Sociologia Del Diritto Febbrajo Libro Intero
Sociologia Del Diritto Febbrajo Libro Intero
Sociologia Del Diritto Febbrajo Libro Intero
DEL DIRITTO
PARTE PRIMA
CAPITOLO 1
Secondo
una
definizione
sociologica
del
concetto
di
diritto,
molto
generica,
il
diritto
andrebbe
inteso
come
una
struttura
normativa
complessa
che
sia:
ñ Capace di predeterminare le procedure con cui reagire agli stimoli provenienti dalla società;
ñ In grado di mantenere entro limiti accettabili la coesione di quest’ultima;
ñ Applicabile in linea di principio a ogni campo della vita sociale.
Gli
elementi
che
compongono
questo
concetto
di
diritto
riguardano
rispettivamente:
a)
gli
strumenti
di
regolazione
e
b)
di
autoregolazione,
c)
le
loro
funzioni
e
d)
le
loro
potenzialità.
Essi
delineano,
pertanto,
un
concetto
di
diritto
che
comprende
norme
interne
rivolte
agli
operatori
per
prefissare
criteri
e
principi
del
loro
intervento,
a)
e
b),
come
pure
norme
esterne,
rivolte
ai
consociati
per
ridurre
le
loro
possibilità
di
comportamento
e
consentire
quindi
reciproche
aspettative
nei
vari
ambiti
del
sociale,
c)
e
d).
Il
diritto
risulta
essere
una
struttura
normativa
capace
di
regolamentare
se
stessa
prima
di
regolamentare
la
società.
Il
presupposto
logico
è
che
solo
un
insieme
di
norme
ordinato
in
modo
coerente
al
suo
interno
può
riuscire
a
ordinare
in
modo
coerente
un
qualunque
oggetto
posto
al
suo
esterno.
Il
concetto
sociologico
di
diritto
può
essere
in
tutto
o
in
parte
indipendente
dal
concetto
normativo
di
diritto?
Di
quali
requisiti
interni
al
diritto
come
noi
lo
conosciamo
deve
tener
conto
un
approccio
esplicitamente
non
normativistico
come
quello
sociologico?
LA CONTROVERSIA KELSEN/EHRLICH
Secondo
Kelsen
in
mancanza
di
una
qualificazione
normativa,
non
si
possono
individuare
i
fatti
che
sarebbe
rilevante
studiare
per
comprendere
la
norma
da
un
punto
di
vista
sociologico.
Ehrlich
sottolinea
la
priorità
temporale
e
sociale,
rispetto
al
diritto
posto
dallo
stato,
del
diritto
che
nasce
spontaneamente
dalle
relazioni
sociali,
e
che
proprio
per
questo
è
in
grado
di
regolarle
in
modo
autonomo,
giungendo
solo
in
minima
parte
a
consolidarsi
quale
diritto
positivo.
ñ La
prima
accusa
di
Kelsen
riguarda
l’inconsistenza
del
criterio
proposto
da
Ehrlich
per
separare
il
diritto
dagli
altri
insiemi
di
regole
dell’agire.
Il
diritto,
per
Ehrlich,
è
un
insieme
di
regole
la
cui
funzione
consiste
nello
stabilire
i
compiti
specifici
e
la
posizione
relativa
del
singolo
membro
del
gruppo.
Nello
svolgimento
di
tale
funzione
il
diritto
trova
degli
equivalenti
in
numerosi
insiemi
di
norme
non
giuridiche,
quali
le
norme
della
morale,
della
religione,
del
costume,
ecc.
ñ Una
seconda
accusa
di
Kelsen
riguarda
la
distinzione
ehrlichiana
tra
«proposizioni
giuridiche»,
e
«norme
giuridiche».
Secondo
tale
distinzione
la
proposizione
giuridica
è
«la
formulazione
contingente,
generalmente
obbligatoria,
di
una
prescrizione
giuridica
contenuta
in
una
legge
o
in
un
testo
di
diritto»,
mentre
la
norma
giuridica
è
«il
comando
giuridico
praticamente
attuato
che
riesce
a
dominare
la
vita
di
un
certo
gruppo,
anche
senza
possedere
una
qualsiasi
formulazione
verbale».
Muovendo
da
questa
distinzione
il
diritto
non
appare
composto
esclusivamente
da
proposizioni
giuridiche,
ma,
soprattutto,
da
norme
giuridiche.
Per
Ehrlich
sarebbe
quindi
errato
far
coincidere
il
sorgere
e
lo
sviluppo
del
diritto
con
il
sorgere
e
lo
sviluppo
delle
proposizioni
giuridiche,
in
quanto
queste
risultano
essere
il
prodotto,
relativamente
tardo
e
mai
esaustivo,
dell’attività
svolta
dai
giuristi
sulle
singole
norme
di
decisione
prodotte
dai
tribunali,
e
sulle
norme
giuridiche
prodotte
dai
gruppi
sociali.
Kelsen
critica
questa
posizione
perché
le
proposizioni
giuridiche
devono
precedere,
comunque,
le
norme
giuridiche
da
un
punto
di
vista
logico,
in
quanto
occorre
presupporre
una
proposizione
giuridica
per
poter
attribuire
a
una
fattispecie
concreta
una
qualche
rilevanza
giuridica.
ñ Una
terza
accusa
di
Kelsen
riguarda
l’incoerenza
dell’articolazione
dei
vari
«fatti
del
diritto»
(rapporti
di
dominio,
possesso,
dichiarazioni
di
volontà,
consuetudine).
Kelsen
non
ritiene
in
particolare
che
possa
far
parte
di
tali
fatti
la
consuetudine,
in
quanto
essa
indicherebbe
semplicemente
«la
strada
attraverso
la
quale
certi
fatti
divengono
giuridicamente
rilevanti,
cioè
divengono
fatti
del
diritto».
Ehrlich
ribatte
facendo
osservare
che
egli
stesso
attribuisce
alla
consuetudine
un
posto
a
parte
tra
i
vari
fatti
del
diritto.
La
consuetudine
rappresenta
la
base
dell’organizzazione
dei
primi
gruppi
sociali.
Essa
è
tra
i
fatti
del
diritto,
l’unico
originario,
e
la
sua
importanza
non
scema
mai
del
tutto,
in
quanto,
mediante
consuetudini,
continuano
a
essere
organizzati,
nelle
varie
fasi
del
loro
sviluppo,
anche
i
gruppi
sociali
più
complessi.
Ehrlich
può
quindi
sottolineare
che
i
fatti
del
diritto
rappresentano
un
insieme
omogeneo
che
assicura
un
collegamento
stabile
tra
ordinamento
giuridico
e
ordinamento
economico,
in
quanto
la
comprensione
dell’ordinamento
economico
costituisce
la
base
per
comprendere
le
altre
parti
dell’ordinamento
sociale,
e
in
particolare
l’ordinamento
giuridico
della
società.
ñ Una
quarta
accusa
di
Kelsen
riguarda
la
netta
distinzione
che
Ehrlich
traccia
fra
diritto
e
stato,
distinzione
non
giustificabile
poiché
lo
stato
è
una
forma
dell’unità
sociale,
non
un
suo
contenuto.
Ehrlich ritiene, invece, che lo stato, particolarmente quando si parla di diritto, è un semplice organo della società.
ñ Una
quinta
accusa
di
Kelsen
riguarda
l’atteggiamento
di
superiorità
scientifica
che
la
sociologia
del
diritto
eherlichiana
assume
nei
confronti
della
scienza
giuridica
pratica.
Ehrlich
sostiene
che
una
trattazione
teorica
del
diritto
richiede
una
scienza
sociologica
del
diritto
non
vincolata
da
considerazioni
pratiche,
ma
capace
di
rimettere
assieme
le
parti
staccate
del
tessuto
sociale,
assumendo
come
punto
di
riferimento
i
gruppi
sociali
e
i
loro
ordinamenti
spontanei
(famiglie,
comunità,
enti
collettivi,
ecc.).
La
sociologia
del
diritto
non
risulta,
pertanto,
legata
dai
limiti
di
validità
dei
singoli
ordinamenti
giuridici.
ñ In
conclusione,
a
Kelsen
va
comunque
il
merito
di
avere
rappresentato
le
ragioni
di
una
visione
centralistica
del
diritto,
che
è
stata
a
lungo
ritenuta
quella
più
adeguata
alle
esigenze
della
scienza
giuridica
dogmatica,
senza
giungere
a
negare,
in
linea
di
principio,
legittimità
alla
scelta
di
campo
ehrlichiana,
ma
limitandosi
a
sottolineare
ambiguità
e
oscillazioni
terminologiche.
Per
un
sociologo
l’impostazione
tecnicistica
di
Kelsen
non
consente
di
affrontare
i
problemi
che
rimandano
a
variabili
non
giuridiche,
in
particolare
all’origine
pregiuridica
delle
norme
sociali
o
al
loro
impatto
sulla
vita
effettiva
dei
consociati.
L’impostazione
spontaneistica
e
armonicistica
di
Ehrlich
non
sembra,
d’altro
lato,
preoccuparsi
sufficientemente
dei
problemi
relativi
agli
eventuali
conflitti
tra
gli
ordinamenti
del
diritto
positivo
e
del
diritto
vivente.
Entrambi
gli
autori
accettano
comunque
la
fondamentale
distinzione
di
due
mondi,
quello
del
dover
essere
o
delle
norme,
e
quello
dell’essere
o
dei
fatti.
Essi
ammettono,
quindi,
la
possibilità
che
si
sviluppino
conseguentemente
due
scienze
giuridiche,
l’una
teorica
e
fattuale,
l’altra
pragmatica
e
normativa,
limitando
in
definitiva
l’area
del
loro
dissenso
alle
reciproche
relazioni
di
tali
scienze
che,
evidentemente,
cambiano
se
la
priorità
è
logica
come
vorrebbe
Kelsen
o
è
storica,
come
sostiene
Ehrlich.
Infine,
si
richiede
uno
strumentario
metodologicamente
composito,
in
grado
di
essere
non
esclusivamente
normativo
né
esclusivamente
fattuale,
ma
di
assumere
entrambi
i
punti
di
vista.
Ed
è
proprio
questo
quello
che
Ehrlich
tenta
di
fare
allorchè
focalizza
l’attenzione
su
combinazioni
norma/fatto
che
si
coagula
intorno
al
concetto
di
diritto
vivente.
Per
Ehrlich
il
diritto
vivente
è
il
risultato
non
di
una
singola
decisione,
ma
di
un
lungo
processo
strettamente
collegato
alle
vicende
culturali
dei
gruppi
sociali
di
cui
è
emanazione.
Dal
punto
di
vista
di
Ehrlich,
sociologia
del
diritto
e
storia
del
diritto
appaiono
come
discipline
fondamentalmente
complementari.
In
generale
il
compito
della
storia
del
diritto
consiste
nel
fornire
alla
sociologia
del
diritto
il
materiale
di
cui
questa
ha
bisogno
e
nel
mostrare,
seguendo
le
indicazioni
dei
fondatori
della
Scuola
storica,
che
le
proposizioni
e
le
istituzioni
giuridiche,
si
sviluppano
dall’intera
vita
del
popolo,
cioè
dall’ordinamento
sociale
ed
economico
nel
suo
complesso.
La
centralità
del
concetto
di
diritto
vivente
viene
mostrata
dal
fatto
che
esso
può
risultare
sia
di
origine
statuale
sia
di
origine
extrastatuale.
Mentre
il
diritto
vivente
di
origine
statuale
rappresenta
solo
una
minima
parte
del
diritto
posto
dallo
stato,
è
sul
diritto
vivente
di
origine
extrastatuale
che
Ehrlich
concentra
la
propria
attenzione.
Se
il
giurista
avesse
occhi
così
allenati
a
osservare
il
suo
tempo
come
quelli
dello
storico
del
diritto
sono
allenati
a
osservare
i
secoli
e
i
millenni
passati,
non
potrebbe
sfuggirgli
che
anche
il
nostro
moderno
diritto
di
famiglia
è,
prima
di
tutto,
un
ordinamento
sorto,
non
dai
precetti
del
codice,
ma
dai
bisogni
degli
individui
che
vivono
nella
famiglia,
ed
è
quindi
destinato
a
cambiare
e
a
svilupparsi
in
conformità
a
questi
bisogni.
Al
fine
di
precisare
le
funzioni
del
diritto
vivente
Ehrlich
riprende
quindi
la
distinzione
tra
norme
dell’agire,
volte
a
regolare
il
comportamento
di
tutti
i
consociati,
e
norme
di
decisione,
volte
a
regolare
il
comportamento
dei
giudici
nel
momento
in
cui
decidono
le
controversie
portate
davanti
alle
corti.
Tale
distinzione
è
importante
per
la
determinazione
del
diritto
vivente
in
quanto
le
regole
dell’agire
umano
e
le
regole
secondo
le
quali
i
giudici
decidono
le
controversie
giuridiche
possono
essere
completamente
differenti.
In
effetti,
gli
uomini
non
agiscono
sempre
secondo
le
regole
che
vengono
applicate
per
risolvere
le
loro
controversie
(norme
di
decisione),
ma
secondo
le
norme
che
assegnano
a
essi
un
certo
ruolo
nell’ambito
dei
gruppi
sociali
di
appartenenza
(norme
dell’agire).
La
distinzione
tra
norme
dell’agire
e
norme
di
decisione
non
va
peraltro
confusa
con
quella
tra
diritto
statuale
e
diritto
non
statuale.
Se
le
norme
dell’agire
sono
prevalentemente
di
origine
non
statuale,
e
costituiscono
una
rilevante
parte
del
diritto
vivente,
lo
stesso
può
valere,
sia
per
le
norme
di
decisione,
sia
per
le
norme
alla
cui
trasgressione
queste
dovrebbero
porre
rimedio.
I
“fatti
del
diritto”
non
contrappongono
la
attualità
alla
normatività,
ma
superano
l’instabilità
spazio-‐temporale
degli
strati
più
superficiali
dell’esperienza
giuridica
diventando
suscettibili
di
una
conoscenza
scientificamente
fondata.
Per
conoscere
il
diritto
vivente
delle
società
umane,
anche
quello
di
origine
extrastatuale,
risulta
quindi
necessario
stabilire
i
“fatti
del
diritto”.
I
“fatti
del
diritto”
riflettono
un
diritto
assai
più
stabile
e
profondamente
radicato
nella
società
del
mondo
astratto
e
continuamente
variabile
delle
norme
positive
e,
d’altro
lato,
rafforzano
e
consolidano
la
cultura
propria
dei
diversi
gruppi
sociali.
La
società
tenta
di
regolare
in
modo
unitario
e
conforme
alle
proprie
esigenze
anche
l’ordinamento
interno
dei
gruppi
sociali.
Il
giurista
e
l’economista
hanno
ovunque
a
che
fare
con
i
medesimi
fenomeni
sociali.
Pertanto,
ogni
mutamento
della
società
e
dell’economia
comporta
un
mutamento
del
diritto
e,
per
converso,
è
impossibile
mutare
i
loro
fondamenti
giuridici
senza
che
si
verifichi
nella
società
e
nell’economia
un
qualche
cambiamento.
Lo
stesso
diritto
vivente
è
sorretto
da
una
struttura
di
interessi
per
la
quale
il
singolo,
che
rinuncia
a
una
parte
della
propria
libertà
a
favore
del
gruppo
o
di
singoli
consociati
più
forti,
in
definitiva
tutela
la
propria
debolezza.
L’uomo
agisce
sempre
nel
proprio
interesse.
La
società
possiede
una
sua
interna
coesione
grazie
a
un
ordine
sociale
quotidianamente
prodotto
dalle
diverse
consuetudini.
È
tale
ordine
che
il
diritto,
attraverso
giudici
e
giuristi,
ma
anche
attraverso
la
legislazione,
può
limitarsi
a
leggere
e
interpretare.
IMPLICAZIONI E SVILUPPI
La
concezione
ehrlichiana
resta
ancor
oggi
un
punto
di
riferimento
fondamentale
per
la
sociologia
del
diritto.
I
punti
essenziali
sono:
ñ Il
diritto
positivo,
scritto
nei
codici
o
nelle
leggi,
pur
essendo
formalmente
qualificato
come
giuridico
in
virtù
della
sua
origine
statuale,
risulta
invisibile
per
il
sociologo
che
studia
la
realtà
sociale
nella
misura
in
cui
non
viene
riconosciuto
nei
comportamenti
effettivi
di
coloro
che
dovrebbero
osservarlo;
ñ I
giuristi
e
i
giudici
svolgono
un
ruolo
essenziale
nel
sostenere
il
diritto
positivo
e
nel
guidare
la
sua
interpretazione
ma
nello
svolgere
tali
compiti
devono
tenere
necessariamente
conto
anche
di
una
pluralità
di
altri
ordinamenti
spontanei
che,
indipendentemente
dall’azione
dello
stato,
convivono
con
il
diritto
positivo
integrandolo
o
sostituendolo
in
determinati
ambiti
sociali;
ñ Oltre
al
diritto
positivo,
ogni
società
è
fornita
di
un
diritto
vivente
la
cui
formazione
avviene,
non
tramite
il
potere
e
il
comando
dello
stato,
ma
tramite
l’opera
costante
del
tempo
e
il
lento
consolidarsi
delle
consuetudini;
ñ A livello storico-‐comparativo possono identificarsi alcuni nuclei genetici del diritto vivente, i cd. “fatti del diritto”;
ñ Il
diritto
naturale
in
tale
contesto
non
appare
un
rigido
metaordinamento
che
rende
intoccabili
determinati
contenuti
dell’ordinamento
giuridico,
ma
rappresenta
piuttosto
un
fattore
di
variabilità,
essendo
destinato
a
tenere
conto
delle
grandi
impostazioni
che,
alternativamente,
possono
prendere
il
sopravvento
nel
corso
della
storia
correggendo
l’una
gli
errori
dell’altra.
Muovendo
da
queste
tesi
la
concezione
ehrlichiana
sfocia
in
un
“pluralismo
giuridico”
che,
oltre
al
radicale
ridimensionamento
del
ruolo
dello
stato,
comporta
il
riconoscimento
di
una
serie
di
ordinamenti
minori
prodotti
da
aggregati
sociali
di
varia
importanza
e
dimensione
e
provvisti
di
strutture
normative
proprie,
a
partire
dal
gruppo
genetico
della
famiglia.
Di
fronte
all’individuo,
lo
stato
si
pone
quindi
come
solo
una
fra
le
tante
forme
di
raggruppamento
sociale,
e
il
suo
ruolo
se
non
viene
totalmente
negato,
viene
ridotto
al
minimo
che
lo
giustifichi.
Il
rapporto
bipolare
fatti/norme
si
trasforma
così
in
un
rapporto
più
complesso,
nel
quale
diverse
culture
giuridiche
sono
in
grado
di
moltiplicare
a
dismisura
le
rappresentazioni
del
diritto
che
si
formano
nella
società,
ma
anche
di
mediare
il
loro
reciproco
condizionamento
attraverso
un
rapporto
circolare
che
può
rendere
più
flessibili
i
rapporti
tra
fatti
e
norme,
e
quindi
facilitare,
invece
che
ostacolare,
l’ordine
sociale.
