibili rivolte e resistenze da parte di citt conquistate. Poi economiche, connesse alla necessit di favorire lespansione edilizia e ridefinire il
perimetro della cinta daziaria. Infine anche sociali, legate alla possibilit di dare lavoro alla manodopera disoccupata. Napoleone Bonaparte stesso a decretare nel 1800 leliminazione delle mura delle citt piemontesi annesse allImpero francese. E nel giro di pochi
anni Torino, Alessandria e Cuneo abbattono le loro cinte. Nello stesso periodo Milano
demolisce le fortificazioni intorno al Castello. Ma gran parte del resto delle citt italiane
deve attendere gli anni Settanta e Ottanta dellOttocento per registrare leffettiva scomparsa di questo elemento connotativo della tradizione urbana di antico regime (Insolera
1973, pp. 443-450; Calabi 2005, pp. 21-24).
Comunque, al di l della diversit nei tempi di esecuzione, labbattimento delle mura ha conseguenze decisive sullo sviluppo delle citt. Da una parte, infatti, si dissolve il
confine con il circostante mondo rurale, modificando in profondit la stessa percezione
dellurbano, una dimensione non pi ben circoscritta ma dispersa su un territorio ampio,
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PARTE QUARTA
Cultura e societ
con caratteristiche eterogenee. Dallaltra si modifica radicalmente la morfologia complessiva della citt che, dopo la liberazione degli spazi prima occupati dalle fortificazioni, comincia progressivamente a espandersi con nuovi edifici, passeggiate, giardini, strade tangenziali. Cos accade a Torino agli inizi dellOttocento, dove al posto delle mura sono
costruiti viali alberati, piazze, fabbricati residenziali. E cos si pianifica in molte altre citt della penisola, dove per i lavori di esecuzione decollano solo nel periodo postunitario,
con esiti ovviamente molto diversi rispetto ai progetti originari.
In generale, la crescita edilizia comincia a divenire evidente negli anni Quaranta dellOttocento, con il progressivo inglobamento dei sobborghi un tempo dispersi fuori le mura. Allora comincia anche a emergere la necessit di una pi razionale distribuzione delle funzioni allinterno della citt, ponendo le premesse per quella zonizzazione che diviene
un principio guida della riflessione e della pratica urbanistica nella seconda met dellOttocento. A Milano, per esempio, gi negli anni Quaranta si registra un primo allontanamento delle officine dal centro, verso una zona pi marginale, tra la cintura dei Navigli e
le mura: alcuni stabilimenti, un decennio pi tardi, cominciano poi a spostarsi anche al di
fuori delle stesse mura, dove alla fine del secolo risulta concentrata gran parte delle nuove industrie. A Napoli, intorno alla met dellOttocento, gi riscontrabile una netta divisione socio-economica della citt, con il settore occidentale trasformato in un luogo di
residenza per i ceti medi e borghesi e quello orientale in unarea riservata alle abitazioni
popolari e agli stabilimenti produttivi.
Queste tendenze verso una specializzazione delle aree urbane si accentuano nel periodo postunitario, anche in relazione alla crescente complessit delle funzioni urbane. Un
fenomeno, questultimo, che trova conferma anche nello sviluppo delle reti di servizio:
dalle fogne agli acquedotti, dallilluminazione ai trasporti. Se alcune citt settentrionali
registrano significativi progressi gi negli anni Quaranta e Cinquanta dellOttocento (in
particolare Milano e Torino), gran parte dei centri della penisola riescono ad apprezzare
i vantaggi di una serie di servizi di pubblica utilit solo dopo lunificazione politica. In
questo ambito la costituzione di uno Stato accentrato, impegnato a investire nella modernizzazione delle infrastrutture, sembra davvero garantire un impulso decisivo. Cos come, del resto, nel potenziamento della rete ferroviaria e del suo inserimento allinterno
delle citt.
La localizzazione della stazione uno dei temi centrali dello sviluppo urbano alla
met del secolo. La scelta del luogo costituisce spesso un fattore determinante per lespansione e la ridefinizione della morfologia urbana. A Napoli la stazione di piazza Garibaldi (1867) destinata a trasformarsi in una sorta di cerniera tra larea residenziale e larea
produttiva, innescando unevoluzione complessiva del sistema viario della citt. A Roma
la costruzione della stazione Termini (1867) davanti alle Terme di Diocleziano diviene
la condizione preliminare per la successiva espansione urbana sulla direttrice nord-orientale. A Venezia la realizzazione del ponte ferroviario (1846) determina un riorientamento complessivo della citt verso la terraferma, a scapito della tradizionale attrazione del
fronte marittimo. Se vero che la localizzazione della stazione centrale appare spesso
una scelta gi compiuta al momento dellunificazione, negli anni immediatamente successivi si pone il problema del suo collegamento con il centro della citt. Una questione strategica, che viene spesso risolta con demolizioni e costruzioni di nuovi assi stradali, capaci di modellare la fisionomia di interi quartieri, condizionandone anche gli
sviluppi futuri. Accade cos per esempio a Roma con la realizzazione di via Nazionale,
oppure a Bologna con via Indipendenza, o a Napoli con il Rettifilo. Su scala diversa, un
problema simile si pone anche per i piccoli centri, dove la stazione ferroviaria spesso
costruita lontano dal nucleo abitato. Anche in questi casi, la realizzazione della strada
che unisce la stazione al centro diviene spesso unoperazione decisiva per la futura espansione urbana.
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F. BARTOLINI
Le citt
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PARTE QUARTA
Cultura e societ
cambiamento nella dimensione rappresentativa della citt la formazione di nuova cultura borghese. Un fenomeno, questultimo, che comincia a lasciare tracce evidenti nella
fisionomia delle capitali degli Stati preunitari durante gli anni Trenta, per poi raggiungere il suo pieno sviluppo dopo la costituzione del Regno dItalia. Questo processo, naturalmente, non riguarda solo laffermazione di un nuovo mercato immobiliare, alimentato da un flusso di investimenti pi cospicuo rispetto al passato, ma include anche la
progressiva diffusione di nuovi comportamenti e stili di vita, che contribuiscono anchessi allevoluzione della morfologia complessiva delle citt.
Nelle aree periferiche dei grandi centri, infatti, cominciano a sorgere nuovi complessi residenziali che testimoniano, oltre alla crescente importanza dellindustria edilizia come strumento di rendita per le lites urbane, anche la profonda evoluzione dei modelli di
vita dei ceti medi e borghesi. Cos accade per esempio a Torino, dove negli anni Venti e
Trenta sono costruiti i quartieri intorno al viale del Re e nella zona di Borgo Nuovo, seguiti pi tardi da quelli di Porta Nuova, Porta Susa e Vanchiglia. O a Napoli, dove negli
anni Cinquanta comincia la lottizzazione dellarea a ovest di Chiaia e pi tardi, nel primo
periodo postunitario, della collina del Vomero. O infine a Firenze, dove alla met del secolo, ben prima della designazione a capitale nazionale, nascono nuovi insediamenti con
una marcata connotazione sociale, come a Barbano o alle Cascine. Quasi ovunque, inoltre, vengono introdotte tipologie residenziali moderne, come gli appartamenti in condominio, che prevedono una nuova articolazione degli spazi interni, con confini pi rigidi
tra una dimensione pubblica e una privata, effetto di una significativa trasformazione dei
codici di comportamento.
Questa citt borghese, che cresce rapidamente e che comincia a manifestare con pi
nettezza il proprio desiderio di distinzione dalla citt popolare, non occupa soltanto le
nuove aree di espansione urbana, ma si impossessa anche di alcune zone centrali, strade
e piazze storiche che, popolate di nuovi luoghi di commercio, di svago, di socializzazione, mutano rapidamente fisionomia, divenendo spazi rappresentativi della cultura delle
nuove lites urbane. un processo che, per molti aspetti, contribuisce a omologare le citt italiane a quelle europee, a ridurne le peculiarit storiche, ad avvicinarle a un modello
di modernizzazione urbana destinato a imporsi come occidentale.
Tutto questo risulta ancor pi evidente dopo la costituzione del Regno dItalia, quando la consacrazione dellideologia nazionale si fonde con la celebrazione della cultura borghese (Socrate 1995, pp. 398-424). Si impone allora unenfatizzazione della dimensione
rappresentativa e pedagogica della citt, chiamata a svolgere una funzione centrale nelleducazione ai valori dello Stato-nazione e ai princpi del comportamento borghese. Questi obiettivi, tra laltro, sollecitano la spasmodica ricerca di un comune linguaggio politico-estetico, uno stile nazionale, capace di imprimere nei paesaggi urbani della penisola
il segno inconfondibile dellavvento di una nuova epoca, quella unitaria, erede di un passato glorioso, ma soprattutto ansiosa di proiettarsi verso la modernit.
unaspirazione, questultima, che fatica per a manifestarsi in un unico e riconosciuto codice architettonico. Anzi, se possibile classificare con unetichetta comune la
produzione edilizia nei primi anni postunitari, questa non pu essere che eclettica, ovvero una variegata imitazione di stili storici che, gi di per s, sembra testimoniare lincapacit di elaborare un nuovo canone davvero moderno e unitario. Spiccano cos, nelle pi
grandi citt italiane, linguaggi molto diversi: dalle suggestioni medievaleggianti a quelle
neorinascimentali (questultime accreditate negli anni Settanta e Ottanta come la scelta
pi idonea per la rappresentazione del potere statale), fino alla pi tarde riprese di motivi neobarocchi, a loro volta superate da quel gusto liberty che, agli inizi del Novecento,
diviene popolare in molte citt anche del Sud, come Palermo e Napoli.
Se vero che larchitettura sembra stentare in questo compito di rimodellamento in
stile nazionale della fisionomia delle citt italiane, non appare dubbio che lunificazione
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F. BARTOLINI
Le citt
inneschi un processo di omogeneizzazione dei paesaggi urbani. Basti solo pensare alla realizzazione dei numerosi monumenti dedicati ai protagonisti dellepopea risorgimentale,
collocati in molte piazze storiche di grandi e piccoli centri. O anche agli effetti della liquidazione dellasse ecclesiastico che in alcuni casi, come era gi accaduto nel periodo napoleonico, trasforma intere aree: a Roma, per citare lesempio pi eclatante, vengono chiuse 134 case religiose su 221 e il demanio si impossessa di una cinquantina di conventi,
trasformati in uffici ministeriali e caserme (Vidotto 2006, pp. 56-63). Ma persino senza
grandi interventi edilizi, nuovi complessi monumentali o massicce espropriazioni immobiliari, lo Stato nazionale riesce a riplasmare il volto delle citt. Per esempio, con le rappresentazioni delle nuove ritualit del Regno, in primo luogo la festa dello Statuto, che
impone lindividuazione di percorsi nazionali allinterno di centri ricchi di memorie municipali, modificando il significato di luoghi e spazi pubblici. Oppure attraverso la nuova
toponomastica che, al di l dei diversi connotati politico-ideologici, introduce denominazioni comuni per strade e piazze, destinate a volte anche a trasformarsi in ripetitivi schemi di orientamento spaziale. Voi passate da una citt allaltra scrive con sarcasmo la Civilt Cattolica nel 1897 e in tutte sempre, irrevocabilmente, siete costretti a traversare
una via XX settembre che fa capo a una piazza Plebiscito donde voltate in un corso Vittorio Emanuele che sbocca in una piazza dellIndipendenza dalla quale si svolta in una via
Cavour (cit. in Porciani 1997, p. 56).
