Don Pasquale Analisi
Don Pasquale Analisi
Don Pasquale Analisi
Don
Pasquale
AUTORE
Consiglio di Amministrazione
presidente
Paolo Costa
consiglieri
Giancarlo Galan
Pierdomenico Gallo
Alfonso Malaguti
Angelo Montanaro
Armando Peres
Giorgio Pressburger
Giampaolo Vianello
—————————
sovrintendente
Giampaolo Vianello
direttore musicale
Marcello Viotti
—————————
—————————
SOCIETÀ DI REVISIONE
PricewaterhouseCoopers S.p.A.
II
TITOLO
Don Pasquale
1
TITOLO
Don Pasquale
dramma buffo in tre atti di
Giovanni Ruffini
musica di
Gaetano Donizetti
Teatro Malibran
venerdì 19 aprile 2002 ore 20.30 turno A
domenica 21 aprile 2002 ore 15.30 turno B
martedì 23 aprile 2002 ore 20.30 turno D
venerdì 26 aprile 2002 ore 20.30 turno E
domenica 28 aprile 2002 ore 15.30 turno C
3
AUTORE
Giovanni Carnovali detto il Piccio (1804-1873). Ritratto di Gaetano Donizetti. Olio su tela, sec. XIX.
(Milano, collezione Cavallari).
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TITOLO
Sommario
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La locandina
11
Il libretto in facsimile della prima assoluta
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Don Pasquale in breve
a cura di Gianni Ruffin
93
Argomento – Argument – Synopsis – Handlung
109
Struttura musicale dell’opera
a cura di Carlida Steffan
113
Paolo Fabbri
Una via donizettiana per l’opera comica
125
Giorgio Pagannone
«Quel vecchione rimbambito»: conflitti generazionali in Don Pasquale
143
Marco Emanuele
Fisiologia del matrimonio in musica: Lolita e Don Pasquale
166
Don Pasquale dall’Archivio storico della Fenice
175
Italo Nunziata
Un Don Pasquale stile ‘anni Trenta’
179
Gaetano Donizetti
a cura di Mirko Schipilliti
185
Francesco Bellotto
Bibliografia
193
Biografie
a cura di Pierangelo Conte
5
AUTORE
Pasquale Grossi, bozzetto scenico per Don Pasquale. Venezia, Teatro Malibran, aprile 2002.
6
TITOLO
La locandina
Don Pasquale
dramma buffo in tre atti di
Giovanni Ruffini
musica di
Gaetano Donizetti
Edizioni Ricordi, Milano
personaggi ed interpreti
Don Pasquale Enzo Capuano
Dottor Malatesta Franco Vassallo
Ernesto Massimo Giordano
Norina Maria Costanza Nocentini
Un Notaro Paolo Orecchia
solisti
soprano Mercedes Cerrato
mezzosoprano Gabriella Pellos
tenore Enrico Masiero
basso Emanuele Pedrini
Corrado Rovaris
regia
Italo Nunziata
scene e costumi
Pasquale Grossi
luci
James Patrick Latronica
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LA LOCANDINA
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TITOLO
Pasquale Grossi, bozzetto scenico per Don Pasquale. Venezia, Teatro Malibran, aprile 2002.
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AUTORE
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IL LIBRETTO
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IL LIBRETTO
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Locandina per una delle rappresentazione di Don Pasquale al Théâtre Italien.
Disegno di Henry Somm (Parigi, Bibliothèque Nationale).
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Léon Noël. Ritratto di Giulia Grisi, prima interprete di Norina al Théâtre Italien, 1843. Litografia.
(Milano, Museo Teatrale alla Scala).
84
Ritratto di Luigi Lablache, primo interprete di Don Pasquale al Théâtre Italien, 1843. Litografia.
(Milano, Museo Teatrale alla Scala).
85
Ritratto di Mario (pseudonimo di Giovanni Matteo de Candia), primo interprete di Ernesto
al Théâtre Italien, 1843. Litografia (Milano, Museo Teatrale alla Scala).
86
Ritratto di Antonio Tamburini, primo interprete del Dottor Malatesta al Théâtre Italien, 1843.
Litografia (Milano, Museo Teatrale alla Scala).
87
Scena dalla prima rappresentazione assoluta di Don Pasquale. Parigi, Théâtre Italien, gennaio 1843.
La vignetta uscì sulle pagine del periodico «L’Illustration» il 5 aprile dello stesso anno.
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DON PASQUALE IN BREVE
a cura di Gianni Ruffin
Ad una ricognizione panoramica sull’opera italiana fra Sette e Ottocento balza subito
all’occhio la netta cesura categoriale riscontrabile tra i vari generi drammatici in musica:
nei primi decenni del nuovo secolo il numero di rappresentazioni comiche si contrae dra-
sticamente per cedere quasi totalmente il campo a drammi romantici ‘seri’. Tra La Cene-
rentola di Rossini (1817) ed il Falstaff di Verdi (1893) pochissimi sono infatti i titoli buffi
entrati stabilmente in repertorio, pur dopo grandi successi come Il matrimonio segreto di
Cimarosa (1792) e Il barbiere di Siviglia di Rossini (1816).
Nel primo Ottocento buon favore arrise a una tipologia mista, la cosiddetta ‘opera se-
miseria’, che offriva momenti d’intenso pathos entro una trama d’impianto sentimentale e
borghese a lieto fine. Nel solco della commedia musicale settecentesca rappresentata dal-
la Cecchina di Piccinni e dalla Nina pazza per amore di Paisiello, il genere semiserio definì
un ‘contenitore’ intermedio fra i tipi serio e comico: ad esso, in qualche allestimento, fu
ascritta appunto un’opera d’ardua classificazione come il Don Giovanni di Mozart. Tale
categoria per certi versi ibrida, ma fortemente foriera di novità, annovera comunque, oltre
alla menzionata Cenerentola, capolavori straordinari come La gazza ladra dello stesso
Rossini (1817) e La sonnambula di Bellini (1831).
Totalmente diversa è invece la sorte dei titoli pienamente comici di questo periodo, di
cui sopravvivono ancor oggi, con sporadici allestimenti, appena Un giorno di regno di
Verdi (1840) e Crispino e la comare (1850) dei fratelli Ricci, oltre al Don Pasquale di Doni-
zetti. A quest’opera sarebbe spettato un franco e duraturo successo dall’esordio fino ai
nostri tempi: essa fu presentata al pubblico del parigino Théâtre Italien il 3 gennaio 1843
con un cast d’eccezione: Giulia Grisi (Norina), Giovanni Matteo de Candia, in arte Mario
(Ernesto), Antonio Tamburini (Malatesta) e, nel ruolo eponimo, il grande Luigi Lablache
– definito dal critico Henry Chorley, in occasione dell’applauditissima replica londinese
dello stesso anno (29 giugno) «l’autentico genio comico del teatro d’opera».
L’accoglienza del Don Pasquale fu favorevolissima: Donizetti venne chiamato in pro-
scenio alla fine del secondo e terzo atto; durante la rappresentazione vennero bissati
l’adagio del finale secondo e la stretta del duetto notturno fra Norina ed Ernesto. Non
stupisce che, dopo Parigi e prima ancora di Londra, l’opera sia stata presentata in un’altra
sede prestigiosa come Vienna il 14 maggio 1843. Ciò non accadde solo per merito dei can-
tanti: in primo luogo va ricordata la felice inclinazione comica di Donizetti, testimoniata
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GIANNI RUFFIN
dall’assidua dedizione al genere dimostrata dal suo catalogo – che annovera farse quali Le
convenienze ed inconvenienze teatrali (1827) e Il campanello (1836), opere semiserie come
Elisir d’amore (1832) e Linda di Chamounix (1842), opéra-comiques quali La fille du
régiment (1840) e Rita, ou Le mari battu (1841), opere buffe come L’ajo nell’imbarazzo
(1824) e Gianni di Parigi (1831).
Dell’assoluto agio e familiarità di Donizetti col genere comico è inoltre testimonianza
non tanto la mitizzata – e di recente ridimensionata – notizia della composizione della
partitura in soli undici giorni, quanto il tiranneggiamento inflitto al librettista Giovanni
Ruffini. Esule mazziniano e personalità di rilievo nella cultura italiana del tempo (scrisse
due romanzi di successo, Lorenzo Bernoni e Il dottor Antonio), Ruffini rifiutò infine di
apporre il suo nome sul libretto proprio a causa dei condizionamenti impostigli da Doni-
zetti. Significativo è il contrasto sorto tra compositore e scrittore per l’ensemble conclu-
sivo: Donizetti privilegiò la versione che il collaboratore riteneva meno riuscita perché
aveva deciso di utilizzare in questa sede una melodia già da lui composta in precedenza.
Forte della sua consumata esperienza, Donizetti volle insomma avocare a sé tutte le scelte
(e naturalmente le responsabilità), tenendo in pochissimo conto il parere di Ruffini.
Il testo del Don Pasquale ricalca la trama del Ser Marcantonio di Angelo Anelli, mes-
so in musica da Stefano Pavesi nel 1810: un’opera che Donizetti aveva avuto modo di stu-
diare ai tempi in cui prendeva lezioni da Mayr. In essa si riscontrano i tipi tradizionali del
teatro comico di questi anni: il vecchio avaro e libidinoso, la scaltra soubrette, il giovane
innamorato, l’intrigante factotum. Tali personaggi ‘giocosi’ e grotteschi tipicamente comici
assumono però una caratterizzazione più individuata e interiormente moderna di quanto
la schematica trama potrebbe lasciar immaginare. Il compositore non solo emula i grandi
modelli settecenteschi e rossiniani, ma anche ricerca possibilità formali innovative: infatti
questo lavoro accoglie in più d’un momento suggestioni compositive variamente matura-
te, in àmbito sia sentimentale sia serio.
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La Salle Ventadour, una delle sedi del Théâtre Italien a Parigi, dove il 3 gennaio 1843
ebbe luogo la prima rappresentazione di Don Pasquale.
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Pasquale Grossi. Figurini per Don Pasquale. Venezia, Teatro Malibran, aprile 2002.
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ARGOMENTO
Atto primo
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ARGOMENTO
Atto secondo
Atto terzo
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ARGOMENTO
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Pasquale Grossi. Figurini per Don Pasquale. Venezia, Teatro Malibran, aprile 2002.
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ARGUMENT
Premier acte
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ARGUMENT
Deuxième acte
Troisième acte
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ARGUMENT
veaux époux. Le docteur Malatesta prépare avec Ernesto la dernière scène de la comédie
et se prépare a affronter son ami; Don Pasquale, «très abbattu» et «avec une tristesse
solennelle», le met au courant de ces faits incroyables – les caprices, la grossièreté et enfin
l’infidélité de sa femme – et demande vengeance. Le docteur l’invite d’abord à la
prudence mais feint ensuite de s’allier avec lui et lui propose de se cacher dans le jardin,
de surprendre les traîtres et de chasser l’épouse infidèle; mais il demande à son ami de
respecter toutes ses décisions. Don Pasquale lui donne carte blanche et jouit de sa
vengeance prochaine, tandis que Malatesta voit le piège se refermer.
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Pasquale Grossi. Figurini per Don Pasquale. Venezia, Teatro Malibran, aprile 2002.
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SYNOPSIS
Act One
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SYNOPSIS
Act Two
Act Three
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SYNOPSIS
The servants complain that they are overworked, and gossip mercilessly about the
newlyweds’ curious behaviour. Malatesta and Ernesto discuss the final scene of their
drama and prepare to confront Pasquale, who «dejectedly and slowly approaches». In a
state of «sublime misery» he tells Malatesta about the extraordinary turn of events – his
wife’s whims and insults and, as the last straw, her infidelity – and demands revenge. At
first, the doctor advises him to act prudently, but then he pretends to be in agreement
with Pasquale. He will hide in the garden, expose the treacherous couple and banish the
faithless bride. Malatesta insists, however, that Pasquale backs up all his decisions.
Pasquale, who is already savouring the sweet taste of revenge, gives him carte blanche,
whilst Malatesta rubs his hands with delight that the trap is about to be sprung.
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Pasquale Grossi. Figurini per Don Pasquale. Venezia, Teatro Malibran, aprile 2002.
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HANDLUNG
Erster Akt
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HANDLUNG
bringen, sie zu heiraten (die Ehe wird zum Spass vom Vetter Carlotto geschlossen),
wonach sie ihn die Heirat bitter bereuen lassen wird, und er so den Wünschen von
Ernesto entsprechen wird. Der lustige Einfall und die Verkleidung gefallen Norina sofort,
und äusserst belustigt bereitet sie sich auf die Schauspielerei vor.
Zweiter Akt
Dritter Akt
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HANDLUNG
der alte Hausherr sitzt fassungslos vor einem Berg fälliger Rechnungen. Norina erscheint
in eleganter Kleidung, und teilt mit, sie ginge jetzt ins Theater. Als ihr Mann einen
nutzlosen Versuch macht, sie aufzuhalten, schreit sie ihn an »frecher Kerl« und gibt ihm
eine Ohrfeige. Als der arme Don Pasquale auf dem Gipfel der Verzweiflung und total
fertig ist, wirft Sofronia ihm noch an den Kopf »Grossväterchen« und rät ihm, ins Bett
zu gehen. Beim Hinausgehen lässt sie einen Brief fallen, den ihr Mann aufhebt und liest:
in dem Brief trifft ein Unbekannter eine Verabredung für den gleichen Abend im Garten
mit Norina. Don Pasquale ist fassungslos und ausser sich, und lässt Malatesta holen.
Die Diener beklagen sich über die viele Arbeit, und lästern voller Ironie über das
merkwürdige Verhalten der beiden Jungverheirateten. Doktor Malatesta bespricht mit
Ernesto den letzten Akt der Komödie, und bereitet sich auf das Zusammentreffen mit
seinem Freund vor: Ein »total niedergeschlagener« Don Pasquale kommt ihm langsam
entgegen, und »mit unendlicher Betrübnis« setzt er ihn von den unglaublichen
Ereignissen in Kenntnis – die Launen, die Gemeinheit und schliesslich die Untreue seiner
Frau – müssen gerächt werden. Zunächst rät der Doktor ihm zur Vorsicht, aber dann geht
er zum Schein auf ihn ein, und schlägt vor, sich im Garten zu verstecken, die Treulosen
zu überraschen und die Ehebrecherin hinauszuwerfen; er bittet den Freund jedoch, alle
seine Entscheidungen zu unterstützen. Don Pasquale gibt ihm freie Hand, und sieht die
Rache schon geglückt, während Malatesta amüsiert daran denkt, dass seine Felle bald
zuschnappt.
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Frontespizio della riduzione per canto e pianoforte di Don Pasquale,
edita a Milano da Giovanni Ricordi nel 1843 (Parma, Istituto di studi verdiani).
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STRUTTURA MUSICALE DELL’OPERA*
a cura di Carlida Steffan
Sinfonia
Allegro – Andante mosso – Poco più – Moderato –Più allegro – Più stretto – I. Tempo – Poco
più – Più allegro (C – 6/8 – C, Re maggiore – Fa maggiore – La maggiore – Re maggiore)
Atto primo
SCENE I – II
n. 1 Introduzione (Don Pasquale, Dottore)
«Son nov’ore: di ritorno»; Moderato (C, Do maggiore)
«Benedetto! – (Che babbione!)»; Allegro moderato
«Bella siccome un angelo»; Larghetto cantabile – Poco più – I. Tempo (3/4, Re bemolle
maggiore)
«Famiglia? – Agiata, onesta»; Moderato – Allegro – Lento – Vivace (3/4 – C, ⇒ Do)
«Un foco insolito»; Vivace – Più mosso (3/8)
SCENE II – III
n. 2 Recitativo e Duetto (Don Pasquale, Ernesto)
«Son rinato. Or si parli al nipotino»; Recitativo – Andantino (C)
«Prender moglie! – Sì, signore»; Moderato (C, Mi bemolle maggiore)
«Sogno soave e casto»; Cantabile (2/4, La bemolle maggiore)
«Due parole ancor di volo»; Allegro moderato – Allegro (C, Do maggiore ⇒)
————
* Per redigere la struttura musicale dell’opera ci siamo basati sulla partitura d’orchestra di Don Pasquale (nuo-
va ed. riveduta e corretta), Milano, Ricordi, rist. 1971 (P.R. 36), in cui la lezione testuale è talora divergente rispetto a
quella del libretto della prima.
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CARLIDA STEFFAN
«Mi fa il destin mendico»; Allegro moderato – Più mosso – I. Tempo – Più mosso (Mi
bemolle maggiore)
SCENA IV
n. 3 Cavatina (Norina)
«Quel guardo il cavaliere»; Andante (6/8, Sol maggiore)
«So anch’io la virtù magica»; Allegretto – Più mosso – Poco più (2/4, Si bemolle maggiore)
SCENE IV –V
n. 4 Recitativo e Duetto Finale I (Norina, Dottore)
«E il Dottor non si vede! / Oh che impazienza!» Recitativo (C)
«Pronta io son, pur ch’io non manchi»; Maestoso (C, Fa maggiore)
«Vado corro, al gran cimento»; Allegro – Poco più – I. Tempo – Pochissimo ritenuto
Atto secondo
SCENA I
n. 5 Preludio ed Aria (Ernesto)
Maestoso (C, Do minore)
«Povero Ernesto! Dallo zio scacciato»; Recitativo
«Cercherò lontana terra»; Larghetto (Fa minore)
«E se fia che ad altro oggetto»; Moderato – Poco meno (Re bemolle maggiore)
SCENE II – III
n. 6 Scena e Terzetto (Don Pasquale, Dottore, Norina)
«Quando avrete introdotto»; Allegro mosso – Recitativo – Allegretto (C)
«Via, da brava. – Reggo appena…», Dottore, Norina, Don Pasquale; Larghetto – Più alle-
gro – I. Tempo (Mi maggiore)
SCENE III –V
n. 7 Recitativo e Quartetto – Finale II (Dottore, Norina, Don Pasquale, Notaro, Ernesto)
«Non abbiate paura, è Don Pasquale», Recitativo – Moderato – Allegro – Andante (C, ⇒)
«Fra da una parte etcetera»; Moderato (12/8, Do maggiore)
«Indietro, mascalzoni»; Allegro – Poco meno (C, La maggiore ⇒)
«Ah, figliol, non mi far scene»; Moderato mosso (Do maggiore)
«Siete marito e moglie»; Andante – Moderato mosso (6/8, ⇒ Fa maggiore)
«(È rimasto là impietrato)»; Andante – Poco più (C, Mi maggiore)
«Riunita immantinente»; Allegro moderato – Poco più (Mi maggiore ⇒)
«Son tradito, beffeggiato»; Vivace (C| , Re maggiore)
110
STRUTTURA MUSICALE DELL’OPERA
Atto terzo
SCENA I
SCENE I – II
n. 9 Recitativo e Duetto (Don Pasquale, Norina)
«Vediamo: alla modista»; Recitativo – Allegro – Andante – Allegro
«Signorina, in tanta fretta»; Allegro – Meno mosso – Più allegro – Poco più (C, La mag-
giore – Do maggiore)
«(È finita, Don Pasquale)»; Larghetto – Poco più (6/8, La minore – Do maggiore)
«Parto adunque ...– Parta pure»; Allegro (C, ⇒)
«Via caro sposino»; Vivace, ma non troppo – Poco più (3/8, Do maggiore)
SCENA IV –V
n. 11 Recitativo e Duetto (Dottore, Ernesto, Don Pasquale)
«Siamo intesi. – Sta bene. Ora in giardino»; Recitativo – Andante – Recitativo (C)
«Cheti, cheti, immantinente»; Moderato – Poco più – Moderato – I. Tempo, Mosso (C –
12/8, Fa maggiore – Re bemolle maggiore)
«(Aspetta, aspetta)»; Moderato mosso – Poco più (6/8, Fa maggiore)
SCENA VI
n. 12 Serenata e Notturno (Ernesto, Coro, Norina)
«Com’è gentil la notte a mezzo April!»; Andante mosso – Pochissimo più mosso – I. Tempo
(6/8, La maggiore)
«Tornami a dir che m’ami»; Larghetto (9/8, La maggiore)
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Caricatura di Donizetti. Litografia riprodotta nel giornale «Le chiarivari»
112
Paolo Fabbri
UNA VIA DONIZETTIANA
PER L’OPERA COMICA
«Dramma buffo / Opéra bouffe» in tre atti è definito Don Pasquale nel libretto bilingue
che la stamperia di Rue du Croissant a Parigi – Lange Lévy et Comp. – pubblicava a fine
1842 per conto del Théâtre Italien in vista della ‘prima’ da tenersi al principio del nuovo
anno (il 3 gennaio 1843). Nel giro di un biennio il pubblico parigino aveva assistito alla lo-
cale première – con modifiche – della recentissima Linda di Chamounix (1842: scritta per
Vienna) e al debutto assoluto di La fille du régiment (1840): il nuovo titolo avrebbe così
potuto completare idealmente una di quelle trilogie che spesso il mondo dei teatri ama in-
ventarsi, a dispetto delle effettive intenzioni d’autore (e dell’egemonia del sistema deci-
male). A voler essere onesti, la terna sarebbe nominalmente proprio eterogenea: «dramma
buffo» quello del 1843, «melodramma semiserio» il precedente del 1842, addirittura
«opéra comique» il titolo del 1840. Il che voleva dire lingue diverse (italiano, francese) e
differenti codici di comunicazione (solo cantato nelle opere italiane, il cantato che si al-
terna al parlato nell’altra), contesti teatrali e culturali non omogenei, divergenti direttrici
di poetica, scelte stilistiche e musicali conseguentemente divaricate.
Qual era, allora, l’ultima volta che Donizetti aveva affrontato l’opera comica? Se si
parlasse in generale, e in senso lato, della Categoria del Comico, allora il campo d’osser-
vazione dovrebbe necessariamente risultare ben più esteso: fino al punto da invadere i ter-
ritorî dell’opera seria, per un autore come Donizetti che ben prima di Verdi fu interessato
alle commistioni tra i generi (Torquato Tasso e soprattutto Lucrezia Borgia, entrambi del
1833). Ma tenendo fiscalmente l’occhio alle definizioni classificatorie, per trovare un im-
mediato antecedente omogeneo a Don Pasquale nel catalogo operistico donizettiano biso-
gna andare su su fino all’Elisir d’amore, «melodramma giocoso» in due atti tenuto a bat-
tesimo a Milano nel 1832 (per quanto presentato sempre lì nel 1839, Gianni di Parigi in
realtà risaliva al 1831). Gli anni intermedî sono infatti dominati dall’opera seria o addirit-
tura tragica. Dei venti titoli dal Diluvio universale del 1830 al vietato Poliuto del 1838, ben
quindici hanno «tragedia» o «tragico» nella specificazione di genere sul frontespizio del
relativo libretto. In mezzo, ci sono sì eccezioni buffe, ma decisamente virate sul semiserio
lagrimevole (Il furioso all’isola di San Domingo, Roma 1833) o sulla svelta e disinvolta co-
micità della farsa in un atto (Il campanello e Betly, entrambe Napoli 1836).