CAPITOLO 2
Il
concetto
di
cultura
giuridica
viene
definito
come
l’insieme
degli
atteggiamenti,
delle
opinioni
e
delle
convinzioni
che
vengono
utilizzati
da
certi
attori
in
un
determinato
aggregato
sociale
per
valutare,
interpretare,
selezionare
oggetti
definiti
in
relazione
all’istituzione
giuridica
in
senso
ampio
o
a
suoi
singoli
aspetti.
Parallelamente
si
può
tener
conto
del
punto
di
vista
“interno”
degli
operatori
giuridici,
o
del
punto
di
vista
“esterno”
dei
laici
e
del
cd.
“pubblico”,
parlando
nel
primo
caso
di
una
cultura
“del”
diritto
propria
degli
operatori
oppure
nel
secondo
caso
di
una
cultura
“sul”
diritto
propria
del
semplice
utente.
Si
è
distinto
tra
un
orientamento
prevalente
alla
legalità,
rappresentabile
come
tipico
del
punto
di
vista
interno
dei
giuristi,
e
un
orientamento
prevalente
alla
legittimità,
rappresentabile
come
tipico
del
punto
di
vista
esterno
del
pubblico.
Un
tale
quadro
considera
ideologica
una
cultura
giuridica
che
esponga
il
diritto
a
“infiltrazioni”
provenienti
da
culture
non
rigorosamente
giuridiche,
e
per
converso
tecnicistica
e
non
ideologica
una
cultura
giuridica
che,
essendo
filtrata
dalla
dogmatica
giuridica
e
dalla
dottrina
giuridica,
sembrerebbe
in
grado
di
mantenere
superiori
livelli
di
consapevolezza
e
di
autocontrollo.
Muovendo
da
un
approccio
di
tipo
realistico,
può
essere
tuttavia
sostenuto
anche
il
contrario,
considerando
così
ideologica
la
maggiore
chiusura
alla
realtà
tipica
degli
operatori.
Il
concetto
di
cultura
giuridica
potrà
essere
articolato
facendo
riferimento
ad
alcuni
elementi
tratti
dai
complessi
processi
di
attribuzione
di
significato
che
la
caratterizzano,
quali
“i
ruoli”
sociali
volta
a
volta
considerati
come
portatori
di
cultura
giuridica,
“l’oggetto”
che
questi
prendono
in
considerazione,
e
“i
criteri”
di
interpretazione
utilizzati
nei
singoli
casi
concreti.
Il
concetto
di
cultura
giuridica
può
essere
articolato
a
seconda
che
ruoli,
criteri,
oggetti
siano
orientati
al
diritto
positivo
o
al
diritto
vivente,
vale
a
dire
all’insieme
delle
norme
comprese
in
ordinamenti
giuridici
statuali
e
non
statuali.
Weber ritiene necessario introdurre una serie di precisazioni relative alle radici culturali del concetto di regola.
ñ La
distinzione
fondamentale
da
cui
egli
muove
definisce
i
rapporti
tra
“regolarità”
nel
senso
di
corrispondenza
a
una
regola,
e
“regolatezza”,
nel
senso
di
sottoposizione
a
una
regola.
Sebbene
distinti
i
due
tipi
di
regolarità
possono
essere
tra
loro
interconnessi.
ñ Una
seconda
distinzione
tracciata
da
W.
riguarda
le
regole
sociali
e
le
regole
tecniche
che,
a
differenza
delle
prime,
possono
essere
indipendenti
dalla
vita
sociale.
Le
regole
tecniche
sono
infatti
basate,
non
su
condizionamenti
normativi
o
su
semplici
iterazioni
fattuali,
ma
su
regolari
connessioni
empiricamente
fondate
che
possono
essere
utili
al
raggiungimento
di
certi
scopi.
Le
regole
tecniche
si
distinguono
dai
comportamenti
regolari
volti
a
evitare
le
sanzioni
eventualmente
previste
dall’infrazione
di
una
certa
regola.
ñ W.
inoltre
si
occupa
ampiamente
di
un’importante
analogia,
quella
tra
regole
giuridiche
e
regole
del
gioco.
Il
riferimento
alle
regole
del
gioco
serve
a
W.
per
mostrare
che,
sia
nel
caso
di
un
comune
gioco
di
carte
sia
nel
caso
del
diritto,
esse
sono
il
presupposto
culturale
necessario
per
definire
anzitutto
a
quale
gioco
si
stia
giocando,
per
conoscere
le
strategie
di
quel
dato
gioco,
e
infine
per
spiegare
le
singole
mosse
volta
a
volta
scelte
dai
giocatori
in
una
singola
partita.
ñ Può
rilevarsi
che
un’analoga
pluralità
di
prospettive
emerge
nella
definizione
del
concetto
di
diritto
che
W.
fornisce
nella
sua
opera
maggiore,
“Economia
e
società”,
allorchè
egli
afferma
che
il
diritto
è
un
ordinamento
di
cui
viene
riconosciuta
legittimità
da
parte
dei
suoi
destinatari
(prospettiva
politica)
e
la
cui
validità
poggia
sulla
possibilità
(chance)
di
una
coercizione
(prospettiva
sociologica)
da
parte
di
un
apparato
di
uomini
espressamente
disposto
a
tale
scopo
(prospettiva
dogmatica
o
normativa
in
senso
stretto).
La
combinazione
dei
due
elementi
del
“riconoscimento”
e
della
“coercizione”
nella
medesima
definizione
del
concetto
di
diritto
può
essere
anzitutto
intesa
come
un
doveroso
omaggio
alle
diverse
correnti
della
cultura
giuridica
del
tempo,
ma
anche
come
un
riflesso
del
tentativo
weberiano
di
comporre,
nel
proprio
apparato
concettuale,
due
corrispondenti
modi
di
impostare
l’indagine
sociologica.
La
“coercizione”
col
suo
aspetto
istituzionale
richiede
infatti,
per
essere
analizzata,
una
prospettiva
che
tenga
conto
soprattutto
del
punto
di
vista
dell’apparato
che
la
applica,
mentre
il
“riconoscimento”,
focalizzando
l’attenzione
sul
“senso
intenzionato”
dell’azione
richiede,
per
essere
analizzato,
una
prospettiva
che
tenga
conto
soprattutto
del
punto
di
vista
del
singolo
attore
sociale.
Già
nell’analisi
del
concetto
di
regola
sono
emersi
alcuni
modelli
di
azione
volta
a
volta
orientati
secondo
regole
generali
e
astratte
(razionalità
formale),
secondo
regole
tradizionali
connesse
a
bisogni
elementari
(razionalità
tradizionale),
secondo
regole
tecniche
(razionalità
rispetto
allo
scopo),
secondo
regole
valutative
(razionalità
rispetto
a
valori).
Weber
sviluppa
questa
polivalenza
del
concetto
di
razionalità
rispetto
al
diritto
affermando
che
un
diritto
“può
essere
razionale
in
senso
molto
diverso
a
seconda
della
direzione
nella
quale
il
pensiero
giuridico
procede”.
Egli
precisa
quindi
che
la
razionalizzazione
del
diritto
può
consistere
sia
in
una
“generalizzazione”,
vale
a
dire
in
un
processo
che
comporta
una
semplificazione
e
una
“riduzione
dei
motivi
rilevanti
per
le
decisioni
del
caso
concreto
a
uno
o
più
principi”,
sia
in
una
“sistematizzazione”,
vale
a
dire
in
un
processo
che
comporta
un
“coordinamento
dei
principi
giuridici
così
ricavati”.
Dopo
avere
“ridotto”
e
reso
“coerenti”
i
principi
di
decisione
degli
operatori
del
diritto,
un
sistema
giuridico
che
abbia
raggiunto
livelli
relativamente
elevati
di
razionalità,
risulta
insomma
caratterizzato
dal
fatto
di
essere
più
di
altri
in
grado
di
assicurare
agli
utenti
la
“prevedibilità”
dei
propri
esiti
decisionali.
W.
introduce
inoltre
il
parametro
complementare
della
“formalità”
destinato
a
combinarsi
con
quello
della
razionalità.
La
dimensione
“formale”
del
diritto
è
quindi
direttamente
connessa
alla
specificità
e
tecnicità
degli
strumenti
impiegati,
cioè
alla
loro
appartenenza
all’area,
storicamente
variabile,
dei
criteri
di
decisione
avvertiti
come
tipicamente
giuridici,
mentre
la
dimensione
razionale
viene
posta
in
connessione
con
la
controllabilità
intersoggettiva
degli
esiti
decisionali,
e
quindi
con
il
bisogno
di
prevedibilità
che
possono
avere
anche
utenti
tecnicamente
digiuni
di
diritto.
Da
questa
lettura
dei
due
fondamentali
parametri
weberiani
della
razionalità
e
della
formalità,
risulta
che
una
decisione
giuridica
è
definibile
come
“razionale”
se
può
essere
fatta
oggetto
di
previsioni
anche
da
parte
dei
non
appartenenti
all’apparato
che
la
produce;
mentre
può
dirsi
“formale”
se
deriva
direttamente
dall’applicazione
di
criteri
peculiari
all’apparato
che
l’ha
prodotta.
La
razionalità
che
viene
contrapposta
all’irrazionalità
sottintende
una
prospettiva
intersoggettiva,
e
comporta
quindi
la
controllabilità,
o
non
controllabilità,
dei
risultati
di
un
certo
procedimento
decisionale,
mentre
la
formalità
contrapposta
alla
materialità
comporta
l’appartenenza
o
non
appartenenza
di
un
certo
procedimento
a
un
certo
sistema,
e
si
fonda
su
una
prospettiva,
almeno
implicitamente
interna
all’ordinamento.
Utilizzando
congiuntamente
i
parametri
della
razionalità/irrazionalità
e
della
formalità/materialità
si
riesce
così
ad
avere
uno
strumento
che
consente
di
cogliere
sia
le
culture
giuridiche
interne
degli
addetti
ai
lavori
sia
quelle
esterne
dei
destinatari
delle
norme.
ñ Il
diritto
razionale-‐formale
è
in
grado
di
combinare
un
grado
elevato
di
prevedibilità
e
calcolabilità
delle
decisioni
con
criteri
decisionali
rigorosamente
interni
all’ordinamento
giuridico;
ñ Il
diritto
rivelato
o
determinato
in
base
a
oracoli
può
raggiungere
un
grado
elevato
di
tecnicismo
giuridico
anche
se
è
in
grado
di
assicurare
solo
un
basso
grado
di
prevedibilità
delle
decisioni;
ñ Un
diritto
determinato
sulla
base
di
ideologie
politiche
e
religiose,
e
quindi
di
criteri
estrinseci
rispetto
all’ordinamento
giuridico,
può
possedere,
proprio
per
la
generale
conoscibilità
di
tali
criteri,
un
grado
anche
elevato
di
prevedibilità;
ñ Un
diritto
ricavato
da
valutazioni
di
natura
etica
e
affettiva
presenta
un
basso
grado
di
prevedibilità
e
criteri
di
decisione
esterni
all’ordinamento
giuridico.
In
un
ordinamento
giuridico
avanzato,
la
razionalità
formale
diviene
così
complessa
da
dover
essere
specializzata
e
affidata
ai
giuristi
e
agli
operatori
giuridici,
mentre
il
legislatore,
che
produce
il
diritto,
si
orienta
generalmente
verso
una
razionalità
rispetto
allo
scopo
che
risulta,
dal
punto
di
vista
dell’ordinamento
giuridico
complementare
rispetto
alla
prima.
Un
importante
esempio
di
razionalizzazione
formale
del
diritto
è
rappresentato
per
Weber
dal
diritto
probatorio,
che
in
ordinamenti
giuridici
complessi
non
mira
più
a
reperire
senza
limitazioni
le
prove
“destinate
a
dimostrare
la
verità
o
falsità
di
un
fatto”,
ma
si
limita
a
stabilire
dove,
in
quali
forme
(cioè
con
quali
strumenti
tecnico-‐giuridici),
entro
quali
termini
debbano
essere
prodotte
le
prove
che
possono
contribuire
alla
soluzione
del
caso
controverso.
Per
mostrare,
in
particolare,
la
reciprocità
dei
rapporti
tra
diritto
ed
economia
W.
enuclea
alcuni
principi
generali
tra
loro
strettamente
connessi.
Anzitutto,
egli
indica
il
principio
che
può
dirsi
della
“pluralità
degli
interessi
giuridicamente
tutelabili,
secondo
il
quale
il
diritto
non
garantisce
affatto
soltanto
interessi
economici,
bensì
interessi
diversi,
dai
più
elementari,
come
la
tutela
della
sicurezza
personale,
fino
ai
beni
immateriali
o
ideali
come
l’onore
proprio
e
quello
di
potenze
divine”.
Un
secondo
principio,
che
può
dirsi
della
“relativa
autonomia”
dell’ordinamento
economico
nei
confronti
dell’ordinamento
giuridico,
sottolinea
che
la
coercizione
giuridica
incontra
rilevanti
limiti
nel
regolare
l’attività
economica.
Diritto
ed
economia
sono
in
effetti
meccanismi
diversi
di
controllo
sociale
e
si
servono
di
strumenti
specifici
che
non
sempre
sono
in
grado
di
integrare.
Un
terzo
principio,
che
può
dirsi
dell’“indifferenza
reciproca”
tra
i
due
ordinamenti,
sottolinea
da
un
lato
che
“un
ordinamento
giuridico”,
in
certe
circostanze,
può
rimanere
immutato
anche
se
le
relazioni
economiche
si
modificano
radicalmente,
e
d’altro
lato
che
la
regolamentazione
giuridica
può
variare
profondamente,
dal
punto
di
vista
delle
categorie
del
diritto,
senza
che
le
relazioni
dell’economia
e
i
relativi
effetti
pratici
per
gli
interessati
vengano
con
ciò
toccate
in
misura
rilevante.
La
relativa
indipendenza
e
autonomia
che
diritto
ed
economia
hanno
raggiunto
nelle
società
occidentali
avanzate
non
esclude,
peraltro,
che
tra
questi
ambiti
intercorrano
profondi
rapporti
di
mutuo
condizionamento.
Nell’ottica
weberiana,
sia
il
diritto
sia
l’economia
moderni,
attraverso
aggiustamenti
reciproci
delle
rispettive
culture,
ricorrono
alle
medesime
categorie
interpretative
della
razionalità
e
della
formalità.
Per
W.,
insomma,
le
relazioni
tra
diritto
razionale-‐
formale
ed
economia
capitalistica
vanno
ricostruite
mediante
un
più
articolato
rapporto
di
affinità
strutturali
e
di
complementarità
funzionali,
adatto
a
mettere
in
evidenza
che
un
ordinamento
giuridico
razionale-‐formale,
prodotto
da
fattori
non
necessariamente
né
principalmente
economici,
può,
per
motivi
di
affinità
culturale,
favorire
la
formazione
di
imprese
capitalistiche
ispirate
dagli
stessi
criteri
di
razionalità
formale.
Poiché
il
diritto,
secondo
la
definizione
weberiana,
è
un
ordinamento
legittimo
tutelato
da
un
apparato
coercitivo,
risulta,
già
a
livello
concettuale,
una
fondamentale
connessione
del
diritto
razionale-‐formale
non
solo
con
l’economia
ma
anche
con
lo
stato
moderno,
nel
senso
che
la
coercizione
di
cui
ha
bisogno
il
diritto
non
può
essere
esercitata
che
da
organi
dello
stato,
dell’unica
organizzazione,
cioè,
in
grado
di
esercitare
nella
comunità
politica
una
coercizione
fisica
legittima.
Il
“potere
legale”
su
cui
si
fondano
stato
e
diritto
moderni,
può
utilizzare
varie
forme
organizzative.
Tra
esse
un
posto
particolare,
a
livello
ideal-‐tipico,
è
occupato
dall’organizzazione
burocratica
che
viene
appunto
indicata
come
“il
modo
formalmente
più
razionale
di
esercitare
il
potere”.
Questo
tipo
di
organizzazione,
osserva
W.,
ha
trovato,
per
i
suoi
innumerevoli
vantaggi,
rapida
diffusione,
non
solo
nell’amministrazione
interna
dello
stato,
ma
anche
nelle
attività
legislative
e
giurisdizionali,
come
pure
nell’impresa
economica
di
tipo
capitalistico
oltre
che
in
svariati
altri
campi
della
cultura
occidentale.
IMPLICAZIONI E SVILUPPI
Weber
considera
il
senso
delle
azioni
degli
uomini
nei
diversi
ambiti
della
società
strettamente
intrecciato
al
mondo
dei
fatti,
delle
norme
e
dei
valori,
e
quindi
così
complesso
da
non
potersi
esaurire
culturalmente
in
uno
solo
di
essi.
Leoni,
muovendo
dalle
possibili
combinazioni
tra
cultura
giuridica
e
cultura
economica,
giunge
a
delineare
un’originale
costruzione
sociologico-‐giuridica
che
fa
del
diritto
il
luogo
nel
quale,
non
solo
le
diverse
culture
giuridiche,
interne
ed
esterne,
ma
anche
le
diverse
culture
economiche
possono
incontrarsi
data
la
complementarità
delle
loro
strutture
decisionali.
Egli
sostiene
che
nel
sistema
giuridico
si
perviene
alla
determinazione
delle
norme
che
di
fatto
distribuiscono
diritti
e
doveri,
obblighi
e
facoltà.
Con
procedimenti
analoghi
a
quelli
con
cui,
nel
sistema
economico
si
giunge,
attraverso
la
somma
di
singole
decisioni
individuali,
alla
determinazione
delle
possibilità
di
acquisizione
di
un
certo
bene.
In
particolare,
come
il
prezzo
può
essere
considerato
il
punto
di
incontro
e
di
equilibrio,
peraltro
instabile
e
mutevole,
delle
aspettative
economiche
individuali,
il
diritto
può
essere
considerato
il
punto
di
incontro
e
di
equilibrio,
continuamente
modificabile
fra
le
varie
aspettative
che
cercano
di
essere
generalmente
tutelate
sotto
forma
di
pretese
giuridiche.
CAPITOLO 3
ALCUNE CONVERGENZE
Le
considerazioni
svolte
sin
qui
consentono
di
individuare
una
cornice
comune
nella
quale
possono
trovare
posto,
non
solo
i
concetti
di
diritto
di
Ehrlich
e
di
Weber,
ma
anche
quello,
apparentemente
più
lontano
dalla
sociologia
del
diritto,
di
Kelsen.
Il
concetto
di
diritto
di
Kelsen
si
basa
in
effetti
sulla
descrizione
di
processi
di
produzione
normativa
di
tipo
“gerarchico”
che,
se
risultano
troppo
astratti
per
condurre
una
ricerca
empirica,
non
sono
però
inutili
se
utilizzati
per
delimitarne
l’ambito
di
rilevanza
formale.
Ehrlich
ricostruisce,
invece,
la
genesi
del
diritto
sulla
base
di
articolati
processi
“storici”
di
produzione
normativa
che
sostituiscono
all’ipotesi
kelseniana
di
un
diritto
che
nasce
dalla
mente
dello
stato,
per
così
dire
già
adulto
e
pronto
a
marciare,
armato
di
sanzioni,
verso
la
società,
l’ipotesi
di
un
diritto
che
nasce
dalla
società
e
procede
lentamente
verso
lo
stato
attraverso
un
lungo
e
difficile
cammino,
nel
corso
del
quale
perde
gradualmente
spontaneità
e
flessibilità
senza
peraltro
recuperare
un
adeguato
potere
impositivo.