Comincia cos un processo di nazionalizzazione dei centri urbani della penisola, che
si manifesta soprattutto nelle tre citt destinate a succedersi come capitali del Regno: Torino, Firenze e Roma.
Le tre capitali
Che nellarco del primo decennio il nuovo Stato nazionale abbia tre diverse capitali, unaltra dimostrazione dellimpatto delle vicende politiche sulla ridefinizione delle gerarchie urbane nella penisola. infatti un brusco sconvolgimento degli equilibri internazionali la
vittoria militare della Prussia sullImpero francese nel settembre 1870 a consentire al governo italiano di prender possesso di Roma, la capitale designata. Cos come le scelte delle due precedenti capitali, Torino (1861-1865) e Firenze (1865-1871), erano state determinate pi da situazioni politiche contingenti che da propositi istituzionali ben definiti.
Non stupisce del resto che, in un paese cos connotato da tradizioni municipalistiche,
lindividuazione della capitale si riveli unoperazione dettata da circostanze particolari e susciti aspri contrasti. Gi Napoleone Bonaparte, alle prese con la costituzione della Repubblica cisalpina, aveva incontrato significative resistenze alla designazione di Milano, osteggiata allora dai bolognesi. E successivamente, dopo lavvento della Restaurazione, in un
quadro politico di nuovo frammentato e fitto di citt capitali, gli orgogli municipalistici
avevano ripreso vigore tra rivendicazioni di glorie e primati culturali, provocando pi di
una disputa su quale fosse il centro urbano pi importante della penisola. Nellimmaginario patriottico, per, due citt si erano imposte come nuclei guida della futura nazione: da
una parte Torino, per il suo ruolo politico dopo il fallimento dellondata rivoluzionaria quarantottesca, e dallaltra Roma, per la sua funzione ideologica fondata sulleredit di una civilt millenaria (Caracciolo 1985, pp. 195-200; Porciani 2002, pp. 45-59). Dei primati
di questultima, in particolare, si era nutrita gran parte dellopinione pubblica democratica, soprattutto i repubblicani seguaci di Giuseppe Mazzini, che intorno alla citt e al suo
mito erano riusciti a costruire un discorso nazionale capace di confrontarsi efficacemente
con quello religioso ed ecclesiastico. Cos, fin dai primi decenni dellOttocento, non esisteva pi soltanto la Roma cattolica, ma aveva cominciato ad affiorare lentamente anche una
Roma italiana, la Terza Roma, unidea inizialmente coltivata da sparute minoranze ma poi
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PARTE QUARTA
Cultura e societ
destinata per la sua forza persuasiva a condizionare il dibattito politico e a divenire una sorta di riferimento imprescindibile per ogni professione di fede patriottica.
Quando, nel marzo 1861, il Parlamento italiano proclama la citt, ancora sotto la sovranit pontificia, capitale acclamata dallopinione nazionale, appare evidente come la
propaganda democratica sia stata capace di imporre una propria parola dordine ai moderati. A promuovere liniziativa parlamentare il capo del governo Camillo Benso conte di
Cavour che, sebbene non sia affatto contagiato dallentusiasmo per la Terza Roma, consapevole di come questo mito abbia ormai fatto breccia al di l dei confini del campo mazziniano. Non solo, ma ne intuisce anche le straordinarie potenzialit politiche per il consolidamento del neonato Regno dItalia: secondo Cavour, infatti, la proclamazione di Roma
capitale legittimerebbe davanti allEuropa la richiesta di annessione della citt, consentirebbe di azzerare le rivalit municipali (Roma la sola citt dItalia che non abbia memorie esclusivamente municipali) e, soprattutto, permetterebbe di assecondare il senso
comune della nazione. Una scelta, dunque, questa del governo, che appare condizionata
pi dal particolare contesto storico che da un universale e indiscutibile principio di fede.
Non sorprende, allora, che questo invito al realismo politico contribuisca anche ad
alimentare una nuova ostilit contro lidea di Roma capitale. Privato della sua dimensione mitica, infatti, il richiamo dellUrbe tende a indebolirsi. E non a caso, proprio agli
inizi degli anni Sessanta, prende forma unideologia antiromana, fondata sullassioma che
per fare lItalia moderna occorra demolire il mito perenne dellUrbe. Artefice principale
Massimo dAzeglio che, in un opuscolo pubblicato proprio nel 1861, rovescia la rappresentazione mazziniana della Terza Roma per enfatizzare la natura nociva della citt, la sua
infelice collocazione geografica, la sua carenza di spirito pubblico, linsalubrit del suo
ambiente, avvolto dai miasmi di 2.500 anni di violenze materiali o di pressioni morali.
Tutte caratteristiche incompatibili con la formazione del nuovo Stato nazionale che, a giudizio di dAzeglio, dovrebbe collocare la sua capitale altrove, magari a Firenze, dove il
Governo potrebbe trovare quel salubre e sicuro ambiente che dicemmo esser per lui la
pi importante delle condizioni (dAzeglio 1861, pp. 42, 52).
significativo, daltra parte, come pochi, dopo il 1861, pensino che la capitale possa
rimanere per sempre a Torino, dove stata proclamata la nascita del Regno dItalia: la
permanenza del governo nazionale nella citt piemontese, infatti, rafforzerebbe la percezione di un dominio assoluto della classe dirigente dellex Regno di Sardegna sul nuovo
Stato, alimentando malumori e ansie autonomiste nel resto della penisola. Eppure Torino mostra, per molti aspetti, una morfologia simile a quella delle capitali delle monarchie
nazionali europee. Il suo antico ruolo di citt capitale, dapprima in uno Stato assolutista
poi in una monarchia costituzionale, ma sempre sotto la stessa dinastia, ne aveva accentuato la continuit nei modelli di sviluppo, favorendo lintegrazione tra il nucleo antico e
le espansioni moderne (Traniello 1988, pp. 68-70). Inoltre, fin dagli anni Trenta, la citt era stata oggetto di un significativo processo di monumentalizzazione che, in sintonia
con levoluzione politica, aveva modificato la fisionomia e il significato di importanti spazi pubblici. Dalla collocazione della statua di Emanuele Filiberto in piazza San Carlo
(1838) a quella di Carlo Alberto nella piazza omonima (1861), la disseminazione di una
serie di monumenti in luoghi simbolici aveva trasformato lintero ambiente urbano, ridimensionandone anche quelleffetto metafisico ereditato dallet barocca.
Appare allora evidente come, allinterno di questa evoluzione, sia troppo breve il periodo in cui la citt piemontese capitale del nuovo Regno per assistere a unulteriore riconfigurazione del suo assetto urbano. Tra laltro, non c bisogno di trovare nuove sedi
alle istituzioni nazionali, che ereditano per lo pi le strutture del Regno di Sardegna. Cos come, ovviamente, non c necessit di monumentalizzare il potere dei Savoia, gi ampiamente consacrato nel paesaggio cittadino. Il cambio di status politico, tuttavia, innesca significative trasformazioni sociali ed economiche. C una forte crescita demografica,
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F. BARTOLINI
Le citt
che spinge in alto il numero degli abitanti fino a quasi 220.000 nel 1864. E c una rapida
espansione delle costruzioni, che dilata larea urbana di oltre 900.000 ettari tra 1859 e 1864.
Che poi il rendimento del capitale investito nelledilizia residenziale si aggiri tra 1861 e
1864 intorno al 20% annuo, sufficiente per intuire quale importanza economica abbia
avuto la designazione a capitale nazionale.
Non stupisce allora che la notizia della stipula della Convenzione di settembre, con
il trasferimento della capitale a Firenze, provochi violente proteste e disordini a Torino.
Gran parte della cittadinanza timorosa di perdere importanti vantaggi economici, ma
soprattutto indignata per la fine prematura di una simbiosi, quella tra citt, dinastia regnante e Stato, che si sarebbe dovuta concludere soltanto dopo il compimento dellauspicio di Roma capitale. Cos il 21 settembre piazza Castello e il giorno dopo piazza San Carlo si trasformano in scenari di una cruenta battaglia tra esercito e dimostranti: i morti sono
52, i feriti 159 (Castronovo 1987, pp. 5-17; Levra 2001, pp. xix-xxii).
Questo trasferimento della capitale non indolore nemmeno per Firenze che, improvvisamente, deve innalzarsi al vertice del sistema urbano nazionale senza possedere
molti requisiti giudicati allora indispensabili per interpretare il ruolo. La citt pi piccola di Torino, appena 150.000 abitanti, e appare priva di quella fisionomia moderna che
gli interventi ottocenteschi avevano assicurato alla capitale sabauda. Non a caso una parte della classe dirigente locale reagisce alla designazione con preoccupazione, temendo uno
stravolgimento di consuetudini e tradizioni civiche considerate connotati essenziali dellidentit fiorentina. Ma daltra parte significativo che, davanti allimpossibilit di insediarsi a Roma e alla contemporanea fioritura di autorevoli candidature alternative (come
quelle di Milano e Napoli), il nuovo Stato scelga la citt toscana, sia per assecondare le
preferenze dei Savoia e di una parte significativa della classe dirigente piemontese, sia soprattutto per la forza simbolica associata alla storia di Firenze, al suo passato medievale e
rinascimentale di capitale delle lettere e delle arti, icona perfetta di quel primato umanistico rivendicato dalla nuova cultura nazionale.
Lesperienza di capitale del Regno dItalia, per quanto breve, segna profondamente
il volto di Firenze. Comincia infatti un processo di modernizzazione accelerata della morfologia urbana, che condizioner a lungo gli interventi successivi. Se vero infatti che le
istituzioni statali trovano dimora per lo pi in edifici storici, come la Camera dei deputati nel Palazzo Vecchio e il Senato agli Uffizi, oppure in complessi ex ecclesiastici, come il
ministero della Pubblica istruzione nel convento di San Firenze o quello della Marina nel
monastero dei Barbetti, tuttavia la designazione a capitale nazionale diviene anche la premessa per lelaborazione di un nuovo piano di ampliamento urbano che, redatto da Giuseppe Poggi, modificher radicalmente lassetto complessivo della citt (Borsi 1970, pp.
67-95; Fanelli 1980, pp. 200-211). Si abbattono le mura, si costruiscono i nuovi quartieri del Maglio e della Mattonaia, si progettano sventramenti nellarea centrale del Mercato Vecchio, si realizzano viali tangenziali, nuove piazze, strade panoramiche e un grande affaccio sulla citt, il piazzale Michelangelo, snodo monumentale di una rete viaria che
ingloba le colline circostanti allinterno del sistema urbano. un modello di capitale influenzato dagli esempi di Parigi e Vienna e fondato su un nuovo ideale di modernit che
si impone non solo nella progettazione dei quartieri periferici, ma anche negli interventi
di restauro o rifacimento delle strutture edilizie nel centro antico. Diviene infatti allora
predominante un gusto di signorilit borghese, che tende a uniformare lo spazio urbano.