Differente il discorso andando a ritroso nel decennio degli esordî: gli anni Venti per
Donizetti significano tanti diversi tavoli su cui puntare, compreso ovviamente quello del-
113
PAOLO FABBRI
l’opera comica. A rappresentarlo, possono servire L’aio nell’imbarazzo (Roma, 1824: mo-
dificato nel 1826 per Napoli, e presentato come Don Gregorio) e Le convenienze ed incon-
venienze teatrali (Milano, 1831: rifacimento in due atti della farsa in un atto Le convenien-
ze teatrali, Napoli 1827): ma meglio il primo del secondo, essendo quest’ultimo troppo
connotato e inserito in quel sottogenere dell’opera sull’opera – il metamelodramma – che
vantava una propria, specifica tradizione e suoi caratteri.
Un po’ i compositori ambivano al livello più prestigioso (e remunerativo), come già
mostrava la duplice carriera di Rossini, italiana e francese; un po’ il gusto che per como-
dità potrei dire ‘romantico’ inclinava ai soggetti cupi e financo truci (il catalogo di Bellini,
e quello di Donizetti negli anni Trenta sono lì a documentarlo: senza dimenticare il Verdi
imminente): insomma, i tempi per il genere comico si facevano più grami. Di fatto, dopo
Don Pasquale nel settore ebbero fama ad esempio I falsi monetari (Torino 1844) di Lauro
Rossi (1812-1885), Don Bucefalo (Milano 1847) di Antonio Cagnoni (1828-1896), Crispi-
no e la comare (Venezia 1850) di Federico (1809-1877) e Luigi Ricci (1805-1859), Il carne-
vale di Venezia (Napoli 1851) di Errico Petrella (1813-1877). Coi quali titoli si può dire
doppiato il capo che di lì in avanti renderà sempre meno visibili i porti di partenza della
tradizione comica italiana.
Tornando a Donizetti, dunque la prima tappa significativa sulla via che porterà a Don
Pasquale si concreta nell’Aio nell’imbarazzo di quasi vent’anni prima. A designarlo come
rossiniano certo non si sbaglia: forme e formule sono quelle, a quel gran fiume attinge lo
stile, e il linguaggio che parla è il medesimo. Bisogna però intendersi. Il rossinismo cui si
allude non è infatti quello dei capolavori maturi, dal Barbiere a Cenerentola (volendo, a
Matilde di Shabran), e neppure quello dell’Italiana in Algeri coi suoi congegni serrati e tra-
volgenti fino al delirio. Piuttosto, si direbbe, è il Rossini delle farse, e in ispecie di quelle
meno sesquipedali: propenso alla commedia di costume e d’intrigo, con partiture briose
ma non prodighe di un lusso che giunge allo sfarzo, sapide per singoli tocchi di spirito ma
non ancora protese alla ricerca di grandi effetti, di prospettive bizzarramente inconsuete,
d’impalcature strutturali dall’ampio e inatteso respiro.
Tutto sommato, dunque non era tanto l’eredità dell’ultimo Rossini ad essere raccolta,
quanto piuttosto la sua lezione degli esordî, con l’innesto sulla tradizione comica tardo-na-
poletana affrontato col piglio e la spavalda disinvoltura di chi era destinato a rinsanguarla
e rimetterla a nuovo, consolidandone al contempo la morfologia in architetture più com-
patte e uniformi. Del resto, la commedia di Giovanni Giraud dallo stesso titolo (Roma,
Valle 1807) che sta alla base del libretto poco si prestava ad una lettura in direzione buf-
fonesca. È vero che portava in scena l’ennesima «inutil precauzione» domestica (il padre-
tiranno che vessa ottusamente i figli), ma mettendovi al centro toni d’inconsueta polemi-
ca culturale e sociale, con ambigua scabrosità (il matrimonio segreto che copre pudica-
mente una relazione evidentemente pre-matrimoniale, e relativa nascita di un pargolo;
l’anziano istitutore sospettato d’intrattenere rapporti erotici clandestini) e perfino con
punte d’inattesa violenza (seppure solo per un attimo, e per finta, la madre mima l’infan-
ticidio: e questo senza essere Medea, né comunque un’eroina tragica).
Meno di dieci anni dopo (Milano, maggio 1832), Elisir d’amore nasceva in tutta fret-
ta traducendo notoriamente per la lingua e le scene italiane un recentissimo successo di
Scribe e Auber, l’opéra in due atti Le philtre andato in scena all’Académie royale de musi-
que di Parigi – vulgo: Opéra – appena undici mesi prima (a metà giugno 1831). Del rossi-
nismo maturo, questo nuovo «melodramma giocoso» di Romani e Donizetti condivide la
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UNA VIA DONIZETTIANA PER L’OPERA COMICA
tutto procedette rapidamente e pienamente d’accordo fra Poeta e Maestro, fino alla scena
ottava dell’atto secondo; ma qui il Donizetti volle introdurre una romanza per tenore, a fine
di usufruire una musica da camera, che conservava nel portafogli, della quale era innamora-
to. Donizetti aveva di sì strane passioncelle; talvolta odiava la propria musica, e talvolta l’a-
dorava. Romani in sulle prime ricusò dicendo: «Credilo, una romanza in quel posto raffred-
da la situazione! Che c’entra quel semplicione villano, che viene lì a fare una piagnucolata
patetica, quando tutto deve essere festività e gaiezza?» Ma tuttavia Donizetti insisté tanto
finché ebbe la poesia: «Una furtiva lagrima […]».
Però s’accorse più tardi, pel tacito giudizio del pubblico, che, malgrado la bellezza della mu-
sica, anche questa volta il Poeta aveva ragione. Il secondo atto dell’Opera non fu applaudi-
to come il primo, perché apparso meno brioso, e, come dicevano i critici, deboluccio.
Una volta di più, onore al senso profondo del teatro qui dimostrato da Donizetti. La
«furtiva lagrima» che Nemorino ha notato negli occhi di Adina ne dichiara infatti il disge-
lo: stanno svaporando miracolosamente le algide gratificazioni del cicisbeismo, il gusto ci-
nico dei cuori sterilmente infranti, le galanterie erotiche godute e inflitte con calcolata ra-
gioneria. Per amore Adina ora soffre, e sente pena della sofferenza altrui. Non ci fosse la
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PAOLO FABBRI
Frontespizio del libretto per la prima rappresentazione assoluta di Ser Marcantonio firmato da
Angelo Anelli e messo in musica da Stefano Pavesi. Milano, Teatro alla Scala, 26 settembre 1810.
(Milano, Museo teatrale alla Scala).
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UNA VIA DONIZETTIANA PER L’OPERA COMICA
romanza di Nemorino, la sua metamorfosi si compirebbe alla chetichella tra le pieghe del-
la stretta di un quartetto («Dell’elisir mirabile»), per poi uscire allo scoperto nel duetto fra
Adina e Dulcamara («Quanto amore! Ed io, spietata»), e compiersi nell’aria di lei («Pren-
di: per me sei libero»). Non solo Nemorino ci segnala la peripezia in corso, ma individua
ed enfatizza – proprio lui, l’«idiota»! – il vero nodo psicologico della vicenda, in un certo
senso contribuendo a scioglierlo. Pur nella sua stroficità (e a dispetto del vezzo metasta-
siano cui Romani ricorre per suggellarla, col settenario che si prolunga a sorpresa in en-
decasillabo: «Che più cercando io vò? / M’ama, lo vedo»), quella romanza costituisce in-
fatti un significativo tour de force melodico a lunga gittata. Essa si tende inizialmente per
sedici battute quasi senza riprese interne, in progressiva intensificazione. Ai segmenti bre-
vi («Una furtiva lagrima…», «Che più cercando io vò?»), infatti, ne succedono via via di
lunghi («quelle festose giovani / invidiar sembrò», «M’ama lo vedo»), mentre si stringono
i tempi della collaborazione tra voce e orchestra (dai minimi echi strumentali dell’inizio,
utili a far quadrare il disegno di un canto su tre soli accenti, per giungere dopo la prima
quartina all’imitazione stretta, compressa, senza soluzione di continuità), toccando infine
l’apice dinamica con l’approdo alla relativa tonalità maggiore (Re bemolle) al momento
della dichiarazione tanto agognata: «M’ama, lo vedo». A quel punto («Cielo, si può morir;
/ di più non chiedo»), la seconda strofe virerà invece dal minore al maggiore (Si bemolle),
ma col medesimo effetto di acme finalmente raggiunta. La climax formale corrisponde in
pieno a quella drammaturgica: da qui in avanti la strada verso la soluzione sarà tutta in di-
scesa, quasi che quella fusione lirica al calor bianco, effettuata da Nemorino sotto i nostri
occhi, avesse liquefatto le difese psicologiche in cui era catafratta Adina. Donizetti/Ne-
morino ha distillato lui pure il suo philtre ammaliante, che incanta a distanza come in un
rito magico.
Non meno rilevanti – anche se per ragioni diverse – risultano i profili formali di altri
‘numeri’ di quest’opera. Già lo mostra l’introduzione, inconsuetamente affollata di ben tre
assoli (e consecutivi!) di prime parti, che sfilano uno dopo l’altro presentando in sequen-
za serrata quasi l’intero quartetto principale. Il duetto seguente Adina-Nemorino («Chie-
di all’aura lusinghiera») difetta di una delle sezioni canoniche (il tempo d’attacco o il can-
tabile, a scelta). Poche pagine dopo, quello tra Nemorino e Dulcamara («Voglio dire… lo
stupendo») alterna uno stacco di colloquiale nonchalance con uno spunto cabalettistico
(«Obbligato, ah sì, obbligato!») in uno schema davvero singolare quasi di ballata, da cui
prenderà infine le mosse la cabaletta vera e propria («Va, mortale avventurato»), col can-
to tenorile che si libra a distesa sulla sillabazione a mitraglia del basso buffo. Nell’atto se-
condo il duetto tra Dulcamara e Adina («Quanto amore! Ed io, spietata») ha proporzioni
ben sbilanciate al suo interno: tempo d’attacco striminzito, cantabile che procede a
couplets ben contrastati, un tempo di mezzo degno della prima posizione, una cabaletta
sveltita (con ripresa abbreviata). Possiamo aggiungere la tinta boulevardier delle strofe ini-
ziali di Adina («Della crudele Isotta») intercalate dal refrain corale, o la «barcarola» dia-
logata eseguita alla festa nuziale, su di un motivetto che Donizetti aveva buttato giù per
una piccante canzonetta meneghina di Carlo Porta (è ancora la Branca a segnalarlo).
Insomma, sono numerosi gli elementi che fanno dell’Elisir d’amore un prodotto no-
tevolmente eccentrico rispetto alla tradizione comica italiana, o che addirittura lo colloca-
no già al di là di quei confini. Con Don Pasquale Donizetti ratificherà quelle scelte, ren-
dendole più esplicite e perentorie: non elevando il monumento estremo a tale tradizione,
ma piuttosto pilotandola in mare aperto dopo la prova non meno innovativa del 1832.
117
PAOLO FABBRI
Una prima possibilità di misurare il tragitto percorso lo offre il trattamento del sog-
getto. Sotto Don Pasquale si celava infatti il Ser Marcantonio di Angelo Anelli (1761-1820),
messo in musica da Stefano Pavesi (1779-1850) e andato in scena a Milano, alla Scala, nel-
l’autunno del 1810. «Poscia entro in ripetizione con un’opera nuova buffa [...] titolo: Don
Pasquale. È il vecchio Marcantonio (non dirlo questo)»: così da Parigi Donizetti scriveva
a Roma, al cognato Antonio Vasselli, il 12 novembre 1842. Una settimana dopo (20 no-
vembre) gli ribadiva, sempre con obbligo di segretezza: «Nella vegnente settimana entro
in prova col Sor D. Pasquale. […] Gli è un soggetto antico, che tu pure conosci benone…
Marcantonio. Ma non dirlo a persona…». (E a cose fatte, il 13 gennaio 1843 Giovanni Ri-
cordi partecipava a Simone Mayr, maestro e benefattore di Donizetti, il nuovo successo
parigino dell’antico allievo «colla sua opera buffa intitolata D.n Pasquale, soggetto identi-
co con quello del Ser Marcantonio»).
Tanto mistero si spiega forse con l’imbarazzo di dover riconoscere un debito che ta-
lora si presenta assai circostanziato: per quanto trattato in modo assai diverso in Don Pa-
squale, il vecchio soggetto non solo trapelava vistosamente sotto le nuove spoglie, ma ne
affioravano perfino frammenti di versificazione. Perdipiù, anche se risalente a oltre tren-
t’anni prima, Ser Marcantonio non era affatto uscita di repertorio. Fin dal debutto, nel
1810, il successo era stato di quelli memorabili: cinquantaquattro recite. Negli anni se-
guenti si contano quasi una cinquantina di allestimenti diversi, localizzati perlopiù tra il
1810 e il 1831 (e corroborati anche dalla relativa ricchezza di fonti superstiti). Una ripre-
sa torinese della primavera 1839 diede a Felice Romani il pretesto per polemizzare, sulle
colonne della «Gazzetta piemontese», contro usi e costumi – non solo musicali – dei tem-
pi presenti, lodando l’aurea semplicità della scrittura di Pavesi.
Ai tempi che corrono ci vuole un gran coraggio a presentarsi in tutta l’antica sua semplicità,
quasi una satira della ricercatezza moderna! Alle perpetue contraddanze dei Ricci e alle bar-
bariche suonate d’oltremonte, succedere la schietta melopea del Pavesi e le soavi melodie
italiane! alla bizzarria la ragione, al falso il vero, alla storpiatura la naturalezza, allo strepito
il canto!... Sarebbe lo stesso che offerire una Vergine di Raffaello agli estimatori delle odier-
ne Marie Stuarde, una canzone del Petrarca ai devoti del Byron, una proposizione limpida e
chiara agli amatori del misticismo germanico. Ci vuole un bel coraggio davvero! Per rap-
presentare il Ser Marc’Antonio sarebbe mestieri risuscitare gli attori e i cantanti di prima;
converrebbe far rinascere le Gafforini e le Marcolini, i Degrecis e i Barilli, i Viganoni ed i
Bianchi di un tempo; bisognerebbe non avere le orecchie sì dolcemente scosse dalle trombe
e dai timpani, e accontentarsi delle voci non sopraffatte dagli stromenti; sarebbe d’uopo, in
una parola, far retrocedere gli uditori di un mezzo secolo circa. E che importa a noi, creatu-
re del progresso, che la musica esprima la parola, che s’informi delle passioni, che scenda al
cuore e lo mova, purché ci diverta, ci lusinghi l’orecchio, e ci faccia saltare sopra i sedili? Che
importa a noi che quel cantante distuoni, purché gridi forte? che quell’attore sia esagerato,
purché si dimeni pel palco? che tradisca il carattere del personaggio, purché trilli e
gorgheggi?
– E perché dunque l’impresario ha voluto scegliere questa anticaglia di Ser Marcantonio?
– Puritani del progresso, perdonategli. Egli ha inteso di farvi uno scherzo: ha voluto se-
guire i capricci e le bizzarie della moda, che governa come vuole questi anni benedetti in
cui viviamo. Non riconduce ella le antiche usanze? non riveste i menti delle barbe del
medio evo? non acconcia le teste alla renaissance? non prepone il gotico al greco e al ro-
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UNA VIA DONIZETTIANA PER L’OPERA COMICA
Giulia Grisi, Luigi Lablache, Mario (pseudonimo di Giovanni Matteo de Candia) e Luciano Fornasari
interpreti di Don Pasquale (III.6). Londra, Covent Garden, 1843. Incisione.
119
PAOLO FABBRI
mano? non fabbrica i mobili e gli utensili alla rococò? Ser Marcantonio pertanto vi è da-
to come un’immagine del secolo scorso, come la rappresentanza di un’antica fattura, co-
me il rococò della musica e della poesia. E qualcuno di voi, se non erro, lo accolse come
una vecchia memoria, lo che vuol dir quasi, come una novità. Infatti gli scrittori di dram-
mi buffi, qual era l’Anelli, autore del Ser Marcantonio, sono spariti dalla superficie della
terra teatrale: ai tempi di lui badavasi ancora alla lingua ed al verso convenienti al gene-
re comico; e il melodramma giocoso, a malgrado dei difetti indivisibili dell’architettura
del componimento, era una satira dei costumi d’allora, felicemente cancellati dai costu-
mi d’adesso. Povero Anelli! come interessarsi ai caratteri del suo dramma, ora che quei
caratteri più non esistono? dove più ritrovare un vecchio rimbambito, che deliri d’amo-
re? Una giovane furba che si prenda gioco di un amante abbindolato da lei? un intri-
gante che si finga amico e benevolo per raggirare maggiormente il buon uomo che in lui
si fida? nipoti insensati che per un capriccio di amore tengano mano a spogliare gli zii?
Per quanto anche ad altri suoi titoli non fosse affatto mancato il successo, Ser Mar-
cantonio fu l’unica opera di Pavesi a non essere travolta dalla valanga rossiniana. Data la
frequenza con cui essa apparve su questo o quel palcoscenico fino a tutti gli anni Venti del-
l’Ottocento, si può ipotizzare una conoscenza diretta di tale titolo da parte di Donizetti. A
dire il vero, il compositore ne sfiorò addirittura una tarda ripresa, a Vienna, nell’estate-au-
tunno 1842: dunque, poco prima che gli venisse l’idea di un suo aggiornato rifacimento.
Ser Marcantonio venne infatti riproposto allo Hoftheater a partire dal 28 agosto, con re-
pliche per tutto autunno. Donizetti aveva lasciato Vienna quasi due mesi prima (il 9 luglio
annunciava per due giorni dopo la sua partenza in treno per Parigi), e dunque non poté
assistere a nessuna di quelle recite. È però pensabile che fosse a conoscenza del cartellone
di una stagione così vicina, o addirittura che le sue prove fossero già iniziate. Certo è che,
ancora nel 1842, il vecchio Ser Marcantonio di Pavesi era sì un’opera di più di trent’anni
prima, e però nient’affatto morta e sepolta: come del resto l’ironico elzeviro di Romani nel
1839 faceva intendere.
Il tipo del vecchio amoroso era stato a suo tempo portato in scena nella commedia
omonima di Donato Giannotti (scritta tra il 1533 e il 1536), che a ritroso rimandava al
Mercator plautino: e nel Cinque-Seicento la maschera del Magnifico ne aveva mantenuto
i tratti fondamentali. Più che da tale tradizione, al professor Anelli l’idea del soggetto
forse provenne da un più recente modello, vale a dire L’hypocondre, ou La femme qui ne
parle point, commedia del 1733 di Jean-Baptiste Rousseau (1670-1741), già servita come
base per libretti d’opera (il «melodramma buffo» di Carlo Defranceschi Angiolina, o sia
Il matrimonio per susurro, musicato da Salieri e presentata Vienna nell’autunno 1800; la
farsa di Giuseppe Foppa Dritto e rovescio, data a Venezia per l’Ascensione 1801 con musi-
ca di Gardi). Si trattava di una profonda rielaborazione di una precedente commedia
inglese di Ben Jonson intitolata Epicoene, or The Silent Woman, rappresentata nel 1609.
Oltre un secolo dopo, un gentiluomo inglese (un certo «Mr. D.») l’aveva tradotta in fran-
cese e sottoposta a Rousseau perché la mettesse in versi: il che era avvenuto, ma con note-
voli modifiche dell’impianto generale, in modo da renderla consona ai gusti del tempo.
Nonostante ciò, «M[onsieur] D. L.» cui Rousseau l’aveva inviata perché l’avviasse al pal-
coscenico della Comédie, la respinse. La commedia ebbe il suo debutto postumo solo nel
1761, a Bruxelles, dove Rousseau era morto: già nel 1751 comunque era stata diffusa
almeno a stampa.
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UNA VIA DONIZETTIANA PER L’OPERA COMICA
La vicenda la si può riassumere avvalendosi di un passo della lettera con cui Rous-
seau, il primo marzo 1734, replicava alle censure di «M. D. L.»: «il s’agit d’empêcher un
vieux fou de faire un sot mariage, et de frustrer un héritier légitime de sa succession». Il
vecchio che vuol prender moglie è il barone Morose, un ipocondriaco che detesta suoni e
rumori a causa di un trauma giovanile (o per pura misantropia). Il compito di procurargli
la promessa sposa è stato da lui affidato al barbiere tuttofare Cigale, cui Leandre ha pre-
sentato una giovane vedova uscita di convento e pressoché muta, Androgine. Leandre è
l’unico nipote di Morose: se questi avesse eredi più diretti (ad esempio, un figlio), sareb-
be destinato a perdere l’eredità dello zio, e con essa la possibilità di sposare l’amata Lu-
cinde. Morose è entusiasta di una donna tanto taciturna e di nessuna pretesa. Appena con-
cluso il contratto nuziale, Androgine però si rivela più eloquente di un avvocato, e scintil-
lante come una precieuse: tutto ciò, insieme ai progetti di spese minacciati, faranno quasi
impazzire il povero Morose, disposto a tutto pur di sbarazzarsene. In questo lo aiuteran-
no il nipote, ed Eutrapel: il primo ne avrà in cambio il consenso a sposare l’amata Lucin-
de; l’altro riuscirà a unire sua sorella Clarice col di lei giovane innamorato. Quest’ultimo
altri non è che Androgine, mascheratosi da donna su consiglio di Leandre per far passare
a Morose l’estro di sposarsi per davvero.
Nelle sue linee generali, la vicenda di Ser Marcantonio ripercorre sostanzialmente
quella di L’hypocondre, ma: allontanandosene nella minuta condotta e negli espedienti,
facendo confluire in un unico personaggio-motore (Tobia) quello che invece è distribui-
to in più d’uno (Cigale, Eutrapel, Leandre), e ovviamente rifiutando l’ambiguità erotica
del travestito (addirittura corteggiato da due bellimbusti guasconi, in scene che Anelli tra-
scura) tipica del teatro cinque-secentesco, che Rousseau aveva ereditato direttamente
dalla sua fonte.
Nel passaggio da Ser Marcantonio a Don Pasquale, il lavoro librettistico di Ruffini e
Donizetti tenne conto in generale e – spesso – anche in dettaglio, di quanto Anelli aveva
fatto. Nel complesso, il soggetto è identico: un vecchio che decide inopinatamente di am-
mogliarsi, la burla esemplare del falso matrimonio con una finta semplice che si rivelerà
dispotica e irrefrenabilmente vitale appena siglato il patto nuziale, i tentativi del marito
pentito per sbarazzarsene. Sono però significative le differenze. Mi limito a sottolineare:
121
PAOLO FABBRI
Frontespizio dell’edizione staccata della Serenata di Ernesto tratta da Don Pasquale (III.6).
Incisione da un disegno di Celestin Nanteuil.
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UNA VIA DONIZETTIANA PER L’OPERA COMICA
Il libretto di Anelli, insomma, mette in scena una trama burlesca tipica dell’opera
comica tardo-settecentesca: intrighi, buffonerie, mascheramenti e finte identità (Tobia [il
futuro Malatesta] che si traveste da Notaio, il servo di Marcantonio che si spaccia per
Giudice). Anche la crudeltà della beffa, o le maliziose allusioni nell’atto primo alla vigoria
fisica di quel pezzo di Marcantonio, affondano le loro radici nel mondo letterario e
teatrale dello scorcio ultimo del Settecento. Ruffini e Donizetti se ne sbarazzano, dando
alla vicenda una verosimiglianza ed una sfaccettata finezza psicologica che l’originale, più
interessato al meccanismo che ai suoi protagonisti, non poteva avere.