Weber,
dal
canto
suo,
riconduce
il
proprio
concetto
di
diritto
a
processi
di
produzione
normativa
che
sono
“culturali”
in
senso
ampio,
e
quindi
in
grado
di
considerare
il
diritto
posto
dallo
stato
come
il
risultato
di
situazioni
complesse
da
inserire,
per
essere
colte
nella
loro
specificità,
in
un’ampia
visione
comparativa.
I
caratteri
essenziali
di
queste
3
definizioni
del
concetto
di
diritto
possono
essere
riassunti
in
un
quadro
sinottico
che
tiene
conto
di
alcuni
elementi:
la
prospettiva
adottata
per
definire
il
diritto,
la
fonte
da
cui
si
ricava
tale
definizione;
il
contesto
nel
quale
la
definizione
viene
inserita;
lo
scopo
al
quale
essa
viene
principalmente
orientata,
e
infine
le
modalità
di
collegamento
prescelte
per
esaminare
congiuntamente
gli
elementi
precedenti.
Quanto
alla
prospettiva
adottata,
Kelsen
concentra
l’attenzione
su
un
operatore
che,
si
suppone,
sia
tenuto
ad
applicare
solo
norme
statuali
in
base
a
sillogismi
del
tipo
“se…allora”
e
sia
in
grado
di
produrre
esiti
prevedibili
e
indipendenti
dalla
volontà
individuale;
Ehrlich
assume
la
prospettiva
di
attori
sociali
che,
con
lo
stratificarsi
delle
loro
azioni
regolari,
contribuiscono
a
stabilizzare
un
diritto
vivente
composto
dalle
norme
di
una
pluralità
di
ordinamenti
diffusi
nella
società;
Weber
adotta
una
prospettiva
che
supera
tali
posizioni
assumendo
il
punto
di
vista
di
un
osservatore
esterno
dotato
di
strumenti
concettuali
in
grado
di
comprenderle
entrambe
e
di
relativizzarle
alla
luce
di
articolate
tipologie.
Quanto
alla
fonte
del
diritto,
essa
va
individuata,
per
Kelsen,
nella
norma
intesa
come
prodotto
diretto
dell’attività
statuale;
per
Ehrlich
nel
“fatto
del
diritto”
originario,
la
consuetudine,
da
cui
hanno
origine
tutti
gli
altri;
per
Weber
nella
regola,
che
può
essere
sottoposta
a
un’analisi
variamente
orientabile
a
seconda
delle
esigenze
interpretative
dell’osservatore
e
degli
attori
da
questo
osservati.
Quanto
al
contesto
di
riferimento,
Kelsen
lo
colloca
nell’ordinamento
giuridico
dello
stato,
che
assicura
le
condizioni
di
validità
di
ogni
singola
norma
e
dà
forma
allo
stato
stesso;
Ehrlich
lo
ravvisa
nel
gruppo
inteso
come
elemento
base
di
ogni
aggregazione
sociale,
che
è
in
grado
di
autoregolamentarsi
e
di
dotarsi
autonomamente
di
norme
giuridiche
prima
ancora
che
di
proposizioni
giuridiche
scritte;
Weber
lo
individua
al
livello
astratto
dei
criteri
di
razionalità
che
sono
capaci
di
tenere
conto
delle
specificità
delle
diverse
situazioni
culturali
nelle
quali
il
diritto
opera
in
contatto
con
altri
ambiti
sociali
(economia,
politica,
religione,
ecc.).
Quanto
agli
scopi
della
definizione
del
diritto,
Kelsen
li
identifica
a
livello
pragmatico,
nella
produzione
di
decisioni
giuridiche
formalmente
valide
da
parte
degli
addetti
ai
lavori;
Ehrlich
li
fa
risiedere
nel
mantenimento
della
coesione
sociale
da
parte
dei
diversi
gruppi
di
riferimento;
Weber
li
fa
coincidere
con
l’operazione
di
attribuzione
di
senso
all’agire
sociale
da
parte
degli
operatori
e
degli
utenti
del
diritto.
Per
quanto
riguarda,
infine,
le
modalità
di
collegamento
degli
elementi
presenti
nei
rispettivi
modelli,
Kelsen
si
serve
di
modalità
logico-‐formali.
Ehrlich
si
rifà
esplicitamente
a
modalità
storico-‐induttive,
mentre
Weber
adotta
modalità
che
possono
essere
logico-‐formali
o
storico-‐induttive
a
seconda
delle
specifiche
esigenze
delle
comparazioni
da
lui
condotte.
Il
problema
fondamentale
dell’ordine
sociale
viene
affrontato:
dall’alto,
tramite
lo
stato
(Kelsen),
dal
basso,
tramite
interessi
diffusi
(Ehrlich),
e
da
un
incrocio
di
entrambe
le
prospettive,
determinato
attraverso
la
mediazione
del
concetto
polivalente
di
razionalità
(Weber).
Ogni
concetto
di
diritto,
presupponendo
un
modello
di
società
all’interno
del
quale
operare,
risulta
necessariamente
collegato
a
una
o
più
funzioni
da
svolgere
in
tale
contesto.
Quando
si
parla
di
funzioni
del
diritto
si
possono
intendere
due
cose
sensibilmente
diverse
tra
loro.
Si
possono
attribuire
al
diritto
funzioni
generali
relative
al
rapporto
tra
le
norme
giuridiche
nel
loro
complesso
e
il
tessuto
sociale,
oppure
si
possono
elaborare
ipotesi
relative
alle
funzioni
svolte
da
singole
norme
giuridiche
in
singole
situazioni.
L’ipotesi
funzionale
del
primo
tipo
può
essere
utile
a
orientare
l’osservatore
nell’interpretazione
del
rapporto
generale
diritto/società,
ma
risulta
estremamente
difficile
verificarla
su
un
numero
sufficiente
di
casi
per
un
periodo
di
tempo
sufficientemente
lungo
e
relativamente
a
un’area
sociale
sufficientemente
vasta.
Pretendere
di
utilizzarla
come
uno
strumento
per
interpretare
i
rapporti
tra
determinate
norme
e
determinati
fatti
nelle
singole
situazioni,
significa,
quindi
tenere
già
una
certa
soluzione
in
tasca,
ed
eventualmente
giungere
a
valutare
il
diritto
in
senso
pregiudizialmente
positivo
o
negativo.
Le
funzioni
che
possono
essere
concretamente
attribuite
a
un
diritto
inteso
in
modo
generale
e
astratto,
non
sono
affatto
univoche.
Tra
esse
va
anzitutto
ricordata
quella
del
mantenimento
dell’ordine
sociale,
il
cui
raggiungimento
verrebbe
assicurato
dalla
coincidenza,
almeno
parziale,
fra
ciò
che
è
giuridicamente
attuabile
e
ciò
che
è
sociologicamente
sostenibile.
L’ambiguità
del
concetto
di
ordine
sociale,
che
mette
necessariamente
insieme,
come
si
è
visto,
le
funzioni
della
stabilizzazione
e
dell’innovazione,
non
viene
superata
neppure
definendo
il
diritto
come
strumento
di
“controllo
sociale”.
Mediante
tale
definizione
si
può,
infatti,
alludere
alla
capacità
del
diritto
di
provocare
il
mantenimento
della
situazione
sociale
esistente,
come
pure
un
mutamento
pilotato
della
stessa.
Questa
dualità
è
di
per
sé
istruttiva,
in
quanto
in
essa
è
possibile
riconoscere
i
due
livelli
problematici
che
attraversano
ogni
sociologia
del
diritto:
il
livello
della
stabilizzazione,
strettamente
connesso
all’applicazione
delle
strutture
giuridiche
e
volto
a
ricostruire
come
il
diritto
si
traduca
in
azioni
regolate
poste
in
essere
dai
destinatari
delle
norme
(problema
dell’efficacia
del
diritto),
o
il
livello
della
variazione,
volto
a
ricostruire
come
il
diritto
cambi
consapevolmente
i
propri
contenuti
in
risposta
a
mutamenti
dell’ambiente
sociale
(problema
dell’evoluzione
del
diritto).
In
entrambi
i
casi
le
culture
giuridiche
appaiono
come
un
oggetto
di
studio
di
importanza
strategica.
Esse
raccolgono
infatti
un
insieme
di
possibilità
di
azione
e
di
criteri
di
valutazione
che
è
in
grado
di
assicurare
un’ingente
riserva,
non
solo
di
stabilizzazione
ma
anche
di
variazione,
alla
vita
del
diritto.
Le
funzioni
della
stabilizzazione
e
dell’innovazione
non
sono
peraltro
le
uniche
che
possono
essere
attribuite
al
diritto.
Tra
le
principali
funzioni
attribuibili
al
diritto
moderno
che
precisano
meglio
tale
tradizionale
bipartizione
possono
ricordarsi:
ñ La
funzione
della
composizione
dei
conflitti,
che
non
riguarda
solamente
casi
patologici
della
vita
del
diritto
come
reati
e
altri
illeciti,
ma
anche
fenomeni
fisiologici
di
tensione
fra
diritto
e
società,
e
quindi
non
comporta
un
atteggiamento
di
condanna
e
repressione
nei
confronti
del
conflitto,
ma
di
semplice
anticipazione
e
canalizzazione
dello
stesso;
ñ La
funzione
della
regolazione
dei
comportamenti,
che
consiste
nello
stabilire
e
mantenere
lo
svolgimento
normale
della
vita
dei
gruppi,
dei
sottogruppi
e
delle
altre
forme
di
aggregazione
sociale;
ñ La
funzione
della
legittimazione
e
organizzazione
del
potere
nella
società,
che
si
sovrappone,
almeno
in
parte,
a
quelle
sopra
indicate
in
quanto
la
composizione
di
un
conflitto
da
parte
dell’apparato
coercitivo
richiede
a
sua
volta
un’autoregolazione
del
comportamento
da
parte
di
questo
stesso
apparato;
ñ La
funzione
della
strutturazione
delle
condizioni
di
vita
nei
vari
settori
della
società,
che
deve
essere
suddivisa
nella
promozione
delle
attività
dei
gruppi
e
nella
determinazione
di
direttive
generali
rivolte
alla
società;
ñ La
funzione
dell’amministrazione
della
giustizia,
che
si
articola
a
sua
volta
in
due
settori,
a
seconda
che
si
serva
di
una
“interpretazione
teleologica”,
adottabile
da
una
dogmatica
giuridica
aperta
agli
influssi
del
sapere
sociologico
in
vista
del
raggiungimento
di
certi
scopi,
oppure
di
una
scienza
sperimentale
del
diritto,
che
consiste
nella
correzione
del
metodo
interpretativo
precedente
attraverso
l’eventuale
sostituzione
degli
scopi
che
si
rivelino
volta
a
volta
irrealizzabili.
PARTE SECONDA
CAPITOLO 4
IL PROBLEMA DELL’EFFICACIA
Il
solo
diritto
sociologicamente
rilevante
è
il
diritto
efficace,
vale
a
dire
il
diritto
i
cui
contenuti
normativi
trovano
corrispondenza
nella
realtà
attraverso
una
diffusa
accettazione
sostenuta
da
culture
giuridiche
esterne,
e
un
adeguato
sostegno
degli
apparati
guidati
da
culture
giuridiche
interne.
Questo
significa
che
il
diritto
totalmente
inefficace,
non
venendo
tradotto
in
pratica,
resterà
diritto
di
carta,
e
non
avrà,
da
un
punto
di
vista
empirico,
alcuna
influenza
sul
comportamento
degli
uomini.
Una
disapplicazione
generalizzata,
anche
se
non
produce
diritto
efficace,
non
è
del
tutto
irrilevante
per
il
sociologo
del
diritto,
che
potrà
cercare
di
chiarire
per
quali
particolari
contenuti
normativi
e
sotto
quali
condizioni
si
verifichi
una
diffusa
volontà
di
ignorare
il
diritto
scritto.
A
ben
vedere,
questa
volontà,
se
consapevole
e
manifesta,
ferisce
il
diritto
più
di
un
rifiuto
all’obbedienza:
se
il
ladro
che
fugge
ammette,
almeno
implicitamente,
l’esistenza
della
norma
violata,
colui
che
si
comporta
come
se
la
norma
non
esistesse
ne
nega
esplicitamente
l’esistenza.
Resta da stabilire cosa si intenda per diritto efficace e in che modo esso sia rilevante per la società.
In
generale
la
rilevanza
del
diritto
efficace
per
la
società
può
essere
espressa
in
vario
modo,
affermando
che
il
diritto
è
connesso
alla
società,
oppure
che
il
diritto
riflette
la
società,
oppure
ancora
che
il
diritto
è
lo
specchio
della
società.
La
prima
espressione
si
limita
a
ipotizzare
semplicemente
un
rapporto
tra
diritto
e
società
per
cui
il
cambiamento
di
uno
dei
due
termini
comporta
necessariamente
il
cambiamento
dell’altro,
la
seconda
ipotizza
che
tale
cambiamento,
pur
tra
possibili
distorsioni,
comporta
una
qualche
somiglianza
tra
diritto
e
società,
la
terza
ipotizza
una
totale
identità
tra
i
due
termini.
Ora
è
evidente
che
quest’ultima
alternativa
comporterebbe
la
scomparsa
del
diritto
o,
il
che
è
lo
stesso,
il
suo
assorbimento
nella
società,
della
quale
rappresenterebbe
l’immagine
in
modo
tanto
fedele
da
non
avere
più
un
volto
e
un’identità
propri.
In
effetti
il
diritto,
come
noi
lo
conosciamo,
intende
guidare
in
qualche
modo
la
società,
non
semplicemente
descriverla.
Esso
è
quindi
destinato
a
incontrare
inevitabilmente
qualche
forma
di
resistenza
nella
società.
ORDINE
SOCIALE
E
ORDINE
GIURIDICO
La
prima
questione,
che
è
possibile
sollevare
affrontando
a
livello
macrosociologico
il
problema
dell’efficacia,
riguarda
l’individuazione
delle
connessioni
tra
determinati
“tipi”
di
norme
giuridiche
e
determinati
“tipi”
di
organizzazione
sociale.
Del
problema
si
è
esplicitamente
occupato
Émile
Durkheim
in
una
trattazione
che
resta
un
punto
di
riferimento
obbligato
della
riflessione
sociologico-‐giuridica.
Egli
osserva
che
il
presupposto
dell’ordine
sociale,
e
quindi
dell’efficacia
delle
norme
giuridiche,
è
un
adeguato
livello
di
solidarietà
sociale.
Ovviamente,
la
solidarietà,
in
un’ottica
pluralistica,
non
poggia
solo
sul
diritto,
ma
su
vari
altri
sistemi
normativi
a
cominciare
dai
costumi.
Per
definire
le
varie
forme
della
solidarietà
sociale,
e
del
diritto
che
le
manifesta,
un
punto
di
riferimento
fondamentale
è
costituito
dalla
sanzione.
Le
sanzioni,
per
Durkheim,
possono
essere
di
due
tipi.
Il
primo
tipo
di
sanzioni
interessa
il
diritto
penale,
che
si
serve
tipicamente
di
sanzioni
consistenti
“in
un
dolore,
o
per
lo
meno
in
una
privazione
inflitta
all’agente;
esse
hanno
per
scopo
di
colpirlo
nella
sua
fortuna
o
nel
suo
onore
o
nella
sua
vita
o
nella
sua
libertà
–
di
privarlo
di
qualcosa
di
cui
gode”,
e
vengono
quindi
dette
“sanzioni
repressive”.
Il
secondo
tipo
di
sanzioni
interessa
il
diritto
civile,
il
diritto
commerciale,
il
diritto
processuale,
il
diritto
amministrativo
e
costituzionale
e
non
implica
necessariamente
la
sofferenza
dell’agente,
consistendo
semplicemente
“in
una
riparazione,
cioè
nel
ristabilimento
dei
rapporti
turbati
nella
loro
forma
normale”.
Questi
due
tipi
di
sanzione
possono
prevalere
negli
ordinamenti
giuridici
a
seconda
del
tipo
di
solidarietà
che
caratterizza
una
determinata
società.
La
solidarietà,
che
di
per
sé
sarebbe
invisibile,
viene
così
identificata
attraverso
la
visibile
sanzione
che
caratterizza
un
certo
diritto.
Alla
prevalenza
del
primo
tipo
di
diritto
e
di
sanzione
Durkheim
fa
corrispondere
una
“solidarietà
meccanica”
basata
sulla
“somiglianza
tra
gli
individui”.
Essa
raggiunge
il
suo
massimo
livello
“quando
la
coscienza
collettiva
coincide
punto
per
punto
con
la
nostra
coscienza
totale”,
quando
cioè
“la
personalità
individuale
è
assorbita
dalla
personalità
collettiva”
con
“una
ripetizione
di
sentimenti
simili
e
omogenei”.
Alla
prevalenza
del
secondo
tipo
di
diritto
corrisponde
invece
secondo
Durkheim
una
“solidarietà
organica”
che
è
basata
su
una
struttura
differenziata
della
società,
nella
quale
si
autonomizzano
organi
differenti,
ognuno
dei
quali
ha
un
suo
compito
specifico.
Un’analoga
connessione
tra
diversi
modelli
di
società
e
diversi
rapporti
relazionali
tra
gli
individui
e
tra
questi
e
le
modalità
con
cui
viene
assicurata
l’efficacia
delle
norme
giuridiche,
è
proposta
dalla
dicotomia,
delineata
da
Tönnies,
che
contrappone
“comunità”
e
“società”.
In
essa
l’autore
vede
l’alternativa
tra
due
diversi
e
contrapposti
modi
di
intendere
le
relazioni
sociali.
Nella
comunità,
riprendendo
le
implicazioni
del
concetto
romantico
di
“spirito
del
popolo”,
Tönnies
ravvisa
il
condizionamento
dell’azione
dei
membri
del
gruppo
da
parte
di
una
volontà
comune
che
costituisce
“il
principio
dell’unità
della
vita”,
e
si
eleva
a
tal
punto
al
di
sopra
degli
“istinti
sociali”,
da
determinare
e
da
sorreggere
“l’intera
civiltà
di
un
popolo”.
Nella
società,
invece,
l’azione
dei
membri
del
gruppo
appare
determinata
da
una
volontà
che
può
essere
definita
come
arbitraria,
non
tanto
perché
istintiva,
quanto
perché
soggettiva.
In
una
prospettiva
sociologica,
i
due
modelli
della
comunità,
intesa
come
vita
reale
e
organica,
e
della
società,
intesa
come
formazione
ideale
e
meccanica,
sono
caratterizzati
da
altrettanti
elementi
strutturali,
che
riguardano
le
forme
di
organizzazione
dei
gruppi
sociali
e
quindi
i
rispettivi
diritti:
il
modello
di
comunità
è
caratterizzato
dal
diritto
familiare,
mentre
il
modello
di
società
è
caratterizzato
dal
diritto
delle
obbligazioni.
Sulla
base
di
tale
contrapposizione,
la
coesione
sociale
viene
da
un
lato
paragonata,
riprendendo
motivi
della
tradizione
organicistica,
a
quella
presente
in
un
organismo
vivente,
dove
le
parti
collaborano
necessariamente
per
la
sopravvivenza
del
tutto,
e
d’altro
lato,
riprendendo
motivi
della
tradizione
contrattualistica,
a
quella
realizzata
da
un
contratto
nel
quale
le
parti
fanno
liberamente
confluire
le
loro
volontà
individuali.