Appena Firenze comincia a mostrare questo volto moderno, si concretizza per il Regno dItalia la possibilit di annettersi Roma. E la presa di Porta Pia, il 20 settembre 1870,
pone automaticamente la questione di un nuovo trasferimento della capitale. Una scelta,
questultima, meno scontata di quello che si potrebbe pensare guardando al voto del marzo 1861 e allentusiasmo unanime con cui era stato salutato lingresso dei bersaglieri in citt. Allindomani dellannessione, infatti, non tardano a manifestarsi perplessit e resistenze,
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PARTE QUARTA
Cultura e societ
Risanamenti e speculazioni
Non allora sorprendente che, sebbene la progettazione della nuova Roma cominci gi nel
settembre 1870 (con la nomina di una commissione per lampliazione e labbellimento della capitale) e poi prosegua con lelaborazione di un primo piano regolatore (approvato dal
Consiglio comunale nel 1873, ma mai divenuto legge), allinizio degli anni Ottanta la Roma italiana non appaia ancora molto diversa da quella pontificia. Dei tanti progetti elaborati, poco viene realizzato nel primo decennio postunitario. Comincia a prendere forma
lasse direzionale di via XX Settembre con la costruzione delle sedi dei ministeri delle Finanze e della Guerra, tracciata via Nazionale, lamministrazione municipale stipula con
privati le convenzioni per ledificazione di nuovi quartieri sullEsquilino e al Castro Pretorio, viene approvata una legge per la sistemazione del Tevere. Iniziative importanti, ma
senza dubbio insufficienti per poter celebrare la nascita della nuova capitale nazionale.
Che sia indispensabile un deciso intervento dello Stato per trasformare Roma in una
citt moderna evidente a gran parte della classe dirigente italiana. Ma alcuni leader della Destra, soprattutto settentrionale, si rifiutano di riconoscere il dovere di partecipazione della nazione a unopera di rinnovamento urbano che vorrebbero interamente a carico della municipalit. Lidea di fondo che la designazione a capitale sia gi di per s un
enorme privilegio, da saper sfruttare senza chiedere aiuti allo Stato. E non stupisce allora che, solo dopo la caduta della Destra e lavvento al potere della Sinistra (1876), si concretizzi lidea di una legge speciale per Roma. Ovvero un finanziamento statale di 50 milioni di lire per la realizzazione di una serie di opere pubbliche connesse allelaborazione
di un piano regolatore (Vidotto 2006, pp. 74-81).
Questo provvedimento, approvato nel marzo 1881, segna una svolta perch sancisce
il diritto del comune di Roma a fondi statali per poter assolvere ai compiti di capitale
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Le citt
nazionale. Ma rappresenta, daltra parte, anche il sigillo a un rapporto di stretta dipendenza della capitale dallo Stato che condizioner limmagine di Roma fino ai nostri giorni: ossia lidea di una citt favorita dai poteri pubblici a scapito del resto del paese. Non
sorprende dunque che, durante la discussione parlamentare, molti deputati si oppongano alla proposta del governo, denunciando il rischio di creare una capitale assorbente,
criticando lo sperpero di denaro pubblico per lavori giudicati inutili, protestando contro
la disparit di trattamento tra Roma e quegli altri comuni capaci di realizzare opere pubbliche senza richiedere fondi allo Stato.
La legge prevede la costruzione di un Palazzo di Giustizia, di un Policlinico, di un
Palazzo di Belle Arti, di una sede per lAccademia delle scienze, di un ospedale militare,
di caserme e una piazza darmi, oltre a due ponti sul Tevere e a una radicale ristrutturazione del sistema stradale. Un programma ambizioso e dispendioso che, a soli due anni
dalla sua approvazione, richiede un nuovo intervento legislativo per garantire allamministrazione municipale un prestito di 150 milioni di lire. Nel 1883 approvato il nuovo
piano regolatore: prefigura labbattimento di parti consistenti del centro storico e lapertura di nuove arterie di scorrimento, come gli assi di via Cavour e corso Vittorio Emanuele II. Stabilisce inoltre il completamento di via Nazionale (congiunta gi con piazza Venezia), la realizzazione del Traforo sotto il Quirinale, listituzione dei parchi di villa Borghese
e villa Glori. Sono opere, oltre ad altre elencate nella legge speciale, che modificano profondamente la fisionomia di Roma, chiamata ad assumere un aspetto pi moderno, da citt ottocentesca, con strade rettilinee e fabbricati allineati. Contemporaneamente si avvia
anche ledificazione del monumento a Vittorio Emanuele II, unopera imponente destinata a diventare il nucleo di un centro moderno nel cuore dei vecchi rioni, e si costruiscono i muraglioni e i viali alberati lungo il Tevere, che trasformano radicalmente la percezione del fiume allinterno della citt.
un complesso progetto di ristrutturazione, questo di Roma capitale, che riflette anche i princpi dellingegneria sanitaria: una nuova specializzazione disciplinare che, alla met degli anni Ottanta, comincia a rivendicare anche in Italia una supremazia nello
studio dei problemi delle citt, da analizzare attraverso lindagine statistica delle patologie collettive. Sono gli ingegneri sanitari, infatti, a egemonizzare in questi anni il dibattito pubblico sulla questione urbana, provocando un ribaltamento della rappresentazione delle grandi citt: da centri di civilizzazione e modernizzazione sociale, queste ultime
diventano, usando le parole del medico igienista Paolo Mantegazza, laboratori dinfezione, carceri per il polmone e stufe per i cervelli (cit. in Giovannini 1996, p. 9). Ovvero luoghi malsani e nocivi, responsabili non solo del decadimento fisico della popolazione, ma anche della sua degenerazione morale. I nuovi indagatori delle patologie urbane,
infatti, sono convinti che la mancanza di igiene pubblica inquini le coscienze individuali.
Un assioma, questultimo, che inspira anche tutta una coeva produzione letteraria incentrata sui mali delle citt: basti pensare alla Milano sconosciuta di Paolo Valera (1879) o al
Ventre di Napoli di Matilde Serao (1884).
Il legame tra salubrit e moralit, tra ordine sanitario e assetto sociale, uno dei fondamenti epistemologici dellingegneria sanitaria che, non a caso, avvalora unidea organicistica della citt, utilizzando come termine chiave quello di risanamento, associabile a
significati sia materiali sia ideologici. La citt ha bisogno di aria, luce, acqua potabile e
scarichi fognari per trasformarsi in uno spazio vivibile, al riparo sia da epidemie infettive
sia da perversioni sociali. Un luogo pulito e pacificato, costruito e governato secondo i
princpi razionali della scienza e della tecnica, destinate a sostituire larchitettura nella
progettazione edilizia.
Molti di questi precetti delligiene sanitaria diventano norme statali con lapprovazione della legge per il risanamento di Napoli nel 1885. Sulla scia dellallarme provocato
da una violenta epidemia di colera, che un anno prima aveva causato quasi 7.000 morti
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PARTE QUARTA
Cultura e societ
solo nel capoluogo campano, lo Stato decide di intervenire per eliminare quello che veniva considerato uno dei pi pericolosi focolai urbani di infezione nazionale, il centro di Napoli con i suoi quartieri popolari (Petraccone 1978, pp. 185-220). Si riesumano vecchie
idee, risalenti allamministrazione borbonica o al primo periodo postunitario, per elaborare un piano di intervento che prevede ampie demolizioni nelle zone pi basse della citt con lo scopo di realizzare, oltre a unefficiente rete fognaria e a un moderno sistema di
distribuzione dellacqua potabile, anche un nuovo asse di collegamento tra la stazione e il
centro, il Rettifilo. Lobiettivo principale quello di diradare il tessuto edilizio e decongestionare i quartieri centrali, spostando gran parte degli abitanti alla periferia orientale,
dove si progetta di costruire nuovi edifici popolari. un piano grandioso che prevede il
risanamento di 550.000 metri quadri, la costruzione di 59 nuove isole di case economiche divise in 7.400 alloggi, la realizzazione di 182 chilometri di condotte fognarie. Con un
costo complessivo intorno ai 75 milioni di lire.
Per facilitare lesecuzione dei lavori si modifica anche la legge del 1865 sullesproprio per pubblica utilit, approvata in coincidenza con il piano Poggi per Firenze. La
nuova norma cambia i criteri dindennizzo, legati non pi a valori teorici di mercato ma
a rendite accertate delle propriet espropriate, e trasforma il piano regolatore da strumento eccezionale a provvedimento amministrativo di uso corrente, estendendone lapplicazione a tutti i comuni dove le condizioni di salubrit delle abitazioni o della fognatura e delle acque ne facessero manifesto il bisogno (legge del 1885, n. 2892, art. 18).
A Napoli il municipio stipula una convenzione con una societ privata, la Societ pel
Risanamento, costituita sotto la regia governativa con lunione di alcuni grandi istituti
finanziari (Credito mobiliare, Banca generale, Banca subalpina, Societ generale immobiliare, Banca di Torino, Impresa Marsaglia). Mentre lo Stato si impegna a versare i tre
quarti della cifra preventivata dalla legge speciale, espropri, sfratti, demolizioni e nuove costruzioni sono a carico della Societ pel Risanamento, che in cambio diviene proprietaria degli immobili. Al comune, invece, spettano le aree libere, ovvero strade, piazze e giardini.
Molto si discusso sul carattere speculativo delloperazione che, avanzata con estrema lentezza tra numerose difficolt, avrebbe favorito il sopravvento degli interessi privati su quelli pubblici. Come nel caso di Roma, colpita da una febbre edilizia alla met degli anni Ottanta, anche Napoli diviene scenario di grandi investimenti privati che cercano
di approfittare dei vantaggi assicurati dalla legge speciale. E in modo simile a quanto accade nella capitale, travolta da un crollo improvviso del mercato immobiliare alla fine del
decennio, anche il capoluogo campano subisce gli effetti della crisi finanziaria, che inevitabilmente blocca i lavori nei cantieri e azzera le previsioni di guadagno (Caracciolo 1993,
pp. 193-205; Marmo 1976, pp. 646-683). Una vicenda traumatizzante che, in entrambe
le citt, si compie allombra di un sistema illegale di collusioni tra mondo politico e mondo economico, rivelato poi con grande scandalo dellopinione pubblica dalle indagini della magistratura e dalle inchieste delle commissioni parlamentari. E non a caso, gi agli inizi degli anni Novanta, legge speciale diviene sinonimo di speculazione, corruzione e
sperpero di denaro pubblico.
Eppure, nonostante tutti i limiti, gli interventi statali a Roma e a Napoli segnano una
svolta nelle politiche di modernizzazione urbana. Non solo perch sono comunque raggiunti alcuni importanti miglioramenti nelle condizioni di vita dei ceti popolari: basti pensare che nel capoluogo campano il tasso di mortalit per malattie infettive passa dal 27,1
nel 1885 al 9,5 nel 1895 (Giovannini 1996, p. 172). Ma anche perch il coinvolgimento diretto dello Stato costituisce da una parte una premessa per lelaborazione di una nuova regolamentazione edilizia, che in et crispina avviciner lItalia agli standard dei paesi europei pi sviluppati, e dallaltra diviene uno stimolo per lelaborazione di progetti di
ammodernamento in altre citt della penisola (Zucconi 1999, pp. 17-18).