123
Scena dalla rappresentazione di Don Pasquale (III.6). Londra, Her Majesty’s Theatre, 29 giugno 1843.
124
Giorgio Pagannone
«QUEL VECCHIONE RIMBAMBITO»:
CONFLITTI GENERAZIONALI IN DON PASQUALE
1. Don Pasquale poteva essere un’opera buffa perfetta. Il soggetto è uno dei più classici del
genere: il babbione buggerato. Eppure non è un’opera buffa, o meglio è qualcosa di più di
un’opera buffa. È una riflessione lucida, disincantata, spietata sulla vecchiaia e sul contrasto
generazionale. Il mito dell’eterna giovinezza, il desiderio di ringiovanire (sposare una donna
giovane, fare tanti figli) del protagonista si schianta miseramente contro la sberla di Norina
nel terzo atto. Un atto estremo, inusitato, che colpì profondamente il pubblico, ma necessa-
rio, quasi terapeutico.1 È come un risveglio – amaro e un tantino sinistro – da un sogno. Lo
schiaffo (assente nella fonte, Ser Marcantonio di Anelli-Pavesi) è il sintomo di una forzatura,
di una frattura interna al genere comico, e determina un ribaltamento dei valori in gioco. Se
stiamo al dualismo pirandelliano tra comicità (‘percezione’ del contrario) e umorismo (‘senti-
mento’ del contrario), Don Pasquale è un’opera decisamente umoristica, non comica. Il
richiamo a Pirandello non è casuale: c’è una stretta analogia tra la celebre ‘vecchina’ e l’ar-
zillo Don Pasquale; giova citare l’intero passo nel quale Pirandello definisce l’umorismo:
Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e
poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che
quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe esse-
re. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il
comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e
mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come
un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che,
parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del mari-
to molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto
la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piutto-
sto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sen-
timento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico.2
————
1
Non è l’unico ceffone nella storia dell’opera: anche Susanna picchia Figaro (Le nozze di Figaro, IV.11); ma si
tratta, lo dice Figaro stesso, di «schiaffi graziosissimi», lontani mille miglia da quello di Norina.
2
LUIGI PIRANDELLO, L’umorismo e altri saggi, Firenze, Giunti, 1994, p. 116 (ed. originale. L’umorismo,
Lanciano, Carabba, 1908; seconda edizione riveduta, Firenze, Battistelli, 1920).
125
GIORGIO PAGANNONE
Ecco di rimando una descrizione del primo Don Pasquale parigino, relativa al suo incon-
tro con la finta sposina:
Per ricevere questo angelo di giovinezza e bellezza, Don Pasquale si è agghindato nel più
stravagante dei modi: sul suo capo troneggia una superba parrucca rosso mogano arriccia-
ta sino all’inverosimile; una marsina verde dai bottoni d’oro cesellati, le cui falde non riesco-
no a unirsi a causa dell’enorme rotondità del ventre, gli conferisce l’aspetto d’un mostruo-
so scarabeo che vorrebbe invano aprire le ali per spiccare il volo. Con l’atteggiamento più
galante, gli occhi sgranati, la bocca a mo’ di cuore, avanza per afferrare la mano della ragaz-
za, la quale getta un grido di spavento come morsa da una vipera.3
Niente di più ridicolo di un vecchio impomatato che gioca a fare il cascamorto (tema sem-
pre attuale). Eppure, man mano che lo scherzo ai danni di Don Pasquale si fa pesante, la
comicità comincia a tramutarsi in umorismo. Lo schiaffo di Norina è l’atto culminante del
processo, la peripezia che capovolge definitivamente la prospettiva e fa scattare il ‘senti-
mento del contrario’. Il ceffone serve proprio a spazzare via il filtro, a colmare il distacco
che di solito separa lo spettatore dalla vicenda rappresentata, la comicità dall’umorismo. Si
finisce quindi per solidarizzare con la vittima, non coi carnefici; lo spettatore viene indot-
to alla compassione, viene coinvolto emotivamente. E l’emozione, come afferma Bergson,
è «il maggiore nemico del riso».4 Il pubblico dell’epoca ebbe una reazione di sconcerto alla
scena dello schiaffo. Bastino un paio di giudizi espressi in riviste francesi all’indomani della
prima parigina dell’opera (Théâtre Italien, 3 gennaio 1843) per saggiare l’umore generale:
Uno schiaffo! Uno schiaffo a un vecchio, se pure assestato dalla più leggiadra e graziosa
mano femminile, nondimeno è cosa di per sé molto poco comica. Così, il compositore ha
messo delle lacrime serie, vere, negli accenti di disperazione del marito sì oltraggiato.5
Mi sembra che la bella vedova qui manchi completamente di buon gusto e di misura. Ella
chiama suo marito ‘buffone’: passi pure ciò; ma degli schiaffi a un uomo di settant’anni!
Davvero gli schiaffi sono di troppo, Madame.6
————
3
Il passo è tratto da WILLIAM ASHBROOK, Donizetti. La vita, Torino, EDT, 1986, p. 160. Il testo originale in fran-
cese si trova nella rivista «La Presse» del 9 gennaio 1843 ed è firmato da Théophile Gautier. Lo si può leggere anche
nel volume Le prime rappresentazioni delle opere di Donizetti nella stampa coeva, a cura di Annalisa Bini e Jeremy
Commons, Roma-Milano, Accademia Nazionale di Santa Cecilia-Skira, 1997, p. 1119 (da qui: BINI-COMMONS). Tutte
le recensioni citate in questo saggio, salvo diversa indicazione, sono tratte da questo volume. Le traduzioni dal fran-
cese sono di chi scrive.
4
HENRI BERGSON, Il riso. Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1982, p. 5 (ed. originale: Le rire: essai
sur la signification du comique, Paris, Alcan, 1900). Sulla teoria di Bergson si diffonde FRANCESCO ANSELMO ATTARDI,
«Don Pasquale» di Gaetano Donizetti, Milano, Mursia, 1998, pp. 93-96.
5
«Le Moniteur Universel», 10 gennaio 1843 (BINI-COMMONS, p. 1139 sg.).
6
«Le National», 10 gennaio 1843 (BINI-COMMONS, p. 1136).
7
È quanto afferma PIERO RATTALINO (Il processo compositivo nel «Don Pasquale» di Donizetti, «Nuova rivista
musicale italiana», IV, 1970, pp. 51-68; 263-280: 263), sulla base dell’epistolario Ruffini spulciato da ALFONSO LAZZARI,
Giovanni Ruffini, Gaetano Donizetti e il «Don Pasquale», «Rassegna nazionale», XXXVII, vol. CCV, 1 e 16 ottobre 1915.
126
«QUEL VECCHIONE RIMBAMBITO»: CONFLITTI GENERAZIONALI IN DON PASQUALE
era necessaria alla drammaturgia dell’opera, ma fu osteggiata dalla critica, nonché dagli
stessi cantanti.8
Insomma: Donizetti, scegliendo un soggetto arcinoto, spiazza le attese del pubblico.
Non lo trasporta in un immaginario e gioioso mondo di maschere, ma lo catapulta nel
‘reale’; o meglio, gliene fornisce un’immagine deformata dall’umorismo, intrisa di malin-
conia e di «ilare rassegnazione».9 Le prospettive e gli equilibri del genere comico vengo-
no così ribaltati. Come afferma un recensore parigino, «il colore drammatico di Don
Pasquale è di una ‘buffoneria’ piuttosto triste».10
4 Larghetto I Fl Ott
Vl I
I Ob I Cl
pizz.
Vl II Vl II
Vle Fg, Vle
pizz.
Cb Cb
————
8
Bastino un paio di recensioni ad illustrare lo sconcerto del pubblico nel vedere personaggi in carne ed ossa, e
non le solite marionette o maschere: «Questi abiti [moderni] segnalano allo spettatore che lo si pone di fronte alla vita
reale ed attuale; in questo modo si fa fatica a rendersi partecipe del complotto di un medico, di un nipote e di una gio-
vane vedova, disposti ad infliggere ogni sorta di umiliazioni a un vecchio impazzito, ma brav’uomo in fondo, che ha la
fantasia di prender moglie» («Le Journal des Débats», 6 gennaio 1843; BINI-COMMONS, p. 1109); «Ci rammarichiamo
soltanto che l’azione si svolga nella nostra epoca; sarebbe più opportuno che pièces di questo tipo non avessero alcuna
data e si svolgessero in un mondo immaginario […] a nostro avviso, il solo torto che si possa rimproverare al Don
Pasquale di Lablache è di essere troppo reale» («Revues des Deux Mondes», 1843; BINI-COMMONS, p. 1146).
9
CARL DAHLHAUS, Drammaturgia dell’opera italiana, in Storia dell’opera italiana, a cura di Lorenzo Bianconi e
Giorgio Pestelli, VI, Torino, EDT, 1988, pp. 79-150: 150. Sul pensiero di Dahlhaus sull’opera torneremo in conclusione.
10
«Revue et Gazette Musicale de Paris», 8 gennaio 1843 (BINI-COMMONS, p. 1116). Gavazzeni – e siamo nel
Novecento – è ancora più perentorio: «Don Pasquale non è un’opera comica, è un dramma profondamente malinco-
nico» (GIANANDREA GAVAZZENI, Il sipario rosso, Torino, Einaudi, 1992, p. 111). La testimonianza di Gavazzeni è inte-
ressante perché è quella di un addetto ai lavori, di un direttore che tenta di sovvertire sul campo (si tratta di una nota
di diario relativa ad una rappresentazione napoletana degli anni ’50) una cattiva tradizione interpretativa, che tende-
va ad accentuare i toni farseschi dell’opera.
11
Gli esempi musicali sono tratti dalla partitura d’orchestra (GAETANO DONIZETTI, Don Pasquale, Milano,
Ricordi, s.a. [rist. 1971], P. R. 36), il luogo viene citato con l’indicazione di atto, la cifra di richiamo e il numero di
battute che la precedono o seguono, e il numero di pagina.
127
GIORGIO PAGANNONE
3. Il conflitto generazionale è insito nel Don Pasquale.14 Lo stesso libretto ci dice che Don
Pasquale è un «vecchio celibatario, tagliato all’antica», Norina una «giovane vedova», Ernesto
«giovine entusiasta». Malatesta non ha appellativi anagrafici, ma caratteristiche tali («uomo
di ripiego, faceto, intraprendente») da escludere che sia troppo avanti con gli anni: è facile
immaginare che sia più vicino alla generazione dei due giovani, che non a quella di Don
————
12
L’identificazione di Donizetti in Don Pasquale è stata già suggerita da Barblan, sulla base di precise circo-
stanze biografiche (l’interesse di Donizetti per una delle giovani figlie del marchese Sterlich, risalente all’estate 1842,
quando egli si trovava a Napoli): «la documentazione più significativa di questo amore impossibile (per Caterina o
per Giovanna?) mi sembra di poterla scorgere nel Don Pasquale che Donizetti compose a Parigi fra l’ottobre e il
dicembre successivi all’incontro di Napoli. Quello che sempre più mi ha colpito nel Don Pasquale è non tanto il ritor-
no di Donizetti al taglio dell’opera napoletana dopo le esperienze francesizzanti, quanto la profonda e sofferta uma-
nità dei protagonista che lo distacca da tutte le opere buffe precedenti e ne fa l’annunciatore della triste solitudine del
futuro Falstaff. Direi che nel lamento: “È finita, Don Pasquale”, mi sembra scorgere un tocco autobiografico dei
Donizetti quarantacinquenne, disperatamente stanco, con la famiglia distrutta e la casa deserta, che per primo trovò
il coraggio di sorridere di se stesso pensandosi a fìanco di una delle due aristocratiche giovanette che lo avevano accol-
to e ammirato a Napoli: e avevano anche gradito le sue musiche e i suoi fiori» (GUGLIELMO BARBLAN, Donizetti a
Napoli, «Rassegna musicale Curci», XXI/2, 1968, pp. 81-87: 87).
13
Alcuni hanno interpretato la melodia di Norina come un accenno di compassione, di pietà per il vecchio (cfr.
WILLIAM ASHBROOK, Donizetti. Le opere, Torino, EDT, 1987, p. 249). Si tratta comunque di compassione sospetta,
divertita, beffarda: è come se Norina facesse uno sgambetto a Don Pasquale, e poi lo aiutasse a rialzarsi, tra mille scuse.
14
Anche Ashbrook evidenzia questo aspetto (a scapito della satira sociale, che egli ritiene invece marginale):
«Don Pasquale gioca sul contrasto fra mentalità moderne e antiquate della borghesia urbana» (Ibid., p. 246).
Rattalino, da par suo, conferma questa lettura, ed insiste sulla differenza d’approccio tra librettista e compositore: «La
preoccupazione finanziaria è certamente una componente dello stato d’animo di Don Pasquale anche nell’opera […]
ma, al contrario che nel libretto, non è la componente principale: la paura prima di Don Pasquale è di perdere il domi-
nio sugli altri» (RATTALINO, Il processo compositivo cit., p. 266).
128
«QUEL VECCHIONE RIMBAMBITO»: CONFLITTI GENERAZIONALI IN DON PASQUALE
Pasquale. Egli peraltro chiama ripetutamente «vecchio» (I.5; III.4) Don Pasquale. Norina da
par suo aggiunge epiteti meno generosi: «vecchione rimbambito» (I.5), «baggiano», «gran
babbione» (II.3), «uom decrepito, pesante e grasso», «buffone» (II.5), «bel nonno» (III.2).
Questo conflitto, che musicalmente si evidenzia nella capacità o meno di cantare, ci offre
una chiave di lettura fondamentale. Quest’opera è intrisa di lirismo, di cantabilità. Che sia
impostura (Malatesta, «Bella siccome un angelo», atto I), finzione (Norina, «Quel guardo il
cavaliere», atto I), sfogo emotivo (Ernesto, «Sogno soave e casto», atto I; «Cercherò lontana
terra», atto II) tutti cantano, tranne Don Pasquale (che anzi è talvolta costretto a fare da spet-
tatore). Questi si esprime di norma o col sillabato buffo, o col semplice parlato. Il canto, oltre
ad essere una prova fisica, ardua per un vecchio, ha la capacità di bloccare momentanea-
mente lo scorrere del tempo, di imporre anzi un proprio tempo, più disteso di quello crono-
metrico; in breve, è un atto di libertà, soggettivo. Il parlato asseconda lo scorrere del tempo,
il veloce sillabato (vedi ad esempio la cabaletta del duetto con Malatesta, atto III) lo precipi-
ta. In entrambi i casi, si evidenzia un rapporto oggettivo, meccanico, subordinato, col tempo.
I due sistemi, canto e parlato, vengono spesso in contrasto; la dissociazione, la polifo-
nia ritmica che ne deriva è la rappresentazione stessa di un non-dialogo, di un’incomuni-
cabilità di fondo. Abbiamo già visto il caso del duetto Norina-Don Pasquale. Aggiungiamo
l’adagio del duetto Ernesto-Don Pasquale nell’atto I («Sogno soave e casto»), e lo stupen-
do largo concertato (quartetto) nel finale dell’atto II («È rimasto là impietrato»): un pezzo
che all’epoca fu giudicato quasi all’unanimità il migliore dell’opera. (Ma potremmo risali-
re fino all’inizio dell’opera, dove si crea un effetto ironico dal contrasto tra il motivo
cantabile dell’orchestra e il piatto declamato di Don Pasquale – «Son nov’ore»; il vecchio
controlla nervosamente l’ora, del tutto assorbito dal ‘tempo cronometrico’.)
Nel largo del finale secondo Don Pasquale è addirittura solo contro tutti, e viene inon-
dato dal canto degli altri personaggi, fino quasi ad «affogare». La prima frase esprime già al
massimo grado il dissidio, con il canto largo dei tre contrapposto ai balbettii di Don Pasquale:
21 Andante 3
3
Norina 3 3
Ernesto 3
3 3 3
8
(Ve gli, o so gni non sa be ne.
Dottore 3 3
Don Pasquale
129
GIORGIO PAGANNONE
Nella ripetizione della melodia accade qualcosa di nuovo: Don Pasquale prova ad unirsi al
canto generale, ad entrare in simpatia e in sintonia con il resto dell’allegra compagnia. Il ten-
tativo fallisce però sul nascere, perché la musica, quasi infastidita da questa intrusione, vira,
modula, si avvia velocemente alla conclusione, senza dare ulteriore spazio al canto:
Norina
3 3 3 3
Ernesto
3 3 3
3
8
or l’in tri co, man co ma le, in co min cio,
Dottore 3
3
Don Pasquale 3 3 3
3 3
MI: V7 I ii
fa : V 9 i
Le distanze vengono peraltro ristabilite nella coda, dove Don Pasquale torna a sillabare
meccanicamente il testo, seppur con qualche svolazzo:
Don Pasquale
3 3 3 3 3 3
3 3
3 3 3 3
mar, ba da ben, ba da ben, ba da ben, ch’è una don na a far, a far tremar a far tremar,
Si tratta dunque di un punto chiave della vicenda, perché Don Pasquale realizza di
aver perso il controllo della situazione, il dominio sugli altri (su Norina, che credeva una
moglie ingenua e sottomessa; su Ernesto, che credeva di buggerare e che invece ora gli
ride in faccia; su Malatesta, che credeva suo amico e complice).
130
«QUEL VECCHIONE RIMBAMBITO»: CONFLITTI GENERAZIONALI IN DON PASQUALE
Lo sfogo della stretta successiva («Son tradito») tenta di riaffermare questo dominio:
«fuori di sé» dalla rabbia (ma la partitura autografa reca la didascalia «scoppia»), egli
attacca un motivo velocissimo, uno scioglilingua di rara difficoltà declamatoria:
Vivace
Don Pasquale
Son tra di to, son tra di to, son tra di to, bef feg gia to, bef feg gia to,
È come se Don Pasquale, fallita la prova della cantabilità, del rallentamento del tempo,
tentasse la via opposta, quella dell’estrema accelerazione, ai limiti delle facoltà umane.
L’effetto è comico, perché l’arditezza esecutiva stride con la tarda età del protagonista. A
questo punto Don Pasquale è come un pugile suonato che, in un ultimo tentativo di rea-
zione, comincia a dare pugni in aria nella speranza (vana) di cogliere il bersaglio. La musi-
ca che viene dopo, con le frasi che si susseguono ad incastro, secondo il congegno itera-
tivo tipico del ‘crescendo rossiniano’, suona come ulteriore beffa.
Il congegno iterativo è infatti un «esilarante girotondo sonoro»,15 un caos organizza-
to, una fragorosa sospensione del discorso, una paralisi della dimensione mimetica del
dramma. È un meccanismo che nell’opera buffa spesso scatta in situazioni parossistiche,
che sospendono il dramma e lo proiettano in un turbinio sonoro. È la risposta più bef-
farda che i tre in combutta tra loro (e con essi il gran burattinaio, Donizetti) potessero
dare alla tirata di Don Pasquale, perché è una non-risposta, una solenne canzonatura
dello sfogo plateale del vecchio. Se stiamo al libretto, Malatesta cerca di consolare Don
Pasquale, Norina ed Ernesto dialogano fra loro, e si scambiano per la prima volta parole
d’affetto: ma chi è in grado di cogliere le parole in una simile girandola sonora? Ciò che
conta è che essi replicano con e nel crescendo, e che questo infernale meccanismo, al
secondo giro, finisce per fagocitare anche Don Pasquale. L’ira del vecchio viene così neu-
tralizzata, con salace ironia.
Qui il comico raggiunge il punto più alto, ed è tanto più necessario quanto più fa
risaltare, per contrasto, il momento amaro dello schiaffo, del definitivo risveglio nel terzo
atto.
4. Se il tema del conflitto generazionale isola Don Pasquale nei confronti degli altri per-
sonaggi, una lettura trasversale, condotta in base ad un altro concetto-chiave della comi-
cità, la ‘rigidità’, vede invece Don Pasquale e il nipote Ernesto contrapposti a Norina e
Malatesta. Secondo Bergson, il meccanismo della comicità scatta in presenza di una ‘rigi-
————
15
Il meccanismo è egregiamente descritto ed analizzato da LORENZO BIANCONI, «Confusi e stupidi»: di uno stu-
pefacente (e banalissimo) dispositivo metrico, in Gioachino Rossini (1792-1992). Il testo e la scena, a cura di Paolo
Fabbri, Pesaro, Fondazione Rossini, 1994, pp. 129-161.
131
GIORGIO PAGANNONE
Cham (Amédée-Charles-Henri de Noé). Luigi Lablache ritratto davanti alla locadina del Théâtre
Italien. Caricatura apparsa nel periodico «L’Illustration» del 14 ottobre 1848.
132
«QUEL VECCHIONE RIMBAMBITO»: CONFLITTI GENERAZIONALI IN DON PASQUALE
dità’ nel personaggio comico, ove la vita (e il buon senso) richiederebbero un comporta-
mento flessibile e adattabile. Il personaggio, con il suo agire in modo meccanico e incon-
scio, o in ogni caso non naturale, entra in contrasto con la società (qui, con gli altri per-
sonaggi), che lo ‘punisce’ con il riso.16
Non c’è dubbio che sia Don Pasquale sia, a suo modo, Ernesto siano personaggi rigi-
di, poco flessibili, al confronto di Norina e Malatesta, che invece hanno una camaleonti-
ca capacità di metamorfosi e di adattamento. È uno scontro tra mentalità profondamen-
te diverse, uno scontro che pone Ernesto – geneticamente, se non anagraficamente – più
vicino a Don Pasquale che ai suoi complici.
Consideriamo innanzitutto la musica. Di Don Pasquale abbiamo già evidenziato l’in-
capacità di cantare; è peraltro significativo che, negli unici due luoghi in cui egli potreb-
be intonare una melodia degna di questo nome, le cabalette nei duetti con Malatesta (atto
I, «Un foco insolito»; atto III, «Aspetta, aspetta / cara sposina»), si lasci imbrigliare nella
rigida, meccanica reiterazione di uno stesso modulo ritmico-musicale (tecnicamente, si
tratta di isoritmia):17
A Vivace
Don Pasquale
B Moderato mosso
Don Pasquale
La rigidità è peraltro accentuata dalla ricorrenza motivica a distanza: Don Pasquale, no-
nostante le vicissitudini trascorse, nel terzo atto è incapace di cantare in modo diverso, di
assumere un comportamento flessibile. La sua rigidità genera il riso (umoristicamente, il
sorriso) perché contrasta con il ‘flusso’ (l’élan) impetuoso degli avvenimenti.
————
16
«È comico qualunque individuo che segua automaticamente il suo cammino, senza darsi pensiero di pren-
dere contatto con gli altri. Il riso è là per correggere la sua distrazione e per svegliarlo dal suo sogno [….] Sempre un
po’ umiliante per colui che ne è l’oggetto, il riso è veramente una specie di castigo sociale» (BERGSON, Il riso cit., p.