Il
termine
comunità
coincide
quindi
con
la
priorità
del
gruppo
rispetto
all’individuo
(organicismo)
mentre
il
termine
società
coincide
con
la
priorità
dell’individuo
rispetto
al
gruppo
(contrattualismo).
Entrambe
le
dicotomie
appena
viste
vengono
riprese
da
Theodor
Geiger:
egli
cerca
di
distinguere,
con
l’ausilio
di
indicatori
empirici,
gli
ordinamenti
sociali
nei
quali
la
coordinazione
è
prodotta
da
un
reciproco
e
spontaneo
adattamento
dei
singoli,
dagli
ordinamenti
che
rispetto
ai
precedenti
possono
dirsi
artificiali,
in
quanto
l’armonica
composizione
dei
comportamenti
viene
guidata
da
apposite
norme.
Nel
primo
caso
si
ha
un
ordine
naturale
il
cui
fondamento
è,
non
un
atto
di
volontà,
ma
un’intima
e
necessaria
connessione
tra
uomo
e
società.
L’esistenza
di
tale
ordine
viene
giustificata
in
base
al
postulato
che
la
società,
ricondotta
al
suo
“contenuto
più
semplice”,
comporta
una
dipendenza
reciproca
degli
uomini,
e
che
una
forma
esistenziale
dello
“stare
insieme
con
altri”
fa
parte
integrante
dello
stesso
concetto
di
uomo.
Questo
fondamentale
tipo
di
ordine
sociale
si
concentra
attorno
a
3
aspetti
del
rapporto
“ego→alter”.
Tali
aspetti,
che
risultano
controllabili
solo
in
minima
parte
per
mezzo
della
volontà
o
dell’arbitrio
individuali,
sono:
un’“interdipendenza
sociale”,
nella
quale
prevale
un
sentimento
istintivo
di
coesione
fondato
sulla
necessità,
che
ogni
singolo
ha,
per
sopravvivere,
di
svolgere
la
propria
esistenza
fisica
e
psichica
insieme
con
altri
e
con
l’aiuto
di
altri;
un’“interrelazione
vitale”
nella
quale,
sulla
base
di
un’immedesimazione
nell’altro,
ci
si
comporta
come
se
l’altro
abbia
un’eguale
vita
interiore
e
si
assume,
quindi,
che
sia
possibile
interpretare
e
comprendere
(o
credere
di
comprendere)
gli
atteggiamenti
dell’altro
nello
stesso
modo
in
cui
l’altro
è
in
grado
di
comprendere
e
interpretare
i
nostri
atteggiamenti;
un’“interrelazione
congetturale”,
nella
quale
predomina
il
momento
pratico
dell’adattamento
al
comportamento
degli
altri
sulla
base
di
ipotesi
intuitive,
relative
alle
loro
possibili
reazioni.
Questi
vari
aspetti
dei
rapporti
interumani,
pur
presentando
diversi
gradi
di
consapevolezza,
possono
considerarsi
guidati
dal
singolo
individuo
in
modo
prevalentemente
istintivo.
Il
secondo
concetto
di
ordine
emerge,
invece,
quando
si
passa
dal
livello
dell’interdipendenza
al
livello
di
coordinazione
di
comportamenti
sociali
tipizzati
a
seconda
dei
rispettivi
ruoli.
Questo
secondo
tipo
di
ordine
si
rende
necessario
perché
“il
singolo
possa
prevedere
con
qualche
sicurezza
come
gli
altri
si
comporteranno
in
situazioni
tipiche
e
spesso
ricorrenti”.
La
ricostruzione
geigeriana
della
formazione
dell’ordine
sociale
risulta
pertanto
imperniata
sulla
contrapposizione
tra
una
società
basata
sulla
semplice
interdipendenza
delle
varie
azioni,
e
una
basata
sulla
coordinazione
di
ruoli
diversi.
Accanto
a
questa
distinzione
tra
due
modelli
di
ordine
sociale,
Geiger
menziona
un’altra
fondamentale
distinzione,
quella
tra
regolarità
di
comportamento
meramente
iterative,
e
regolarità
di
comportamento
normative
nelle
quali
i
comportamenti,
seguendo
delle
norme,
richiedono
interventi
correttivi
o
sanzionatori
in
caso
di
infrazione
e
obbligano
anche
per
il
futuro.
A
partire
dalla
distinzione
più
ampia
tra
norme
“verbali”
e
norme
“sussistenti”,
cioè
tra
norme
dotate
di
una
formulazione
verbale
e
norme
osservate
solo
di
fatto,
si
hanno
ulteriori
suddistinzioni,
per
cui
le
norme
verbali
possono
essere
“proclamative”
o
“dichiarative”
a
seconda
che
prendano
atto
di
norme
preesistenti
o
le
modifichino,
mentre
le
norme
sussistenti
possono
essere
“latenti”
o
“attuali”
a
seconda
che
non
abbiano
mostrato
la
loro
sanzionabilità
non
essendo
state
ancora
violate,
oppure
l’abbiano
già
mostrata.
Quest’ultima
distinzione
è
particolarmente
importante
in
quanto
fa
comprendere
che
la
sanzionabilità
per
Geiger
è
un
concetto
che,
al
pari
del
concetto
di
elasticità,
può
dirsi
disposizionale,
in
quanto
non
si
può
dire
se
una
regolarità
abbia
o
non
abbia
carattere
normativo
ove
questa
non
venga
violata,
perché
solo
in
tal
caso
può
rilevarsi
se
la
violazione
comporti
un’effettiva
sanzione.
NORME E SANZIONI
La
visibile
sanzione
è
l’indicatore
principe
dell’esistenza
delle
norme
nella
mente
degli
uomini
e
della
loro
efficacia.
Muovendo
da
tali
presupposti
Geiger
elabora,
intorno
ai
concetti
di
sanzione
e
di
efficacia,
una
costruzione
formalizzata
che
intende
rappresentare,
su
basi
rigorosamente
comportamentistiche,
le
diverse
fasi
della
formazione
degli
ordinamenti
sociali
e
degli
ordinamenti
giuridici.
Il
linguaggio
da
lui
prescelto
si
serve
di
formule
che
esprimono
succintamente
relazioni,
linguaggio
questo
che
certo
non
è
usuale
in
un’opera
sociologico-‐giuridica,
e
che
può
essere
giustificato
per
almeno
due
buone
ragioni:
perché
in
tal
modo
il
lettore
può
meglio
apprezzare
la
linearità
del
ragionamento,
e
perché
in
tal
modo
tutti
gli
elementi
utilizzati
possono
essere
trattati
con
maggiore
neutralità.
Nella
simbologia
usata
da
Geiger
si
può
dire
che,
fondamentalmente,
ogni
ordinamento
sociale
riposa
sul
fatto
che,
in
un
certo
gruppo
integrato
sussiste
un
rapporto
stabile,
o
comunque
statisticamente
probabile,
tra
certe
situazioni
tipiche
e
determinate
modalità
tipiche
di
comportamento.
Affichè
il
processo
di
coordinazione
sia
completato,
l’attore,
secondo
Geiger,
dovrà
a
sua
volta
tener
conto
delle
aspettative
degli
osservatori
e
delle
loro
possibili
reazioni.
Sarebbe,
tuttavia,
eccessivamente
semplificante
ritenere
che
il
comportamento
di
un
singolo
consociato
dell’integrato
sociale
possa
essere
guidato
dal
principio
della
pura
e
semplice
identità
rispetto
ai
comportamenti
degli
altri
consociati.
In
generale,
e
a
maggior
ragione
in
una
società
differenziata,
il
principio
informatore
della
coordinazione
sociale
sarà
infatti
quello
della
coerenza
dei
comportamenti
rispetto
ai
singoli
ruoli
volta
a
volta
esercitati.
Questo
principio
della
conformità
dei
comportamenti
ai
ruoli
oltre
che
alle
situazioni,
provoca,
nella
costruzione
geigeriana,
due
conseguenze.
In
primo
luogo,
gli
elementi
che
entrano
a
far
parte
della
situazione
intesa
in
senso
lato
comprendono,
non
tanto
elementi
relativi
a
circostanze
esteriori
e
ad
aspetti
puramente
fisici,
ma
soprattutto
elementi
che
riguardano
la
posizione
sociale
dei
vari
soggetti.
In
secondo
luogo,
lo
stesso
ordinamento
sociale
risulta
suddistinguibile
in
due
componenti:
accanto
a
un
“ordinamento
dell’agire”
che
determina
i
vari
comportamenti
nelle
diverse
situazioni,
esiste
un
“ordinamento
strutturale”
che
stabilisce
i
criteri
di
attribuzione
dei
vari
ruoli
e
posizioni
sociali,
e
precisa
i
comportamenti
tipici
a
questi
connessi.
In ogni norma possono distinguersi, almeno in linea di principio, 4 elementi fondamentali:
• Il
nucleo
s→c,
con
cui
si
indica
che
in
un
certo
gruppo
sociale
integrato
si
ha
una
correlazione,
per
cui
dato
“s”
(situazione
tipicamente
ricorrente)
si
ha
“c”
(comportamento
solitamente
tenuto
dai
membri
del
gruppo
in
una
certa
situazione)
;
• I destinatari AA;
La
norma
«non
è
obbligatoria
perché
i
suoi
destinatari
le
attribuiscono,
nelle
loro
rappresentazioni,
la
qualifica
dell’obbligatorietà,
e
quindi
si
adeguano
ad
essa,
quanto
piuttosto
perché
sono
effettivamente
soggetti
all’alternativa
“o
adempimento
o
reazione”».
Se
obbligatorietà
viene
definita
come
la
probabilità
con
cui
una
certa
persona
che
si
trova
in
una
certa
situazione
stabilita
dalla
norma
compia
un
certo
comportamento
esponendosi,
in
caso
contrario,
a
una
reazione
da
parte
del
pubblico,
si
prefigura
in
tal
modo
l’eventualità
che,
in
un
certo
numero
di
casi,
l’inosservanza
della
norma
non
sia
seguita
da
alcuna
reazione
da
parte
dell’opinione
pubblica
per
l’intervento
di
svariati
fattori
di
disturbo,
quali,
ad
es.,
la
mancata
conoscenza
dell’infrazione
da
parte
del
destinatario
di
una
norma,
l’irreperibilità
del
destinatario
di
una
norma,
la
temporanea
impossibilità
di
esercitare
la
reazione
alla
violazione
di
una
norma,
ecc.
Queste
e
altre
osservazioni
formali
hanno
chiaramente
scarsa
rilevanza
sociologica
se
non
si
stabilisce
anche
quali
variabili
sociali
determinano
i
tassi
di
efficacia
o
inefficacia
delle
norme,
e
quindi
quale
sia
il
loro
grado
di
obbligatorietà.
Quanto
più
indipendenti
dal
gruppo
sociale
integrato
sono
i
singoli
consociati,
tanto
più
facilmente
essi
possono
assumere
una
posizione
autonoma
nei
confronti
di
tale
gruppo,
e
tanto
più
incerto
diviene
il
mantenimento
dell’obbligatorietà
delle
norme.
Quanto
alla
variabile
dell’“opinione
pubblica”,
Geiger
osserva
che
la
reazione
da
questa
posta
in
essere
non
equivale
sempre
all’attuazione
coercitiva
del
comportamento,
ma
può
mirare
a
infliggere
semplicemente
un
danno
al
deviante
(rappresaglia),
oppure
può
svolgere
una
semplice
funzione
preventiva,
influenzando
i
comportamenti
concreti
dei
destinatari
con
la
minaccia
di
sanzioni,
oppure
ancora
può
operare
senza
ricorrere
a
tale
minaccia,
ma
con
il
semplice
ausilio
di
una
serie
di
motivi
di
dissuasione
collaterali,
come
il
pensiero
che
un
beneficiario
di
una
norma
interessato
a
s→c
(nucleo)
potrà
rivalersi
in
un’occasione
successiva,
ecc.
Geiger
distingue
nel
processo
di
istituzionalizzazione
delle
sanzioni
4
fasi.
A
un
prima
fase
caratterizzata
da
scarsa
differenziazione
sociale
e
dalla
natura
diffusa
delle
singole
norme,
che
tendono
a
rivolgersi
indistintamente
a
tutti
i
membri
dell’integrato
sociale
senza
isolare
alcun
particolare
gruppo
di
beneficiari,
succederebbe
una
seconda
fase
caratterizzata
da
un
accresciuto
grado
di
differenziazione
sociale
e
quindi
da
una
maggiore
specificità
delle
norme
che
si
rivolgono
a
determinati
destinatari
e
favoriscono
determinati
gruppi.
Questo
comporta
un’importante
trasformazione
della
sanzione
che
da
collettiva,
cioè
esercitata
dalla
totalità
dei
membri
di
un
integrato
sociale,
diventa
personale,
cioè
esercitata
direttamente
dai
beneficiari
delusi
nelle
proprie
aspettative.
Tuttavia,
perché
un
qualsiasi
membro
di
un
integrato
sociale
possa
esercitare
direttamente
la
reazione
nei
confronti
di
un
altro
membro
dello
stesso
integrato
sociale,
occorre
che
si
verifichino
due
condizioni
aggiuntive:
che
il
destinatario
deviante
possa
a
sua
volta
reagire
direttamente
nei
confronti
del
beneficiario,
allorché
questi
violi
una
norma;
che
la
collettività
si
astenga
dal
reagire
nei
confronti
del
beneficiario
che
eserciti
direttamente
la
reazione.
In
una
terza
fase,
la
reazione
torna
a
essere
esercitata
dal
singolo
consociato
nei
confronti
dei
singoli
destinatari
di
una
norma,
ma
non
più
in
difesa
di
interessi
generali,
bensì
in
difesa
di
interessi
particolari
lesi
dalla
violazione
di
norme
specifiche.
Solo
in
una
quarta
fase
la
reazione
viene
istituzionalizzata
con
la
creazione
di
un
apposito
organo
giudiziario.
A
questo
punto
occorre
precisare
che,
se
la
disponibilità
alla
reazione
da
parte
delle
diverse
istanze
precedentemente
indicate
costituisce
una
“componente
costitutiva
dell’obbligatorietà
delle
norme”,
il
mancato
esercizio
della
sanzione
da
parte
di
una
di
esse
può
essere
a
sua
volta
oggetto
di
una
reazione
della
collettività
nei
confronti
dell’istanza
responsabile
dell’omissione.
Tale
reazione
produce
l’effetto
di
ripristinare
l’obbligatorietà
di
una
norma
di
primo
grado
altrimenti
compromessa,
e
quindi
comporta
un
significativo
ampliamento
del
concetto
di
validità.
Nel
caso,
ad
es.,
di
una
norma
per
cui
sia
prevista
la
reazione
istituzionalizzata
del
giudice
l’obbligatorietà
risulta
dipendere
dal
verificarsi
di
una
delle
seguenti
3
ipotesi
relative
alla
norma
che
disciplina
cosa
fare
in
una
determinata
situazione:
si
ha,
come
previsto,
il
comportamento
dovuto
da
parte
del
destinatario;
non
si
ha
il
comportamento
dovuto
da
parte
del
deviante
a
cui
segue
una
reazione
dell’istanza
giudiziaria
nei
confronti
del
deviante;
si
ha
il
comportamento
non
conforme
da
parte
del
deviante
a
cui
non
segue
una
reazione
da
parte
dell’istanza
giudiziaria
e
quindi
si
avrà
una
reazione
generale
dell’opinione
pubblica
nei
confronti
dell’istanza
giudiziaria,
il
che
mostrerà
che
la
società
non
accetta
la
disapplicazione
della
norma
da
parte
dell’istanza
giudiziaria.
Per
questa
via
Geiger
giunge
a
mostrare
che
ogni
norma
di
comportamento
di
primo
grado,
implica
una
norma
di
secondo
grado
la
quale
prevede
una
sanzione
nei
confronti
di
chi
omette
di
reagire
contro
l’eventuale
trasgressore
della
norma
di
primo
grado.
L’implicazione
tra
questi
due
livelli
di
norme
e
la
reazione
finale
dell’opinione
pubblica
può
essere
quindi
riassunta
affermando
che
una
norma
vincolante
comporta
che
in
caso
di
devianza
si
abbia
una
reazione
da
parte
dell’istanza
giudiziaria
oppure
in
caso
di
mancata
reazione
da
parte
di
quest’ultima
si
abbia
una
reazione
dell’opinione
pubblica
nei
confronti
dell’istanza
giudiziaria.
La
ricostruzione
geigeriana
della
struttura
dell’ordinamento
giuridico
muove
da
un
fondamentale
riferimento
al
concetto
di
stato.
Geiger,
tuttavia,
si
distacca
dalle
concezioni
statualiste
sotto
almeno
due
profili.
Sotto
un
profilo
formale,
egli
non
manca
di
criticare
le
correnti
definizioni
dello
stato
osservando
che
i
loro
elementi
portanti
(territorio,
popolo,
sovranità)
risulterebbero,
a
un
esame
ravvicinato,
ovvi
o
tautologici,
e
quindi
si
propone
di
evitare
il
più
possibile
l’uso
del
termine
“stato”
a
cui
preferisce
invece
sostituire
concetti
più
neutrali
come
quello
di
potere
politico
centralizzato
e
di
società
giuridica,
intesa
come
l’integrato
sociale
nel
quale
un
potere
centralizzato
si
sia
affermato.
Sotto
un
profilo
sostanziale,
inoltre,
Geiger
si
distacca
da
alcune
varianti
dello
statalismo,
sottolineando
con
forza
il
carattere
pluralistico
della
propria
concezione.
L’ordinamento
giuridico,
egli
afferma,
non
è
mai
l’unico
ordinamento
all’interno
di
una
società
differenziata,
ma
si
presenta,
rispetto
agli
innumerevoli
gruppi
nei
quali
questa
è
articolata,
come
una
rete
che
li
avvolge
tutti,
senza
però
sostituirli
né
eliminarli.
Al
di
sotto
del
superiore
e
comprendente
ordinamento
giuridico,
quindi,
resterebbe
uno
spazio
più
o
meno
ampio
occupato
dagli
altri
ordinamenti
sociali,
“autonomi”
rispetto
all’organizzazione
giuridica
e
indipendenti
rispetto
al
potere
centrale.
Precisiamo
il
ruolo
relativo
che
ciascuna
delle
“fonti”
svolgerebbe
nella
vita
del
diritto.
Il
legislatore
produce
tipicamente,
anche
se
non
esclusivamente,
proposizioni
normative
proclamative
aventi
la
pretesa
di
mutare
l’insieme
delle
norme
sussistenti
già
consolidate.
Tuttavia,
tali
proposizioni,
per
diventare
modelli
di
comportamento
dotati
dello
stigma
dell’obbligatorietà,
devono
soggiacere
a
due
condizioni:
non
essere
disattese
dalla
generalità
dei
destinatari
e
non
essere
boicottate
dall’istanza
giudiziaria,
condizioni
queste
che
in
larga
parte
sono
indipendenti
dall’area
di
influenza
del
legislatore,
e
che
quindi
ne
limitano
l’effettiva
capacità
di
controllo
sociale.