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F. BARTOLINI
Le citt
A Torino, gi nel 1885, si prepara un piano di risanamento e miglioramento igienico ed edilizio della citt, che il Parlamento approva come questione di pubblica utilit:
cos il municipio si pu avvantaggiare dei benefici previsti dalla legge speciale per Napoli per operare alcuni sventramenti nel centro e tracciare i nuovi assi diagonali di via Pietro Micca e via IV Marzo. A Milano, in sintonia con il piano di Cesare Beruto, un caso
esemplare di applicazione delle tecniche ingegneristiche alla progettazione della citt, si
stipula nel 1886 un accordo per il risanamento dellarea compresa tra il Castello sforzesco e il Cordusio che prevede, tra laltro, un controllo sul decoro e sullunitariet delle costruzioni attraverso una serie di disposizioni speciali inserite in un nuovo regolamento
edilizio. A Bologna, nel 1889, entra in vigore un nuovo piano regolatore: si avvia una ristrutturazione di una parte significativa della citt attraverso lallargamento di via Rizzoli e si predispone un piano di ampliamento esterno con la costruzione del quartiere della
Bolognina. A Genova, nel 1890, si approva il progetto per la realizzazione di un grande
asse rappresentativo, via XX Settembre, che da piazza De Ferrari, nuovo centro degli affari, raggiunge la spianata del Bisagno, al di l della quale si costruiscono i nuovi quartieri residenziali della borghesia.
Tutti interventi pensati in sintonia con i precetti dellingegneria sanitaria, ma che rivelano anche lambizione di rafforzare le vocazioni rappresentative delle citt, immaginate come palcoscenici della modernit borghese.
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PARTE QUARTA
Cultura e societ
che, in questa prospettiva, le immagini di Torino e Milano comincino ad assumere connotati diversi rispetto al passato, funzionali non pi solo a evocare antichi primati culturali,
ma anche a costruire nuove reputazioni politiche, indispensabili per legittimare titoli e ricompense. Le antiche rivalit urbane, infatti, tendono a trasformarsi in dispute ideologiche, che misurano e confrontano le vocazioni patriottiche alla lotta e al sacrificio.
Allinterno di questo processo di ridefinizione delle identit cittadine, un ruolo particolare spetta alle esposizioni. Ne erano state organizzate molte fin dallet napoleonica
ma, dopo la costituzione del Regno dItalia, acquistano un significato e un rilievo ben
maggiori rispetto al passato. Innanzi tutto perch cominciano a subire gli effetti del pi
generale sviluppo internazionale del fenomeno che, soprattutto nei paesi europei pi industrializzati, ha ormai assunto dimensioni di massa e valenze politiche di straordinario
impatto: basti pensare allEsposizione di Londra del 1851, evento-immagine della potenza dellImpero britannico. Ma anche perch, pur non avvicinandosi alla grandiosit delle coeve manifestazioni inglesi o francesi, le esposizioni italiane riescono comunque a trasformarsi non solo in scenari di celebrazione dei successi nazionali, ma anche in occasioni
di confronto tra i diversi centri urbani della penisola.
Le citt che ospitano le esposizioni, infatti, sono chiamate a esaltare sia i valori della
nazione sia il proprio specifico contributo allo sviluppo del paese. E per alcune settimane
divengono mete di gite e pellegrinaggi da parte di migliaia di italiani provenienti dagli altri centri della penisola, curiosi di visitare oltre a gallerie ed edifici appositamente allestiti per le mostre, anche i luoghi urbani pi caratteristici, passeggiando tra piazze, monumenti, negozi.
Succede cos a Firenze che, in due importanti manifestazioni postunitarie, lEsposizione nazionale darte del 1861 e il Centenario dantesco del 1865, prova a mettere in scena la
sua vocazione di capitale culturale davanti allopinione pubblica di una nazione che proprio
sul patrimonio storico-artistico fonda gran parte del proprio prestigio (Tobia 1995, pp. 492510). Successivamente, con esiti ancor pi significativi, lo stesso accade anche a Milano e
Torino, che ospitano le due principali manifestazioni degli anni Ottanta: rispettivamente
lEsposizione industriale italiana del 1881 e lEsposizione generale italiana del 1884.
A Milano si celebrano i progressi economici compiuti dal Regno a un ventennio dallunificazione, ma si esalta anche il ruolo guida del capoluogo lombardo nella costruzione dellItalia moderna. Come sottolinea la pubblicistica legata allevento, Milano la capitale dellItalia che lavora, la metropoli industriale che valorizza le responsabilit
individuali senza trascurare i doveri della solidariet sociale, il luogo deputato di quella
societ civile che difende la propria autonomia e si oppone alle invadenze della burocrazia statale. un primato economico e sociale, quello rivendicato dal capoluogo lombardo, che richiama anche un profilo morale della citt, confinante con la dimensione religiosa. Come scrive Cesare Correnti, il genio di Milano il Cristianesimo civile (Rosa
1982, pp. 9-14; Meriggi 2001, pp. 17-18).
A Torino, invece, si celebra la seconda fase della rivoluzione nazionale, la nuova missione ideologica e culturale dello Stato unificato, ma anche il primato risorgimentale e dinastico del capoluogo piemontese. La citt, privata dello status di capitale, pu ancora efficacemente rivendicare il proprio passato patriottico, ma anche chiamata a riformulare
la propria immagine per continuare a legittimare un ruolo davanguardia allinterno della
comunit nazionale. Da una parte dunque lesposizione torinese valorizza il culto del Risorgimento, monumentalizzato attraverso una museificazione della storia nazionale, dallaltra esalta il progresso tecnologico, esemplificato anche da una costruzione grandiosa e
avveniristica come la Mole Antonelliana (Tobia 1991, pp. 68-89; Levra 1992, pp. 81-172).
Se vero che negli anni Ottanta dellOttocento molte citt della penisola rivendicano un ruolo da protagonista sul palcoscenico nazionale, altrettanto vero che soltanto
Roma, Milano e Torino possono credibilmente candidarsi a divenire centri guida della
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F. BARTOLINI
Le citt
nazione. La prima soprattutto per essere stata designata capitale del Regno, citt-mito
con una storia millenaria incomparabile. Le altre due per le benemerenze patriottiche,
ma anche per la capacit di simboleggiare unidea di modernit italiana.
Nellultimo decennio dellOttocento, per, Torino cede il passo al capoluogo lombardo come citt-icona della nuova Italia. Milano, infatti, appare ormai come un centro
molto pi ricco, dinamico, proteso verso il futuro. Ma soprattutto comincia a imporsi come un modello di buona amministrazione, rigorosa ed efficiente, che dovrebbe essere
imitato dal resto della penisola. E non un caso che proprio allora lantica rivalit con Roma si trasformi in uno scontro politico. Quella che fino agli anni Ottanta era stata una rivendicazione di primati diviene una vera e propria lotta tra due citt capitali, emblemi di
due diverse idee di Italia. Luna, simboleggiata da Roma, ancora legata alla memoria dellepopea risorgimentale e al culto del rafforzamento dello Stato centralizzato. Laltra, impersonata da Milano, la capitale morale, attenta alle novit dellEuropa occidentale e alla difesa delle autonomie municipali. In questo scontro, che destinato negli anni Novanta
a svilupparsi in una feroce contesa tra il governo di Roma e lopposizione dello Stato di
Milano, continua tuttavia a echeggiare una ben pi antica contrapposizione culturale tra
due tradizioni della penisola: quella statale-universalistica, fondata sulleredit-mito dellImpero romano e sullesperienza politica della Chiesa cattolica, e quella comunale-municipalistica, connotata dalla memoria delle citt medievali come modelli di resistenza contro lespansione del dominio imperiale (Bartolini 2006, pp. 144-169).
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612
F. BARTOLINI
Le citt
613
Simona Troilo
Nei primi decenni successivi allunificazione, la costruzione del patrimonio culturale della
nazione fu terreno di incontro e scontro tra progetti, ambizioni e aspirazioni di soggetti istituzionali diversi e per molti versi in competizione. I beni storico-artistici, nella loro complessit ed eterogeneit, furono al centro di tensioni che riguardavano la loro gestione e valorizzazione. A partire dal 1861, e almeno per tutto il decennio successivo, da un lato il
governo centrale, dallaltro quello delle citt espressero idee e modelli di tutela differenti e
spesso inconciliabili, rivelando lesistenza di prospettive diverse su un tema importante come la conservazione delle testimonianze di un passato comune. Questa tensione prese forma sullo sfondo di eventi che segnarono profondamente la vita del paese. La frammentazione politica e sociale della penisola, lavvio difficoltoso dei processi di nation-building,
limminente terza guerra dindipendenza, la questione impellente di Roma rendevano per
molti marginale il tema della conservazione, apparentemente rimandabile a momenti di maggior chiarezza e di maggior disponibilit di risorse. Questa percezione fin con lallontanare la prospettiva di un impegno in grado di tracciare linee e indirizzi di intervento coerenti
e articolati. Il settore della tutela soffr in questo senso di carenze notevoli, sia dal punto di
vista culturale che materiale, finendo con lo scontare difficolt e incongruenze di vario tipo.
Mentre ostacoli e difficolt minavano lazione dello Stato nei confronti del patrimonio della nazione, i decenni Sessanta e Settanta dellOttocento videro lemergere di altri
soggetti in grado di supplire alle carenze esistenti e di promuovere azioni di tutela autonome e specifiche: le istituzioni locali. Il loro protagonismo nel settore si plasm nel giro
di pochi anni grazie alle conseguenze non scontate di un evento che segn il destino di numerosi beni storici, artistici, architettonici e librari, vale a dire la liquidazione del patrimonio ecclesiastico. Essa port allacquisizione da parte dellautorit pubblica di materiale tradizionalmente custodito dalla Chiesa, e a un conseguente duro confronto tra governo
centrale e locale sulla sua destinazione e futura gestione. Il tema della tutela divenne cos una questione importante del rapporto centro/periferia, un nodo difficile da sciogliere
per le molteplici implicazioni culturali e politiche che sollevava. I risultati che da questo
scambio si ebbero furono per notevoli. Grazie ad esso venne a delinearsi il sistema di tutela policentrico ancor oggi in larga parte esistente. Grazie alla mobilitazione municipale
a difesa della tutela in loco dei manufatti acquisiti dalla Chiesa, le difficolt e le contraddizioni del governo centrale relativamente alla costruzione di un apparato di tutela adeguato e di un patrimonio fonte di identit comune vennero alla luce, chiarendo il ruolo
che i diversi soggetti interessati alla salvaguardia dei documenti della storia ebbero nel
tempo. In questo senso i primi decenni postunitari costituiscono un momento fondamentale per la definizione di funzioni e competenze e, soprattutto, per il chiarimento del
valore simbolico e identitario di beni patrimonio della collettivit.
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PARTE QUARTA
Cultura e societ
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S. TROILO
laddove esistevano, avevano una mera funzione consultiva, risultando privi della facolt
di imporre divieti e limitazioni alla dispersione del materiale e, pi in generale, di promuovere iniziative realmente incisive. La situazione era ancora pi grave nel Regno di
Sardegna, dove Carlo Alberto solo nel 1832 aveva istituito una Giunta dAntichit e Belle Arti con sede a Torino e compiti anchessi puramente consultivi. N una legislazione
in materia, n una struttura in grado di competere con quelle di altre realt della penisola erano presenti nello Stato che avrebbe di l a poco guidato lunificazione del paese. Questo scarto legittim la brusca reazione che la periferia del nuovo Regno riserv a partire
dal 1860-61 alle decisioni prese dal governo centrale, percepite come estranee e lesive di
tradizioni locali ormai radicate.