89).
17
Sui rapporti tra verso e musica, cfr. FRIEDRICH LIPPMANN, Versificazione italiana e ritmo musicale. I rapporti
tra verso e musica nell’opera italiana dell’Ottocento, Napoli, Liguori, 1986. La melodia di «Un foco insolito» non è ori-
ginale: Don Pasquale la ‘prende in prestito’ da un giovane amoroso (cfr. Gianni di Parigi, «Tutto qui spiri – gioia e
allegria», cavatina di Gianni, atto I). (N.B. la melodia è tratta dalla versione originale di Gianni di Parigi, attestata dal-
l’autografo; nello spartito Ricordi del 1844 la melodia di Gianni appare del tutto diversa; essa fu cambiata «per scon-
giurare qualsiasi sospetto di autocitazione»; cfr. PHILIP GOSSETT, Introduzione a GAETANO DONIZETTI, Don Pasquale.
Facsimile dell’autografo, Milano-Roma, Ricordi-Accademia di Santa Cecilia, 1999, pp. 24-25).
133
GIORGIO PAGANNONE
riassume felicemente l’opera. L’adagio [i.e. Andante mosso] rappresenta l’amore spontaneo
[naïf] e passionale; l’allegro [i.e. moderato] la sottigliezza e l’astuzia: alleanza rara e però
necessaria all’opera buffa, se si vuole rendere la musica varia, e il dramma interessante.21
L’ouverture si compone di due motivi principali, tratti dall’opera. Inizia infatti con il
tenero motivo della serenata di Ernesto (al violoncello), quindi prosegue con il motivo
civettuolo della cabaletta di Norina («So anch’io la virtù magica»). Dunque, lui incarna
l’autenticità, lei la finzione; lui il sentimento, lei la frivolezza, lui l’amore puro, lei l’amo-
re interessato. Se si vuole, l’ouverture fa le veci del duetto che non c’è, quello tra Norina
ed Ernesto, marcando la distanza, l’incompatibilità morale tra i due. Fissa in maniera
diretta un conflitto che nell’opera viene solo adombrato, suggerito, ma mai affrontato e
sviluppato.22
————
18
RATTALINO, Il processo compositivo cit., p. 57.
19
Nell’aria del secondo atto («Cercherò lontana terra») Donizetti aveva inizialmente previsto l’uso dell’arpa,
che avrebbe accentuato – forse troppo – il carattere elegiaco di Ernesto (Ibid., p. 57 sg.). L’uso della tromba sembra
invece un ripensamento, un’idea successiva alla prima stesura. Secondo Rattalino, la tromba – «una tromba che non
squilla più, ma che, grazie alla recente adozione dei pistoni, può dolorosamente cantare» – incarna perfettamente le
«aspirazioni eroiche frustrate» di Ernesto (Ibid.). L’assolo di tromba potrebbe però alludere anche alla partenza immi-
nente di Ernesto: un’allusione fonica abbastanza esplicita alla cornetta del postiglione, all’idea cioè dell’esule che fa
le valigie, monta in carrozza e se ne va solingo. Una tromba carica di malinconia romantica, di dolente nostalgia (rin-
grazio Lorenzo Bianconi per avermi confidato questa suggestiva interpretazione).
20
Non a caso Malatesta ‘dimentica’ di avvisare Ernesto del raggiro ai danni dello zio. Si tratta di un lapsus rive-
latore. Se il Dottore avesse davvero pensato che Ernesto rappresentava un potenziale pericolo per la riuscita della
burla, lo avrebbe senz’altro informato. Non lo fa perché lo reputa innocuo; e infatti, quando Ernesto irrompe inopi-
natamente in casa di Don Pasquale, bastano due parole dette di soppiatto per rabbonirlo.
21
«La France Musicale», 8 gennaio 1843 (BINI-COMMONS, p. 1114).
22
Non fa testo il breve, tenero notturno nel terzo atto, dove Ernesto e Norina cantano ‘a due’, ma in funzione
della burla (‘fingono’ di essere amanti). Essi sanno che Don Pasquale li sta ascoltando; la loro melodia suona anti-
quata, inautentica. Il fatto che questo brano derivi dal duettino iniziale di Caterina Cornaro – «Tu l’amor mio, tu l’i-
ride» – non deve trarre in inganno. Il confronto tra i due pezzi evidenzia più le differenze che le analogie.
Innanzitutto, bisogna considerare che in Caterina Cornaro il duettino si situa proprio all’inizio del dramma, dove
134
«QUEL VECCHIONE RIMBAMBITO»: CONFLITTI GENERAZIONALI IN DON PASQUALE
5. Don Pasquale è anche una satira, una rappresentazione caricaturale del matrimonio,
fatta dal punto di vista dell’uomo che ne subisce le infauste conseguenze. Riportiamo a
questo proposito l’osservazione arguta di Théophile Gautier, la più bella penna del gior-
nalismo teatrale parigino dell’epoca:
Quanto a noi, se fossimo nei panni del nipote [Ernesto], saremmo un po’ preoccupati per
la verità con la quale Norina recita la parte di giovane donna spendacciona, irascibile, che
dà gli appuntamenti dietro il giardino.23
Dunque: un pessimo affare (o, per dirla con Don Pasquale, un «pessimo consorzio»).
Anche per Ernesto.24
Che Norina sia il personaggio dominante, lo dimostra la struttura stessa dell’opera: a
lei sola è concesso il privilegio di presentarsi, nel primo atto, con una cavatina (mentre gli
altri si ripartiscono, più o meno equamente, dei duetti). A lei è affidato il rondò finale con
la morale, al quale gli altri oppongono un mero pertichino di elogio-sottomissione
(«Quella cara bricconcella / lunga più di noi la sa», commentano Malatesta ed Ernesto;
«Sei pur fina, o bricconcella, / m’hai servito come va», ammette rassegnato Don Pasquale).
Come abbiamo già osservato, l’intreccio amoroso è inesistente; la mancanza dell’idil-
lio sentimentale (un idillio impossibile) mette in risalto la civetteria di Norina, e il carat-
tere tragicomico della burla. I due amorosi (Norina ed Ernesto) non cantano un vero
duetto. Norina non spende nemmeno una parola affettuosa per Ernesto nella cavatina,
dove ella è sola e non sa ancora quasi nulla del raggiro ordito da Malatesta: anzi, nell’a-
dagio («Quel guardo il cavaliere») si prende gioco del sentimento amoroso (e dell’uomo
————
prelude ad un matrimonio imminente (inopinatamente interrotto), mentre in Don Pasquale alla fine, dopo che Norina
ne ha combinate di tutti i colori, e dopo che lo spettatore ha potuto constatare l’abissale differenza fra i due amanti.
Poi, la musica. In Caterina Cornaro solo la ‘mossa’ è quasi identica; il pezzo si snoda poi in modo del tutto diverso:
modula alla dominante a conclusione del periodo iniziale, fa le sue belle (e peregrine) modulazioni nella frase di
mezzo, espande la forma dopo la ripresa con una nuova frase di mezzo / frase di chiusura. Si ha davvero l’impressio-
ne che gli amanti vogliano prolungare l’estasi all’infinito. In Don Pasquale, invece, il pezzo è più quadrato, tonalmente
stabile (non si schioda dal La maggiore); i due tentativi di modulazione nella coda – i trilli di Norina sulla parola
«tremo» – stridono con l’eufonia del resto del brano. Questa è, a mio avviso, la spia, la ‘nota stonata’ (guarda caso,
di Norina) che rivela il carattere fittizio del brano (lei, se non lui, ‘gioca’ a fare l’amante, non coglie l’attimo per tuba-
re realmente con il moroso). Altra considerazione. Il notturno era inizialmente più lungo di ben venticinque battute.
Donizetti aveva previsto, dopo la melodia principale, a) un breve battibecco tra Norina (più risoluta) ed Ernesto
(timoroso sull’esito della burla), b) una ripresa finale del tema e c) cadenze ‘a due’ prolungate (cfr. GOSSETT,
Introduzione cit., pp. 31-34). Rattalino afferma che il dialogo tra i due avrebbe introdotto «un elemento nuovo, un
nuovo rapporto tra Norina ed Ernesto, non ancora prospettato in precedenza e che non potrebbe più essere svilup-
pato» (Il processo compositivo cit., p. 273). Sono convinto del contrario: Donizetti espunge un motivo drammatico
superfluo. Lo spettatore è in grado di intuire benissimo la natura del rapporto tra Norina ed Ernesto, non c’è biso-
gno che venga ostentata in un dialogo. Quanto al taglio drastico delle cadenze finali, mi ricollego a quanto detto
prima: il duettino deve essere breve non solo per snellire l’azione scenica, ma anche per dare l’impressione di una reci-
ta, piuttosto che di un reale amoreggiamento (d’altronde, basta poco per abbindolare Don Pasquale).
23
«La Presse», 9 gennaio 1843 (BINI-COMMONS, p. 1120). Si tratta dello stesso articolo citato all’inizio, laddo-
ve l’autore descrive la parrucca rossa, la marsina verde e la bocca a mo’ di cuore di Don Pasquale (vedi nota 3).
24
Non va sottovalutato il fatto che Norina è una «giovane vedova». Possiamo immaginare che sia anche più
grande di Ernesto (seppure di poco). Lo squilibrio tra Norina ed Ernesto deriva anche da lì: Norina è donna giova-
ne ma navigata; Ernesto sarebbe probabilmente destinato a diventare il clone dello zio – un vecchio scapolone – se
non fosse accalappiato, stregato, da questa ‘vedova allegra’. I timori, i dubbi dello zio Pasquale sulla sbandata amo-
rosa del nipote non sono dunque del tutto infondati. Possiamo addirittura pensare la burla del finto matrimonio come
l’immagine, iperbolica sì ma verosimile, di quel che sarà. Tra Norina ed Ernesto.
135
GIORGIO PAGANNONE
in genere), leggendo il racconto di un cavaliere che resta fulminato dallo sguardo di una
donna (inevitabile il confronto con Rosina del Barbiere, che in «Una voce poco fa» dichia-
ra invece di essere stata «ferita» nel cuore da Lindoro). La cabaletta («So anch’io la virtù
magica») è un’ulteriore conferma della natura scaltra di Norina (che non disdegna espres-
sioni forti come «Conosco i mille modi / dell’amorose frodi»). Questa melodia, tutta friz-
zi e lazzi, diventa la sigla, il ritratto stesso di Norina (vedi ouverture).
Una vera maliarda, dunque. (Se Rosina era sia docile che vipera, in Norina l’ambiva-
lenza non si coglie affatto: predomina decisamente la vipera.) Ella non esprime alcun sen-
timento autentico, nemmeno a sé stessa; è un personaggio che fa della finzione una ragio-
ne di vita, un’arma di seduzione e di dominio.
Il resto dell’opera è, per Norina, la naturale conseguenza della filosofia espressa nella
cavatina: prove di recitazione con Malatesta (duetto, atto I); recitazione con minaccia di
schiaffo nell’atto II (terzetto e quartetto); recitazione con schiaffo (duetto con Don
Pasquale, atto III).
Il duetto con Malatesta, ossia con l’uomo più ‘forte’ del gruppo, suo alleato, confer-
ma la posizione di dominio di Norina.25 Si tratta di un duetto senza la sezione lenta cen-
trale: un lungo ‘tempo d’attacco’, dove ha luogo la prova di recitazione («Pronta son, pur-
ch’io non manchi», Maestoso), conduce direttamente alla cabaletta («Vado, corro al gran
cimento», Allegro). Ebbene: dall’inizio alla fine Norina tiene testa al Dottore, è lei che
regge e conduce l’allegra conversazione. Lei dà inizio al duetto, con una melodia incalzan-
te («Farò imbrogli, farò scene»), che Malatesta ripete alla lettera («Solo tende il nostro
imbroglio»); lei conduce la successiva scena della prova («Mi volete fiera?»), in modo così
pressante da lasciare ben poco spazio all’iniziativa di Malatesta (che pure dovrebbe impar-
tirle la lezione). Il dottore prova a darle qualche consiglio («Convien far la semplicetta»),
ma Norina oppone sfacciatamente la sua «natura sùbita, impaziente di contraddizione»
(così viene descritto il personaggio), con una battuta peraltro assente nel libretto, che segna
la regressione dialogica di Malatesta, costretto ad assecondare supinamente la ragazza:
Norina (contraffacendosi)
Dottore
————
25
Anche il duetto tra Figaro e Rosina nel Barbiere segna la netta vittoria della prima donna sul baritono: ma le
modalità (e le proporzioni) sono ben diverse: Figaro ha perlomeno la chance di rifugiarsi nell’a parte, dove commen-
ta salacemente le virtù di Rosina; Malatesta è invece perennemente succube di Norina, ne è l’ombra, l’eco canora.
26
Onore anche alla prima interprete di Norina, Giulia Grisi, che seppe dare al pezzo il giusto colore: «Nel fina-
le [scil. nella cabaletta] del duetto, la signorina Grisi [i.e. Norina] lancia due scale ascendenti in modo meraviglioso;
ella trascina il pubblico con l’energia, la nettezza del tratto; è come un pianoforte dal suono metallico suonato da Liszt
o da Thalberg» («Le Moniteur Universel», 10 gennaio 1843; BINI-COMMONS, p. 1139).
136
«QUEL VECCHIONE RIMBAMBITO»:CONFLITTI GENERAZIONALI IN DON PASQUALE
137
GIORGIO PAGANNONE
La cabaletta conclusiva suggella questo dominio: è di nuovo Norina che attacca, con una
frase di slancio di inaudita violenza, più adatta ad un eroe guerriero che ad una giovane
vedova:26
36 Allegro
Norina 3 3
3 3 3 3 3
3
Va do, cor ro, sì, va do, cor ro al gra ci men to
Dottore
3
sì; cor ria mo, sì, cor riam al gran ci men to,
6. Don Pasquale è un’opera complessa, offre molteplici chiavi di lettura. Un’opera nella
quale Donizetti riesce a tenersi miracolosamente in bilico tra comicità e umorismo, senza
————
27
Nella frase successiva Norina tocca il Do sopra il rigo: abbiamo dunque un’estensione di ben due ottave.
28
La composizione di questa cabaletta fu molto travagliata; solo dopo ripetuti tentativi Donizetti pervenne alla
versione definitiva (cfr. RATTALINO, Il processo compositivo cit., p. 65 sg., e soprattutto GOSSETT, Introduzione cit., pp.
37-45). Le precedenti stesure prevedevano una stretta somiglianza tra l’attacco di Norina e la replica del Dottore. La
soluzione definitiva evidenzia invece il contrasto tra i due (contrasto sanato, a pro di Norina, nella ripetizione della
cabaletta). Rattalino, per giustificare la tesi dell’estraneità di Malatesta all’«entusiasmo ingenuo di Norina», afferma
che il raddoppio del Dottore nella ripetizione della cabaletta è «in funzione strettamente tecnica», serve cioè ad
«ispessire timbricamente la parte di Norina» (Ibid., p. 68, nota 7). A mio avviso c’è invece una ragione drammatica:
il Dottore si rende conto che non può avere ragione di Norina e decide di assecondarla (che sia un entusiasmo finto,
non spontaneo, è evidente, ma lo è anche da parte di Norina; questa gioca a fare la spavalda, forza i toni; il Dottore
dapprima tentenna, poi cede e sta al gioco).
138
«QUEL VECCHIONE RIMBAMBITO»: CONFLITTI GENERAZIONALI IN DON PASQUALE
indulgere quasi mai alla farsa. Don Pasquale è una commedia borghese dove le prospetti-
ve, i punti di vista slittano di continuo. È una commedia di conflitti (generazionali, carat-
teriali, culturali), di conflitti omnidirezionali, che finiscono per coinvolgere tutti i perso-
naggi, isolandoli l’uno dall’altro. È, in definitiva, una commedia dell’incomunicabilità e
della solitudine, che paradossalmente si fonda proprio sulla forma che dovrebbe favorire
il dialogo, la relazione interpersonale, il duetto (alla fine se ne contano ben cinque, esclu-
so il breve notturno tra Ernesto e Norina; di questi, nessuno, nemmeno quello tra Norina
e Malatesta, prevede l’accordo tra le parti; piuttosto vengono acuite le contrapposizioni).29
Concludo citando il pensiero di Dahlhaus sull’opera:
L’atto I del Don Pasquale, tolta la cavatina di Norina, consiste di tre grandi duetti
(Dottore/Don Pasquale, Ernesto/Don Pasquale, Norina/Dottore), tutti costruiti sullo sche-
ma consueto cantabile / cabaletta. La disposizione dei numeri è né più né meno conven-
zionale della loro forma. Lo schema – identico a quello in uso nell’opera seria – viene sot-
toposto a forzatura parodistica (il cantabile del Dottore, «Bella siccome un angelo», non è
espressione autentica ma simulata, strumentale all’intrigo; lo sfogo sentimentale di Ernesto,
«Sogno soave e casto», viene contrappuntato dal sardonico parlando di Don Pasquale; il
Maestoso di Norina, «Pronta io son, pur ch’io non manchi», è impostura bella e buona),
senza con ciò subire distorsioni nella sua funzione di telaio portante della forma musicale.
Proprio 1’‘improprietà’ della musica viene a dire ch’essa, come fattore costitutivo del dram-
ma musicale, non si identifica in nessuna delle posizioni contenute nella pièce: non, è ovvio,
nella cieca vanità di Don Pasquale, non nel sentimentalismo di Ernesto, non nelle macchi-
nazioni del Dottor Malatesta. È dunque la flaubertiana impassibilité della musica a procu-
rare l’ilarità sospesa, volatile, d’una commedia ormai destituita da un pezzo di intenti criti-
co-sociali: un’ilarità con un retrogusto di rassegnazione.30
————
29
La quasi assenza del coro rafforza il tono intimo dell’opera. Peraltro, Ashbrook ci informa che «la parteci-
pazione del coro […] sembra essere stata decisa quando la composizione era quasi ultimata» (WILLIAM ASHBROOK,
Donizetti. Le opere cit., p. 246). Una sorta di appendice, dunque. Eppure, l’unico brano corale compiuto («Che inter-
minabile – andirivieni») non è inutile né privo d’interesse, poiché rende la satira del matrimonio ancor più mordace,
illuminandone i risvolti socio-economici. La folla pettegola di servitori che occupa, invade la casa con l’intento di
approfittare del lusso e di dissanguare l’economia domestica è l’immagine più efficace dell’attacco alla proprietà pri-
vata di Don Pasquale, di una minaccia economica incombente e distruttiva. Il danno dopo la beffa (lo schiaffo di
Norina).
30
DAHLHAUS, Drammaturgia dell’opera italiana cit., p. 150.
31
Si tratta di una semplificazione della ‘solita forma’ (cfr. HAROLD POWERS, «La solita forma» and «the Uses of
Convention», «Acta Musicologica», LIX, 1987, pp. 65-90), che prevede in realtà – dopo la scena in recitativo – tre
tempi per le arie (adagio, o cantabile / tempo di mezzo / cabaletta) e quattro per i duetti (tempo d’attacco / adagio /
tempo di mezzo / cabaletta). Quanto al duetto tra Norina e il Dottore, Dahlhaus incorre in un’imprecisione: non del
cantabile si tratta, ma del tempo d’attacco (il duetto non ha un cantabile, una parentesi lirica; è dialogato da cima a
fondo).
139
GIORGIO PAGANNONE
titura) e dalla cabaletta brillante. In tal senso, la cavatina di Norina è uno sberleffo – indi-
retto, a distanza – alla stessa aria di Ernesto, la quale è costruita sì allo stesso modo – can-
tabile e cabaletta in successione immediata, senza tempo di mezzo –, ma pecca di unifor-
mità. Non ha al suo interno il mutamento di tono e di stile che ci si aspetterebbe da un’a-
ria doppia: potremmo definirla un cantabile allargato.32 Il canto di Ernesto è dolorosa-
mente autentico, ma monocorde. Lo schema dell’aria doppia mal si concilia con la stati-
cità, la ‘rigidità’ del personaggio; l’«improprietà» della forma evidenzia un difetto, un
limite di Ernesto.
Quanto a Don Pasquale, è evidente che lo schema funge da cartina di tornasole: nel
duetto con Norina (terzo atto) la ‘solita forma’ esige implacabilmente il cantabile. È il
turno del vecchio, che non ce la fa. Commovente. La sberla di Norina è una rivelazione:
non tanto impedisce al vecchio di cantare, quanto piuttosto gli mostra la sua incapacità di
cantare. Don Pasquale sente per la prima volta il peso degli anni. È il momento della veri-
tà, il classico nodo che viene al pettine. L’«impassibilità» di Donizetti vacilla, il baratro
della senilità incombente genera un brivido di simpatia: «È finita, Gaetano».
————
32
Si noti che in origine Donizetti aveva previsto una ‘romanza’, cioè un’aria in un solo tempo, con cambio di
modo (da Fa minore a Fa maggiore) tra la prima e la seconda strofa (cfr. GOSSETT, Introduzione cit., pp. 36-37). La
soluzione sarebbe stata sicuramente più ‘propria’, più adatta al contenuto del brano ed al carattere di Ernesto.
L’aggiunta della cabaletta fu forse una concessione al tenore (che poteva così disporre di un’aria doppia, come il
soprano). Si rivela in ogni caso ‘impropria’: il tenore non ‘può’, non ‘sa’ cantare una vera cabaletta. Ne deriva un para-
dosso formale: un’aria doppia trattata a mo’ di romanza.
140
Caricatura di Luigi Lablache, primo interprete di Don Pasquale. Incisione di Celestin Nanteuil.
141
Don Pasquale e Norina in una vignetta francese dell’epoca.
142
Marco Emanuele
FISIOLOGIA DEL MATRIMONIO IN MUSICA:
LOLITA E DON PASQUALE
1. Maschile e femminile, vecchio e giovane sono categorie che plasmano la percezione dei
rapporti sociali e la vita di relazione; categorie che sempre più spesso, francamente, gene-
rano imbarazzo: possiamo farne a meno? Tanto più che le prime sono costruzioni sociali e
culturali, e le seconde sono orientate sul tempo, che forse non esiste. Meno male che l’op-
posizione fra giovani e vecchi fa parte di un sistema letterario, mentre nella realtà dell’a-
more i gusti sono vari, come ben sanno i cultori del sesso virtuale o gli inserzionisti furio-
si, alle prese con un mondo di daddies e mature women che si districano compiacenti fra
le mille richieste dei sons.
Perché nel canone letterario vige un sistema oppositivo così feroce? La letteratura è
un modo per risolvere i problemi presenti nella società, di cui fornisce non uno specchio
attendibile ma una visione distorta, proiettata in avanti o nel passato, comunque alternati-
va. Nella repubblica romana, la guerra delle età nelle commedie plautine è la controparti-
ta del potere tirannico del paterfamilias.1 Il motivo della competizione negli affari di sesso
si lega a quello della rivalità economica: un vecchio innamorato è un vecchio da spennare,
col consenso del gruppo. Alla libidine si lega l’avarizia, altro esecrabile peccato. «Onni-
potente, il vecchio è detestato. In parecchie famiglie si aspetta la sua morte con impazien-
za, perché essa sarà una liberazione per tutti i suoi».2 Truffare il vecchio è un modo per far-
lo morire simbolicamente, quando è ancora in vita.