Quanto
all’istanza
giudiziaria,
essa,
quale
depositaria
del
monopolio
coercitivo,
è
decisiva
in
vista
dell’attribuzione
della
validità
a
un
certo
modello
di
comportamento
solo
nei
casi
nei
quali
tale
modello
venga
violato.
La
validità
della
norma
tuttavia
non
dipende
unicamente
dalla
sanzione
ma
comprende
anche
un’altra
condizione
alternativa,
la
spontanea
osservanza
dei
destinatari
che,
almeno
in
larga
misura,
è
indipendente
dal
comportamento
dell’istanza
giudiziaria.
Geiger
peraltro
non
considera
completamente
mantenibile
l’idea,
che
domina
la
scienza
del
diritto
classica,
secondo
la
quale
esisterebbe
una
netta
separazione
funzionale
tra
legislatore
e
giudice,
tra
statuizione
della
norma
e
applicazione
della
norma.
Egli
ritiene
invece
che
tale
distinzione
possa
essere
conservata
solo
relativamente
alle
modalità
di
funzionamento
della
creazione
giudiziaria
rispetto
alla
creazione
legislativa:
la
prima
sarebbe
infatti
tipicamente
rivolta
alla
produzione
di
proposizioni
normative
dichiarative,
non
proclamative,
e
presenterebbe,
rispetto
alla
seconda,
una
maggiore
elasticità,
dovendo
servire
da
modello
per
decisioni
future
e
non
da
direttiva
generalizzata
di
comportamento.
Geiger
distingue
due
aspetti
fondamentali
del
processo
di
produzione
dell’obbligatorietà:
«La
questione
della
validità
o
obbligatorietà
della
norma
può
avere
una
duplice
direzione
a
seconda
che
si
riferisca
al
“se”
o
al
“cosa”».
Nel
primo
caso,
l’interrogativo
è
posto
sullo
stigma
dell’obbligatorietà
e
si
tratta
di
stabilire
se
un
certo
modello
di
comportamento
sia
da
considerarsi
valido
(questione
della
validità
formale).
Nel
secondo
caso,
l’interrogativo
è
posto
sul
nucleo
normativo,
inteso
come
(s→c)..
Si
tratta,
in
tale
secondo
caso,
di
stabilire
quali
siano
le
situazioni,
i
comportamenti
e
i
soggetti
compresi
nel
nucleo
(s→c)
(questione
dell’obbligatorietà
sostanziale).
La
questione
dell’obbligatorietà
sostanziale
suggerisce,
quindi,
a
Geiger
di
sottolineare
l’illusorietà
della
“teoria
della
sussunzione”,
secondo
la
quale
sarebbe
possibile
un’interpretazione
predeterminabile
in
modo
automatico
delle
proposizioni
normative.
«Nessuna
definizione
può
eliminare
il
divario
esistente
tra
concetto
e
realtà»,
egli
afferma,
e
ciò
significa
che
«solo
nell’applicazione
delle
proposizioni
normative»
si
determina
il
loro
effettivo
contenuto.
Mancando
un
diritto
ideale
in
senso
giuspositivistico,
è
possibile
parlare
di
«errore
giuridico»,
secondo
Geiger,
solo
se
vi
sia,
da
parte
del
giudice,
una
difettosa
o
distorta
ricostruzione
della
fattispecie
concreta
(errore
giuridico
materiale),
oppure
se
il
tentativo
del
giudice
di
modificare
l’area
statisticamente
consolidata
di
applicazione
di
una
certa
proposizione
normativa
non
riesca
a
ottenere
un’effettiva
affermazione
nella
vita
del
diritto
per
l’intervento
correttivo
di
un’istanza
superiore
(errore
giuridico
formale).
Il
contenuto
di
un
ordinamento
giuridico,
in
una
prospettiva
realistica,
risulta
solo
dal
diritto
“realmente
applicato”
senza
chiedersi
se
esso
sia
giusto
o
ingiusto,
buono
o
cattivo.
Questo
tuttavia
non
significa
che
l’istanza
giudiziaria
abbia
un
ambito
di
discrezionalità
illimitato.
Se
tale
istanza
può
ignorare
una
proposizione
normativa
compromettendone
l’obbligatorietà,
è
anche
vero
che
essa,
ove
si
richiami
nella
sua
attività
decisionale
a
certe
proposizioni
normative,
non
può
non
tenere
conto
dell’estensione
della
loro
area
semantica
così
come
viene
stabilita
dalle
convenzioni
linguistiche.
La
complessità
dei
procedimenti
che
nella
ricostruzione
geigeriana
del
funzionamento
dell’ordinamento
giuridico
portano
all’attribuzione
della
vincolatività
a
certi
modelli
di
comportamento
piuttosto
che
ad
altri,
rende
estremamente
problematico
il
mantenimento
della
cd.
“certezza
del
diritto”.
La
pluralità
delle
fonti
di
produzione
di
validità,
la
mancanza
di
una
rigida
struttura
gerarchica
che
risolva
in
modo
univoco
e
automatico
i
loro
conflitti
all’interno
dell’ordinamento,
l’accresciuta
rilevanza
attribuita
a
forze
che,
dall’esterno
dell’ordinamento,
possono
agire
in
modo
da
condizionare
la
produzione
di
vincolatività
da
parte
delle
varie
istanze,
sono
tutti
elementi
che
inseriscono
gravi
motivi
di
incertezza
nella
vita
del
diritto,
rendendo
conoscibile
solo
ciò
che
fino
a
un
certo
momento
è
stato
diritto
valido
in
relazione
a
casi
concreti
già
definiti,
ma
non
ciò
che
diventerà
in
futuro
diritto
valido
in
relazione
a
casi
concreti
ancora
in
larga
parte
imprevedibili.
Il presupposto normativistico dell’omogeneità della giurisprudenza viene quindi respinto da Geiger.
La
stessa
concezione
geigeriana
non
riesce
a
evitare
di
riconoscere
l’importanza
della
certezza
del
diritto,
ma,
più
che
per
esigenze
di
coerenza
interna
all’ordinamento,
soprattutto
per
assicurare
quell’armonica
interazione
e
coordinazione
dei
comportamenti,
che
sarebbe
essenziale
alla
sopravvivenza
di
una
società
ordinata.
Geiger
introduce
un
elemento
meramente
probabilistico,
che
salda
passato
e
futuro
dell’ordinamento
giuridico:
il
“calcolo
di
obbligatorietà”.
Il
calcolo
di
obbligatorietà
comprende
elementi
in
maggiore
o
minore
misura
probabili,
ed
è
diretto
a
fornire
indicazioni
rilevanti,
non
solo
sul
piano
conoscitivo,
ma
anche
sul
piano
pratico.
In
esso
vengono
utilizzati
elementi
relativi
a
situazioni
e
comportamenti
che
si
sono
già
verificati,
e
quindi
sono
rilevabili
oggettivamente
e
quantificabili,
allo
scopo
di
prevedere
in
modo
empiricamente
fondato
situazioni
e
comportamenti
futuri
della
vita
dell’ordinamento.
Il
primo
elemento
che
funge
da
punto
di
riferimento
per
un
tale
calcolo
è
costituito
da
una
giurisprudenza
costante
o,
per
lo
meno
tendenzialmente,
univoca.
Tuttavia
possono
presentarsi
casi,
nella
vita
giuridica,
nei
quali
manchi
una
regolare
catena
di
decisioni
già
consolidata.
Così,
riguardo
a
una
legge
nuova,
relativamente
alla
quale
non
si
sia
ancora
formato
un
qualche
indirizzo
giurisprudenziale,
una
prima
serie
di
indicazioni
sulla
probabilità
di
applicazione
può
essere
ricavata
da
elementi
interni
al
nucleo
normativo
della
legge,
come
ad
es.,
l’effettiva
influenza
sociale
dei
beneficiari
della
norma
che
presumibilmente
ne
favoriranno
l’applicazione,
oppure
dall’esame
della
situazione
ambientale,
che
può,
ad
es.,
lasciar
prevedere
difficoltà
nell’esercizio
della
coercizione
e
dare
forti
incoraggiamenti
alla
disapplicazione.
Se
si
tratta
poi
di
una
norma
non
applicata
da
lungo
tempo,
il
calcolo
di
obbligatorietà
dovrà
stabilire
–
sulla
base
di
un
raffronto
tra
le
funzioni
svolte
dalla
norma
nel
periodo
di
applicazione
e
le
funzioni
che
essa
sarebbe
in
grado
di
svolgere
nelle
condizioni
sociali
intervenute
successivamente
–
se
tale
disapplicazione
dipenda
da
una
semplice
mancanza
di
contenzioso
o
da
una
graduale
estinzione
della
norma
stessa.
Anche
riguardo
agli
operatori
giuridici
Geiger
ipotizza
l’esigenza
di
certezza
come
criterio
interpretativo
dell’azione.
Egli
parla
in
particolare,
a
questo
proposito,
di
un
“calcolo
di
attuazione”
che,
simmetricamente
al
calcolo
di
obbligatorietà
compiuto
dall’utente,
verrebbe
compiuto
dal
giudice,
oltre
che
per
risolvere
problemi
di
coerenza
e
di
immagine
relativi
al
proprio
ruolo,
anche
e
soprattutto
per
attenersi
alle
strutture
già
consolidate
dell’ordinamento
giuridico
e
immunizzarsi
così
dal
rischio
di
vedere
le
proprie
decisioni
corrette
da
altre
istanze
giurisdizionali.
In
tal
modo
viene
assicurata
una
coincidenza
di
prospettive
tra
utente
del
diritto
e
operatore
giuridico,
entrambi
interessati
a
una
giurisprudenza
costante
che
diminuisca
il
rischio
di
delusioni,
e
viene
confermato
l’assunto,
su
cui
si
fonda
l’intero
calcolo
di
obbligatorietà
dell’utente,
che
cioè
i
giudici
continueranno
anche
in
futuro
a
decidere
secondo
identici
criteri
interpretativi.
L’uso
collettivo,
precisa
Geiger,
consiste
semplicemente
nella
fattuale
regolarità
di
comportamento
di
certi
gruppi
di
attori
in
determinate
situazioni
tipiche.
Esso
si
distingue
quindi
sia
dalle
consuetudini
individuali
sia
dalle
norme
vere
e
proprie.
L’uso
collettivo
è,
inoltre,
rilevante
soprattutto
in
società
primitive
e
poco
differenziate
e/o
in
gruppi
relativamente
piccoli
nei
quali
i
singoli
consociati
possono
osservarsi
reciprocamente
in
modo
diretto
e
agiscono
in
situazioni
tendenzialmente
uniformi
per
tutti
i
consociati.
Fondamentale
caratteristica
dell’uso
è
che
una
sua
eventuale
violazione
può
comportare
sorprese
o
incapacità
di
comprensione,
ma
non
disapprovazione
o
condanna.
L’ipotesi
disgiuntiva
tipica
dell’uso
esclude,
a
differenza
di
quella
delle
norme
vere
e
proprie,
l’eventualità
della
reazione.
Le
vie
attraverso
le
quali
usi
o
mere
regolarità
consuetudinarie
possono
essere
inseriti
nell’ordinamento
giuridico
sono
diverse.
Esse
possono
distinguersi
principalmente
a
seconda
che:
a)
l’istanza
giudiziaria
selezioni
certe
regolarità
consuetudinarie
ponendole
a
fondamento
della
propria
attività
decisionale
(opzione
giurisdizionale);
b)
la
legislazione
autorizzi
esplicitamente
certe
regolarità
consuetudinarie
relative
a
un
determinato
campo
della
vita
sociale
(autorizzazione
legislativa);
c) il legislatore selezioni certe regolarità consuetudinarie e ne recepisca il contenuto in una legge (opzione legislativa).
La
scienza
giuridica
ha,
in
tale
contesto,
una
funzione
puramente
cognitiva
e
non
si
presenta
come
una
fonte
di
validità
del
diritto
collocabile
sullo
stesso
piano
delle
altre.
Il
compito
che
essa
è
chiamata
a
svolgere
sulla
base
della
propria
visione
d’insieme
dell’ordinamento
risiede
nel
dare
alla
produzione,
non
necessariamente
coerente,
delle
altre
“fonti”
del
diritto,
un’unitarietà
che
appare
nella
prassi
continuamente
minacciata
da
vari
fattori,
quali
l’eccesso
di
produzione
della
“macchina
della
legislazione”
chiamata
a
regolare
diversi
indirizzi
giurisprudenziali,
la
coesistenza
all’interno
dell’ordinamento
di
diversi
nuclei
legislativi
prodotti
in
epoche
e
in
situazioni
sociali
diverse.
Tutto
ciò
giustifica
l’importanza
del
compito
unificante
che
è
svolto
dalla
scienza
giuridica
per
mezzo
di
proposte
di
riorganizzazione
del
materiale
giuridico.
Queste
sono
destinate
ad
affermarsi,
nella
prassi,
non
tanto
per
l’autorità
del
singolo
giurista,
e
quindi
per
motivi
interni
alla
stessa
scienza
giuridica,
quanto
piuttosto
per
la
disponibilità
dell’istanza
giudiziaria
a
garantirne
l’applicazione
mediante
sanzioni.
Geiger
in
primo
luogo,
ammette
la
possibilità
che
il
detentore
del
potere
possa
obbligare
se
stesso
in
quanto
la
“struttura
complessiva”
della
compagine
giuridico-‐statuale
è
in
grado
di
realizzare,
attraverso
il
noto
strumento
della
divisione
dei
poteri,
un
complicato
gioco
di
equilibri
e
di
controlli
reciproci
tra
le
varie
istanze.
In
secondo
luogo,
egli
giunge
a
confutare
le
cd.
“teorie
della
volontà”
le
quali,
cercando
in
modi
diversi
di
identificare
un
soggetto
della
volontà
giuridica,
ignorerebbero
che
tale
volontà,
in
un
ordinamento
giuridico
avanzato,
non
è
mai
solo
quella
del
sovrano,
ma
è
anche
quella
delle
molte
persone
concrete
che
partecipano,
con
intenti
talora
opposti,
ai
processi
di
produzione
delle
norme.
Nella
costruzione
geigeriana
è
comunque
la
norma
efficace
al
centro
dell'attenzione,
sia
quella
primaria
che
prescrive
un
certo
comportamento,
sia
quella
secondaria
che
prescrive
una
certa
sanzione
come
reazione
al
non
verificarsi
di
detto
comportamento.
Si
presuppone,
infatti,
che
il
comportamento
regolare
rafforzi
la
probabilità
di
altri
comportamenti
regolari,
e
che
quindi
un
comportamento
generi
un
altro
comportamento
simile
o
complementare.
Si
può
dire
che
il
comportamentismo
di
Geiger
è
un
comportamentismo
“strategico”
che
muove
da
una
riflessione
diretta
a
non
sopravvalutare
l'effettiva
potenzialità
esplicativa
degli
strumenti
conoscitivi
disponibili,
né
a
sottovalutare
l'effettiva
rilevanza
di
determinati
aspetti
della
realtà
sociale.
LE
RADICI
ANTROPOLOGICHE
DELL'EFFICACIA
Molti
sociologi
del
diritto
cercano
di
studiare
e
comprendere
gli
atteggiamenti
valutativi
nei
confronti
del
diritto
che
emergono
dai
diversi
settori
della
società
e
che
sono
pure
rilevanti
per
spiegare
il
complesso
problema
dell'efficacia
del
diritto.
Per
toccare
anche
questo
versante
dell'offerta
teorica
della
sociologia
del
diritto,
verranno
prese
in
esame
alcune
proposte
le
quali,
sia
pure
in
modi
e
con
ambizioni
diverse,
sono
volte
a
recuperare
nella
trattazione
del
problema
dell'efficacia,
dei
punti
di
vista
valutativi,
psicologicamente
o
antropologicamente
fondati.
Leon
Petrazycki
ha
il
merito
di
aver
tentato
di
ricondurre
a
un
quadro
sociologico
fattori
psicologici
rilevanti
per
la
spiegazione
del
comportamento
collettivo,
concentrando
in
particolare
l'attenzione
su
quei
fattori
che
favoriscono
la
formazione
e
l'efficacia
degli
ordinamenti
normativi.
Egli
si
è
occupato
di
uno
specifico
fattore
denominato
“adattamento
simpatetico
inconsapevole”
che
prevede
un
adattamento
“filocentrico”
diretto
ad
affinità
biologiche,
un
adattamento
“sociocentrico”,
diretto
alla
società
e
un
adattamento
“egocentrico”,
diretto
soprattutto
all'Io.
L'adattamento
filocentrico
tiene
conto
del
destino
della
specie.
Esso
motiva,
ad
es.,
i
genitori
a
difendere
la
vita
dei
figli
superando
il
proprio
naturale
istinto
di
sopravvivenza
in
quanto
il
futuro
della
specie
sarebbe
in
caso
contrario
messo
a
repentaglio.
Questo
tipo
di
adattamento
stabilisce
una
profonda
ed
essenziale
connessione
tra
la
società
degli
uomini
e
altre
società,
come
quelle
animali,
che
possono
mostrare
di
avere,
in
tale
prospettiva,
una
base
normativa
comune.
L'adattamento
sociocentrico
si
rifà
a
un
punto
di
vista
esterno
all'attore,
in
grado
di
collegare
il
suo
comportamento
a
un
criterio
di
valutazione
superiore.
In
generale
la
valutazione
di
un
comportamento
non
è
né
immediata
né
scontata,
ma
viene
elaborata
e
affinata
nel
corso
del
tempo
sulla
base
dell'esperienza
collettiva
del
gruppo,
che
selezionerà
gradualmente
i
comportamenti
individuali
da
favorire
e
incentivare
e
quelli
invece
da
scoraggiare
e
reprimere.
Se
in
una
tribù
un
individuo
compie
una
serie
di
atti
apparentemente
simili,
come
l'uccisione
di
più
uomini,
questi
atti
verranno
valutati
diversamente
a
seconda
che
la
vittima
sia
un
membro
della
stessa
tribù
o
un
componente
di
un'altra
tribù
perchè,
dal
punto
di
vista
della
collettività,
il
primo
sarà
considerato
un
crimine
e
quindi
verrà
punito,
mentre
il
secondo
sarà
verosimilmente
considerato
un
atto
eroico,
e
quindi
verrà
premiato.
Un
tale
processo
di
selezione
dei
comportamenti
da
sanzionare
sarà
affidato
a
una
sorta
di
“contagio”
emotivo
che
si
diffonderà
dai
tribunali
ad
altri
luoghi
di
aggregazione
sociale
producendo
generalizzazioni,
non
solo
e
non
tanto
su
basi
logiche,
quanto
piuttosto
su
basi
istintive,
e
rivolgendosi
quindi
ai
sentimenti
prevalenti
e
agli
scambi
di
esperienze
che
formano
la
cultura
giuridica
della
collettività
di
appartenenza.
L'adattamento egocentrico, infine, cerca di orientarsi a quelle condizioni esterne che sono più favorevoli all'individuo.
L'ipotesi
da
cui
muove
Petrazycki
è
che
questi
3
tipi
di
adattamento
possono
agire
in
modo
convergente
sviluppando
una
coscienza
normativa
comune.
Essi
possono
divergere
almeno
in
parte
e
relativamente
ad
alcune
questioni,
ma
in
tal
caso
le
strategie
volte
a
mantenere
accettabili
tassi
di
efficacia
alle
norme
collettive
del
gruppo
potranno
lasciare
a
livello
degli
individui
“residui”
emotivi
non
assorbiti.