A Unit compiuta, la difficolt dello Stato di imporre una prassi legislativa nuova,
volta a intraprendere la costruzione di un sistema nazionale di tutela e del patrimonio della nazione, emerse infatti sin da subito. Sin da quando, nel biennio commissariale 18601861, i primi provvedimenti vennero presi dai governatori preposti al comando provvisorio delle varie regioni della penisola. Le nuove misure da questi adottate risultarono
diverse, in linea con le esperienze maturate nel tempo nei singoli contesti territoriali. Nelle province dellEmilia che, a partire dal 1859, riunivano le Legazioni pontificie e i territori degli ex Ducati di Parma e Modena , in Toscana, in Umbria e nelle Marche vennero istituite commissioni volte a vigilare e indirizzare future iniziative di tutela. Questi
organismi furono il pi delle volte affiancati dalle Accademie di Belle Arti e da altri istituti ereditati dal passato, provocando scontri e frizioni che di fatto bloccarono lattivit
complessiva delle varie strutture. Nelle province meridionali si provvide a riattivare gli
organismi esistenti, rafforzando il ruolo della Soprintendenza napoletana. Diretta da Giuseppe Fiorelli, essa venne arricchita di nuove competenze, anche se lambiguit normativa prodotta dal passaggio di potere dai Borboni al nuovo Stato ne limit per il momento
lattivit. In Piemonte e nei territori della Lombardia ci si mosse allinsegna della continuit, in attesa di provvedimenti che avrebbero interessato lintera penisola. Dal punto di
vista amministrativo la spinta a creare nuovi istituti si intrecci con lesigenza di non cancellare le esperienze passate e di farle proprie rilanciandole almeno dal punto di vista progettuale. Vennero in questo senso recepiti, almeno formalmente, i mezzi legislativi pi
avanzati messi a punto dai cessati governi, nel tentativo di salvare norme e misure utili ad
accompagnare la difficile transizione. Ma la tensione prodotta da esigenze diverse, sommata allimpossibilit di procedere nellimmediato alla definizione di strumenti normativi e burocratici omogenei a livello nazionale, favor la crescita della confusione, immobilizzando organismi vecchi e nuovi e rendendoli di fatto poco operativi.
In questo panorama di incertezza vide la luce il provvedimento che pi di altri segn
la messa a punto del futuro sistema nazionale, vale a dire la soppressione delle corporazioni religiose, avviata in alcune aree della penisola negli anni 1860-61, estesa a tutto il
territorio nazionale nel 1866. Grazie ad essa lo Stato incamer un numero notevole di edifici e manufatti storico-artistici tradizionalmente custoditi dagli enti ecclesiastici.
Le prime soppressioni vennero decretate in Umbria, nelle Marche e nelle province
napoletane. Qui lo scioglimento degli ordini religiosi e la conseguente chiusura di monasteri e conventi resero inderogabile affrontare la questione della sorte degli oggetti divenuti di propriet pubblica. Quale sistemazione dare alle tele, alle sculture, agli arredi sacri, ai manoscritti e ai libri rari passati nelle mani dello Stato? Soprattutto, quali mezzi e
risorse mobilitare? Il problema era serio, data linstabilit conosciuta da queste regioni a
ridosso dellUnit. La sua soluzione era urgente, vista la necessit di provvedere immediatamente alla collocazione di un materiale di facile deperimento. Vennero allora identificati tre punti di raccolta verso cui far confluire il materiale da incamerare: lAccademia di Belle Arti di Perugia, quella di Urbino e il Museo archeologico di Napoli, trasformato
da Garibaldi in Museo nazionale. Il patrimonio librario venne invece destinato alle
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PARTE QUARTA
Cultura e societ
biblioteche dei singoli comuni, per quanto riguardava lUmbria e le province napoletane, alle citt sedi di universit o ai capoluoghi di provincia, per quanto riguardava invece
le Marche. La scelta rispondeva a ovvi criteri di necessit, ma non teneva conto dellimpatto che avrebbe suscitato sulle realt interessate. Nello specifico, sulle comunit che si
vedevano private di beni tradizionalmente custoditi allombra dei propri campanili. La
decisione di accentrare in pochi punti di raccolta un materiale diffuso nel territorio scaten una reazione fiera e orgogliosa da parte di citt che si opposero alla cessione degli oggetti ad altri centri urbani, reclamando a s il diritto di tutelare le testimonianze della propria storia. Questa reazione, che riguardava i manufatti artistici pi che il materiale librario
e documentario, fu talmente aspra da indurre alla sospensione o al ritiro dei tre provvedimenti, in attesa della promulgazione di una normativa nazionale. Essa non si fece attendere: qualche anno dopo, nel 1866, riprendendo la legislazione sarda del 1855, lo Stato
italiano procedette alla soppressione degli enti religiosi in tutto il Regno e alla conseguente liquidazione dellasse ecclesiastico.
Consapevole della reazione ai decreti del biennio commissariale, il governo centrale
scelse in questo caso una soluzione diversa da quella precedentemente adottata. Rinunciando alle ipotesi centralistiche, la legge del 1866 mirava infatti a redistribuire gli oggetti a livello provinciale e comunale. Essa prevedeva che i libri, i manoscritti, i documenti
scientifici, gli archivi, i monumenti, gli oggetti darte o preziosi per antichit fossero devoluti a biblioteche o musei pubblici esistenti nelle rispettive province. Si tentava in questo modo di stabilire un criterio di assegnazione pi attento alle spinte provenienti dalle
differenti aree del paese. Si mirava inoltre a potenziare gli istituti conservativi preesistenti, garantendo una migliore tutela del materiale incamerato. Neppure questa modifica parve per soddisfare le istanze dei comuni che si mossero compatti nel denunciare il tentativo di accentrare gli oggetti nei capoluoghi di provincia. Era in questi centri infatti che
si concentravano in genere musei e biblioteche in grado di ospitare il materiale. Ed era
qui che, razionalmente, il governo intendeva indirizzare il flusso in entrata dei beni storico-artistici. Le proteste quindi ripresero, ancora allinsegna della rivendicazione del diritto alla tutela in loco, segno di una forte tensione ad affermare la propria appartenenza
e la propria identit.
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S. TROILO
attacchi spogliatori del governo centrale, altrove, ad esempio in alcuni comuni marchigiani, in una seria e insormontabile resistenza (Acs 1866) alle mire conquistatrici delle
citt privilegiate dalle decisioni prese a livello nazionale. In questo senso bisognava lottare per la difesa del lustro di tradizioni che non ammettevano cesure di alcun segno.
Il tema del vincolo del passato fu declinato in vario modo a livello cittadino, soprattutto in termini di rispetto di quei geni artistici che nel tempo avevano reso celebri i diversi luoghi. A SantAngelo in Vado, ad esempio, era prioritario difendere la memoria
imperitura di quegli illustri ai quali la citt aveva dato i natali, favorendo la conservazione di oggetti e manufatti che ne ricordassero il nome immortale (Acs 1867b). A Monreale, in Sicilia, il lustro e decoro civico era espresso da illustri filosofi e grandi artisti
di cui era imprescindibile tutelare il ricordo (Atti Parlamentari 1869). Ovunque le glorie patrie divenivano numi tutelari da custodire gelosamente e ammirare, in vista di una
grandezza dimenticata da recuperare. In questo senso il passato spalancava le porte al futuro, nella forma di uno sviluppo economico da potenziare o di una crescita culturale da
incrementare. I numerosi e distinti forestieri da attrarre nei propri territori e la giovent studiosa da far crescere e coltivare divenivano i punti di riferimento di unazione che
mirava a definire vocazioni culturali specifiche per citt alla ricerca di un nuovo ruolo. In
questo senso si puntava a sviluppare lammirazione dei passeggeri e a favorire al contempo il progresso degli studi e il perfezionamento delle arti. Nelle parole degli amministratori spoletini, era necessario trar profitto anche dalle pi meschine risorse onde migliorare per quanto sia possibile la condizione morale, ed economica della nostra citt. Il
patrimonio culturale locale doveva suscitare anche linteresse dei forestieri, ed essere esibito alla studiosa giovent per esempio del bello, servendo anche di modello a una scuola di pittura, dove larte vecchia fosse lume della nuova (Acs 1867a).
Laffermazione delle proprie radici e le rivendicazioni che da essa prendevano forma
venivano inquadrate in un discorso a tratti esplicitamente antistatale. Il governo centrale
era infatti accusato di sovercheria laddove imponeva le proprie regole, uniformando un
procedere amministrativo ritenuto invasivo e problematico. Questa accusa passava attraverso temi sapientemente coniugati. In alcuni casi, ad esempio, si faceva riferimento ai
beni contesi come a materiale che nel Risorgimento aveva garantito una resistenza morale decisiva in vista della riunificazione nazionale. Simboli di una sofferenza e di unattesa comunemente vissute, questi beni avevano ispirato la partecipazione collettiva al destino della nazione che ora non poteva essere tradita. Conforto al passato servaggio, si
scriveva da Macerata, gli oggetti appartenevano al luogo e alla comunit a cui erano legati da vincoli sacri e inviolabili (Acs 1862). Vincoli che lo Stato, frutto del processo risorgimentale, non poteva permettersi di indebolire.
Altro tema impiegato nella mobilitazione comunale fu la presunta somiglianza tra latteggiamento del neonato governo nazionale e quello dei passati regimi stranieri, impegnati allinizio del secolo a depredare la penisola delle sue ricchezze. La rapina francese sembrava rivivere, nelle parole degli amministratori di Fabriano, nelle azioni dello Stato italiano
il quale riproponeva mezzi e misure che solo le prepotenze straniere erano state in grado di infliggere (Acs 1861). Anche in questo caso, combattere contro le decisioni centrali significava affermare unappartenenza radicata nella storia e nelle forme del mondo locale. Vale la pena notare come in tutti questi passaggi discorsivi, i beni in questione
rappresentavano indistintamente la piccola e la grande patria, visto che luna era tassello
imprescindibile dellaltra. Colpire la prima con provvedimenti ritenuti lesivi della sua
identit significava dunque colpire anche la seconda, non cogliendo il legame intrinseco che univa entrambe. In questo discorso, radicato nelle richieste formulate negli anni
1860-70, si verificava un pericoloso cortocircuito sullidea di appartenenza nazionale, letta nei termini della localit e contrapposta a quella di uno Stato accusato di mettere a repentaglio lintegrazione tra i vari elementi che lo componevano.