L’odio per la vecchiaia risorge al tramonto del Medioevo, quando la percentuale de-
gli anziani aumenta nella popolazione: la peste li risparmia.3 Il conflitto è anche rivalità nel
mercato del matrimonio, in quanto all’inizio dell’età moderna le ragazze da marito scar-
seggiano e l’età media del primo matrimonio si abbassa. Ritornano la satira sui vecchi in
————
1
GEORGES MINOIS, Storia della vecchiaia dall’antichità al Rinascimento, Bari, Laterza, 1988, p. 105 sg.
2
Ibid., p. 107.
3
«Le devastazioni selettive della peste ebbero anche come conseguenza di rafforzare il potere politico ed eco-
nomico degli uomini anziani. Il padre risparmiato dall’epidemia resterà più a lungo alla testa dei suoi affari che talvolta
trasmetterà direttamente al nipote. Il tempo gli permetterà di accumulare un capitale più notevole e di monopolizza-
re più di prima il potere decisionale, il che comporterà in certe città dei seri conflitti tra generazioni» (Ibid., p. 252).
143
MARCO EMANUELE
amore e il compianto della giovane malmaritata: «pensate come lei, che è giovane, tenera,
che ha un alito gradevole può sopportare il vecchio che tossisce, scaracchia e si lamenta in
continuazione per tutta la notte: c’è da meravigliarsi se non s’ammazza».4
Alla spiegazione d’ordine economico sociale, del vecchio che detiene il potere ed è
messo alla berlina in teatro, si aggiunge quella antropologica. Bachtin, quando esamina le
forme e le immagini della festa popolare presenti in Rabelais, scrive che il topos del vec-
chio beffato, se non proprio coperto di botte, è veicolo di un contenuto che si può sinte-
tizzare così: l’inverno, l’anno passato, il re detronizzato se ne vanno; la derisione fa parte
del rinnovarsi della vita. Il marito riceve le corna: alla sua destituzione fa riscontro un nuo-
vo atto di concepimento con un giovane; il marito cornuto è il re detronizzato dell’anno
passato, dell’inverno in fuga: «gli è tolto l’abito, è bastonato e messo in ridicolo»,5 come
Falstaff alla fine delle burle.
L’opera comica ottocentesca riscrive il rito popolare, traducendolo per il mondo bor-
ghese: la festa diventa la temporanea assenza di regole, il sovvertimento momentaneo di
valori celebrato nel finale d’atto. Nel Don Pasquale il mondo alla rovescia viene relegato
alla scena claustrofobica della servitù che invade la casa e lo spazio acustico spettegolan-
do senza remore. Più marcatamente carnevalesca era la scena della promessa di matrimo-
nio nella fonte del libretto, il Ser Marcantonio. Lì il protagonista vedeva piombare in casa
un gruppo di estranei, venuti a festeggiare la cerimonia (I.ultima):
————
4
Lo scrive il vescovo Gilles Bellemère ne Les quinze joies de mariage (cit. in Ibid., p. 245). D’altronde, «Gran
piacer sono i sponsali / quando i sposi sono uguali; / ma un vecchiaccio a una ragazza / maritare è crudeltà. / Se la spo-
sa non impazza / per lo meno creperà», si ascolta appena alzato il sipario nel Don Procopio di Carlo Cambiaggio (To-
rino, Teatro Carignano 1844).
5
MICHAIL BACHTIN, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e
rinascimentale, Torino, Einaudi, 1995 (ed. originale: Moskva, Izd. Chud. Lit., 1965), p. 237.
6
Se non altrimenti indicato, le citazioni sono tratte da Il grande libro dell’opera lirica. I cento migliori libretti del-
la tradizione operistica, a cura di Piero Mioli, Roma, Newton & Compton, 2001.
144
FISIOLOGIA DEL MATRIMONIO IN MUSICA: LOLITA E DON PASQUALE
trimoni tra anziani o tra persone con marcata differenza d’età.7 Anche il coro dei dome-
stici nell’opera donizettiana, con le sue onomatopee e i commenti pieni di impertinenza, è
un coro nuziale rovesciato, una scampanata allestita in salotto.
2. L’amore dei giovani contrastato dai vecchi non è però il solo tema su cui si costruisce la
drammaturgia di Don Pasquale. Librettista e compositore imbastiscono un discorso che
ruota sul concetto di coppia. L’opera è il luogo di un incontro deluso, fra maschile e fem-
minile. Un incontro immaginato, premeditato, temuto.
Il discorso si dipana a suon di valzer. A furia di valzer. Il punto di partenza è costitui-
to dal personaggio maschile colto nell’atto di formulare un desiderio: egli immagina qua-
le sarà il futuro con la sua sposa («Un foco insolito» I.2), brucia i tempi, anticipa la sua vi-
ta a ritmo di valzer e scalza il suo partner, Malatesta, dalla stretta del duetto. Il suo slancio
iniziale è destinato a infrangersi una prima volta durante la cerimonia del matrimonio ci-
vile, e una seconda, irreparabile, nel corso del duetto con Sofronia/Norina nel terz’atto: è
questo uno dei luoghi in cui la riscrittura di Donizetti e Ruffini è più distante dalla fonte
di Anelli, nella quale il duetto degli sposi aveva un colorito smaccatamente farsesco.8 La
presa di coscienza successiva all’episodio dello schiaffo viene sottolineata da un secondo
valzer, cantato da Sofronia, che sottrae al marito la possibilità di intervenire in modo co-
struttivo nello svolgimento del turbine melodico («Via, caro sposino», III.2), proprio come
in precedenza aveva fatto Don Pasquale col suo interlocutore. Due episodi in parallelo che
cadono nel medesimo punto del pezzo chiuso, la stretta: ogni volta un personaggio soffia
via all’altro la possibilità di cantare. I luoghi si confrontano e si oppongono ai capi estre-
mi dell’opera: due vortici musicali risucchiano i personaggi.
È in epoca rivoluzionaria che si esprime l’associazione di stampo romantico fra il val-
zer e l’idea di ‘buon selvaggio’:9 l’idea della liberazione del desiderio, che prevarica sulle
leggi sociali, si identifica nella danza diffusa in Europa dagli eserciti di Napoleone. La
liberazione dell’individuo dalle strutture gerarchiche della società feudale si diffonde con-
temporaneamente alla danza rivoluzionaria: «il valzer liberava i ballerini dagli obblighi
gerarchici e dai doveri connessi alla loro posizione sociale. I ballerini erano tutti simili,
uguali, liberi di spostarsi a loro piacimento nella sala da ballo».10 Sala che diventa un
salotto nel Don Pasquale, quando il protagonista comunica il suo progetto ‘rivoluziona-
rio’, che infrange le regole della convenienza («Un foco insolito»). Invece nel valzer di
Sofronia la sala da ballo è un luogo mentale, suggerito non dai versi, di senso opposto
(«Via, caro sposino»), bensì dalla scelta del tempo di valzer, con la quale si allude alle pos-
sibilità di incontro e di scambio di partner che la donna potrà sperimentare a teatro, in
piena libertà.
La scelta di una forma musicale di grande successo nelle sale viennesi, sembra consa-
pevole, tanto più che Donizetti costruisce la partitura inanellando un valzer dietro
————
7
Cfr. PAOLO SORCINELLI, Storia e sessualità. Casi di vita, regole e trasgressioni tra Ottocento e Novecento, Mila-
no, Bruno Mondadori, 2001, pp. 145-6.
8
Bettina costringe Marcantonio a indossare un «abito da Cicisbeo» (II.4).
9
Cfr. RÉMI HESS, Il valzer. Rivoluzione della coppia in Europa, Torino, Einaudi, 1993 (ed. originale: Paris, Mé-
tailié, 1989), p. 304.
10
Ibid.
145
MARCO EMANUELE
146
FISIOLOGIA DEL MATRIMONIO IN MUSICA: LOLITA E DON PASQUALE
l’altro.11 I valzer si rovesciano a catena nell’opera, e uno la chiude col suggello di un’ama-
ra morale: più di quanto comunicano le parole, il significato del numero finale è che No-
rina assume la guida del canto, è lei che conduce.12 Oltre alla logica conclusione danzante,
‘abbandonarsi alla danza’ diventa il messaggio nascosto negli altri numeri. Uno o più per-
sonaggi dimenticano – temporaneamente, carnevalescamente – le convenzioni: quelle
dell’età, nel primo esempio («Un foco insolito»), quelle del rispetto per il vincolo ma-
trimoniale («Via, caro sposino»), quelle dei servitori nei confronti dei padroni («Quel
nipotino guasta mestieri», III.3), infine le regole di galateo, che non vorrebbero che due
signori, uno attempato e l’altro medico, tramino di giocare a nascondino in piena notte
(«Aspetta, aspetta», III.5).
La storia che si snoda a suon di valzer possiamo raccontarla così. Don Pasquale espri-
me l’intenzione di ricominciare a ballare, vuole gettarsi nella danza di coppia con la part-
ner costruita mentalmente in base alle parole dell’amico che gliela descrive. In seguito vie-
ne escluso dalla danza: ciò è sottolineato dal vortice di note del valzer di Sofronia, ancor
più lesivo della sua dignità rispetto all’atto concreto dello schiaffo sfuggito alla sposa: pro-
prio un «turbinio indecente»,13 rappresentazione musicale allusiva di un incontro manca-
to. Il fatto di provare piacere ballando in coppia è condizionato dalla possibilità di trova-
re accordo, entrare in sintonia con una serie di fattori, «creare assieme una sorta di aucto-
ritas che gioca con la forza di gravità e con l’equilibrio»,14 possibilità esclusa a priori, an-
che per fattori di ‘peso’, da Sofronia: «Un uom qual voi decrepito, / qual voi pesante e
grasso, / condur non può una giovine / decentemente a spasso». Escluso dalla stretta che
dovrebbe competergli insieme a Sofronia, Don Pasquale viene idealmente allontanato dal
rituale della coppia che rappresenta se stessa davanti agli altri (il valzer è il matrimonio);
altrettanto idealmente si vendica, sempre a suon di valzer, macchinando l’agguato alla spo-
sina fedifraga. Per fare questo trova un altro partner, maschile, falsamente compiacente,
col quale l’accordo è pressoché perfetto: si canta all’unisono, nessuno scalza l’altro, si ar-
riva insieme alla cadenza. Scaricato dalla sua dama, sposata per ripicca, il protagonista rea-
gisce trovandosi un altro compagno, raggiungendo finalmente un accordo nella feroce mi-
tragliata dei sillabati misogini, sui quali turbina un valzer frenetico. Solo così nasce l’inte-
sa: un momento di pura fisicità, di dissociazione fra il suono e il senso delle parole. In par-
titura, è anche l’unico momento di allegria sfrenata.
3. Donizetti sceglie il tempo di valzer (la coppia a distanza ravvicinata, via le convenzioni
dell’etichetta) anche per alludere a un argomento bandito o ben dissimulato dai libretti ot-
tocenteschi: l’incontro mancato è quello sessuale. L’esclusione è quella dal letto nuziale,
dalla prima notte d’amore. Il tema, a livello di farsa, era giù stato affrontato nel Campa-
nello, in cui il maturo Don Annibale non riesce a trascorrere la prima, brevissima, notte
————
11
La sua insistenza sarà seguita da Verdi nella Traviata e dai fratelli Ricci per Crispino e la comare (1850), opera
nella quale un personaggio (la svampita Annetta) non può nemmeno cantare se non in tempo di valzer.
12
Nel numero finale delle opere comiche di metà Ottocento il valzer è quasi d’obbligo. Sembra una sorta di mu-
sica in scena, una citazione di genere: al momento del congedo è alla prima donna che spetta condurre le danze, gui-
dare il gioco vocale.
13
HESS, Il valzer cit., p. 154.
14
Ibid., p. 7.
147
MARCO EMANUELE
con la sposa.15 Rispetto alla fonte di Anelli, il libretto di Ruffini non sottolinea il fatto che
le nozze vere e proprie devono ancora compiersi.16 Don Pasquale considera Sofronia co-
me moglie effettiva e non si capacita che voglia uscire di casa «un primo dì di nozze»
(III.1), anche se nella stretta del duetto le rinfaccia (in partitura, non nel libretto): «Non so-
no marito. Non son vostro nonno». Nel titolo stesso,17 alcuni libretti collegati a quello di
Anelli non mancano di rilevare, anche per una necessaria pruderie, il fatto che l’azione si
svolge in un solo giorno, e non c’è il pericolo che il matrimonio sia consumato.
Nella consuetudine ottocentesca, il pericolo c’era. Il contratto civile, steso davanti ad
un notaio con due testimoni per ciascuno, poteva già costituire il matrimonio: nel com-
plesso la celebrazione delle nozze «si configurava come un insieme di eventi, disposti nel
tempo intorno ad alcune procedure fondamentali, in cui all’autorità religiosa si affianca-
vano presenze laiche».18 La cerimonia pubblica non era requisito fondamentale. Don Pa-
squale e Sofronia, quindi, agiscono come persone effettivamente sposate, in attesa della
notte di nozze che sarà caratterizzata dall’esclusione e dall’assenza: uno a letto, l’altra a
teatro a divertirsi. Inoltre, la mancata sottolineatura della continuità degli eventi, che era
al centro della preoccupazione di Anelli, e la frattura che esplode fra il secondo e il
terz’atto, al momento dell’invasione fisica e sonora di persone e oggetti nel salotto del pro-
tagonista, fanno sì che si crei una percezione di tempo allargato. Nell’opera di Donizetti si
ha la sensazione trovarsi nel bel mezzo della burrascosa vita quotidiana di una coppia spo-
sata da qualche tempo. Uno spaccato di vita matrimoniale:
Sala in casa di Don Pasquale come nell’atto I e II. Sparsi sui tavoli, sulle sedie, per terra, ar-
ticoli di abbigliamento femminile, abiti, cappelli, pellicce, sciarpe, merletti, cartoni, ecc.
Scena prima
Don Pasquale seduto nella massima costernazione davanti una tavola piena zeppa di liste e fat-
ture; vari servi in attenzione. Dall’appartamento di donna Norina esce un parrucchiere con pet-
tini, pomate, cipria, ferri da arricciare…
Nel rappresentare l’invasione di persone e cose subita dalla casa, sintomo di un mu-
tamento di rapporti di forza al suo interno, la vicenda diventa il pretesto per un discorso
sul matrimonio in genere, e attinge da temi comuni soprattutto alla letteratura misogina. I
tre temi messi in gioco sono la costruzione dell’immagine femminile, la distruzione im-
provvisa di quell’immagine (che possiamo chiamare ‘mutazione della sposa’), la perdita di
potere del marito, che si attua mediante l’invasione fisica degli spazi maschili da parte di
oggetti che caratterizzano il femminile (potremmo chiamarlo il motivo dell’‘accumulo’).
Affiorano incubi maschili di lunga data.
L’idea della mutazione improvvisa della donna appena sposata affonda nella lettera-
tura misogina medievale, tanto che nell’opera più violenta scritta da Boccaccio contro le
donne si trova in nuce la scena del Don Pasquale. Nel Corbaccio si racconta di un sogno oc-
————
15
Sembra quasi un’autocitazione la morale sciorinata da Norina: «Ben è scemo di cervello / chi s’ammoglia in
vecchia età: / va a cercar col campanello / noje e doglie in quantità» (III.ultima).
16
«Pretende che a momenti / si facciano le nozze», dice invece Pasquino nel libretto di Anelli; gli risponde Li-
setta: «E come fosse / già vostra moglie a tutti noi comanda» (II.2).
17
Il divorzio senza matrimonio ossia la donna che non parla, oppure Matrimonio e divorzio in un sol giorno.
18
MARGHERITA PELAJA, Matrimonio e sessualità a Roma nell’Ottocento, Bari, Laterza, 1994, pp. 13-14.
148
FISIOLOGIA DEL MATRIMONIO IN MUSICA: LOLITA E DON PASQUALE
Gaetano Donizetti, da poco dimesso dalla casa di cura di Ivry, in compagnia del nipote Andrea.
Dagherrotipo, 3 agosto 1847 (Bergamo, Museo Donizettiano).
149
MARCO EMANUELE
corso al narratore, maturo negli anni, impegnato nello studio della filosofia, deluso da
un’esperienza amorosa. L’incubo inizia con il «porcile di Venere», una selva labirintica po-
polata da bestie: i soliti seguaci dell’amore carnale. A far da guida, come Virgilio nella sel-
va di Dante, un vecchio, il marito della donna di cui il protagonista si era invaghito rice-
vendone scorno. Il vecchio inizia a rimproverarlo poiché l’amore si addice ai giovani e non
agli uomini maturi, tanto più se studiosi, poi recita un vero e proprio trattato contro le
donne. La sua voce assume toni didascalici («La femmina è animale imperfetto, passiona-
to da mille passioni spiacevoli e abbominevoli…»)19 quando inizia una specie di Ars aman-
di al rovescio. Vengono passati in rassegna i difetti delle donne, che mettono in atto mille
inganni per sembrare attraenti, costruiscono la propria immagine mediante cosmesi e ac-
conciatura,20 dedicano tutti i loro sforzi, fingendosi remissive, a farsi comprare capi d’ab-
bigliamento sontuosi: i mariti non si accorgono che sono tutte «armi a combattere la sua
signoria e a vincerla». Una volta ottenuto questo, «poi che le loro persone e le loro came-
re, non altramenti che le reine abbino, veggiono ornate e i miseri mariti allacciati, su-
bitamente dall’essere serve divenute compagne, con ogni studio la signoria s’ingegnano
d’occupare.» È il momento della mutazione, che coincide con il possesso dello spazio do-
mestico, che viene letteralmente invaso:
Come essa da questo fiere nelle case divengano, i miseri mariti il sanno, che ’l pruovano: es-
se, sì come rapide e fameliche lupe, venute ad occupare i patrimoni, i beni e le ricchezze de’
mariti, or qua or là discorrendo, in continui romori co’ servi, colle fanti, co’ fattori, co’ fra-
telli e figliuoli de’ mariti medesimi stanno, sé tenere riguardatrici di quelli, dove esser sole
dissipatrici disiderano d’essere…
Le donne parlano troppo, sono lussuriose, hanno mille fobie, tradiscono i mariti, so-
no preda di un’ira apocalittica,21 tanto avide da voler sposare un vecchio bavoso,22 volu-
bili, presuntuose e pettegole. Il defunto marito narra la commedia della propria vita, che
inizia con la mutazione della nuova sposa, da colomba in serpente:
————
19
GIOVANNI BOCCACCIO, Corbaccio, a cura di Piergiorgio Ricci, Torino, Einaudi, 1977: citazioni alle pp. 30-50
passim.
20
«Esse, di malizia abbondanti, la qual mai non supplì, anzi sempre accrebbe difetto, considerata la loro bassa
e infima condizione, con quella ogni sollecitudine pongono a farsi maggiori. E primieramente alla libertà degli uomi-
ni tendono lacciuoli, sé, oltre a quello che la natura ha loro di bellezza o d’apparenza prestato, con mille unguenti e
colori dipignendo; e or con solfo e quando con acque lavorate e spessissimamente co’ raggi del sole i capelli, neri dal-
la cotenna prodotti, simiglianti a fila d’oro fanno le più divenire; e quelli, ora in treccia di dietro alle reni, ora sparti su
per li omeri, e ora alla testa ravvolti, secondo che più vaghe parer credono, compongono…»
21
«Ma, sì come animale a ciò inchinevole, subitamente in sì fervente ira discorrono che le tigri, i leoni, i serpen-
ti hanno più d’umanità, adirati, che non hanno le femine; le quali, chente che la cagione si sia, per la quale in ira acce-
se si sieno, subitamente a’ veleni, al fuoco e al ferro corrono. Quivi non amico, non parente, non fratello, non padre,
non marito, non alcuno de’ suoi amanti è risparmiato; e più sarebbe allora caro a ciascuna tutto ’l mondo, il cielo, Id-
dio e ciò ch’è di sopra e di sotto universalmente ad un’ora poter confondere, guastare e tornare a nulla che, ad animo
riposato, potere cento bagascioni al suo piacere adoperare.»
22
«Niuno vecchio bavoso, a cui colino gli occhi e triemino le mani e ’l capo, sarà, cui elle per marito rifiutino,
solamente che ricco il sentano; certissime infra poco tempo di rimanere vedove e che costui nel nido non dee loro sod-
disfare. Né si vergognano le membra, i capelli e ’l viso, con cotanto studio fatti belli, le corone, le ghirlande leggiadre,
i velluti, i drappi ad oro, e tanti ornamenti, tanti vezzi, tante ciance, tanta morbidezza sottomettere, porgere e lasciare
trattare alle mani paraletiche, alla bocca sdentata e bavosa e fetida, ch’è molto peggio, di colui cui elle credono poter
rubare.»
150
FISIOLOGIA DEL MATRIMONIO IN MUSICA: LOLITA E DON PASQUALE
essendo io per morte abbandonato da quella che prima a me era venuta, e di cui molto me-
no mi potea scontentare che di questa, non so se per lo mio peccato o per celeste forza che
’l si facesse, avvenne che, essendo e volere e piacere de’ miei amici e parenti, a costei, mal da
me conosciuta, fui ricongiunto. La qual, già d’altro marito essendo stata moglie e assai bene
l’arte dello ’ngannare avendo appresa, non partendosi dal loro universal costume, in guisa
d’una mansueta e semplice colomba entrò nelle case mie; e, acciò che io ogni particularità
raccontando non vada, ella non vide prima tempo alle occulte insidie, e forse lungamente
serbate, poter discoprire, ch’ella, di colomba, subitamente divenne serpente; di che io m’av-
vidi la mia mansuetudine, troppo rimessamente usata, essere d’ogni mio male certissima ca-
gione. […] Costei adunque, donna divenuta del tutto e di me e delle mie cose, non secondo
che la ragione darebbe, al mio stato avendo rispetto, ma come il suo appetito disordinato ri-
chiedea, prima nel modo del vivere e nella quantità il suo ordine puose; e il simigliante fece
ne’ suoi vestimenti, non quelli ch’io le facea, ma quelli che le piacevano faccendosi; ed a qua-
lunque d’alcuna mia possessione avea il governo, essa convenia che la ragione rivedesse e’
frutti prendesse e distribuisse secondo il piacer suo…
La mutazione è anche fisica: la donna vuole diventare bella soda, «paffuta e naticuta»
e inizia a mangiare in modo straordinario: inghiotte ogni sorta di cibo, che vuole servito
non in un piatto ma in un catino, «a guisa del porco». Accanto al motivo della trasforma-
zione fisica, compare quello della costruzione della bellezza, culminante nella descrizione
espressionistica dei sordidi impiastri usati per la cosmesi: la casa diventa un laboratorio
pieno di ampolle e alambicchi, in cui si sperimentano i prodotti più strani ed esotici; il lo-
ro elenco è funzionale all’effetto di privazione dello spazio vitale: ogni angolo della frase è
riempito dall’accumulo. Dunque la bellezza è costruzione: lo sa il marito che vede la mo-
glie al mattino, quando si alza dal letto «col viso verde, giallo, maltinto d’un colore di fum-
mo di pantano», «tutta cascante».