Per
assorbire,
o
almeno
ridurre,
questi
residui
a
livello
dell'aggregato
sociale
soprattutto
due
ordinamenti
normativi
tra
loro
complementari
svolgono
un
compito
fondamentale:
il
diritto
e
la
morale.
Entrambi
si
presentano
come
in
grado
di
inculcare
nei
singoli
le
norme
che,
con
la
persuasione,
ma
non
solo
con
questa,
vengono
stabilizzate
al
loro
interno.
La
logica
che
li
guida
non
è
quella
individuale,
e
anzi
non
è
affatto
escluso
che
vi
siano
differenze
nel
modo
di
valutare
gli
stessi
avvenimenti
a
seconda
che
ci
si
ponga
al
livello
dell'individuo
o
al
livello
del
gruppo
sociale.
È
necessario,
pertanto,
che
si
sviluppi
un
elevato
livello
di
socializzazione
per
consentire
l'elaborazione
di
questo
superiore
livello
normativo
nel
quale
morale
e
diritto
assumono
funzioni
diverse.
Mentre
il
diritto
intende
creare
un
modello
di
uomo-‐cittadino
portatore
di
diritti
e
di
pretese,
la
morale
intende
plasmare
gli
individui
rendendoli
capaci
di
assumere
delle
obbligazioni
in
nome
di
determinati
principi;
mentre
il
diritto
si
rivolge
a
tutti
e
si
occupa
dei
comportamenti
di
massa,
la
morale
è
solo
per
coloro
che
sono
in
grado
di
apprezzarla;
mentre
il
diritto
può
avvalersi
di
strumenti
di
sanzione
applicabili
a
tutti
i
destinatari
delle
norme
in
caso
di
violazione,
e
affida
a
un
apposito
apparato
la
sua
esecuzione
tendendo
a
unificare
i
propri
precetti,
la
morale
non
considera
tanto
cosa
viene
fatto,
ma
chi
e
come
lo
fa,
e
risulta
pertanto
più
flessibile
al
suo
interno
non
avendo
bisogno
di
apparati
di
esecutori.
Pur
entro
questi
limiti,
la
morale
rappresenta
un
importante
supporto
per
il
diritto.
Oltre
a
essere
in
grado
di
imporre
certi
comportamenti
a
determinati
gruppi
di
persone,
essa
può
aiutare
il
diritto
a
imporsi
in
situazioni
nelle
quali
le
resistenze
sarebbero
particolarmente
forti,
facilitando
i
processi
di
socializzazione
e
di
interiorizzazione
di
cui
il
diritto
ha
bisogno.
Sulla
base
di
questi
due
pilastri
normativi
la
società
è
in
grado
di
selezionare,
attraverso
una
miriade
di
adattamenti
simpatetici
inconsapevoli,
da
un
lato
quei
comportamenti
più
o
meno
pericolosi
contro
i
quali
possono
essere
utilizzati
strumenti
di
controllo
sociale,
e
d'altro
lato
quei
comportamenti
utili
alla
società,
ma
non
sufficientemente
diffusi,
che
vanno
favoriti
con
premi
o
incentivi.
Nello
svolgimento
di
tale
selezione
il
diritto
può
essere
costantemente
sostenuto
dalla
morale
sia
allorchè
si
tratta
di
rivedere
i
doveri
dei
consociati
creando
nuove
figure
di
comportamenti
(distinguendo,
ad
es.,
l'omicidio
dall'eutanasia),
sia
allorchè
si
tratti
di
alleggerire
le
sanzioni
e
potenziare
le
motivazioni
(ad
es.,
facendo
diventare
il
lavoro
un
diritto
da
esercitare
individualmente
più
che
un
dovere).
A
questi
diversi
aspetti
della
vita
del
diritto,
Petrazycki
connette
altrettante
funzioni:
la
funzione
organizzativa,
che
è
volta
a
coordinare
i
comportamenti
individuali
in
modo
da
assicurare
un
ordine
sociale,
e
quella
educativa,
che
è
volta
a
modificare
non
tanto
i
comportamenti
quanto
le
motivazioni
e
gli
impulsi
che
rendono
l'uomo
più
adatto
alla
convivenza.
Evidentemente
la
seconda
funzione
è
destinata
ad
accrescere
la
propria
importanza
in
una
società
democratica
dove
le
libertà
vanno
gestite
avendo
di
mira
il
bene
comune,
e
quindi
rifacendosi
ad
autolimitazioni
anche
morali.
L'ordinamento
della
morale
e
l'ordinamento
del
diritto
vengono
ulteriormente
distinti
da
Petrazycki
a
seconda
che
siano
positivi
o
intuitivi.
In
particolare
il
diritto
può
essere
positivo,
in
un
senso
più
ampio
rispetto
al
normativismo
kelseniano,
comprendendo
anche
i
fatti
normativi
(vale
a
dire
non
solo
le
singole
norme
ma
anche
gli
operatori
giuridici),
mentre
il
diritto
intuitivo
è
l'insieme
dei
doveri
avvertiti
dai
singoli
come
tali,
indipendentemente
dagli
apparati
che
dovrebbero
farli
osservare.
Pertanto
si
può
dire
che
il
diritto
positivo
trova
per
lo
più
corrispondenza
nella
cultura
giuridica
ufficiale,
mentre
il
diritto
intuitivo
trova
per
lo
più
corrispondenza
nel
diritto
informale.
È
possibile
avere
un
diritto
positivo
e
ufficiale,
quando
un
tribunale
condanna
un
imputato
sulla
base
di
un
certo
articolo
del
codice
penale,
in
quanto
in
tal
caso
il
diritto
è
positivo
per
il
suo
riferimento
a
un
fatto
normativo
ed
è
ufficiale
perchè
proviene
da
un
agente
istituzionale.
Ma
si
può
avere
anche
un
diritto
positivo
e
non
ufficiale
quando
su
una
questione
che
può
considerarsi
a
tutti
gli
effetti
giuridica
decide
un
arbitro
in
veste
di
organo
non
ufficiale
scelto
dalle
parti
stesse
ai
fini
di
una
transazione;
oppure
si
può
avere
un
diritto
intuitivo
e
ufficiale
quando
un
tribunale
svizzero
decide
su
un
certo
fatto
del
diritto,
non
sulla
base
di
una
certa
norma
del
codice
ma
applicando
il
principio
generale
che
consente
al
giudice,
in
caso
di
lacuna
normativa,
di
decidere
come
se
fosse
il
legislatore;
oppure
ancora
un
diritto
è
intuitivo
e
non
ufficiale
nel
caso
in
cui
un
individuo
si
trovi
a
doversi
fare
giustizia
da
sé,
perchè
in
tal
caso
non
viene
applicato
il
codice,
ma
l'autore
del
comportamento
sanzionatorio
non
sarebbe
comunque
autorizzato
a
reagire
in
tal
modo.
È
comunque
evidente
che,
prescindendo
da
casi
particolari,
un
diritto
efficace
dovrebbe
essere
non
solo
ufficiale
e
positivo
ma
anche,
almeno
nei
limiti
del
possibile,
intuitivo.
Si
avrebbero
altrimenti
conflitti
più
o
meno
evidenti
nel
caso
in
cui
un
diritto
positivo
non
riesca
a
imporsi
a
un
diritto
intuitivo
legato
al
passato,
oppure
quando
un
diritto
intuitivo
sfidi
un
diritto
positivo
con
esso
incompatibile.
Sulla
scia
dell'insegnamento
di
Petrazycki,
Adam
Podgorecki
ha
cercato
di
sviluppare
una
concezione
dell'efficacia
del
diritto
che,
per
molti
versi,
si
avvicina
a
quella
realistica
di
Geiger.
Podgorecki,
avvalendosi
della
concezione
istituzionalistica,
ipotizza
che
il
diritto
selezioni
attraverso
processi
di
“errore
e
correzione”
i
modelli
di
comportamento
maggiormente
idonei
a
diventare
diritto
efficace,
scegliendo
quei
modelli
che
risultino
collaudati
positivamente
come
funzionali
all'integrazione
sociale,
idonei
a
rafforzare
determinati
schemi
di
comportamento
e
in
grado
di
assicurare
alla
sanzione
o
al
premio
un'accettazione
stabile.
In
effetti
per
Podgorecki
l'efficacia
è
il
risultato
di
un
processo
complesso
nel
quale
non
entrano
solo
variabili
psicologiche.
La
singola
norma
giuridica
può
vedere
modificati
i
propri
effetti
ad
opera
di
diverse
variabili
(quelle
psichico-‐individuali,
quelle
della
subcultura
giuridica,
quelle
socioeconomiche).
Tali
variabili,
agendo
separatamente
l'una
dall'altra
e
secondo
logiche
diverse,
possono
anche
finire
col
produrre
non
solo
una
maggiore
o
minore
efficacia,
ma
anche
effetti
distorti
e
non
voluti
attraverso
i
comportamenti
da
essa
regolati.
Da
qui
il
riconoscimento,
sulla
scia
di
Petrazycki,
del
diritto
intuitivo,
che
agisce
direttamente
sui
comportamenti,
quale
fattore
in
grado
di
ridurre
le
distorsioni
e
aumentare
l'efficacia
delle
norme
giuridiche.
Sempre
sulla
linea
di
una
ricostruzione
delle
ragioni
dell'efficacia
del
diritto
basata
sugli
aspetti
psicologici
del
problema
si
collocano
i
contributi
di
Hans
Ryffel.
Anche
la
sociologia
del
diritto
di
Ryffel
ha
un'esplicita
fondazione
antropologica.
Il
suo
punto
di
partenza
è
costituito
dal
tentativo
di
determinare
il
“compito”
che
il
diritto
svolge
nell'esistenza
dell'uomo.
Ryffel
concepisce
l'uomo
come
un
ente
dotato
di
adattabilità,
capace
di
mutare
i
propri
modi
di
esistere
a
seconda
dell'ambiente
in
cui
vive,
e
in
particolare
a
seconda
delle
possibili
alternative
di
comportamento
che
sono
sempre
superiori
alle
capacità
di
attuazione
che
l'ambiente
volta
a
volta
offre
all'individuo.
La
scelta
tra
queste
diverse
possibilità
di
comportamento
costituisce
“il
carattere
specifico
dell'uomo”,
e
ha
quindi
bisogno
di
essere
in
qualche
modo
regolata.
Tale
necessità
di
regolazione
attribuisce
un'importanza
sempre
maggiore
alle
“norme”
a
mano
a
mano
che
le
scelte
divengono
più
consapevoli,
e
quindi
più
problematiche.
Da
qui
l'importanza,
anzi
l'insostituibilità,
delle
norme
all'interno
di
società
complesse.
Le
norme
sono
intese
da
Ryffel
come
quelle
“possibilità
di
comportamento,
generalmente
dovute,
che
configurano
(guidano)
l'esistenza
umana,
e
senza
le
quali
questa
non
sarebbe
pensabile”.
A
seconda
delle
diverse
esigenze
esistenziali
che
esse
regolano,
le
norme
possono
avere
carattere
più
o
meno
astratto.
Quando
le
norme
sono
molto
generali,
cioè
posseggono
in
misura
elevata
il
carattere
dell'astrattezza
e
hanno
bisogno
di
un'intensa
attività
di
concretizzazione,
si
può
parlare
più
propriamente
di
“fini,
direttive,
criteri”.
Le
direttive
comprese
in
ordinamenti
e
istituzioni
hanno
un
“senso”
nei
confronti
dell'esistenza
dell'uomo
in
quanto
regolano
la
selezione
di
possibilità
di
comportamento
in
vista
del
compito
che
spetta
a
ogni
essere
umano:
l'autorealizzazione.
Questo
vuol
dire
che
una
tale
realizzazione
di
sé
avviene
in
comunione
con
gli
altri.
L'intera
società
viene
quindi
intesa
“come
un
insieme
di
norme
nelle
quali
si
compie
la
comune
realizzazione
dell'uomo”.
Il
carattere
comunitario
della
realizzazione
dell'uomo
comporta
un'armonizzazione
delle
varie
alternative
di
comportamento,
e
pertanto
rinvia
inevitabilmente
a
un
qualche
criterio
di
“giusto”.
Sul
punto
Ryffel
è
esplicito:
“l'uomo
deve
sempre
realizzare
il
giusto:
questa
esigenza
non
può
mai
essere
da
lui
elusa”.
Ovviamente
il
contenuto
di
ciò
che
è
volta
a
volta
giusto
risulta
“problematico”.
È
tuttavia
possibile
individuare
comportamenti
che
devono
necessariamente
essere
attuati
oppure
devono
necessariamente
essere
evitati
in
qualsiasi
situazione.
Tra
questi
contenuti
normativi,
imprescindibili
per
una
giusta
convivenza
umana
Ryffel
menziona
il
divieto
di
uccisioni
indiscriminate
nell'ambito
di
un
certo
gruppo
o
il
divieto
di
promiscuità
sessuali
senza
possibilità
di
scelta.
Gli
ordinamenti
“giuridici”
sono
contraddistinti
dalla
loro
effettività.
Le
norme
giuridiche
risultano
quindi
dotate
di
effettività
e
di
giustezza.
Esse
hanno
il
compito
di
strutturare
la
società
secondo
criteri
“giusti”
ed
“efficaci”.
Il
carattere
specifico
dell'ordinamento
giuridico
viene
conseguentemente
visto
in
una
“pianificazione
consapevole”,
cioè
orientata
a
determinati
obiettivi,
della
realtà
sociale.
Nel
concetto
di
diritto
così
definito
confluiscono
sia
la
validità
normativa
(giustezza)
sia
la
validità
fattuale
(efficacia),
in
quanto
entrambi
questi
tipi
di
validità
vengono
presupposti
nel
lavoro
dei
giuristi
insieme
con
la
validità
tecnico-‐giuridica
(legalità).
Le
3
“modalità
della
validità”
(normativa,
fattuale,
tecnico-‐giuridica)
non
sono
separabili,
e
sono
anzi
integrabili
in
un
concetto
di
diritto
che
colga
l'essenza
del
fenomeno.
Il
riferimento,
nella
definizione
del
diritto,
a
una
dimensione
antropologica
che
superi
sia
la
prospettiva
sociologica
sia
la
prospettiva
giuridica,
consentirebbe,
d'altro
canto,
di
mantenere
l'unità
di
diritto
e
società,
“evitando
così
che
si
perda
di
vista
il
carattere
interattivo
dei
loro
rapporti
e
il
“senso”
che
essi
hanno
per
realizzare
le
potenzialità
esistenziali
dell'uomo”.
Il
processo
di
“potenziamento”
che
attraversa
l'esistenza
umana,
cioè
la
produzione
di
possibilità
di
comportamento
sempre
più
numerose
e
diversificate
in
risposta
alla
crescente
differenziazione
della
società
umana,
segna
l'affermarsi
del
diritto
come
strumento
di
armonizzazione
sociale,
ma,
collegato
a
esso
in
modo
indissolubile,
anche
dello
“stato”
inteso
come
“insieme
delle
istituzioni
personali
e
materiali
per
la
determinazione
e
l'esecuzione
dell'ordinamento
giuridico
e
per
l'esecuzione
dei
compiti
della
comunità”.
Stato
e
diritto,
a
loro
volta,
confluiscono
in
una
“politica”
intesa
come
“l'insieme
delle
possibilità
che
sono
dirette
alla
creazione
e
al
mutamento
del
diritto
e
dello
stato”.
Attraverso
questa
ricerca
del
giusto,
che
non
si
ferma
a
idee
precostituite
ma
che
propone
concezioni
diverse
a
seconda
delle
diverse
situazioni
storiche,
vengono
elaborati
alcuni
principi,
quali:
i
diritti
di
libertà
e
di
eguaglianza
di
tutti
gli
uomini,
oltre
che
i
principi
di
una
regolamentazione
del
vivere
sociale
basata
sulla
tolleranza
e
sulla
comprensione
delle
proprie
e
delle
altrui
concezioni
del
giusto.
Il
quadro
normativo
che
così
risulta
esclude,
almeno
in
linea
di
principio,
la
violenza.
La
soluzione
dei
conflitti
avverrebbe
infatti
attraverso
il
rinvio
a
quanto
di
comune
può
rintracciarsi
nelle
diverse
concezioni
del
giusto
sostenute
dalle
parti
contrapposte,
o
attraverso
la
rinuncia
bilanciata
di
ognuno
a
parte
delle
proprie
pretese,
oppure
attraverso
la
neutralizzazione,
mediante
sospensione
del
giudizio,
dei
temi
di
maggiore
e
più
radicale
frizione,
che
pregiudicherebbero
in
modo
insanabile
una
qualsiasi
forma
di
coesistenza.
Il
principio
della
“relativa
stabilità”
degli
ordinamenti
giuridici
richiede
tuttavia
che,
anche
negli
ordinamenti
più
elastici
e
aperti
all'intervento
innovatore
dei
singoli,
il
diritto
mantenga
una
certa
costanza
e
resistenza
nel
tempo.
Questa
condizione
è
indispensabile
perchè
il
diritto
possa
svolgere,
almeno
in
qualche
misura,
il
compito
che
istituzionalmente
gli
spetta,
vale
a
dire
la
“strutturazione
stabilizzante
di
una
data
società”.
Tale
compito
anzi
acquista
importanza
in
ordinamenti
normativi
flessibili.
Muovendo
dal
presupposto
che
la
stabilità
degli
ordinamenti
normativi
si
fonda,
in
generale,
sulla
necessità
di
“sollevare”
l'uomo
dall'esigenza
di
regolare
di
volta
in
volta
ogni
singolo
caso
concreto,
e
di
mantenere
una
medesima
regolamentazione
nei
casi
analoghi
che
si
presentino
in
tempi
successivi,
Ryffel
sottolinea
che,
in
ordinamenti
in
linea
di
principio
mutabili,
il
riferimento
a
norme
generali
costanti,
e
a
procedure
stabili
nella
produzione
di
nuove
norme
consente
di
mantenere
un'indispensabile
chiarezza
e
prevedibilità
nella
regolamentazione
dei
rapporti
sociali.
Tutto
ciò
spiega
perchè
anche
gli
ordinamenti
normativi
mutabili
presentino
una
tendenza
all'autoconservazione
e
vengano
mutati
solo
se
vi
siano
fondati
motivi
per
farlo.
Questo
ci
porta
all'importante
tema
della
“distorsione”
del
diritto.
Poiché
il
diritto
“non
deve
essere
solo
efficace,
ma
anche
giusto”,
diventa
rilevante
individuare
i
fattori
che
distorcono
in
qualche
misura
il
diritto
facendogli
perdere
la
caratteristica
della
“giustezza”.
Ryffel
muove
quindi
da
un
“modello
normativo”
fondato
sull'ipotesi
che
le
norme
giuridiche
siano
osservate
liberamente
perchè
considerate
giuste.
Questa
ipotesi
tipico-‐ideale,
questo
caso-‐limite
non
riscontrabile
completamente
in
situazioni
concrete,
viene
utilizzato
come
termine
di
riferimento
in
base
al
quale
risulta
possibile
individuare
i
principali
fattori
di
disturbo
che,
volta
a
volta,
ne
impediscono
la
piena
realizzazione.