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Cultura e societ
Differenti istanze culturali erano dunque sottese a una contestazione che assunse varie forme e che rivelava il forte antagonismo, da un lato, tra le citt e il governo centrale,
dallaltro tra i singoli centri urbani impegnati a difendere ad ogni costo la propria identit. La contesa dei beni si dispiegava in questo senso tra centri di diversa dimensione e diverso potere, i pi deboli dei quali denunciavano un progetto complessivo di brutale
centralizzazione. Di qui la protesta di Alcamo che, insieme ad altri comuni della provincia di Trapani, si rifiut di consegnare i propri oggetti al capoluogo non merita[ndo] per
nessuna ragione che venisse spogliata de capolavori darte de quali e[ra] fornita (Acs
1868). La cupidigia dei capoluoghi fu diffusamente condannata, soprattutto laddove
lunificazione produceva disincanto e delusione. Il sacrificio vissuto da comunit poco
avvantaggiate dalla nuova situazione politica indicava allora nella tutela un discreto compenso, volto a sanare situazioni incresciose e spesso di grande smarrimento. Questa tendenza di spogliare continuamente i piccoli a favore dei pi grandi scrivevano gli amministratori di Borgo San Donnino schierati contro Parma per la cessione di alcuni oggetti
aliena fortemente gli animi delle popolazioni e finisce per far credere, che invece di una
libert vera, si abbia una libert fittizia, che non giova a tutti, ma che sia anzi il patrimonio di chi ha il privilegio della maggiore importanza e della maggiore influenza (Acs 1876).
Nella forma del malumore, del malcontento, delle ripulse, la mobilitazione municipale indicava lesistenza di un attaccamento al luogo, alla sua storia e alla sua cultura profondamente radicata e a tratti radicalmente esacerbata. Ma che cosa celava in fondo questa rivendicazione cos esplicitamente espressa?
La tutela locale era reclamata dai municipi come terreno su cui rilanciare unidentit,
utile nel confronto con le trasformazioni dettate dallunificazione. Il timore di soccombere
a una piemontesizzazione lesiva delle diverse appartenenze, a una nazionalizzazione omologante e poco rispettosa delle singole specificit, spingeva a enfatizzare la dimensione locale come spazio di storia e memoria. La piccola patria diveniva un universo simbolico in
cui individuare tradizioni, immagini, narrazioni in grado di valorizzare le peculiarit storiche delle cento citt della penisola. Questa enfasi prendeva forma sullo sfondo di processi
che ridefinivano gli assetti amministrativi e politici territoriali. Con la creazione del Regno,
la redistribuzione di mezzi e risorse trasformava il ruolo delle citt e delle loro classi dirigenti, ridisegnando le gerarchie esistenti. Il potenziamento di alcuni centri urbani produceva il declassamento di altri; la nascita di nuove province obbligava alla soppressione di antichi capoluoghi; pi in generale, la nuova localizzazione di investimenti economici, lincremento
della rete infrastrutturale, la costruzione di tribunali, ospedali, istituti educativi creavano
disomogeneit, spostando il baricentro politico ed economico di intere aree geografiche.
Lunificazione e la modernizzazione del paese producevano grandi cambiamenti, riconfigurando la natura di istituzioni ed lites dal futuro incerto. La difesa del diritto/dovere alla tutela municipale risultava in questo senso anche funzionale alla riaffermazione del potere delle classi dirigenti locali e alla elaborazione di nuove idee di futuro per universi sociali scossi
dallunificazione. In ogni caso, la sfaccettata ragione che spingeva le citt ad allarmarsi e mobilitarsi per la tutela suscitava anche a livello centrale ansie e timori di non facile soluzione.
Dinanzi alle richieste comunali, lo Stato assunse un atteggiamento di grande prudenza, dovuto allesigenza di promuovere innanzitutto il consenso del mondo locale alle istituzioni del Regno. Nel momento in cui si tentava di rafforzare unadesione collettiva ai
valori e allapparato amministrativo dello Stato, antagonismi e contestazioni andavano arginati, poich minavano il processo di nation-building, alimentando lo spettro di una disgregazione fatale. Il timore di scontri e fratture port in breve il governo a dialogare, mediare, negoziare, fino a cedere alle istanze municipali, favorendo la distribuzione del
materiale in base alle rivendicazioni inoltrate.
Questa soluzione, che segn di fatto la nascita nel nostro paese di un sistema di tutela policentrico, fu del resto caldeggiata da quei rappresentanti dello Stato chiamati ad
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approfondire meccanismi e dinamiche in atto nelle varie aree del paese. Nelle loro riflessioni sulle mobilitazioni in corso, i prefetti ad esempio misero in luce gli interessi ruotanti attorno alla tutela dei beni darte e di antichit, restituendo il quadro mosso di una protesta
di cui essi coglievano vari aspetti. Il vincolo emotivo che legava le comunit ai propri manufatti, il desiderio di promuovere iniziative di tutela autonome, il protagonismo di istituzioni culturali antiche e recenti erano elementi di continuo sottolineati, insieme ad altri che
rivelavano lampio spettro di motivazioni sottese alle richieste comunali. La rivalit tra citt e il personalismo di sindaci ed eruditi impegnati a ridefinire il proprio ruolo nella societ venivano ad esempio considerate questioni oltremodo rilevanti nellattuazione di scelte e
decisioni dagli effetti importanti. La strada della conciliazione era quindi proposta come soluzione in grado di non inimicare allo Stato le comunit locali, evitando al contempo di intralciare la costruzione di un rapporto di per s non facile da definire. Questo sbocco era sollecitato anche da altri soggetti, patrocinatori a livello centrale delle rivendicazioni locali: dai
rappresentanti dei singoli collegi elettorali, ad esempio, i quali si calavano spesso nel ruolo
di mediatori, facendo proprie e rilanciando le istanze dei propri elettori; dai consigli provinciali, interessati a potenziare le strutture della tutela nei propri territori; da singoli esponenti dellamministrazione centrale i quali, con il passare del tempo, riconobbero lutilit di uno
sbocco volto a ricondurre il bene storico-artistico a una dimensione primariamente locale.
Al di l delle motivazioni politiche e culturali sottostanti alla decentralizzazione della tutela, unaltra esigenza spingeva infatti in questa direzione: quella di non appesantire le finanze pubbliche, gi gravate dai costi straordinari dellunificazione.
La necessit di razionalizzare le spese in un momento di grave scompenso per le casse del Regno si imponeva anche per un settore delicato come quello della tutela. Con lunificazione lo Stato ereditava del resto un patrimonio immenso fatto anche di musei, gallerie, pinacoteche, appartenute a passati governi e sovrani. Questi spazi della conservazione
andavano riorganizzati, amministrati e in gran parte finanziati. Si trattava certo di una sfida, vista la ricchezza e leterogeneit di un panorama che andava dalla Galleria degli Uffizi di Firenze al Museo archeologico di Napoli, passando per le ricche collezioni di Palermo. Accanto ad essi, raccolte spesso di grande rilevanza crescevano presso universit e
accademie antiche e prestigiose. Trasformate in regie o nazionali, le collezioni di molte citt e, dopo il 1870, di Roma necessitavano di nuove risorse per essere valorizzate e
salvaguardate. Stesso impegno esigevano poi le biblioteche nazionali, preesistenti alla nascita del Regno, e quella miriade di raccolte librarie custodite da istituti scolastici ed universitari di varia rilevanza. Lo Stato, infine, si trovava a gestire gli edifici ecclesiastici monumentali sottratti nel 1866 alla gestione municipale e affidati, per il loro valore inestimabile,
direttamente al governo. Tra essi, la Certosa di Pavia, le badie di Montecassino, di Cava
dei Tirreni, di Monreale con le rispettive dotazioni artistiche e librarie. Il settore della tutela era dunque sterminato, laddove la disponibilit economica dello Stato mostrava tutta la propria inadeguatezza.
Decentrare parte della conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale alle
istituzioni locali permetteva di risparmiare e al tempo stesso di avviare anche progetti conservativi nuovi, volti a celebrare la nascita del nuovo Stato e a richiamare interessi e valori da esso promossi. Se lesistenza di antiche, grandiose raccolte consentiva il rafforzamento dellimmagine dellItalia culla darte e civilt, la loro continuit con il passato, il
loro essere eredit di mondi trascorsi minava limpegno dello Stato nellonorare lunificazione del paese. Nasceva quindi lesigenza di creare istituzioni ex novo, di fondare musei e biblioteche frutto del nuovo spirito nazionale, al pari di quanto avveniva in altri paesi europei, dove la nascita degli Stati-nazione era salutata da raccolte nazionali di nuovo
conio. Nei due decenni successivi allUnit, in Italia vennero create alcune istituzioni che
andavano proprio in questa direzione. Nel 1861, ad esempio, alle antiche biblioteche nazionali di Napoli e Palermo venne affiancata la nuova Biblioteca nazionale di Firenze,
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Cultura e societ
frutto della fusione di precedenti raccolte. Nel 1875 a Roma, presso il Collegio Romano,
venne istituito un polo conservativo che accoglieva il Museo preistorico ed etnografico
Luigi Pigorini e la nuova Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele II, istituti intesi soprattutto a rinnovare il prestigio della nuova capitale. Tre anni dopo, a Torino veniva decretata la nascita del Museo del Risorgimento, volto a celebrare il ruolo della casa regnante nel processo di unificazione nazionale. Si trattava in questi casi di progetti attraverso
cui lo Stato organizzava le proprie istituzioni culturali, sancendo il ruolo di citt chiamate a sostenere il confronto con le altre capitali europee. La crescita del numero degli istituti direttamente o in parte finanziati dallo Stato venne nel tempo moltiplicandosi, dando vita a una trama fitta di raccolte ordinate in una scala di rilevanza che distingueva centri
di prima e seconda classe, governativi o misti, nazionali o statali, verso cui indirizzare gli
scarsi investimenti a disposizione. La questione economica rimaneva centrale nella difficile messa a punto di un sistema, per sua natura vitale e bisognoso di continue risorse.
Furono dunque diverse le ragioni che portarono lo Stato ad assecondare le richieste
provenienti dal mondo locale. La scelta decentralizzatrice produsse in ogni caso due conseguenze di grande importanza. In primo luogo, la costruzione di una mappa territoriale
della tutela che rispecchiava la diffusione capillare degli oggetti, affermando linviolabilit della gestione pubblica e urbana dei manufatti. In secondo luogo, il monopolio da parte del mondo locale di un discorso della piccola patria che si dispiegava nella contrapposizione allo Stato e, nello stesso tempo, nelladesione a una patria pi grande, vale a dire
la nazione. La forza di questo discorso permeava il rapporto centro/periferia, avvantaggiando il mondo locale nella propria rivendicazione didentit.
Lassenza di coordinate
Il processo finora descritto di assunzione da parte delle istituzioni locali di grandi responsabilit nella conservazione dei documenti della storia fu segnato, oltre che dalle difficolt di un rapporto centro/periferia complesso e conflittuale, anche dalla percezione generale della tutela quale tema di scarso rilievo nazionale. Numerose emergenze concorrevano
infatti ad assegnare poco risalto al tema, considerato meno importante e pi differibile di
altri. Questa percezione contribu ad allontanare la possibilit di un confronto serio e articolato sul patrimonio culturale, il quale venne definendosi senza princpi-guida generali che ne regolassero la costruzione: per essere pi precisi, in totale assenza di un quadro
legislativo di riferimento. Fu infatti soltanto allinizio del nuovo secolo che venne promulgata una legge organica di tutela, con lintento di affermare attraverso un apposito sistema conservativo territoriale i diritti della collettivit su beni inalienabili. Fino ad allora ci si limit ad ereditare norme e leggi dei passati governi, rimandando a tempi futuri la
messa a punto di un provvedimento complessivo. Di fatto deleteria, questa scelta fece s
che al momento di un passaggio delicato come quello dellincameramento dei beni di ex
pertinenza religiosa non ci fossero strumenti in grado di regolarne a livello nazionale fasi
e modalit.