Tu sposi una bella ragazza e imbruttisce; sposi una giovane piena di salute e diventa mala-
ticcia; la credi appassionata, ed è frigida; oppure, in apparenza è fredda, ma in realtà è così
passionale che o ti uccide o ti disonora. A volte, la creatura più mite si rivela come minimo
litigiosa, e le litigiose non diventano mai indulgenti; altre volte la ragazza che abbiamo rite-
nuta sempliciotta e debole mostra contro di noi una volontà di ferro, uno spirito diabolico.
Sono stanco del matrimonio.23
————
23
Lo dice il personaggio negativo del marito, in uno dei pochi momenti in cui il suo punto di vista viene messo
a fuoco, ne La femme de trente ans di Balzac. Pubblicato nell’anno in cui si rappresenta Don Pasquale, il romanzo sem-
bra una riscrittura in chiave femminile della Fisiologia del matrimonio. Nel romanzo, come più tardi ne La felicità do-
mestica di Tolstoj, il matrimonio è il luogo della perdita dell’amore, del venir meno della magia, del crollo della co-
struzione personale dell’oggetto amato. Muta lo sguardo della donna verso l’uomo. È sufficiente una notte, per la pro-
tagonista: «Eri giovane e bella, spensierata se non felice; un marito ti renderà, in pochi giorni, come sono diventata io,
brutta, sofferente e vecchia. […] In pochi attimi la gioventù è diventata una specie di sogno. […] Rimasta sola, la se-
151
MARCO EMANUELE
Adelina Patti nel ruolo di Norina (Londra, Archivio del Covent Garden).
152
FISIOLOGIA DEL MATRIMONIO IN MUSICA: LOLITA E DON PASQUALE
Forse proprio perché il mondo si restringe al salotto di casa e agli spazi limitati, con-
trollati dalla morale borghese, il tema del matrimonio come inferno è ben sviluppato nel-
la letteratura dell’Ottocento.24 I motivi dell’invasione degli spazi maschili, della mutazio-
ne della sposa, della costruzione della sua figura, vengono riproposti e sviluppati con ac-
canimento da Carlo Dossi nella Desinenza in A.25 La vicenda del matrimonio di interesse
della ragazza giovane con un vecchio ricco è presentata in tre scene consecutive del primo
atto: Amore di madre e Gioje del matrimonio (prima e seconda «portata»). La struttura del
testo è aperta e ricca di richiami interni: l’episodio del matrimonio di Eugenia col barone
Caprara è anticipato ad inizio d’atto, nella prima scena (Le due pupàttole), che descrive i
preparativi per un ballo nel palazzo della contessa Tullia «(c’è anche un marito, ma conta
per vetro rotto)».26 Preparativi che determinano l’accumulo di oggetti e l’invasione di per-
sone nella casa, con senso di soffocamento da parte del marito imbelle:
Tapezzieri e pittori, lampadài e fioristi, avèvano invaso il palazzo sloggiàndone quasi i pa-
droni. D’ogni parte un traurtarsi, un sorvegliare a chi sorvegliava, un comandare controco-
mandi, un affannarsi a conchiùdere nulla o peggio; là, il lamento di un mòbile grave che non
voleva mutar domicilio compromettendo la sua emèrita età, o lo squillo di gràndine cristal-
lina da un lampadario commosso; qua, gli accordi di un pianoforte o la scordatura improv-
visa di un servizio di Sévres…
Per farne un budoir la moglie ha invaso lo studio dell’adiposo padrone, il conte Gonzalo,
che non può far altro che raccogliere i suoi scartafacci e traslocare, «colla penna all’orec-
chio, il calamajo in saccoccia e due messali sotto le ascelle», in uno stanzone remoto, non
riscaldato, per limare un’ottava del suo poema «tra il didascàlico e il rompiscàtole», che
tratta della pace domestica. Invece della descrizione della donna, Dossi mette a fuoco gli
oggetti che la costruiscono; l’attenzione al variopinto armamentario della moda femmini-
le tradisce attrazione e invidia da parte dello sguardo maschile velato dalla misoginia di
maniera:
Diamo adesso un’occhiata alla guardaroba. ¡Vatti a nascònder, Babele! Armadi e tiretti, sca-
toloni e ceste, tutto è aperto, scoperto; è un guazzabuglio, una arlecchineria di fogge e colo-
ri, di sottanini e gonne, di sbuffi e volanti, di bindella e cervelli … dico cioè cappellini. Po-
trei, fossi maligno, osservare che la padrona, a pezzi e a pezzetti, c’è tutta.
————
ra, nella camera in cui ero stata accompagnata con tanta solennità, meditai qualche birichinata per incuriosire Victor;
e, mentre aspettavo che venisse, avevo il batticuore come mi succedeva tanto tempo fa […]. Nel momento in cui mio
marito entrò, e mi cercò, il riso soffocato che uscì dalle lenzuola sotto cui mi ero nascosta fu l’ultimo scoppio di quel-
la serena allegria che animava i nostri giochi infantili» (HONORÉ DE BALZAC, La trentenne, trad. di M. Cristallo, Mila-
no, Frassinelli, 1995, p. 29).
24
Aristocrazie e classi popolari hanno spesso vissuto una libertà maggiore, riguardo alla morale sessuale: per la
classe aristocratica matrimonio non significava necessariamente condivisione degli stessi spazi; la conoscenza anche
sessuale fra gli sposi prima del matrimonio veniva tacitamente ammessa nella cultura contadina. Cfr. SORCINELLI, Sto-
ria e sessualità cit., p. 101 sg, e LAWRENCE STONE, La sessualità nella storia, Bari, Laterza, 1995, pp. 19-20.
25
La sua prima stesura è iniziata nel 1876.
26
Cito dall’edizione Garzanti, Milano, 1996.
153
MARCO EMANUELE
«A pezzi e a pezzetti»… Anche quando si leva il sipario per l’ultimo atto del Don Pa-
squale Sofronia, a pezzi e a pezzetti, c’è tutta, in quegli «articoli di abbigliamento femmi-
nile, abiti, cappelli, pellicce, sciarpe, merletti, cartoni».
Il tema dell’invasione, connesso con quello della mutazione della sposa, si ritrova nel-
l’episodio del matrimonio fra Eugenia e il barone. «Presenta prima la zampa guantata; met-
terài poi fuori le unghie», aveva consigliato la madre nella sua lezione di comportamento e
seduzione. All’inizio della scena ottava (Gioje del matrimonio), la mutazione di Eugenia è
già avvenuta: il barone è solo, in attesa della moglie, di notte, in una ricca stanza da letto,
l’orologio che incombe. Nella casa regna il gelo e la scena sembra una riscrittura degradata
e grottesca del monologo verdiano di Filippo II: «Il freddo lo guadagnava. ¡Gelare con una
moglie per casa a 35 Réaumur, è pur duro!».27 È passato un anno dal matrimonio. Il baro-
ne, scuro in viso, celibe in un letto matrimoniale, scansato dagli amici, male obbedito dai
servi, passa in rassegna le doti portate dalla moglie: pudore, economia, ordine.
Casa Caprara non era più casa; era un caffè, un bivacco, in cui si dava la posta una baraon-
da di gente, amica della signora, ma che egli, il padrone, non conosceva nemmeno di nome,
né conoscèvalo essa, anzi lo urtava e gli camminava sui calli, senza pur chièdergli scusa. […]
Ma, già, la sposa avèa detto «¡aria! ¡aria! ¡io voglio viver nel nuovo, io!» e senza attènder ri-
sposta, gli avèa tutto cangiato, mòbili e amici. […] Sempre giù la tovaglia, sempre il gòmito
alzato. I balli tenévano dietro ai concerti, ai balli le scampagnate. […] Ei non avèa fatt’altro
che aprire l’uscio agli amanti, se pure.
Sesso con la moglie, nemmeno a parlarne. «Travedùtala a pena, tra il chiaro e il bujo,
la prima notte, conjugal nàusea, emicranie, quattro lune ogni mese, gliel’avèano tosto ra-
pita. […] E, almeno avesse potuto dimenticarla del tutto, ma no! Il registro dei conti non
permettèvagli manco cotesta disperatissima consolazione.».
5. Il melodramma comico, forte dell’esempio delle commedie di Goldoni, è stato per lun-
go tempo una roccaforte della misoginia tradizionale. Ha rappresentato spesso la guerra
domestica e così ha tracciato le coordinate per una ‘fisiologia del matrimonio’ in musica.
Il prototipo della moglie bisbetica è la manesca, «spiritata» donna Rosa, novella Xantippe
del Socrate immaginario di Giambattista Lorenzi, che nei confronti del marito paziente
esprime il desiderio di «disossarlo», appena si alza il sipario. Subito dopo «affetta di pian-
gere»; il cambiamento d’umore è improvviso, come repentino è il ritorno all’ira:
————
27
Pirandello aveva forse in mente questo episodio per l’attacco della seconda parte de I vecchi e i giovani, che
presenta Francesco D’Atri, garibaldino e poi ministro del governo, sposato a «ses-san-ta-set-te anni sonati»: la crisi del
suo matrimonio si accompagna alle meditazioni sulla corruzione politica, la «bancarotta del patriottismo».
154
FISIOLOGIA DEL MATRIMONIO IN MUSICA: LOLITA E DON PASQUALE
Alternare le lacrime alle redini, il languore allo sdegno, è una carta femminile che ben
si attaglia all’espressione musicale: muta il tempo, muta lo stile del canto, la coloratura di
grazia si volge in quella di forza. Ritroviamo finta debolezza e scoppi di imperiosità nella
protagonista dell’Italiana in Algeri, in un momento (finale primo) che sembra ben presen-
te, lo vedremo, agli autori del Don Pasquale. Anche Fiorilla, moglie assetata di vita dell’at-
tempato Don Geronio del Turco in Italia, irretisce il marito col pianto («No, mia vita, mio
tesoro; / se vi adoro ognun lo sa…», «fingendo dolore» I.14), salvo poi riprendere il con-
trollo della situazione e il comando sul proprio consorte («Ed osate minacciarmi!»), ridot-
to al silenzio – che in musica equivale a un secco, inebetito sillabato –, mentre lei canta al
pubblico la morale («Con marito di tal fatta / ecco qui come si fa»). Anche se Geronio e
Fiorilla sembrano i diretti antecedenti della coppia, disomogenea e in crisi, del Don Pa-
squale, è necessario notare che il momento della finta commozione viene abilmente trala-
sciato nel testo di Ruffini e Donizetti. Un accenno, ma pieno di cinica ironia, se ne ha in un
passo del finale secondo, quando Sofronia minaccia il marito «con dolcezza affettata», ma
del tutto assente, nella resa musicale donizettiana, è il colorito sensuale della melodia co-
struita da Rossini per Fiorilla, che si incagliava in un momento ipnotico, allucinatorio, in
cui era evidente uno dei principali significati della coloritura rossiniana: il richiamo dei sen-
si, il chiodo fisso dell’erotismo con cui la donna tiene a bada il marito rendendolo innocuo.
esempio 1. A: Don Pasquale, II, 20, p. 275; B: Il turco in Italia, I, 9 prima di 81, p. 380.29
A
Norina
B
Fiorilla
3 3
3
No; mia vi ta, mio te so ro, se vi a do ro o gnun lo sa.
————
28
Trascrivo da Il grande libro dell’opera lirica, cit.
29
Gli esempi musicali dal Don Pasquale sono tratti dalla partitura d’orchestra (GAETANO DONIZETTI, Don Pa-
squale, Milano, Ricordi, s.a. [rist. 1971], P. R. 36), il luogo viene citato con l’indicazione di atto, la cifra di richiamo e
il numero di battute che la precedono o seguono, e il numero di pagina. L’esempio 1B viene da GIOACHINO ROSSINI,
Il turco in Italia, a cura di Margaret Bent, Pesaro, Fondazione Rossini, 1988.
155
MARCO EMANUELE
Ogni accenno alla sensualità della donna, e al fatto che il marito anziano è soggioga-
to dal suo fascino, è disperatamente cancellato dall’opera donizettiana, nella quale Don
Pasquale non prova nulla di fisico per la sposa, a parte una vaga, caricaturale eccitazione
quando il dottore fa il ritratto della sorella («Per carità dottore!», I.2); il momento si ripe-
te nel corso della scena di nozze («Per carità, dottore, / ditele se mi vuole…», II.3): i due
luoghi si rincorrono a distanza con una citazione interna alla partitura. Entrambi sono
causati dal richiamo ad una figura posticcia: la donna angelo inventata da Malatesta. Al di
fuori di questo, nessun accenno alla fisicità. Insomma, un Don Pasquale frigido accanto a
una Norina totalmente priva di sex appeal: si glissa convinti sulla prima notte di nozze, non
si accenna minimamente al desiderio fisico di Don Pasquale.30
6. Nei pressi della conclusione del Socrate immaginario, Rosa spiega al marito in cosa con-
siste la filosofia moderna, «che oggi il gran mondo così ben governa»: «… mangiare, di-
vertirsi e non far niente» (III.8).
ROSA
In tre punti consiste
Tutto il sistema. Primo: se tu vedi,
Fingi di non vedere.
Secondo: se tu senti,
Fingi di non sentire.
E terzo: quando mai
Risentir ti volessi,
Fa come lingua in bocca non avessi.
[…]
Mi vedi corteggiata in una stanza
Da due cascanti o tre?
Senza badare né a me né agli cascanti,
Cantando sottovoce,
O te ne torni indietro, o tiri avanti.
Anche se poi la lezione viene ritrattata dalla stessa Rosa, che ammette di avere scher-
zato e chiarisce a Don Tammaro quale sia la vera saggezza (badare alla famiglia), la filoso-
fia del marito noncurante viene sillabata nella cerimonia della promozione di Mustafà a
«Pappataci», nell’Italiana in Algeri («Di vedere e non veder, / di sentire e non sentir, / per
mangiare e per goder / di lasciare e far e dir», II.12). Depurata del tono grottesco e del ri-
————
30
Forse il desiderio è assente, e allora Don Pasquale ricorda il protagonista del Marescalco di Aretino. Forse è la
solita censura collettiva dei libretti comici di metà Ottocento, più castigati rispetto alle relative fonti di inizio secolo:
un libretto del Ser Marcantonio di Pavesi, stampato per il Teatro Carignano di Torino nel 1811, non si lasciava sfuggi-
re l’occasione per presentare un protagonista che si interroga, prima euforico e poi preoccupato, sulle sue capacità di
«accontentar» in tutto la sposa: «Maritarsi ponderiamo, / prender moglie riflettiamo / la distanza dell’età. / La Betti-
na ha vent’un anno / Marcantonio sessantotto, / questo è un salto che di botto / fa passar la volontà. / Non son tocco,
né acciancato, / son robusto e ben piantato, / ma vediamo se la sposa / posso in tutto accontentar. / […] Nel passeg-
gio sono bravo, / nella danza sono dotto, / ma l’affar del sessant’otto / chi sa dirmi come andrà» (I.9).
156
FISIOLOGIA DEL MATRIMONIO IN MUSICA: LOLITA E DON PASQUALE
chiamo alle gioie della gola, la medesima filosofia viene espressa dalla novella sposa So-
fronia, che ribatte con assoluta naturalezza a Don Pasquale: «Il marito vede e tace: / quan-
do parla non s’ascolta.».
Accanto al Ser Marcantonio, conviene dunque considerare come fonte del Don Pa-
squale anche il libretto dell’Italiana in Algeri, sempre di Anelli. Che gli autori lo avessero
ben presente è chiaro soprattutto nel corso delle ‘stazioni’ che formano il finale d’atto:
ISABELLA
(Che vedo? oh ciel! Norina! (Oh ciel!)
Mi sembra di sognar!)
[…] LINDORO
(Che miro!)
ISABELLA
(Sogno?)
LINDORO
(Deliro?)
[…]
157
MARCO EMANUELE
esempio 2. A: Don Pasquale, II, 5 prima di 24, pp. 300-301; B: L’italiana in Algeri, I, 73, p. 25031
A
Norina
Fa te le co se in re go la,
B
Isabella
L’opera rossiniana costituisce un modello del Don Pasquale perché presenta un per-
sonaggio femminile che rovescia i rapporti di forza consueti. Come Sofronia, anche Isa-
bella si atteggia a nuova moglie di Mustafà, per il quale è appena stata catturata, e la sua
mutazione avviene nel giro di poche battute, quando incontra inaspettatamente Lindoro.
La mutazione è quindi il cardine drammaturgico e musicale delle opere che rappre-
sentano lo scontro dei sessi. Il personaggio femminile è quello cui compete la metamorfo-
si, proprio perché la voce femminile, particolarmente quella del soprano, è atta a plasma-
re la finzione, a declinarla nei modi del canto: è una voce istituzionalmente finta. La pos-
sibilità di passare rapidamente da un codice stilistico ad un altro è un elemento che iden-
tifica il femminile nel genere buffo. Per la sua Italiana esperta di vita, maestra di finzioni,
intrepida e smaliziata nell’arte di reggere il mondo conversando, come la Sanseverina di
Stendhal, Rossini sfrutta a fondo la capacità di larga escursione stilistica per la voce fem-
minile. Tale caratteristica nell’opera di Donizetti viene sfruttata in senso drammaturgico,
è pretesto dell’intreccio, coincide con l’azione scenica, in quanto Norina diventa un altro
personaggio, consapevole della propria bravura di trasformista. Una doppia metamorfosi:
Norina diventa Sofronia, Sofronia inizia ad agire come una colomba e si muta in serpen-
te. Sofronia è una donna posticcia, creata ad arte dalle parole di Malatesta secondo i ca-
noni della figura femminile concepiti dallo sguardo maschile («Bella siccome un angelo»,
I.2): proprio per questo la sua mutazione può avvenire improvvisamente, in una scena di
metateatro, provata in precedenza da Norina e Malatesta. Norina dunque incarna la ca-
pacità di metamorfosi vocale che è prerogativa della voce femminile nell’opera comica,
mentre più rigidi e a senso unico sono i movimenti scenici e vocali assegnati ai personaggi
maschili: Malatesta retorico e spigliato, legnoso come Figaro, ultima decantazione dell’at-
tivismo borghese ormai stagnante e come rimpicciolito dalla dimensione domestica del-
————
31
La cit. dell’esempio 2B viene da GIOACHINO ROSSINI, L’Italiana in Algeri, a cura di Azio Corghi, Pesaro, Fon-
dazione Rossini, 1981.
158
FISIOLOGIA DEL MATRIMONIO IN MUSICA: LOLITA E DON PASQUALE
l’opera; Don Pasquale incapace di profferire melodia compiuta, sillabante come Don Bar-
tolo; il suo contrario, Ernesto, tutto volto al sentimentale, in una borghese ripartizione dei
fatiche: a te il languido, a te il sentimentale, a te lo spumeggiante. A lei, però, tutto.
————
32
HEINRICH MANN, Professor Unrat oder Das Ende eines Tyrannen, ed. it. come L’angelo azzurro. Sesso e perdi-
zione, trad. di B. Maffi, Milano, Rizzoli, 1995 (ed. originale: München, Langen, 1905), p. 99.
159
MARCO EMANUELE
La sua carnagione era ormai quella di una qualsiasi, volgare, sciatta liceale che divide i
cosmetici con le amiche, spalmandoseli sulla faccia non lavata, le dita luride, senza curarsi di
quale sozzo tegumento, di quale epidermide pustolosa venga in contatto con la sua pelle.
Era così adorabile, una volta, quella sua liscia, rosea tenerezza…34
————
33
Poche righe prima, nel romanzo, Humbert aveva chiamato «baba» la moglie bambina trasformata dopo il ma-
trimonio (VLADIMIR NABOKOV, Lolita, trad. di G. Arborio Mella, Milano, Adelphi, 1993 [ed. originale: New York,
Putnam, 1955], p. 39): Nabokov forse ha in mente lo spaccato di vita matrimoniale che apre una scena di The Rake’s
Progress (II.3). D’altra parte anche Baba la Turca è una donna metamorfizzata: è l’incarnazione della donna-uomo, la
donna costruita ben nota allo sguardo maschile, che immancabilmente assiepa la casa di oggetti incredibili («Stessa
stanza della prima scena dell’atto secondo. Ma questa volta ingombra d’ogni immaginabile cianfrusaglia: uccelli e anima-
li impagliati, teche di minerali, porcellane, vetrerie ecc.») e trascorre con scatto improvviso dal registro del languore
(«Come, sweet, come») a quello tragico dell’aria di furia («Scorned! Abused! Neglected! Baited!» – cito la didascalia
nella traduzione di Antonio Cirignano pubblicata in IGOR STRAVINSKIJ, The Rake’s Progress, Torino, Teatro Regio,
1999, «I libretti»).
34
NABOKOV, Lolita cit., pp. 255-6.
160
FISIOLOGIA DEL MATRIMONIO IN MUSICA: LOLITA E DON PASQUALE
Marcelin (Émile Planat). Caricatura nel periodico «L’Illustration» del 23 novembre 1850.
161
Giuseppe Brioschi (1802-1854). Bozzetto scenico per Don Pasquale (I.1).
Vienna, Teatro di Porta Carinzia, 1843. Disegno acquarellato (Vienna, Österreichisches Theater Museum).
162
Giuseppe Brioschi (1802-1854). Bozzetto scenico per Don Pasquale (I.4).
Vienna, Teatro di Porta Carinzia, 1843. Disegno acquarellato (Vienna, Österreichisches Theater Museum).
163
Antonio Brioschi (1855-1920). Bozzetto scenico per Don Pasquale (I.1).
Vienna, Teatro dell’Opera, 1901. Disegno acquarellato (Vienna, Österreichisches Theater Museum).
164
Antonio Brioschi (1855-1920). Bozzetto scenico per Don Pasquale (III.1).
Vienna, Teatro dell’Opera, 1901. Disegno acquarellato (Vienna, Österreichisches Theater Museum).
165
DON PASQUALE DALL’ARCHIVIO STORICO DELLA FENICE
Venezia, Teatro La Fenice, 1943 (Venezia, Archivio storico del Teatro La Fenice).
166
DON PASQUALE DALL’ARCHIVIO STORICO DELLA FENICE
Bice Brichetto. Bozzetti scenici per Don Pasquale. Venezia, Teatro La Fenice, 1968
(Venezia, Archivio storico del Teatro La Fenice).
167
DON PASQUALE DALL’ARCHIVIO STORICO DELLA FENICE
Bice Brichetto. Bozzetti scenici per Don Pasquale. Venezia, Teatro La Fenice, 1968
(Venezia, Archivio storico del Teatro La Fenice).
168
DON PASQUALE DALL’ARCHIVIO STORICO DELLA FENICE
Scene e costumi di Bice Brichetto. Regia di Sandro Bolchi. Venezia, Teatro La Fenice, 1968
(Venezia, Archivio storico del Teatro La Fenice).
169
DON PASQUALE DALL’ARCHIVIO STORICO DELLA FENICE
Lauro Crisman. Bozzetti per i costumi di Norina. Venezia, Teatro La Fenice, carnevale 1990.