Tali
fattori
vengono
distinti
da
Ryffel
in
4
gruppi,
a
seconda
che
riguardino
le
norme
stesse
(modalità
di
comunicazione
e
circolazione
sociale
delle
norme)
o
il
comportamento
dei
destinatari
(modalità
di
accettazione,
fonti
di
motivazione
del
comportamento
conforme);
la
personalità
dei
destinatari
(ad
es.,
dati
demografici
rilevanti
come
età,
sesso,
occupazione,
ceto
di
appartenenza,
livello
di
istruzione,
oppure
atteggiamenti
valutativi,
strutture
caratteriali,
ecc.)
o
il
contesto
nel
quale
i
destinatari
delle
norme
operano
(ad
es.,
le
sottoculture
giuridiche,
le
costellazioni
economiche,
ecc.).
Conseguentemente
Ryffel
giunge
a
ridimensionare
esplicitamente
il
ruolo
della
coercizione
quale
strumento
per
motivare
i
consociati
all'accettazione
del
diritto.
Egli
richiama
piuttosto
l'attenzione
su
altri
tipi
di
sanzioni
aventi
carattere
positivo,
che
stanno
assumendo
una
crescente
importanza,
anche
nel
diritto
penale.
Questo
sviluppo
della
sanzione
rientra
molto
bene
nella
concezione
del
diritto
proposta
da
Ryffel,
concezione
che
non
mira
soltanto
a
cogliere
il
compito
difensivo
del
diritto,
ma
anche
il
compito
promozionale
che
esso
svolge
attraverso
l'individuazione
di
una
serie
di
possibilità
di
incentivazione
del
comportamento.
Petrazycki,
Podgorecki
e
Ryffel,
al
di
là
delle
rispettive
impostazioni,
convergono
nel
tentativo
di
ridimensionare
l'importanza
della
paura
della
sanzione
o
dell'interesse
del
singolo
quali
motivazioni
dell'efficacia,
e
richiamano
invece
l'attenzione
verso
un
diritto
che
sia
non
solo
per
l'uomo
ma
nell'uomo,
che
cioè
nasca,
come
in
Ryffel,
da
un
innato
senso
del
giusto
o,
più
formalisticamente,
da
un
criterio
di
reciprocità.
Si
comprende
quindi
in
questo
contesto
l'insistenza
di
tali
autori
nel
sottolineare
l'importanza,
accanto
o
in
sostituzione
di
sanzioni
negative,
di
sanzioni
positive
(premi
o
ricompense).
Il
punto
è
rilevante
per
la
sociologia
del
diritto
perchè
può
avere
importanti
implicazioni
in
tema
di
politica
legislativa
e
si
colloca
sul
terreno
di
un'“ingegneria
sociale”
in
grado
di
utilizzare
strumenti
anche
non
coercitivi
per
l'efficacia
delle
norme.
Occorre
comunque
distinguere
il
diritto
“premiale”
dal
diritto
“promozionale”.
Nel
diritto
premiale,
come
del
resto
nel
diritto
repressivo,
è
ravvisabile
il
rinvio
a
una
prospettiva
“individualistica”
(il
premio,
come
pure
il
castigo,
l'incentivo,
come
pure
il
disincentivo,
fanno
riferimento
alla
struttura
dei
bisogni
e
degli
interessi
individuali
del
loro
destinatario).
Nel
diritto
“promozionale”,
invece,
emerge
il
rinvio
a
una
prospettiva
più
ampia,
che
tiene
conto
non
tanto
dei
singoli
destinatari
della
norma,
quanto
degli
effetti
che
tale
diritto
è
in
grado
di
produrre
relativamente
all'intero
sistema
sociale.
La
funzione
promozionale
può
essere,
insomma,
constatata
solo
facendo
riferimento
alle
conseguenze
reali
che
il
comportamento
desiderato
svolge
nell'ambito
di
un
orizzonte
macrosociologico
di
cui
non
sempre
né
necessariamente
l'autore
del
comportamento
ha
un'adeguata
percezione.
Ovviamente,
sia
nel
caso
del
diritto
premiale
sia
nel
caso
del
diritto
promozionale,
gli
effetti
relativi
possono
essere
realmente
conseguiti
(rispettivamente
nella
sfera
individuale
e
in
quella
sociale)
oppure
semplicemente
voluti
e
auspicati
dal
legislatore
senza
riuscire
neppure
in
parte
a
essere
realizzati,
rimanendo
così
puramente
intenzionali.
La
correlazione
“premio-‐promozione”
non
è
affatto
indissolubile
e
necessaria.
Sono
infatti
ipotizzabili
dei
premi
aventi
una
funzione
non
di
promozione,
ma
piuttosto
di
difesa
dello
status
quo
(ad
es.
la
legge
che
consente
agli
autori
di
crimini
di
acquistare
con
il
loro
comportamento
il
ruolo
di
“pentiti”),
come
pure
delle
sanzioni
“negative”
in
grado
di
svolgere
indirettamente
una
funzione
promozionale
(ad
es.
le
pene
che
sono
previste
per
chi
ostacoli
l'attuazione
di
una
legge
di
riforma).
CAPITOLO 5
IL PROBLEMA DELL’EVOLUZIONE
Per
quanto
riguarda
l’efficacia
del
diritto,
si
è
visto
entro
quali
limiti
una
struttura
normativa,
che
per
definizione
può
dirsi
“contro
fattuale”
essendo
destinata
non
a
cedere
ai
fatti
ma
a
imporsi
su
di
essi,
può
affidarsi
agli
strumenti
di
controllo
di
cui
tradizionalmente
un
ordinamento
giuridico
dispone
per
addomesticare
i
fatti,
vale
a
dire
a
sanzioni,
che
con
le
cattive
o
con
le
buone
(sanzioni
premiali)
riescono
a
esercitare
una
forza
impositiva
sugli
effettivi
comportamenti
dei
destinatari,
come
pure
a
diffusi
atteggiamenti
valutativi
di
carattere
più
generale,
volti
a
giustificare
un
consenso
nel
confronti
dell’ordinamento
e
a
legittimarlo.
In
questo
capitolo
l’attenzione
verrà
invece
rivolta
alla
capacità
che
i
fatti
hanno
di
mutare
le
norme,
e
che,
correlativamente,
le
norme
hanno
di
apprendere
dai
fatti.
Attraverso
tali
strade
potrà
prodursi
una
vera
e
propria
evoluzione
del
diritto.
Numerose
sono
le
ipotesi
macrosociologiche
che
hanno
cercato
di
spiegare
l’evoluzione,
collegando
tipi
di
organizzazione
rilevanti
a
livello
dell’intera
società
a
tipi
di
organizzazione
rilevanti
a
livello
del
diritto
per
dimostrare
che
entrambi
possono
mutare
in
modo
coordinato
(co-‐evoluzione).
Si
è
sviluppato,
nella
sociologia
del
diritto
contemporanea,
un
approccio
al
problema
dell’evoluzione
del
diritto
che
si
avvale
degli
strumenti
della
teoria
generale
dei
sistemi.
Il
problema
fondamentale
da
risolvere
è
quello
delle
modalità
con
cui
è
possibile
combinare
cambiamento
sociale
e
mantenimento
dell’identità
del
sistema,
ovvero
dei
limiti
entro
i
quali
un
sistema,
come
quello
giuridico,
può
sottostare
a
mutamenti
anche
profondi
senza
perdere
per
questo
la
propria
identità.
Secondo
Luhmann
il
concetto
di
sistema
sociale
risulta
inestricabilmente
correlato
al
concetto
di
diritto.
Il
sistema
sociale
è
presentato
come
un
insieme
di
elementi
tra
loro
interrelati,
che
per
sopravvivere
in
un
ambiente
complesso,
incontrollabile
e
variamente
fluttuante,
ha
bisogno
di
sviluppare
un’adeguata
complessità
interna,
co-‐determinata
da
sottosistemi
di
cui
è
composto
e
dalle
loro
reciproche
relazioni.
Il
sistema
sociale
richiede
la
presenza
decisiva
di
un
sottosistema
giuridico.
A
tal
fine
vengono
utilizzate
codificazioni
binarie
tipiche
(nel
caso
del
diritto:
lecito/illecito,
legale/illegale,
conforme
al
diritto/non
conforme
al
diritto;
nel
caso
dell’economia:
ricco/povero,
utile/non
utile).
Dato
che
il
problema
dell’evoluzione
assume
un’importanza
cruciale
in
una
prospettiva
sistemica,
non
stupisce
che
nell’opera
di
Luhmann
esso
venga
affrontato
in
3
fasi
diverse,
ciascuna
delle
quali
prende
in
considerazione
i
fattori
di
cambiamento
del
sistema
provenienti:
a)
dal
suo
interno,
b)
dal
suo
esterno,
c)
da
entrambi
i
versanti.
• I fattori sociali che possono spingere il diritto a mutare se stesso per continuare a svolgere i propri compiti;
• I
meccanismi
del
diritto
che,
come
i
procedimenti,
sono
di
per
sé
in
grado
di
produrre
innovazione
in
un
quadro
di
continuità;
• I
canali
che
consentono
al
sottosistema
giuridico
di
selezionare
e
tradurre
al
proprio
interno
e
nel
proprio
linguaggio
eventuali
sollecitazioni
di
rinnovamento
provenienti
dalla
società.
LE RAGIONI DELL’EVOLUZIONE
Inteso
come
sottosistema
del
più
ampio
sistema
sociale,
il
diritto,
è
chiamato
ad
assicurare
prestazioni
che
sono
collegate
all’evoluzione
propria
e
a
quella
del
sistema
sociale
di
cui
il
sottosistema
giuridico
fa
parte.
L’evoluzione
del
diritto
è
il
risultato
di
un
più
vasto
processo
che
coinvolge
tutti
i
sottosistemi
sociali,
ognuno
dei
quali
deve
adeguarsi
alla
complessità,
non
solo
dell’ambiente,
ma
anche
degli
altri
sottosistemi.
È
possibile
quindi
affermare
che
l'evoluzione
è
il
risultato
di
un
processo
generale
di
reciproco
adattamento
dei
sottosistemi,
e
che
a
tale
processo
nessuna
parte
del
sistema
sociale,
a
cominciare
dal
diritto,
può
del
tutto
sottrarsi,
anche
se
i
livelli
di
condizionamento
possono
essere
molto
diversi.
Ma,
per
potere
individuare
simili
interrelazioni
e
i
conseguenti
cambiamenti
sulla
sfera
giuridica
occorre
anzitutto
chiedersi:
perchè
in
un
sistema
sociale
che
si
evolve
c'è
bisogno
del
diritto?
Anzitutto le strutture normative per Luhmann sono funzionalmente connesse al concetto di possibilità.
Dalla
sproporzione
tra
possibilità
offerte
dall'ambiente
e
capacità
di
attuazione
del
sistema
deriva
il
fondamentale
carattere
della
complessità
del
mondo.
La
complessità
è,
in
questo
senso,
un
eccesso
di
possibilità
nel
quale
ineluttabilmente
si
imbatte
ogni
sistema
individuale
o
sociale.
La
complessità
del
mondo
va
quindi
“ridotta”,
e
tale
riduzione
non
può
essere
lasciata
al
caso
in
quanto
occorre
assicurare
che
il
sistema
sia
comunque
in
grado
di
sopravvivere.
Per
fare
questo
vi
è
soprattutto
una
via
da
seguire:
il
sistema
deve
trasformare
complessità
esterna
in
complessità
interna,
secondo
il
fondamentale
principio,
di
carattere
generale,
che
quanto
maggiore
è
la
complessità
interna
di
un
sistema,
tanto
più
vasta
è
la
porzione
di
mondo
che
esso
riesce
a
cogliere;
quanto
più
differenziate
possono
essere
le
sue
risposte,
tanto
maggiori
sono
le
sue
capacità
di
sopravvivenza.
La
strategia
di
adeguamento
della
complessità
interna
a
quella
esterna
viene
realizzata
mediante
l'elaborazione
di
strutture.
La
struttura
è
in
tale
prospettiva
quel
meccanismo
che
serve
a
selezionare
un
ristretto
campo
di
alternative
di
comportamento
fra
tutte
quelle
possibili
allo
scopo
di
consentire
la
formazione
delle
aspettative.
La
struttura
deve
quindi
servirsi
di
criteri
che
assicurino
una
certa
prevedibilità,
filtrando
dall'insieme
degli
eventi
possibili
l'insieme
più
ristretto
degli
eventi
che
probabilmente
saranno
realizzati.
Solo
tali
eventi
potranno
essere
fatti
oggetto
di
aspettative.
La
struttura
serve
a
ridurre
la
quantità
di
delusioni
che
la
complessità
del
mondo
può
provocare.
Questa
articolata
operazione
di
selezione
può
essere
compiuta
da
ogni
struttura.
Ora,
la
presenza
di
strutture,
per
la
società
come
per
l'individuo,
riduce,
ma
non
elimina,
la
probabilità
che
le
aspettative
siano
deluse.
Il
mondo,
infatti,
oltre
a
essere
complesso
è
anche
contingente.
Il
termine
“contingenza”
designa
appunto
la
possibilità
che
anche
gli
eventi
probabili
dal
punto
di
vista
di
una
certa
struttura,
non
si
realizzino
o
si
realizzino
in
modo
difforme
dalle
aspettative.
Si
hanno
in
particolare
2
tipi
di
contingenza.
La
contingenza
cd.
“semplice”,
serve
a
indicare
l'insicurezza
di
realizzazione
delle
aspettative
riguardanti
eventi
fisici
o
comunque
indipendenti
dalla
volontà
umana.
La
contingenza
cd.
“doppia”,
si
riferisce
invece
ai
rapporti
fra
soggetti
in
grado
di
prevedere
reciprocamente
i
loro
comportamenti,
e
serve
a
indicare
l'insicurezza
di
realizzazione
delle
aspettative
relative
a
eventi
dipendenti
dalla
volontà
umana.
Questo
secondo
tipo
di
contingenza
è,
evidentemente,
quello
più
rilevante
per
uno
studio
sociologico
del
diritto.
Esso
comporta,
da
un
lato,
l'adozione
di
prospettive
altrui,
e
quindi
un
enorme
ampliamento
della
capacità
di
esperienza
individuale,
ma,
d'altro
lato,
comporta
anche
il
riconoscimento
dell'altrui
libertà,
e
quindi
un
aumento
della
probabilità
di
delusione
delle
aspettative.
In
altri
termini,
il
prezzo
che
occorre
pagare
per
passare
dalla
contingenza
semplice
del
campo
della
percezione
degli
oggetti,
alla
contingenza
doppia
del
mondo
sociale
è
un
significativo
aumento
di
insicurezza.
A
questa
aumentata
insicurezza
il
sistema
sociale
risponde
con
la
formazione
di
strutture
di
aspettative
più
complesse
di
secondo,
di
terzo
livello
e
così
via.
L'oggetto
di
un'aspettativa
sociologicamente
rilevante
non
può
essere,
infatti,
un
semplice
fatto,
bensì
l'aspettativa
che
un
altro
soggetto
ha
di
un
certo
fatto.
Le
strutture
di
aspettative
sono
per
Luhmann
tipicamente
esposte
a
delusioni.
Proprio
da
questo
può
nascere
un
importante
impulso
alla
correzione
delle
strutture
e
quindi
alla
loro
evoluzione.
In
effetti,
alla
delusione
di
un'aspettativa
è
possibile
reagire
seguendo
essenzialmente
due
strategie:
o
correggendo
l'aspettativa
delusa
in
modo
da
adeguarsi
alla
realtà
(strategia
cognitiva),
o
tenendo
ferma
l'aspettativa
anche
nei
casi
in
cui
essa
viene
delusa
(strategia
normativa).
La
strategia
cognitiva
e
quella
normativa
sono
funzionalmente
equivalenti,
il
che
significa
che
entrambe
possono
svolgere,
sia
pure
in
modo
diverso,
la
medesima
funzione
di
neutralizzare
i
pericoli
che
derivano
dalla
delusione
di
aspettative.
Questo
non
toglie
che
tra
le
due
strategie
quella
normativa
sia
di
gran
lunga
più
facile
da
usare
in
un
mondo
incerto.
L'atteggiamento
normativo,
sia
nel
sistema-‐uomo
sia
nel
sistema-‐società,
può
estendersi
a
un
campo
di
applicazione
molto
più
vasto.
Potendo
“classificare
come
deviante
il
comportamento
difforme
dalle
aspettative
esso
trova
in
questa
possibilità
sicurezza
già
nel
presente”.
Con
l'evoluzione
del
sistema,
le
norme
acquistano
sempre
maggiore
importanza
come
strumenti
di
orientamento
e
di
coesione
sociale.
Un
decisivo
passo
in
avanti,
per
giungere
a
quelle
particolari
strutture
normative
che
sono
le
strutture
giuridiche,
viene
compiuto
da
Luhmann
sviluppando
la
distinzione,
appena
vista,
fra
strutture
di
aspettative
normative
e
strutture
di
aspettative
cognitive,
in
un
contesto
più
ampio.
Tale
distinzione
si
fonda,
infatti,
su
una
dimensione
temporale,
alla
luce
della
quale
le
strutture
cognitive
risultano
più
instabili
nel
tempo
e
le
strutture
normative
risultano
invece
più
stabili
perchè
non
correggibili
in
seguito
a
esperienze
difformi.
La
non
correggibilità
delle
strutture
normative
richiede
invero
la
disponibilità
di
strategie
volte
alla
produzione
di
consenso
o
all'assorbimento
delle
inevitabili
delusioni.
Risulta
necessario,
quindi,
un
“trattamento”
della
delusione,
e
per
questo
sono
disponibili
numerose
strategie
non
sanzionatorie.
Comune
a
tutte
queste
strategie
è
la
caratteristica
di
mirare
semplicemente
a
ripristinare
il
carattere
normativo
delle
aspettative
deluse
senza
impegnarsi
a
provocare
conseguenze
direttamente
spiacevoli
per
il
trasgressore.
Le
strutture
di
aspettative
hanno,
oltre
a
una
dimensione
temporale,
anche
una
dimensione
sociale,
che
riguarda
la
loro
capacità
di
incontrare
consenso
in
un
certo
gruppo
umano.
Luhmann
muove
dalla
constatazione
che
l'attenzione
di
ciascun
membro
del
gruppo
risulta
limitata
rispetto
alla
pluralità
dei
comportamenti
socialmente
rilevanti.
Vi
è
la
necessità
che,
nel
gruppo,
si
formino
dei
meccanismi
per
economizzare
il
consenso.
Tali
meccanismi
hanno
lo
scopo,
non
di
procurare
l'irrealizzabile
consenso
di
tutti,
ma
di
considerare
il
consenso
inespresso
come
se
fosse
espresso.
Questi
meccanismi
portano
all'istituzionalizzazione
del
consenso,
cioè
alla
sopravvalutazione
dell'effettiva
consistenza
numerica
dei
giudizi
favorevoli
in
modo
da
renderli
fittiziamente
espressione
della
volontà
dell'intero
gruppo.
La
terza
dimensione
delle
strutture
di
aspettative
non
riguarda
né
la
dimensione
temporale,
e
quindi
la
loro
durata,
né
la
dimensione
sociale
e
quindi
il
consenso
che
esse
sono
in
grado
di
suscitare,
bensì
l'identificazione
del
loro
contenuto.
Limitatamente
alle
strutture
di
aspettative
normative,
è
appena
il
caso
di
ricordare
che
queste
presentano
diversi
livelli
di
astrazione
in
base
ai
quali
può
determinarsi
il
loro
contenuto.