A ben guardare, lassenza di una legislazione o quanto meno di un dibattito in materia di tutela rimandava a una difficolt di fondo, vale a dire allincapacit del mondo politico liberale di confrontarsi con la relazione pubblico/privato che la tutela di fatto richiamava. Il timore di ledere il principio cardine del liberalismo, sul quale si fondava la stessa
impalcatura del nuovo Stato, rendeva impensabile la scelta di misure ad esempio lesproprio utili a conservare, accrescere e salvaguardare il patrimonio nazionale. Il riconoscimento del vantaggio pubblico e collettivo che sin dal Settecento aveva caratterizzato la
cultura della conservazione italiana lasciava ora spazio al timore di intaccare la propriet singola e individuale. Questo timore finiva con lindebolire la stessa azione coercitiva
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delle norme ereditate dagli stati preunitari, e con il consentire la dispersione del materiale attraverso vari canali. I disagi legati alla messa in discussione di un principio insindacabile erano poi accresciuti dalla scarsa consapevolezza del valore culturale di beni dal
grande potenziale evocativo e identitario. Per le classi dirigenti nazionali, almeno nei primi decenni postunitari il patrimonio rimase uno strumento di retorica efficace, ma sterile per celebrare la gloria della nazione. Generiche affermazioni sulla grandezza dellarte e
del passato italiano alimentarono un discorso nazionalista poco utile a impedire esportazioni e trafugamenti degli oggetti, e scarsamente efficace nel sanzionare manipolazioni e
distruzioni di edifici e rovine.
La scarsa attenzione che i politici ponevano sul tema della conservazione non pass
inosservata, ma venne denunciata da alcuni personaggi che sollecitarono pi volte un diverso atteggiamento da parte del governo. Gi nel 1862, il deputato Giovanni Morelli tuonava in Parlamento:
A me sembra che torni ad altissima lode del Governo del Re di staccare per qualche istante
lo sguardo dalle strade di ferro, dai porti, dai fari, dalle navi corazzate, dai sali e dai tabacchi, per innalzarlo a quelle arti che sono la maggiore, la meno contrastata gloria della nazione. Un argomento che mi sembra di grandissima importanza, n a voi potr parere futile, e
del quale pur troppo fino ad oggi i rappresentanti dItalia, di questa terra consacrata dal cielo alle arti belle, non trovarono mai tempo di occuparsene; intendo dire dello stato di abbandono in cui giacciono i monumenti darte della penisola (Atti Parlamentari 1862).
Lappello accorato di Morelli era pienamente condiviso da chi con lui a ridosso dellUnit aveva compiuto unimportante ricognizione di alcune parti del territorio italiano, mettendo in luce questioni e problemi da affrontare in futuro: Giovanni Battista Cavalcaselle.
Studioso e conoscitore di molte realt storico-artistiche nazionali, egli richiamava il governo allimmane compito ereditato dalla storia, vale a dire lobbligo di mantenere la gloriosa tradizione del paese. Pochi passi vennero per computi in questa direzione soprattutto dal punto di vista della messa a punto di strumenti legislativi adeguati.
Soltanto la discussione sulla liquidazione dellasse ecclesiastico introdusse in Parlamento il tema della tutela, imponendo per un attimo la questione della sorte dei beni da
incamerare. In maniera discontinua e spesso superficiale, ci si confront agli inizi degli
anni Sessanta dellOttocento sulla natura e la legittimit dei provvedimenti da emanare,
soprattutto sullopportunit di acquisire un patrimonio artistico e librario estremamente
rilevante. Di nuovo la questione della propriet privata tenne banco, sostenuta da quanti ritenevano la liquidazione dellasse un attacco diretto a soggetti e propriet ben identificabili. In questo caso, ragioni economiche e politiche prevalsero, consentendo allo Stato lacquisizione di vaste propriet ecclesiastiche e limmissione di beni in un mercato
faticosamente avviato a trasformarsi in nazionale. Anche le voci di coloro che riconoscevano alla Chiesa una tradizione conservativa di cui far tesoro nella futura conservazione
dei manufatti vennero sopraffatte da quelle di quanti ritenevano inderogabile il passaggio
allautorit pubblica del materiale acquisito. Allipotesi di lasciare dipinti, sculture, oggetti, arredi sacri nelle strutture religiose si prefer quella di trasferire tutto nei musei di
nuova e antica costituzione. Su queste decisioni pes il clima politico arroventato da un
anticlericalismo in parte radicato e da tensioni connesse alla terza guerra di indipendenze alle porte. Pes inoltre una certa inconsapevolezza della reale articolazione delle strutture conservative disseminate nella penisola e, da ultimo, una scarsa conoscenza della consistenza effettiva del materiale da acquisire. Elementi che svelavano lapprossimazione
con cui il tema della tutela venne nel complesso affrontato nelle aule parlamentari.
Allepisodica discussione apertasi nelle pi alte sedi rappresentative del paese segu
per, negli anni successivi, non solo la crescita del ruolo delle istituzioni locali, ma anche
la messa a punto di organismi amministrativi in grado di fornire strumenti utili per far
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Cultura e societ
chiarezza nel settore. Ancora una volta, si trattava di provvedimenti che tentavano di colmare un vuoto legislativo pesante e assai significativo. Nuovi organismi e nuovi regolamenti vennero promulgati in relazione sia al patrimonio storico-artistico che a quello librario, riorganizzato, almeno sulla carta, da decreti volti a restringere il numero degli
istituti a carico dello Stato e a regolarne gli organici. Fu per nel 1875, con la creazione
della Direzione generale degli scavi e dei musei del Regno, che lo Stato impresse una vera svolta razionalizzatrice, intesa a ripensare un sistema di tutela dei beni storico-artistici complesso e frammentato.
Questa svolta fu sollecitata da un settore che con lUnit conobbe un forte incremento soprattutto, di nuovo, a livello cittadino: larcheologia. Lesplosione della passione per
la storia e la moltiplicazione dei musei locali diedero infatti nuova linfa agli scavi, promossi da gruppi di eruditi impegnati a potenziare lidentit municipale allombra dei vari campanili. Il fenomeno si innestava su un tessuto di esperienze relative allantico decisamente eterogeneo a livello nazionale. Laddove esistevano tradizioni di studio e di scavo
radicate, larcheologia aveva raggiunto importanti risultati ben prima dellUnit favorendo, era questo il caso dello Stato pontificio e del Regno di Napoli, una legislazione in materia, come dicevamo, piuttosto avanzata. In altri contesti, lesistenza di istituzioni e di
forme di associazionismo dedite allo studio e allesplorazione del passato aveva arricchito la conoscenza della storia di citt e regioni, alimentando un insieme di saperi che travalicava i confini nazionali. Pi in generale, larcheologia era per rimasta terreno di sperimentazione di amatori e cultori dellantico, impegnati a sviluppare forme di collezionismo
di stampo familiare e antiquario. Leterogeneit e la frammentariet di questo panorama
crebbero dopo lUnit, quando gli organismi ereditati dai passati governi ad esempio,
la Soprintendenza agli scavi di Napoli furono affiancati da istituzioni di nuova creazione. Esse operarono il pi delle volte in competizione con gli altri, rivendicando unautonomia di difficile attuazione. Anche a Roma, dopo il 1871, una situazione di grande tensione si svilupp tra vecchi e nuovi organismi, comunali e statali, interessati a gestire
limmenso patrimonio ereditato dalla Chiesa. La creazione, nel 1870, di una Soprintendenza per gli Scavi di antichit e per la conservazione dei monumenti nella provincia suscit una forte reazione da parte del municipio, che vi intravedeva il tentativo di espropriare sue antiche prerogative. Questo conflitto produsse la nascita di organismi contrapposti,
le cui funzioni vennero specificate dal governo solo negli anni successivi, nella speranza
di far cessare i contrasti armonizzando ruoli e competenze.
Se il caso di Roma rappresenta una specificit difficile da negare, tuttavia evidente
che il sovrapporsi di funzioni e ruoli costitutiva una costante delle molteplici esperienze
avviate a livello centrale e periferico. Fu merito del ministro Ruggiero Bonghi uniformare un sistema soffocato dal conflitto di competenze, paralizzato da rivendicazioni e compromessi, caratterizzato, il pi delle volte, da dilettantismo e improvvisazione. Con la istituzione della Direzione generale e delle commissioni provinciali da essa controllate in tutto
il territorio nazionale, la macchina della tutela cominciava a diramarsi capillarmente, imponendo omogeneit e scientificit alle procedure di scavo e di tutela di reperti e rovine.
Una rete di operatori veniva per la prima volta attivata uniformemente, e messa in grado
di interloquire con il centro in maniera diretta.
La svolta imposta da Bonghi fu duramente contestata da quanti vi vedevano un attacco allattivit e alle prerogative locali. Essa in realt produsse unulteriore decentralizzazione del sistema, che inglobava al proprio interno saperi e competenze radicati nello
spazio locale e le valorizzava investendole di nuove responsabilit. Depositari e cultori
delle patrie memorie furono infatti trasformati in commissari e ispettori, investiti di nuovi compiti e resi formalmente partecipi della costruzione del patrimonio della nazione. Il
loro ruolo divenne nel tempo centrale per il raggiungimento di questo scopo: senza essere stipendiati, n tanto meno sostenuti da un sistema ricco di risorse, questi operatori
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dimostrarono il pi delle volte zelo, passione e abnegazione nello svolgimento di un lavoro che rafforzava le prerogative locali, potenziando le radici dellidentit. In questo senso la costruzione del sistema, il suo funzionamento, il suo valore politico e culturale divennero adempimento quotidiano di singoli individui pronti a operare gratuitamente in
vista della realizzazione del patrimonio della nazione. Il valore culturale delloperazione
ricadeva positivamente sulle spalle della periferia, mentre il ruolo dello Stato ne usciva
compromesso, e la tutela si affermava come dovere morale assolto in primo luogo dagli
operatori locali.
Negli anni successivi al 1875, altri provvedimenti mirarono a migliorare il sistema di
tutela, prospettando un ordinamento uniforme e un assetto definitivo per gli istituti conservativi del paese. Listituzione del ruolo unico per il personale addetto ai musei e alle
biblioteche; la definizione di un regolamento generale per tutte le collezioni pubbliche del
Regno e limposizione del catalogo dei materiali posseduti; la separazione tra musei e Accademie di Belle Arti e, conseguentemente, tra ambito della conservazione e ambito dellistruzione; lintroduzione del biglietto daccesso ai musei rivelarono un maggior impegno in un settore a lungo considerato ancillare. Ma il riconoscimento, istituzionale e
culturale, del protagonismo locale e lassenza di una legge organica che fissasse lorizzonte materiale e simbolico della tutela fecero s che il patrimonio della nazione fosse innanzitutto costruito e gestito nei singoli mondi urbani.