Il personaggio – come si vede dal figurino – ha il volto dell’interprete Barbara Hendricks.
(Venezia, Archivio storico del Teatro La Fenice).
170
DON PASQUALE DALL’ARCHIVIO STORICO DELLA FENICE
Lauro Crisman. Bozzetti per i costumi di Don Pasquale. Venezia, Teatro La Fenice, carnevale 1990.
Il personaggio – come si vede dal figurino – ha il volto dell’interprete Enzo Dara.
(Venezia, Archivio storico del Teatro La Fenice).
171
DON PASQUALE DALL’ARCHIVIO STORICO DELLA FENICE
Lauro Crisman. Bozzetti scenici per Don Pasquale. Venezia, Teatro La Fenice, carnevale 1990
(Venezia, Archivio storico del Teatro La Fenice).
172
DON PASQUALE DALL’ARCHIVIO STORICO DELLA FENICE
Scene e costumi di Lauro Crisman. Regia di Patrizia Gracis. Venezia, Teatro La Fenice, 1990
(Venezia, Archivio storico del Teatro La Fenice).
173
Pasquale Grossi, bozzetto scenico per Don Pasquale. Venezia, Teatro Malibran, aprile 2002.
174
Italo Nunziata
UN DON PASQUALE STILE ‘ANNI TRENTA’
La vicenda del Don Pasquale di Donizetti costituisce nella sua ambientazione tipica-
mente borghese un prototipo che dal 1840 ha una sua immutata attualità e che è sta-
to riproposto in seguito da generi e linguaggi espressivi diversi dall’opera lirica (teatro,
cinema, ecc.).
La formula tardo-ottocentesca della «commedia degli equivoci» di Feydeau, gli
intrecci delle sceneggiature del complesso fenomeno della «commedia italiana» nel cine-
ma sonoro degli anni Trenta, al di là di una valutazione o di un giudizio estetico e qua-
litativo, trovano la loro forza nella rappresentazione dell’immaginario collettivo di una
società medio-piccolo borghese di cui interpretano le aspirazioni e i sogni più diffusi.
Nel cinema degli anni Trenta vivono costanti correlazioni e interscambi di idee non
solo con la filmografia degli altri paesi europei, ma anche con il cinema di Hollywood.
Carattere peculiare delle sceneggiature cinematografiche di questo periodo è una tra-
ma mélo con momenti pieni di vitalità alternati ad altri intrisi di sentimenti delicati, al
cui centro domina una canzone. La «canzone dell’amore», inserita più volte in varie
sequenze dell’omonimo film, rende il motivo talmente familiare allo spettatore che, in
quell’epoca, non c’è persona che non la canticchi in Italia e in Europa. Addirittura
celebri cantanti d’opera, come Beniamino Gigli e Tito Schipa, ne fanno il proprio caval-
lo di battaglia.
La diffusione di questo nuovo genere espressivo del cinema sonoro deve in parte
quindi il suo ampio riscontro positivo alla tradizione melodico-operistica di arie e moti-
vi così popolari nel secolo precedente. Inoltre l’ambientazione di queste ‘commedie con
canzoni’ si avvale di soluzioni di scenografia e arredamento improntata su modelli
europei, alla ricerca di uno spazio ideale comune indifferente a qualsiasi confine
ideologico.
Mi è sembrato quindi interessante e coerente far rivivere la vicenda di Don Pa-
squale negli anni Trenta del Novecento, periodo nel quale il clima sociale presenta
curiose analogie con quello dell’ambientazione ottocentesca della trama del libretto. La
possibilità inoltre di mescolare diversi stili e linguaggi mi ha dato occasione di sfron-
dare l’opera da una serie di clichés, forse ormai lontani dalla nostra sensibilità. La fre-
schezza e l’ingenuità di alcuni momenti della trama possono essere forse esaltati con la
citazione di scene ispirate ad una stagione del cinema italiano cui si guarda sempre con
175
ITALO NUNZIATA
affetto nostalgico. Come non associare il personaggio di Ernesto alla figura dell’inna-
morato interpretato da Vittorio De Sica in film come Gli uomini che mascalzoni o Il
conte Max? E come non riconoscere in Norina l’Elsa Merlini della Segretaria privata,
una delle tante ‘cenerentole’ degli anni Trenta che non attende inerte il proprio desti-
no e che corona il sogno di sposare il proprio direttore?
Un omaggio dunque all’opera lirica e al cinema, lasciandosi condurre ancora una
volta dal gioco leggero della trama e dalla voglia di divertire e di divertirsi.
176
Pasquale Grossi. Figurino per Don Pasquale. Venezia, Teatro Malibran, aprile 2002.
177
Ritratto di Gaetano Donizetti attorno al 1842. Litografia di Josef Kriehuber.
178
GAETANO DONIZETTI
a cura di Mirko Schipilliti
1797
Domenico Gaetano Maria Donizetti nasce, quintogenito, il 29 novembre a Borgo Canale
nella periferia di Bergamo da una famiglia poverissima: è figlio di Andrea (1786-1835), la-
voratore tessile poi portiere al Monte dei Pegni, e di Domenica Nava (1786-1836), rica-
matrice. Tra i fratelli, Giuseppe (1788-1856) fu flautista di banda e nel 1831 fondò la pri-
ma scuola di musica occidentale a Costantinopoli.
1806
Viene ammesso alle «lezioni caritatevoli» che si tengono nella scuola diretta dal composi-
tore Johann Simon Mayr, presso la cappella musicale di Santa Maria Maggiore: con lui stu-
dia canto, pianoforte e teoria musicale.
1815
Nonostante le preferenze del padre per la giurisprudenza, grazie a Mayr prosegue gli stu-
di con Stanislao Mattei (già maestro di Rossini) al Liceo musicale di Bologna fino al 1817,
ove perfeziona la conoscenza del contrappunto.
1816
La prima delle settanta opere di Donizetti è l’atto unico Il Pigmalione (rappresentato po-
stumo nel 1960), oltre a molta musica strumentale (una ventina di sinfonie fino al 1837 e
numerosi quartetti per archi, che «giovarono tanto per risparmiare la fantasia e condurre
un pezzo con poche idee»). L’anno seguente scriverà l’Olimpiade e L’ira di Achille, incom-
piute e anch’esse ineseguite.
179
MIRKO SCHIPILLITI
1818
Conclusi gli studi, ricerca commissioni per opere nuove. Non accetta un invito ad inse-
gnare presso nobili famiglie di Ancona, ma si accorda per comporre un’opera al Teatro
San Luca di Venezia. Nella città lagunare in novembre va in scena Enrico di Borgogna su
libretto dell’amico Bartolomeo Merelli, futuro impresario alla Scala di Milano. Al San
Luca debutta anche la farsa Una follia, seguita l’anno dopo da Pietro il grande, czar delle
Russie al Teatro San Samuele.
1822
Il primo grande successo è Zoraide di Granata, al Teatro Argentina di Roma, che lo mette
in luce nel mondo dell’opera. Stipula un contratto con l’impresario Domenico Barbaja sia
come autore di opere nuove per i teatri napoletani (il primo lavoro per il San Carlo sarà Al-
fredo il grande, nel 1823), sia come direttore di composizioni altrui. A Napoli vengono ap-
plaudite La zingara al Teatro Nuovo e la farsa La lettera anonima al Teatro del Fondo. Se-
gue il debutto alla Scala con Chiara e Serafina, o Il pirata, su libretto di Felice Romani, ma
senza riscuotere molto successo. Papa Pio VII gli assegna l’onorificenza dello Speron d’oro.
1824
Al Teatro Valle di Roma si rappresenta il melodramma giocoso L’ajo nell’imbarazzo (più
tardi rielaborata per Napoli con la parte del buffo in dialetto). Al Teatro Nuovo debutta
Emilia di Liverpool.
1825
Chiusi i teatri romani per l’anno santo e quelli napoletani la morte di Ferdinando I, Doni-
zetti viene fortunatamente nominato «maestro di cappella, direttore della musica e com-
positore delle opere» al Teatro Carolino di Palermo, carica che mantiene fino al 1826. Per
questo teatro compone Alahor in Granata e vi fa rappresentare opere di Rossini, Cimaro-
sa, Paisiello, Spontini.
1826
Dopo la prima di Elvida al Teatro San Carlo di Napoli, compone di propria iniziativa Ga-
briella di Vergy, rielaborata nel 1838 e rappresentata postuma solo nel 1869. A Napoli in-
contra Bellini.
1827
Un nuovo contratto con Barbaja stabilisce la realizzazione di dodici opere in tre anni. Van-
no in scena Il borgomastro di Saardam alla Scala, Olivo e Pasquale al Valle di Roma, Otto
mesi in due ore e la satira di successo Le convenienze teatrali (su libretto proprio, poi am-
pliata in Le convenienze ed inconvenienze teatrali) al Teatro Nuovo.
1828
A Rimini sposa Virginia Vasselli (1808-1837), figlia di un giureconsulto pontificio. L’esule
di Roma al San Carlo è il successo più importante finora ottenuto, circola in tutta Italia e
viene ammirata da Rossini. Vengono rappresentate anche Alina regina di Golconda al
Carlo Felice di Genova e Gianni di Calais al Fondo di Napoli. Sono dell’anno successivo
Il paria al San Carlo e Il giovedì grasso ancora al Fondo di Napoli.
180
GAETANO DONIZETTI
1830
Anna Bolena, prima piena affermazione del Donizetti maturo, trionfa al Teatro Carcano di
Milano, avviando una felicissima carriera internazionale. Fino al 1832 Donizetti sarà im-
pegnato nella stesura di Gianni di Parigi, Francesca di Foix, La romanziera e l’uomo nero.
1832
Fausta viene applaudita al San Carlo. A causa delle forti limitazioni artistiche rescinde il
contratto con i teatri napoletani, ma Ugo conte di Parigi è un fiasco alla Scala. Al Teatro
della Cannobbiana, sempre a Milano, debutta l’Elisir d’amore, che segna la decisiva affer-
mazione di Donizetti in ambiente milanese. Al San Carlo va in scena Sancia di Castiglia.
1833
A Firenze debutta Parisina, a Roma Il furioso all’isola di San Domingo (dato per tutta la
stagione di carnevale e replicato alla Scala per trentasei sere) e Torquato Tasso (soggetto
meditato da tempo), mentre alla Scala trionfa Lucrezia Borgia (trentaquattro recite) dal-
l’omonima tragedia di Hugo. Non ottiene il posto di maestro di cappella a Novara, asse-
gnato invece a Mercadante.
1834
Dopo più di un anno d’assenza torna a Napoli con la moglie, dove è nominato insegnante
di contrappunto e composizione al Real Collegio. Al San Carlo va in scena Maria Stuarda,
tratta da Schiller. Gemma di Vergy è allestita alla Scala.
1835
Si reca a Parigi su invito di Rossini, che fa rappresentare al Théâtre Italien Marin Faliero
(successivamente lodata da Mazzini insieme ad Anna Bolena nella sua Filosofia della mu-
sica del 1847). Nella capitale francese ha modo di conoscere il grand opéra e di sfruttare il
buon livello delle orchestre. Al San Carlo trionfa Lucia di Lammermoor. In occasione del-
la morte di Bellini, Donizetti compone una romanza (Lamento per la morte di Bellini) e
una Messa di requiem, seguite da una sinfonia su temi del collega.
1836
Belisario è un successo al Teatro La Fenice di Venezia (dove tornerà nel 1838 per Maria di
Rudenz, a inaugurare il nuovo edificio ricostruito dopo l’incendio), mentre a Napoli sono
rappresentati Il campanello e Betly al Nuovo, L’assedio di Calais al San Carlo. Riceve la
Legion d’Onore. Viene pubblicata la raccolta d’arie Nuits d’été à Pausilippe.
1837
Pia de’ Tolomei debutta al Teatro Apollo di Venezia. Aspira alla direzione del Real Colle-
gio di Napoli dopo la morte di Zingarelli, ma gli sarà preferito ancora una volta Merca-
dante. Gli viene negata anche la direzione del Conservatorio di Milano. La morte della
moglie lo getta in una profonda afflizione. Al San Carlo debutta Roberto Devereux. Esce
la raccolta d’arie Soirées d’automne.
1840
Trasferitosi a Parigi dal 1838, debutta all’Opéra-comique con La fille du régiment, seguita
181
MIRKO SCHIPILLITI
al Théâtre de l’Opéra da Les martyrs, derivata dal Poliuto, composto nel 1838 ma proibi-
to dalla censura borbonica. I consensi in Francia sono crescenti, ma non gli risparmiano
gli attacchi di Berlioz. Raggiunge un notevole benessere economico, che sommato ai pri-
mi disturbi di salute lo fa meditare su un «amaro addio al teatro». La favorite all’Opéra
(adattamento dell’Ange de Nisida composta un anno prima) è un altro felice successo.
Merelli gli commissiona due opere, per Milano e Vienna, e gli offre la direzione della
stagione italiana nella capitale austriaca.
1841
È al Teatro Apollo di Roma per la prima di Adelia, senza successo. Commissionata da
Merelli, Maria Padilla va in scena alla Scala.
1842
Assiste al Nabucco alla Scala. A Bologna dirige lo Stabat Mater di Rossini: è presente Ver-
di. Recatosi a Vienna, vi dirige ancora lo Stabat Mater e Linda di Chamounix, sua creazio-
ne per il Teatro di Porta Carinzia, cui aveva lavorato assiduamente nei mesi precedenti. Il
nuovo successo gli vale il posto di «maestro di cappella e di camera» e di compositore di
corte, per sei mesi all’anno. Compone Caterina Cornaro (andrà in scena al San Carlo nel
1844).
1843
Il 3 gennaio Don Pasquale, ultimo lavoro buffo, debutta al Théâtre Italien, a Vienna diri-
ge Nabucco, Il barbiere di Siviglia e la sua Maria di Rohan, accolta con grande entusiasmo.
All’Opéra Dom Sébastien, ultima partitura operistica, non ottiene molti consensi, mentre
a Vienna è un trionfo. Le condizioni di salute si aggravano, segnate dai sintomi di una pro-
babile neurosifilide, con amnesie, vertigini, difficoltà di concentrazione, forti cefalee, in-
stabilità posturale, alterazioni dell’umore in evoluzione verso la demenza.
1845
La malattia si acuisce definitivamente: a partire dal 1846 il nipote Andrea, incapace di
provvedere a cure adeguate, decide di ricoverare Donizetti nella casa di cura d’Ivry per
malati psichiatrici. La procedura, sostenuta da un decreto del prefetto di polizia, si rivele-
rà come ingiusta segregazione per diciassette mesi per il compositore, ancora in grado di
comprendere la propria condizione, come testimoniano alcune sue lettere.
1848
Dopo polemiche, faticose vicende burocratiche e la mediazione di personalità politiche,
Donizetti è rimpatriato. A Bergamo dall’ottobre 1847 vive nella residenza della nobile
Rosa Rota-Basoni Scotti, amica e sostenitrice, dove muore l’8 aprile, ormai demente e
paralizzato. L’11 aprile riceve imponenti onoranze funebri davanti a più di quattromila
persone ed è inumato nel cimitero di Valtesse nella cappella della famiglia Pezzoli.
182
Locandina per le «Onoranze centenarie a Gaetano Donizetti» (1797-1897).
183
Gaetano Donizetti. Stampa litografica.
184
Francesco Bellotto
BIBLIOGRAFIA
185
FRANCESCO BELLOTTO
E non c’era solo la politica: a Parigi e a Vienna infatti la situazione non era migliore.
Come dimenticare le invidiose prese di posizione pubbliche di Berlioz che assisteva – im-
potente – alla colonizzazione dei principali teatri di Francia per mano d’uno straniero?
Come tacere poi il livore di Schumann e di Assmayer che, rivendicando dalla corte di
Vienna maggiori onori ed attenzione, contestavano l’eccessiva fortuna di Donizetti nei
paesi di lingua tedesca?
Aggiungiamo infine a questo quadro l’ultimo capitolo della vita di Donizetti: una
‘scandalosa’ malattia di origine sessuale (una sifilide devastante); la demenza che ne con-
seguì; l’internamento nel manicomio; un’agonia umiliante ed esibita senza protezione; il
modo ignobile in cui parenti e amici specularono su fama e patrimonio del Maestro… Con
questo formidabile miscuglio d’ingredienti si confezionò una ricetta perfetta per un affai-
re Donizetti che trovò posto su tutte le peggiori gazzette scandalistiche europee, e che in-
fluì non poco sul buon nome del Maestro.
In poche parole, dopo il 1845 (anno dell’internamento), le opere di Donizetti rima-
sero sul campo di battaglia ad affrontare – senza il loro generale – una formidabile allean-
za nemica... E così avvenne che la gran parte del repertorio donizettiano scomparisse gra-
dualmente dai cartelloni, pur con l’eccezione di una manciata di titoli dalla vitalità one-
stamente insopprimibile (Elisir, Lucia, Favorite, Fille du régiment, Don Pasquale). E così
pure avvenne che – tranne per alcuni, non insignificanti, bagliori1 – un certo ostracismo
calasse anche sul mondo degli studi e delle edizioni donizettiane.
A motivi di ordine celebrativo si dovranno i primi tentativi di disamina dell’enorme
opus donizettiano: nel 1897, a cent’anni dalla nascita del compositore, un comitato con-
giunto tra Bergamo, Napoli, Parigi e Vienna organizzò una mostra che – con la forza del-
l’evidenza – cominciò a rivelare dimensioni ed importanza della produzione donizettiana.2
————
1
Il primo contributo è di FRANCESCO REGLI, Gaetano Donizetti e le sue opere, Torino, Fory e Dalmazzo, pub-
blicato nel 1850, all’indomani della scomparsa del compositore. Nel segno di un contenimento del fenomeno doni-
zettiano nella tradizione italiana è il saggio Donizetti et l’école italienne depuis Rossini di PAUL SCUDO (pubblicato in
ID., Critique et littérature musicales, Parigi, Lecou, 1850). Notizie di prima mano vennero raccontate dall’amico napo-
letano TEODORO GHEZZI, Ricordi su Donizetti, «Omnibus», IV, 7 marzo 1860. Conservano inoltre una certa impor-
tanza storica anche per il lettore moderno: FILIPPO CICCONETTI, Vita di Gaetano Donizetti, Roma, Tipografia Tiberi-
na, 1864; ANTONIO BELOTTI, Donizetti e i suoi contemporanei, Bergamo, Pagnoncelli, 1866; la voce Donizetti Gaetano
della Biographie universelle des musiciens di FRANÇOIS-JOSEPH FÉTIS, Parigi, 1874. Alcuni conterranei si adoperarono
per rendere disponibili notizie e materiali inediti; il primo fu il grande impresario BARTOLOMEO MERELLI, con i suoi
Cenni biografici di Gaetano Donizetti raccolti da un vecchio dilettante di buona memoria, Bergamo, Civelli, 1874; seguì
MARCO BONESI, Cenni biografici su Gaetano Donizetti (rimasto manoscritto e pubblicato nella rivista «Bergomum» so-
lamente nel 1946); FILIPPO ALBORGHETTI e MICHELANGELO GALLI, Gaetano Donizetti e G. Simone Mayr: notizie e do-
cumenti, Bergamo, Gaffuri e Gatti, 1875; PIETRO COMINAZZI, Scorsa attraverso le opere musicali di Gaetano Donizetti:
reminiscenze, «La Fama», 35-40, 1875. Uno dei volumi più interessanti di questa prima stagione bibliografica è di
EDOARDO CLEMENTE VERZINO, che nel suo Contributo ad una biografia di Gaetano Donizetti, Bergamo, Carnazzi,
1896, riporta dati e notizie ancora oggi valide per ricostruire le circostanze biografiche della vita del compositore.
2
Catalogo Generale della Mostra Donizettiana, Bergamo, Arti Grafiche, 1897; Mostra Donizettiana. Catalogo del
R. Conservatorio di Musica di Napoli, Bergamo, Arti Grafiche, 1897; Katalog der Donizetti-Austellung (Austellung der
für die Centenarfeier in Bergamo bestimmten österr. Objecte), Vienna, 1897; CHARLES-THÉODORE MALHERBE, Cente-
naire de Gaetano Donizetti: catalogue bibliographique de la section française à l’exposition de Bergame, Parigi, 1897;
Gaetano Donizetti: numero unico nel primo centenario della sua nascita 1797-1897, Bergamo, Arti Grafiche, 1897 (con-
tiene, fra l’altro: PARMENIO BETTOLI, Le opere di Gaetano Donizetti: errori e lacune; ARTHUR POUGIN, Les opéras de Do-
nizetti en France, CORRADO RICCI, Donizetti a Bologna). Il problema delle fonti era ufficialmente aperto, e in quello
scorcio di mesi vennero alla luce altri elenchi e repertorii: GIUSEPPE ALBINATI, Prospetto cronologico delle opere di Do-
nizetti, «Rivista musicale italiana», 1897; ADOLFO CALZADO, Donizetti e l’opera italiana in Spagna, Parigi, Chaix, 1897;
EDOARDO CLEMENTE VERZINO, Le opere di Gaetano Donizetti: contributo alla loro storia, Bergamo, Carnazzi, 1897.
186
BIBLIOGRAFIA
————
3
IPPOLITO VALETTA, Donizetti, Roma, 1897; ANNIBALE GABRIELLI, Gaetano Donizetti. Biografia, Roma-Torino,
Roux-Viarengo, 1904; ALBERTO CAMETTI, Donizetti a Roma, Torino, Bocca, 1907; le pagine dedicate a Donizetti da
ARTHUR POUGIN, Musiciens du 19. siècle, Parigi, Librairie Fischbacher, 1911.
4
Il catalogo a stampa è pubblicato in VALERIANO SACCHIERO, Il Museo Donizettiano a Bergamo, Bergamo, 1970.
5
CIRO CAVERSAZZI, Gaetano Donizetti, la casa dove nacque, la famiglia, l’inizio della malattia, Bergamo, Arti Gra-
fiche, 1924; GAETANO BONETTI, Gaetano Donizetti, Napoli, 1926; CARLO SCHMIDL, Donizetti Gaetano, in Dizionario
universale dei musicisti, Milano, Sonzogno, 1926; GIULIANO DONATI-PETTENI, G. Donizetti, Milano, Treves, 1930;
GIANANDREA GAVAZZENI, Gaetano Donizetti: vita e musiche, Milano, Bocca, 1937 (libro che suscitò grandi polemiche
per alcune posizioni giudicate ‘antidonizettiane’, visione ampiamente e ripetutamente modificata dall’autore negli an-
ni successivi); ANGELO GEDDO, Donizetti, Bergamo, Orobiche, 1938, GINO MONALDI, Gaetano Donizetti, Torino,
1938; ARNALDO FRACCAROLI, Donizetti, Milano, Mondadori, 1944.
6
GUIDO ZAVADINI, Gaetano Donizetti: vita, musiche, epistolario, Bergamo, Arti Grafiche, 1948; libro che era sta-
to preceduto da ID., Gaetano Donizetti, vicende della sua vita e catalogo delle sue musiche su documenti inediti, Berga-
mo, Arti Grafiche, 1941.