Conservare in loco
La nascita di un sistema di tutela policentrico avvenne dunque nellambito di un rapporto centro/periferia ambiguo e problematico. Al suo interno vennero rapidamente definendosi valori, ruoli e funzioni che potenziarono la dimensione urbana rafforzando lidea di
una piccola patria coesa e omogenea nella propria rivendicazione identitaria. Questa immagine di coerenza messa a punto soprattutto nel conflitto con il governo centrale risultava in realt segnata al proprio interno da ulteriori tensioni, che attraversavano la sfera
urbana, producendo effetti duraturi. Nei decenni Sessanta e Settanta dellOttocento, lo
scontro ingaggiato dalle istituzioni locali non si rivolse infatti unicamente contro quelle
governative, ma si estese anche alle ecclesiastiche, private dei beni tradizionalmente custoditi nelle proprie strutture. Il passaggio di questi ultimi dallautorit religiosa a quella pubblica produsse una forte reazione da parte del clero, il quale condann lintera liquidazione come unignobile usurpazione. I decenni qui considerati videro in questo senso
altri, specifici interessi in gioco, nonch molteplici livelli di conflitto ruotanti attorno alla questione della tutela dei beni darte e di antichit.
Il passaggio di propriet degli oggetti venne accolto dalla Chiesa in maniera aspra e
polemica. Sabotaggi dei trasferimenti dalle strutture chiuse al culto ai musei si ebbero in
molti centri urbani, dove contestazioni e appelli maturarono nel solco della mobilitazione condotta dai municipi contro il governo nazionale. Suore, monaci, religiosi appartenenti agli ordini soppressi tentarono in molti casi di mettere in salvo i manufatti, nascondendoli, trasferendoli, vendendoli a privati pur di non cederli allautorit pubblica. In
questo incontravano gli interessi di un mercato antiquario particolarmente ricettivo e interessato a sfruttare a proprio vantaggio la confusione generata dalla chiusura delle strutture e dallallestimento delle collezioni civiche. A Roma, come denunciavano i commissari per la vigilanza sul patrimonio storico-artistico della citt, la situazione appariva
particolarmente grave poich molti religiosi si disfacevano degli oggetti, spesso distruggendoli, per preservarli dallacquisizione da parte dei musei. La difesa della propriet
del materiale custodito e gestito spesso per secoli ebbe per la Chiesa un duplice significato. Da un lato serv a contestare lazione di uno Stato laico, intenzionato a far valere le
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religione laica della patria. Linsieme di queste istanze rivelava ancora una volta la complessit di un terreno, quello della tutela, in cui interessi, aspirazioni, ambizioni, sensi di
appartenenza si intrecciavano, collidendo e trasformandosi. Ma in che modo si arriv concretamente alla messa a punto degli spazi della conservazione? Come i municipi si adoperarono per far s che i loro progetti conservativi divenissero reali?
Lavvio del sistema di tutela qui ripercorso non fu affatto semplice, non solo per le
tensioni provocate, ma anche per le difficolt logistiche incontrate nella creazione o nel
rinnovamento degli istituti conservativi urbani. Gli scarsi mezzi economici a disposizione di municipi gravati da innumerevoli titoli di spesa e la penuria di locali in cui accogliere il materiale contraddistinsero la vicenda di molti comuni, in cui gli oggetti prelevati
dalle strutture chiuse vennero il pi delle volte depositati in magazzini e scantinati, in attesa di soluzioni idonee. Questa scelta non riguardava solo i municipi privi di musei e biblioteche e sollecitati a crearne di nuovi dalla possibilit di vedersi assegnati gli oggetti,
ma anche centri in cui collezioni esistenti anche da lungo tempo risultarono inadeguate a
ospitare il materiale. Il numero delle strutture interessate dalla liquidazione variava del
resto da citt a citt, raggiungendo un picco elevato nel caso di Roma in cui delle 221 case religiose esistenti, 134 furono quelle soggette a soppressione. La mole di manufatti, libri, documenti incamerati risult nel complesso davvero ampia rispetto agli spazi a disposizione, motivo per cui ci si attest su soluzioni transitorie, il pi delle volte peraltro
inadatte a impedire la dispersione del materiale.
Mercanti darte, italiani e stranieri, collezionisti e semplici rigattieri attesero con una
certa aspettativa il momento caotico del trasferimento, prevedendo spiragli di intervento
che il pi delle volte effettivamente si vennero a creare. I municipi tentarono in vario modo di arginare i furti, i trafugamenti e le vendite delle opere darte da parte del clero, in
molte occasioni riuscendo a evitarne la perdita o tornandone in possesso in maniera rocambolesca. Ma il flusso in uscita dei manufatti era difficilmente controllabile, anche a
causa di quel vuoto legislativo che impediva unazione coercitiva seria e diffusa nel territorio. La lentezza con cui si port a termine la catalogazione del materiale segn poi un
ulteriore fattore di dispersione. Nel giro di pochi anni non si pot che constatare lavvenuta scomparsa del San Michele arcangelo del Guercino dalla collegiata di San Nicol a
Fabriano; dei quindici quadri di vari autori dal convento di San Martino a Firenze; della tela di Paolo Veronese ad Alessandria; dei dipinti di Girolamo Marchesi a SantApollinare Nuovo a Ravenna. Anche in questo caso, mancando una normativa unificante, i singoli municipi non riuscirono a porre un argine alla dispersione che solo a fatica la
catalogazione cercava di impedire. Nonostante tutto, fu per proprio grazie allemergenza e alla necessit di confrontarsi rapidamente con la situazione che essi maturarono di
fatto specifiche competenze in materia, riuscendo ad avere un ruolo centrale nella stessa
formazione delle nuove raccolte civiche.
Lopera di conoscenza e catalogazione portata avanti dagli eruditi, dagli esperti darte,
dagli artisti, dagli storici locali nellambito delle commissioni conservatrici istituite nel 1875
in tutte le province del Regno fu infatti fondamentale per mappare lesistente e al tempo
stesso per accrescere la funzione di selezione operata dalle istituzioni locali. Laddove il governo centrale, vale a dire il ministero della Pubblica istruzione e per esso la Direzione generale, rinunciava a svolgere un proprio ruolo nel passaggio di propriet degli oggetti, i municipi e i loro rappresentanti avevano la possibilit non solo di divenire depositari di un
nuovo sapere relativo alle testimonianze storiche e culturali del territorio, ma anche di selezionare cosa conservare e cosa liquidare, definendo in parte la natura delle future collezioni civiche. In questo senso si ampliava il protagonismo di soggetti radicati nella sfera locale e operanti per la crescita di una consapevolezza storica e identitaria di grande rilevanza.
Una volta catalogato, schedato, acquisito dalle istituzioni locali, una volta compiuto il transito presso sedi temporanee, il materiale incamerato oltrepassava la soglia del
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museo civico dove veniva allestito ed esibito. Stessa destinazione trovava spesso anche
il materiale librario, assegnato alle biblioteche civiche i cui spazi si intrecciavano con
quelli dei musei. Codici antichi, statue, documenti, pitture formavano allora, a Udine
come ad Ancona, un tuttuno in grado di restituire allocchio del visitatore la storia e la
memoria della citt e del suo territorio. Laddove biblioteche e musei trovavano destinazioni separate, questi ultimi assumevano varie forme in sedi spesso di grande prestigio. Palazzi comunali, edifici monumentali, sedi restaurate accoglievano gli oggetti stabilendo una stretta continuit tra il potere della citt e delle sue classi dirigenti e quello
di un passato testimoniato dalla ricchezza del patrimonio custodito. Il Palazzo dei Priori di Perugia, quello dellArengo di Ascoli Piceno, ledificio restaurato da Camillo Boito per il Museo civico di Padova, il Castello Sforzesco per le collezioni milanesi offrirono lo spazio per celebrare un orgoglio civico evocato dai tesori gelosamente conservati.
Un forte simbolismo scaturiva allora dalle collezioni, proposte come templi laici di una
memoria collettiva che oscillava dalla citt alla nazione. Il numero di questi templi nei
primi decenni postunitari sub unesplosione, dovuta proprio allincameramento dei beni di ex pertinenza religiosa. Che si trattasse del consolidamento di raccolte precedenti, o della formazione di nuove, i musei civici iniziarono ovunque a simboleggiare unappartenenza profondamente radicata. Da Reggio Emilia a Capua, da Trieste a Lecce, le
collezioni civiche divennero depositarie dei frammenti della storia e del genio locale che,
riproposti nelle sale, rivivevano grazie allo sguardo dei visitatori. La traiettoria che esse testimoniavano attraverso i reperti archeologici, i quadri, le sculture, i documenti, i
codici miniati evocava quei valori unitari e di coesione sociale che fondavano lidea della piccola patria. Gli oggetti nel museo esprimevano lappartenenza rivendicata dalle
istituzioni locali verso altri soggetti lo Stato, la Chiesa, le altre citt in competizione per la gestione e valorizzazione delle tracce di una storia comune. Questa storia veniva celebrata nelle collezioni civiche, che offrivano unimmagine ricca e peculiare della vicenda storica locale e una rappresentazione esauriente della sua natura e del suo
essere tassello fondamentale della nazione.
In questo senso le raccolte cittadine svolsero unimprescindibile funzione dal punto
di vista culturale, esprimendo costantemente la forza di un legame tra piccola e grande
patria che veniva ribadito anche nelle pi importanti occasioni di partecipazione collettiva: le festivit, in primo luogo la festa dello Statuto, le celebrazioni, le commemorazioni,
le premiazioni scolastiche costituivano infatti momenti in cui le istituzioni culturali sancivano il proprio ruolo di snodi identitari potenti ed efficaci. Il valore della conservazione civica si esprimeva allora pienamente, ripagando limpegno che i diversi attori della tutela profondevano in un settore dal potenziale unico e straordinario. Un potenziale che,
evocando i fasti e la gloria del passato, fungeva da ammonimento per il presente e il futuro di quella collettivit che nelle raccolte si riconosceva e rappresentava. Il significato del
patrimonio si dispiegava in questo caso pienamente, restituendo il senso a una storia e a
una cultura lette attraverso le lenti originarie dellurbanit e della comunit.
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S. TROILO
simbolico nuovo in grado di dar forma al proprio senso di appartenenza. Con la soppressione delle corporazioni religiose e la successiva liquidazione dellasse ecclesiastico, il patrimonio divenne questione dirompente nellagenda politica del paese, poich la sua tutela fu trasformata nellobiettivo delle rivendicazioni di molti municipi, interessati a gestire oggetti in
grado di evocare memorie e tradizioni radicate nei propri territori. In questo senso il patrimonio culturale gi di pertinenza religiosa fu al centro di conflitti vari, tesi ad affermare interessi, valori, progetti, aspirazioni diverse a seconda di chi se ne fece interprete e portavoce. Da questi conflitti emersero nozioni e valori che sopratutto la periferia del Regno seppe
utilizzare, a vantaggio di una cultura della conservazione che faceva della piccola patria lorizzonte entro cui evocare anche la grande, in una tensione costante con lo Stato.
Fu in questo processo di scambio, rivendicazione e mediazione che nacque e crebbe
un sistema conservativo profondamente radicato nelle singole localit, eppure in grado di
evocare un universo simbolico specificamente nazional-patriottico. Nei beni darte e dantichit, nei documenti e monumenti del passato, lidentit molteplice della penisola si
esprimeva richiamando la peculiarit delle singole vicende urbane e al contempo la specificit di un senso dappartenenza comune e condiviso. Il duplice significato del patrimonio culturale diveniva cos una caratteristica che nei decenni successivi sarebbe maturata, finendo con laccrescere il valore locale di beni inscritti nellorizzonte ampio di una
patria condivisa.
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