7
E tali pregiudizi talvolta sono sopravvissuti negli scritti – pur ampiamente successivi al 1948 – di autorevoli (e
dunque influenti) firme. L’esempio sicuramente più famoso in tal senso è rappresentato da Massimo Mila.
8
Inaugura la serie il libro GUGLIELMO BARBLAN, L’opera di Donizetti nell’età romantica, Bergamo, Arti Grafiche,
1948; ripetutamente arricchito nel corso dell’operosa vita del musicologo, sino ad arrivare all’ultima, postuma, versio-
ne: GUGLIELMO BARBLAN, BRUNO ZANOLINI, Gaetano Donizetti. Vita e opere di un musicista romantico, Bergamo, Li-
guria Assicurazioni, 1983.
9
Si tratta dei quattro numeri degli Studi donizettiani (Bergamo 1962, 1972, 1978 e 1988) voluti e coordinati da
Frank Walker e Guglielmo Barblan.
187
FRANCESCO BELLOTTO
cominciano ad affacciarsi alla ribalta alcuni autori10 che diventeranno i principali attori
nella stagione della fortuna critica del compositore: si fa strada il composito movimento
che passerà alla storia come Donizetti Renaissance. In Italia comincia il recupero sistema-
tico di opere dimenticate; in Inghilterra dal 1974 la Donizetti Society di Londra è attiva-
mente presente nel panorama bibliografico11 e gli Stati Uniti sono la patria del più impor-
tante fra gli studiosi moderni, William Ashbrook.12 Questo autore rappresenta per i doni-
zettiani ciò che rappresenta Julian Budden per i verdiani: il suo Donizetti. La vita. Le ope-
re,13 è ancora oggi il testo fondamentale ed imprescindibile per chiunque (specialista o
semplice appassionato) voglia conoscere la figura e l’opera del compositore di Bergamo.
Nel 1975 viene organizzato a Bergamo un grande convegno internazionale di studi.
La manifestazione segna a tutti gli effetti l’ingresso di Donizetti nella musicologia interna-
zionale accademica. Da quel preciso momento, la critica e la storiografia subiscono una
decisa accelerata sia nella quantità sia nella qualità degli studi; e così alle monografie ‘ge-
neraliste’14 fa da sfondo costante una variatissima costellazione di saggi pubblicati singo-
larmente o in volumi collettivi,15 che ha trovato nelle celebrazioni del 1997 e 1998 un mo-
mento di grande fioritura.16
Se il risveglio della critica e della storiografia è stato tardivo, la filologia musicale ha
fatto anche peggio: le edizioni delle opere donizettiane pubblicate fino all’inizio degli an-
ni Ottanta del Novecento erano generalmente improntate ad uno scarso rispetto delle fon-
ti. Era argomento ricorrente la denuncia di frettolosità, imprecisione ed incompletezza
delle fonti autografe. Ed era altrettanto ricorrente trovare curatori di edizioni frettolosi,
imprecisi e superficiali. Una prima inversione di tendenza si ha con l’uscita, nel 1984, di
una monografia dello statunitense Philip Gossett interamente dedicata ad Anna Bolena:17
i più aggiornati strumenti della filologia musicale venivano finalmente utilizzati per inda-
gare la complessità del processo compositivo di Donizetti, con un atteggiamento di reale
————
10
FRANCA CELLA, L’opera di Donizetti nella cultura europea, Milano, 1964; HERBERT WEINSTOCK, Donizetti and
the World of the Opera in Italy, Paris and Vienna in the First Half of the Nineteenth Century, Londra, Mathuen, 1964.
11
Con le «Newsletter» periodiche e soprattutto con i suoi sette «Journal» (1974, 1975, 1977, 1980, 1984,
1988, 2002).
12
La prima sua uscita è WILLIAM ASHBROOK, Donizetti, Londra, Cassel, 1965.
13
Versione più ricca e completa di quella inglese, stampata a Cambridge nel 1982: WILLIAM ASHBROOK, Doni-
zetti. La vita, Torino, EDT, 1986; WILLIAM ASHBROOK, Donizetti. Le opere, Torino, EDT, 1987. I due volumi sono a cu-
ra di Fulvio Stefano Lo Presti.
14
Fra le opere di argomento più generale ricordiamo almeno due esempi di intelligente divulgazione: PIERO
MIOLI, Donizetti: 70 melodrammi, Torino, EDA, 1988 e SAMY FAYAD, Vita di Donizetti, Milano, Camunia, 1995. Da
prendere in importante considerazione è inoltre la voce dedicata a Donizetti da Mary Ann Smart nel The New Grove
Dictionary of Music and Musicians, 29 voll., a cura di Stanley Sadie, Londra, Macmillan, 20012: VII pp. 471-497.
15
Ad aprire il filone delle collezioni di studi sono ovviamente gli Atti del primo convegno internazionale di studi
donizettiani, Bergamo 22-28 settembre 1975, a cura di Pier Alberto Cattaneo, Bergamo, Azienda Autonoma di Turi-
smo, 1983; seguiti da Gaetano Donizetti, a cura di Giampiero Tintori, Milano, Nuove Edizioni, 1983, e da L’opera tea-
trale di Gaetano Donizetti: atti del convegno internazionale di studio, Bergamo 17-20 settembre 1992, a cura di France-
sco Bellotto, Bergamo, Comune di Bergamo, 1993.
16
Studi su Gaetano Donizetti nel bicentenario della nascita (1797-1997), a cura di Marcello Eynard, Bergamo, Se-
comandi, 1997; Donizetti e i teatri napoletani nell’Ottocento, catalogo della mostra a cura di Franco Mancini e Sergio
Ragni, Napoli, Electa, 1997; Donizetti, Napoli, l’Europa, a cura di Franco Carmelo Greco e Renato di Benedetto, Na-
poli, Edizioni Scientifiche, 2000; Donizetti, Parigi e Vienna: convegno internazionale: Roma, 19-20 marzo 1998, Roma,
Accademia nazionale dei Lincei, 2000; Il teatro di Donizetti. Atti dei convegni delle Celebrazioni. I. La vocalità e i can-
tanti, a cura di Francesco Bellotto e Paolo Fabbri, Bergamo, Fondazione Donizetti, 2001.
17
PHILIP GOSSETT, Anna Bolena and the Artistic Maturity of Gaetano Donizetti, Oxford, Clarendon, 1984.
188
BIBLIOGRAFIA
attenzione nei confronti delle sue testimonianze manoscritte. Ma l’impresa editoriale che
ha più profondamente inciso sulla riconsiderazione del repertorio è l’Edizione critica del-
le opere di Gaetano Donizetti.18 Diretta da Gabriele Dotto e Roger Parker, ha definitiva-
mente spazzato il campo dall’ultimo, grave, pregiudizio: non è vero che il sistema espres-
sivo della scrittura di Donizetti fosse insufficiente o mediocre: è in realtà il nostro sistema
percettivo ad avere bisogno di strumenti e modelli di riferimento attendibili.19 Dal 2001,
per riconoscimento del Ministero per i beni culturali, l’Edizione critica ha assunto la di-
gnità di Edizione nazionale.
Nell’elenco di cataloghi, miscellanee, strenne e monografie stampate tra 1997 e 1998
– i due anni delle celebrazioni – si trova anche uno studio importantissimo, sicuramente il
contributo storiografico più significativo uscito dopo quello di Ashbrook: la raccolta del-
le recensioni delle prime rappresentazioni delle opere di Donizetti curata da Annalisa Bi-
ni e Jeremy Commons.20 In questa monumentale opera si rendono note molte informa-
zioni inedite e si traccia un panorama critico fondamentale per comprendere la ricezione
e la tradizione dei melodrammi donizettiani.
Per completare questo rapido excursus bibliografico, bisogna poi segnalare che un
Istituto culturale operativo dal 1997 a Bergamo, la Fondazione Donizetti diretta da Paolo
Fabbri, sta occupandosi sistematicamente di ricerca e studio sull’opera e sulla figura del
compositore. Le pubblicazioni della Fondazione si muovono verso disparati ambiti d’in-
dagine: il catalogo,21 l’aggiornamento dell’epistolario,22 la storiografia,23 la librettistica.24
Concludiamo con una postilla bibliografica sul Don Pasquale. La celebre opera di
Donizetti ha ispirato numerosi studi.25 Il primo problema affrontato dagli esperti è stato
quello di provare la definitiva attribuzione del libretto a Giovanni Ruffini, in opposizione
a quel «M. A.». attestato dalle prime edizioni.26 Ha suscitato la curiosità degli studiosi an-
————
18
I titoli ad oggi pubblicati sono Maria Stuarda, Il campanello, La favorite, Poliuto. Le introduzioni storiche ai sin-
goli volumi sono studi fondamentali per conoscere i più recenti orientamenti storico-critici legati alle singole opere.
19
Per i riferimenti teorici generali dell’edizione, si legga ROGER PARKER, A Donizetti Critical Edition in the Post-
modern World, in L’opera teatrale di Gaetano Donizetti cit., pp. 57-68.
20
Le prime rappresentazioni delle opere di Donizetti nella stampa coeva, a cura di Annalisa Bini e Jeremy Com-
mons, Roma-Milano, Accademia Nazionale di Santa Cecilia-Skira, 1997.
21
È stato pubblicato il catalogo descrittivo degli autografi conservati nell’Archivio Storico Ricordi: Donizetti a
Casa Ricordi – gli autografi teatrali; a cura di Alessandra Campana, Emanuele Senici e Mary Ann Smart, Bergamo, Fon-
dazione Donizetti, 1998. Ma per la catalogazione complessiva lo strumento ad oggi più utile (anche se avrebbe biso-
gno di una sostanziosa revisione) è rappresentato dal lavoro di LUIGI INZAGHI, Catalogo generale delle opere di Doni-
zetti, in Gaetano Donizetti, a cura di Giampiero Tintori, Milano, Nuove Edizioni, 1983.
22
È prevista per quest’anno l’uscita del primo numero dei Quaderni della Fondazione Donizetti, interamente de-
dicato a nuove lettere, notizie e documenti.
23
Stampata la biografia storica del maestro di Donizetti: GIROLAMO CALVI, Di Giovanni Simone Mayr, a cura di
Pierangelo Pelucchi, Bergamo, Fondazione Donizetti, 2000.
24
Esiste un repertorio di libretti molto utile per conoscere il plot delle singole opere donizettiane, ma non uti-
lizzabile a fini scientifici, dal momento che il lettore non è messo in grado di comprendere a quali rappresentazioni
corrispondono i libretti pubblicati: Tutti i libretti di Donizetti, a cura di Egidio Saracino, Milano, Garzanti, 1993. È
inoltre in preparazione, a cura di Luigi Ferrara degli Uberti e Silvia Urbani, il catalogo dei libretti donizettiani presenti
nel Fondo Rolandi della Fondazione Cini, edito dalla Fondazione Donizetti.
25
Esiste, ad esempio, un libro interamente dedicato all’opera, ben documentato: FRANCESCO ANSELMO ATTAR-
DI, «Don Pasquale» di Gaetano Donizetti, Milano, Mursia, 1998 («Invito all’opera»).
26
La questione è stata chiarita da ALFONSO LAZZARI, Giovanni Ruffini, Gaetano Donizetti e il Don Pasquale (da
documenti inediti), «La rassegna musicale» XXXVI, vol. CCV, 1915 (ripubblicato in Dentro Donizetti, a cura di Dario
della Porta, Bergamo, Bolis, 1983). Ritornano sull’argomento GIOVANNI RUFFINI, I fratelli Ruffini: lettere di Giovanni
189
FRANCESCO BELLOTTO
che la questione dei modelli drammaturgici e letterari dell’opera;27 a questo proposito gli
esiti di ricerca più innovativi sono stati ultimamente raggiunti da Paolo Fabbri.28 Per
quanto attiene la critica e la drammaturgia, terreno sul quale si sono misurati i massimi
specialisti, si deve segnalare l’articolo di Piero Rattalino dedicato al processo compositivo
dell’opera29 e soprattutto il recente, ampio, saggio di Philip Gossett premesso al facsimile
dell’autografo:30 è lo studio più completo ed interessante dedicato interamente a Don
Pasquale, altissimo punto di arrivo – e dunque indiscutibile punto di partenza – di
un’infinita catena bibliografica…
————
e Agostino Ruffini alla madre dall'esilio francese e svizzero (1833-1835), a cura di Arturo Codignola, Genova, Società
ligure di storia patria, 1925; FRANK WALKER, The Librettist of «Don Pasquale» «Monthly Musical Record», LXXXVIII,
1958; PIETRO BERRI, Il librettista del «Don Pasquale» leggende, ingiustizie, plagi, «La Scala», CX, 1959; JOHN ALLITT,
Don Pasquale, «The Donizetti Society Journal», II, 1975.
27
A questo proposito si citi almeno CHARLES CRONIN, Stefano Pavesi’s Ser Marcantonio and Donizetti’s Don
Pasquale, «The Opera Quarterly», XI/2, 1995.
28
Un saggio con le sue conclusioni verrà pubblicato a breve dalla Fondazione Donizetti negli Atti del convegno
sulle opere di Gaetano Donizetti organizzato a Venezia dalla Fondazione Teatro La Fenice nel 1997.
29
PIERO RATTALINO, Il processo compositivo nel «Don Pasquale» di Donizetti, «Nuova rivista musicale italiana»,
IV, 1970, pp. 51-68; 263-280.
30
GAETANO DONIZETTI, Don Pasquale. Facsimile dell’autografo, Milano-Roma, Ricordi-Accademia di Santa
Cecilia, 1999.
190
Mon portrait fait par moi même. Autocaricatura di Gaetano Donizetti datata 1841.
191
Corrado Rovaris.
192
BIOGRAFIE
a cura di Pierangelo Conte
CORRADO ROVARIS
Assistente del maestro del coro del Teatro alla Scala dal 1992 al 1996, ha iniziato la car-
riera col repertorio barocco, per poi affrontare Mozart, Haydn, MyslivecŠek, Paisiello,
Donizetti, Rossini, Bizet. Ha presenziato nei cartelloni di importanti istituzioni teatrali e
concertistiche: basti ricordare Tamerlano al Regio di Torino, Don Giovanni a Colonia (una
produzione che in seguito è stata presentata in tournée in Francia ed in Italia), Apollo e
Dafne a Cremona, Il signor Bruschino e l’Otello rossiniano al ROF. Regolarmente impe-
gnato sul podio di numerose orchestre in Italia ed all’estero, nella stagione 1998-1999
Corrado Rovaris ha diretto Il turco in Italia a Parma, La serva padrona a Firenze, Il bar-
biere di Siviglia a Cagliari, Dido and Aeneas all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Nella stagione successiva è tornato a Verona per Don Giovanni, ha debuttato all’Opera
Company di Philadelphia nelle Nozze di Figaro, ha diretto La cambiale di matrimonio
all’Opéra di Lione, Luisa Miller e Rigoletto a Losanna, Il barbiere a Francoforte e infine
Il signor Bruschino alla Scala. La scorsa stagione, dopo Il barbiere a Torino ed Elisir d’a-
more a Reggio Emilia, ha ottenuto uno strepitoso successo con Luisa Miller a Losanna e
con La gazzetta al Garsington Opera Festival. Recentemente ha diretto Così fan tutte nei
teatri di Trento, Rovigo, Bolzano, Il barbiere a Bologna ed Un giorno di regno alla Scala.
ITALO NUNZIATA
Inizia giovanissimo a lavorare in teatro come attore ed assistente alla regia. A ventiquat-
tro anni firma la sua prima regia lirica, Così fan tutte per il Teatro Petruzzelli di Bari. A
questo brillante e precoce esordio fanno seguito numerosi altri impegni come regista in
importanti teatri lirici italiani e stranieri. Tra questi ricordiamo La pietra di paragone a
Catania (1988), Aida ad Ankara (1992), L’Aretusa di Vitali e La Cenerentola a Roma
(1992), Rigoletto a Treviso e a Rovigo (1993), I puritani a Catania (1994), Un ballo in
maschera a Treviso, a Ravenna e a Modena (1994), Simon Boccanegra e Maria Stuarda a
Roma (1996 e 1997). Ha ottenuto grande successi nella primavera del 1999 con un’im-
portante edizione di Aida in Giappone e nel 2001 con La sonnambula a Napoli. Ha par-
tecipato alla prima esecuzione in epoca moderna dell’opera Gina di Cilea in occasione del
cinquantenario della scomparsa del compositore calabrese, data al Teatro Rendano di
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PIERANGELO CONTE
Cosenza: l’opera è stata coprodotta dal Teatro dell’Opera di Roma, sede in cui andrà in
scena il novembre prossimo. Il suo lavoro registico, caratterizzato dalla messa in scena di
opere in prima esecuzione moderna del repertorio settecentesco e del primo Ottocento,
ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il premio «Abbiati» conferito per il dittico
schubertiano Die Zwillingsbrüder e Der vierjärige Posten, rappresentato a Cosenza nel
1997. Avvalendosi dei suoi studi nel settore della danza, ha inoltre collaborato alla stesu-
ra di soggetti per alcune importanti produzioni di balletto. Nunziata si dedica anche ad
un’intensa attività didattica per la formazione dei cantanti, mirata in particolare all’ap-
profondimento del rapporto tra musica e gestualità. Da sei anni è direttore artistico del
Teatro Rendano, dove programma la stagione lirica, di prosa, di danza e di teatro per
ragazzi.
PASQUALE GROSSI
Nel corso di un lungo percorso artistico internazionale Pasquale Grossi ha stretto una
feconda relazione con il Teatro La Fenice, che negli anni si è concretizzata in importanti
produzioni. Grossi ha infatti firmato scene e costumi per Szenen aus Goethes Faust di
Schumann, Orlando, La finta pazza di Sacrati, Cailles en sarcophage di Sciarrino, Il bar-
biere di Siviglia ed ha collaborato con registi quali Puecher, Flach, Marini, Tiezzi. Tra le
sue recenti creazioni – oltre a Gina di Cilea, curato registicamente da Nunziata, per la
quale ha realizzato le scene – ricordiamo Gianni Schicchi e La brocca rotta di Testi nelle
produzioni del Comunale di Bologna, Carmen a Cagliari, Un ballo in maschera per la regia
di Fassini, Lucia di Lammermoor per la regia di Brockhaus, Il barbiere di Siviglia e Il cam-
piello a Tokyo.
ENZO CAPUANO
Inizia la carriera artistica prima come cantautore e successivamente come autore comico.
La predilezione per la musica a programma lo porta presto a comporre colonne sonore
per vari spettacoli, cortometraggi, cartoni animati, nonché musiche-guida per la musico-
terapia e la psicodinamica. Dopo essersi diplomato in musica elettronica e in canto al
Conservatorio di Milano, incontra Maria Luisa Cioni con la quale si perfeziona; nel 1989
intraprende definitivamente la carriera di cantante lirico. Da allora ha cantato a Pesaro
nella Gazza ladra, alla Scala in Bohème (con Gavazzeni), nei Vespri siciliani, in Lodoïska
di Cherubini (entrambe con Muti) e Arabella di Strauss (con Sawallisch), a Parma,
Bordeaux e Napoli in Luisa Miller, a Trieste nei Puritani ed in Lucia di Lammermoor sotto
la bacchetta di Oren. Recentemente è stata salutata con grandi acclamazioni la sua inter-
pretazione del ruolo di Bonafede nel Mondo della luna di Haydn andato in scena alla
Staatsoper di Berlino e diretto da Jacobs.
MASSIMO GIORDANO
Vincitore a Spoleto nel 1997, ha debuttato nella Clemenza di Tito, nella Traviata, in Don
Pasquale a Trieste, in Candide di Bernstein, nel Werther di Massenet. Dopo esser stato
Rodolfo in tournée con il progetto «Opera giovani in Europa», nel corso delle ultime sta-
gioni ha cantato Siberia di Giordano e Faust al Festival di Wexford, Roméo et Juliette di
Gounod a Parma, Falstaff a Modena, Reggio Emilia, Dresda, a Berlino e a Salisburgo
(anche con Abbado e Maazel), Le jongleur de Notre-Dame di Massenet a Roma, Werther
a Zurigo e a Tolosa, Die Fledermaus a Trieste, La rondine a Roma, Elisir d’amore a Reggio
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BIOGRAFIE
Emilia, Un giorno di regno alla Scala con Rovaris, la Messa da requiem a Roma e al
Concertgebouw di Amsterdam con Chailly. Più recentemente ha impersonato il Duca di
Mantova a Venezia, Oronte nei Lombardi alla prima crociata nei teatri del Circuito lom-
bardo, Alfredo a Tokyo e Rinuccio in Gianni Schicchi a Roma.
FRANCO VASSALLO
Messosi in luce nel 1984 con la vittoria all’As.Li.Co., ha vestito i panni di Figaro nel ros-
siniano Barbiere e di Enrico nella Lucia di Lammermoor alla Fenice, di Lescaut a Brescia,
Modena, Cremona, Piacenza. Vincitore del Concorso di Budapest ha debuttato in Falstaff
ed in Madama Butterfly a Verona. Dopo aver cantato nuovamente nel Barbiere, in Don
Pasquale a Sanremo, nella Traviata, in Rigoletto a Lugano, ritorna a Venezia per La gazza
ladra. In seguito si esibisce in Elisir d’amore, nella Bohème e nel Don Carlo a Palm Beach,
nell’Aida al Cairo, nel Trovatore a Catania, quindi interpreta Sharpless a Milano e a Parma
e prende parte a nuove produzioni della Bohème a Savona, del Barbiere a Cosenza e di
Attila a Sassari.
PAOLO ORECCHIA
Ha debuttato nel 1986 il ruolo di Malatesta nel Don Pasquale: questa è stata la prima
tappa di una carriera che lo ha portato ad esibirsi nei principali teatri italiani (ricordiamo
Fedora e La fanciulla del West alla Scala, Parsifal al San Carlo e Bohème, La traviata e
Madama Butterfly a Venezia). Dopo esser stato nuovamente Malatesta sotto la direzione
di Roberto Abbado, in questi ultimi anni il baritono romano ha cantato Tosca e Manon
Lescaut a Palermo, Werther, Rigoletto, Macbeth a Genova, Carmen a Venezia e a
Macerata, La sonnambula e Fedora a Torino, Andrea Chénier a Catania, Boris Godunov, Il
barbiere e Un ballo in maschera a Roma, La traviata a Trieste, a Torino ed in tournée in
Giappone con La Fenice.
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AREA ARTISTICA
direttore musicale MARCELLO VIOTTI
direttore della programmazione artistica FORTUNATO ORTOMBINA
responsabile dei servizi musicali direttore musicale di palcoscenico
SANDRA PIRRUCCIO GIUSEPPE MAROTTA *
MAESTRI COLLABORATORI
Stefano Gibellato * Silvano Zabeo ◆ Raffaele Centurioni ◆ Samuele Pala ◆ Maria Cristina Vavolo ◆
maestro rammentatore Pierpaolo Gastaldello ◆
maestro alle luci Ulisse Trabacchin ◆
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CORO DEL TEATRO LA FENICE
direttore del Coro GUILLAUME TOURNIAIRE
◆ a termine
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Edizioni del Teatro La Fenice Direzione Marketing, settore Stampa e comunicazione
Pubblicità
A.P.
Ve.Net
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