A
seconda
del
grado
di
astrazione
richiesto,
una
norma
può
riferirsi
a
persone,
a
ruoli,
a
programmi,
a
valori.
Nel
caso
in
cui
delle
aspettative
normative
siano
riferite
a
una
persona,
esse
rimangono
su
un
piano
tanto
concreto
da
non
poter
essere
senz'altro
generalizzate.
Nel
caso,
invece,
in
cui
si
ha
bisogno
di
formare
aspettative
normative
più
astratte,
esse
possono
essere
riferite
a
un
certo
ruolo,
cioè
possono
ignorare
certi
caratteri
individuali
tenendo
conto
solo
dei
caratteri
tipici
che
entrano
nella
definizione
del
ruolo.
Un
ulteriore
aumento
di
astrazione
viene
ottenuto
riferendo
un
insieme
di
aspettative
normative
a
un
certo
programma,
cioè
a
una
regola
di
decisione
che
sia
formulata
verbalmente
in
termini
generali
e
le
cui
condizioni
di
applicazione
siano
specificabili
a
seconda
delle
situazioni.
Infine,
un
ulteriore
incremento
di
astrazione
si
ha
nel
caso
in
cui
un
insieme
di
aspettative
normative
sia
riferito
a
certi
valori.
A
differenza
dei
programmi,
i
valori
hanno
infatti
tra
loro
rapporti
che
non
vengono
fissati
una
volta
per
tutte,
ma
che
possono
variare
nei
casi
di
conflitto
dando
luogo
a
risultati
non
univocamente
determinabili.
Così,
la
normazione
dà
continuità
a
un'aspettativa
indipendentemente
dal
fatto
di
essere
di
tanto
in
tanto
delusa;
l'istituzionalizzazione
ipotizza
il
consenso
generale
indipendentemente
dal
fatto
che
dei
singoli
non
siano
d'accordo;
l'astrazione
garantisce
unità
di
significato
e
coesione
alle
aspettative
indipendentemente
dalla
loro
effettiva
eterogeneità.
Luhmann
ritiene
che
il
costante
aumento
di
complessità
della
società
abbia
effetti
rilevanti
per
i
singoli
sistemi
di
cui
essa
è
composta
in
quanto
provoca
il
contemporaneo
potenziamento
dei
3
meccanismi
necessari
all'evoluzione
dei
sistemi
complessi,
cioè:
a)
dei
meccanismi
che
servono
alla
produzione
di
possibilità
di
azione
e
di
esperienza;
b)
dei
meccanismi
che
servono
alla
selezione
delle
possibilità
utilizzabili
e
il
rigetto
di
quelle
inutilizzabili;
c)
dei
meccanismi
che
servono
alla
conservazione
e
alla
stabilizzazione
delle
possibilità
prescelte.
Il
processo
evolutivo
così
indicato
sembrerebbe
comportare
una
sorta
di
rincorsa
senza
fine
del
diritto
nei
confronti
della
società,
in
quanto
il
sistema
che
abbia
raggiunto
un
livello
di
complessità
interna
superiore
è
anche
in
grado,
per
ciò
stesso,
di
percepire,
e
quindi
di
avvertire
come
problematica,
una
porzione
maggiore
di
complessità
ambientale.
La
domanda
che
in
tale
contesto
occorre
porsi
è,
quindi,
se
il
sistema
giuridico
sia
in
grado
di
tenere
il
passo
del
generale
aumento
della
complessità,
oppure
incontri
dei
limiti
nell'aumentare
la
propria
complessità
interna
e
debba
pertanto
reagire
o
isolandosi
dal
processo
di
mutamento
sociale
o
cedendo
il
posto
ad
altri
sistemi,
dotati
di
maggiore
elasticità
strutturale.
È
questa,
evidentemente,
una
questione
centrale
per
una
teoria
dell'evoluzione
del
diritto.
Da
un
lato
vi
è
chi
teorizza,
nelle
forme
più
diverse,
l'inevitabile
declino
del
diritto
oltre
un
certo
livello
di
complessità
sociale;
dall'altro
vi
è
chi
ritiene
che
il
diritto
possa
aumentare
ulteriormente
la
propria
complessità
assumendo
nuove
funzioni,
ad
es.
pianificatrici
e
promozionali,
oltre
a
quelle
coercitive
tradizionali.
La
risposta
di
Luhmann
è
nel
senso
di
ammettere
un
costante
adeguamento
della
complessità
interna
del
sistema
giuridico
all'aumentata
complessità
esterna
prodotta
dalla
differenziazione
funzionale.
La
capacità
evolutiva
del
diritto
può
essere
moltiplicata
mediante
l'utilizzazione
di
meccanismi
giuridici
che,
pur
mantenendo
la
loro
caratteristica
normatività,
sono
programmati
per
produrre,
con
l'apporto
di
fattori
esterni,
risultati
imprevedibili,
in
grado
di
innovare
il
diritto.
Ciò
è
anzitutto
possibile,
secondo
Luhmann,
attraverso
il
procedimento.
Con
il
termine
“procedimento”
Luhmann
intende
riferirsi
non
solo
al
diritto
processuale,
ma
a
ogni
successione
giuridicamente
rilevante
di
atti
aventi
un
esito
incerto.
Esempi
di
procedimento
sono,
non
solo
il
procedimento
giudiziario,
ma
anche
l'elezione
politica,
l'iter
legislativo,
i
processi
decisionali
della
pubblica
amministrazione.
Come
tutti
i
sistemi
sociali,
anche
il
procedimento
si
costituisce
mediante
delimitazione
di
confini
nei
confronti
di
un
ambiente.
Ciò
comporta
che
quanto
vale
nel
mondo
non
vale
nel
procedimento,
ma
deve
esservi
introdotto
attraverso
appositi
filtri.
Storicamente
si
assiste
a
un
progressivo
aumento
delle
maglie
dei
filtri
che
regolano
l'ingresso
di
informazioni
del
procedimento.
Esempi
di
tali
filtri
possono
essere,
per
il
procedimento
giudiziario,
da
un
lato
il
giudizio
di
Dio,
che
affida
la
decisione
finale
a
un
solo
evento,
e
d'altro
lato
il
moderno
processo,
nel
quale
numerosi
criteri
di
rilevanza
impongono
costantemente
al
giudice
di
non
tener
conto
di
tutto
ciò
che
non
sia
rilevante
per
il
processo.
Alle
singole
parti
viene
pertanto
imposto
di
lasciare
fuori
dal
procedimento
ogni
altro
ruolo
sociale
da
esse
eventualmente
ricoperto.
L'incertezza
dell'esito
viene
assorbita
nel
corso
del
procedimento
stesso
“mediante
un
processo
selettivo
di
decisione”
che
è
in
grado
di
legittimarsi
da
solo.
La
“teoria
nascosta”
del
procedimento
si
fonda
sul
fatto
che
esso
inserisce
l'individuo
in
un
insieme
coordinato
di
ruoli
“interni”
al
processo
e,
in
tal
modo,
riesce
a
spingerlo
ad
accettare
le
decisioni
finali
da
esso
prodotte
qualunque
sia
il
loro
contenuto
e
indipendentemente
da
motivazioni
personali.
Una
sentenza
passata
in
giudicato
deve
necessariamente
essere
accettata,
in
quanto
non
vi
sono
più
possibilità
di
mutarla
o
di
ignorarla.
L'accettazione
significa,
tuttavia,
qualcosa
di
più,
vale
a
dire
che
il
risentimento
e
le
delusioni
che
possono
seguire
a
una
sentenza
sfavorevole,
non
vengono
istituzionalizzate,
ma
rimangono
invece
confinate
a
livello
privato,
senza
assumere
la
rilevanza
di
conflitti
sociali.
Perchè
l'esito
del
processo
sia
accettato,
è
quindi
necessario
sviluppare
strategie
dirette
a
coinvolgere
la
parte.
Tali
strategie
si
basano
anzitutto
sul
principio
della
“coerenza”
che
regola
le
interazioni
sociali.
Una
certa
misura
di
coerenza
nella
rappresentazione
di
se
stessi
la
si
attende
da
tutti
i
consociati,
come
base
di
orientamento
e
come
presupposto
su
cui
fondare
l'interazione
sociale
in
modo
duraturo.
Luhmann
si
occupa
anche
di
ulteriori
procedimenti
oltre
al
procedimento
giudiziario.
Relativamente
al
procedimento
legislativo
egli
osserva
che
il
programma
decisionale
di
riferimento
non
è
quello
condizionale
(“se...allora”)
ma
un
programma
di
scopo.
Ciò
comporta
un
ulteriore
aumento
della
capacità
decisionale
che
in
questo
caso
viene
mantenuta
entro
limiti
accettabili
grazie
a
una
“doppia
struttura”
nella
quale
operano
congiuntamente
sia
le
procedure
parlamentari
formalmente
intese,
con
deliberazioni
finali
adottate
a
maggioranza,
sia
le
concrete
modalità
operative
del
processo
legislativo,
in
cui
si
intrecciano
relazioni
personali
e
informali.
Quanto
ai
destinatari
delle
decisioni,
essi
possono
accogliere
favorevolmente
le
variazioni
del
diritto
prodotte
dai
procedimenti
legislativi,
ma
in
generale
le
subiscono
come
fossero
eventi
di
cui
tenere
solo
cognitivamente
conto,
e
quindi
modificano
“le
loro
aspettative
in
modo
corrispondente,
senza
che
intervengano
complicazioni
o
discrepanze
di
rilievo
nei
ruoli
ulteriori
da
loro
ricoperti”.
Quanto
poi
ai
procedimenti
elettorali,
che
consentono
l'interazione
tra
attori
istituzionali
(partiti)
e
tra
questi
e
attori
sociali
(votanti),
la
canalizzazione
delle
eventuali
delusioni
verso
forme
di
espressione
istituzionalizzate
e
non
violente
viene
assicurata
dal
fatto
che
“le
elezioni
politiche
offrono
l'occasione
per
manifestare
un
dissenso
senza
mettere
in
pericolo
la
struttura”.
Esse
pertanto
fanno
parte
“dei
meccanismi
di
assorbimento
della
protesta”
e
in
questa
prospettiva
“contribuiscono
all'adempimento
della
medesima
funzione
dei
procedimenti
giudiziari”.
Affichè
il
procedimento
delle
elezioni
crei
“determinati
presupposti
e
contributi
parziali
per
il
processo
di
autolegittimazione
del
sistema
politico”,
vanno
comunque
rispettati
i
principi
dell'universalità
dell'accesso
al
ruolo
di
elettore,
dell'eguaglianza
del
peso
di
tutti
i
voti,
e
della
segretezza
del
voto.
Grazie
a
elezioni
che
osservino
tali
principi
si
può
istituzionalizzare
una
certa
“variabilità
indipendente”
della
politica
rispetto
ad
altri
settori
della
società,
e
si
permette
così
una
sorta
di
autonomia
operativa
della
politica.
In
effetti,
nelle
elezioni
si
produce
solo
una
modesta
quota
di
incertezza
riguardo
all'esito
finale
data
la
ridotta
possibilità
di
individui,
programmi,
partiti
di
distinguersi
tra
loro.
In
effetti,
nelle
elezioni
il
cittadino
si
limita
ad
attribuire
il
suo
voto
partecipando
in
forme
altamente
generiche
a
una
concreta
distribuzione
di
ruoli.
La
democrazia
presenta
infatti
il
grande
vantaggio
di
consentire
il
decidere
senza
eliminare
la
possibilità
di
correggere
in
futuro
la
decisione
presa,
mantenendo
così
aperto
il
sistema
a
dosi
periodiche
di
evoluzione
per
combinare
esigenze
di
continuità
e
di
cambiamento
in
modo
che
risultino
sopportabili
per
l'organismo
sociale.
Il
procedimento
viene
inteso
come
sistema
di
atti
giuridicamente
ordinati
e
privi
di
un
esito
certo,
che
riescono
a
produrre
decisioni
nuove
e
talora
innovative
e
a
farle
accettare
a
priori,
non
tanto
per
le
loro
capacità
effettive
o
potenziali
di
tutelare
valori
ancorati
nell'ordinamento
come
quelli
di
verità
e
di
giustizia,
ma
principalmente
in
virtù
dei
meccanismi
di
assunzione
di
ruoli.
Tali
meccanismi
sociologici
e
psicologici
vincolano
chi
partecipa
ai
procedimenti
a
sentirsi
obbligato
ad
accettare
il
loro
esito
per
il
fatto
di
avere,
almeno
in
linea
di
principio,
contribuito
a
produrlo,
e
quindi
di
essere
socialmente
corresponsabile
del
suo
contenuto,
nella
misura
in
cui
i
provvedimenti
vengono
usati
in
un
quadro
democratico
di
riferimento.
Il
sistema
del
diritto,
per
evitare
che
l'evoluzione
indotta
dall'ambiente
distrugga
la
sua
identità
e
azzeri,
attraverso
omologazioni
successive,
ogni
differenza
con
il
resto
del
sistema
sociale,
non
può
essere
esposto
senza
protezioni
all'onda
del
mutamento
sociale
ed
è
per
questo
protetto
da
propri
filtri
interni.
Per
riuscire
a
scomporre
nei
loro
vari
elementi
i
processi
che
regolano
la
correzione
delle
strutture
normative
che
si
sono
consolidate
in
un
certo
stadio
del
loro
sviluppo,
Luhmann,
nell'ultima
fase
della
sua
produzione
teorica,
elabora
alcuni
concetti
che
corrispondono
al
altrettante
modalità
di
regolazione
dell'apertura
e
della
chiusura
del
sistema
diritto.
Tutti
i
sistemi,
egli
osserva,
presentano
una
“chiusura
operativa”.
Questo
significa
che
le
operazioni
che
essi
pongono
in
essere
nascono
e
restano
all'interno
del
sistema
nella
misura
in
cui
sono
strettamente
connesse
con
operazioni
precedentemente
poste
in
essere
dallo
stesso
sistema
e
con
operazioni
che
lo
stesso
sistema
produrrà
nel
futuro.
Si
può
parlare
di
una
“chiusura
operativa”,
denominabile
nel
caso
del
sistema
giuridico
“chiusura
normativa”,
che
si
riproduce
nel
corso
del
tempo
attraverso
il
riferimento
alle
proprie
operazioni,
ma
non
esclude,
anzi
in
certa
misura
comporta,
la
possibilità
di
un
apprendimento,
purchè
selettivo,
della
realtà
esterna.
Il
sistema
può
infatti
passare
da
una
chiusura
normativa
a
un'apertura
operativa
purchè
questa
sia
regolata,
in
quanto
la
capacità
di
apprendere
non
può
essere
illimitata.
È
anche
vero
che
si
hanno
delle
“interpenetrazioni”
tra
sistemi.
Con
questo
termine
si
indica
la
possibilità
che
sullo
schermo
di
un
sistema,
e
in
particolare
del
sistema
giuridico,
appaiano
immagini
provenienti
da
altri
sistemi.
In
luogo
di
un
azzeramento
dei
confini
tra
sistemi
diversi
l'interpenetrazione
suggerisce
un
processo
per
cui
le
immagini
provenienti
da
altri
sistemi
vengono
captate
dal
sistema
ricevente
(prima
selezione),
tradotte
in
modi
compatibili
con
le
specificità
delle
operazioni
di
tale
sistema
(seconda
selezione)
e
con
le
strutture
che
ordinano
tali
operazioni
(terza
selezione)
per
poi
essere
eventualmente
utilizzate
come
fattori
di
innovazione
nella
misura
in
cui
superino
i
filtri
posti
dai
limiti
normativi
alla
capacità
di
apprendere
del
sistema.
Si
può
quindi
dire
che,
se
il
linguaggio
con
cui
vengono
comunicate
le
sollecitazioni
esterne
viene
riconosciuto
come
normativamente
rilevante,
queste
potranno
essere
tradotte
nel
linguaggio
del
diritto,
e
il
diritto
potrà
farle
proprie
trasformandole
in
comunicazioni
giuridiche,
e
quindi
in
fattori
di
produzione
di
nuovo
diritto.
Il
diritto
è
un
sistema
pronto
a
diventare
sempre
più
aperto
senza
per
questo
rinunciare
a
difendere
un
certo
margine
di
chiusura,
in
grado
di
combinare
momenti
di
normazione
o
di
irrigidimento
anche
coercitivo
nei
confronti
di
comportamenti
deludenti
e
devianti,
a
momenti
di
apprendimento
o
di
disponibilità
a
tener
conto
della
devianza
per
modificare
corrispondentemente
le
aspettative
deluse.
Legislazione
e
giurisdizione
rappresentano,
all'interno
della
struttura
del
sistema
giuridico,
i
principali
sottosistemi
nei
quali
questa
duplice
strategia
viene
meglio
che
altrove
istituzionalizzata.
La
legislazione,
che
è
“il
principale
meccanismo
di
apprendimento”
del
sistema
giuridico,
“stimola”
in
effetti
cambiamenti
della
legislazione
in
un
processo
di
che
si
autoriproduce
senza
fine.
In
effetti
l'approccio
sistemico
di
Luhmann
ha
il
merito
di
tematizzare
un
motivo
sempre
più
rilevante
nei
sistemi
giuridici
contemporanei:
la
tensione
fra
esigenze
di
differenziazione
interna
e
di
ricomposizione
di
unità
verso
l'esterno,
fra
tendenze
strutturali
a
suddividere
gli
oneri
decisionali
degli
operatori
in
sottounità
caratterizzate
da
programmi
specifici
e
necessità
dell'osservatore
di
riuscire
comunque
a
qualificare
il
diritto
in
modo
unitario
e
comprensivo.
L'approccio
sistemico
ha
la
peculiarità
di
poter
assorbire
approcci
più
semplici
rendendoli
tra
loro
complementari.
Nell'opera
di
Luhmann
si
può
ravvisare
una
prevalente
attenzione
per
il
funzionamento
delle
strutture
del
diritto
e
in
particolare
per
il
fondamentale
problema
dello
studio
del
diritto,
inteso
come
analisi
dei
rapporti
tra
studio
dogmatico
del
diritto
e
studio
sociologico
del
diritto.
I
due
tipi
di
studio
vengono
riconosciuti,
da
parte
di
Luhmann,
nelle
loro
esigenze
essenziali:
il
primo
soprattutto
nell'orientamento
normativo
e
autoreferenziale
che
è
indispensabile
al
mantenimento
e
alla
riproduzione
del
sistema
stesso,
e
il
secondo
soprattutto
nell'apertura
cognitiva
del
sistema
all'ambiente.
Attraverso
i
suoi
diversi
livelli
di
ricomposizione
dell'autocoscienza
il
sistema
giuridico
appare
sempre
più
insicuro
della
propria
identità
fondamentale
e
niente
affatto
controllato
da
quel
ferreo
senso
dell'“Io”
che
è,
o
dovrebbe
essere,
assicurato
al
suo
interno
dalla
dogmatica
giuridica.
Tutto
ciò
suggerisce
una
diversa
percezione
dell'unità
del
sistema
i
cui
livelli
di
senso
sono
diversificati
all'interno
delle
strutture
normative
in
modo
molto
più
frammentario
di
quanto
lasci
trasparire
nella
prassi
il
cd.
“salvagente
della
forma”.
Nel
corso
dell'evoluzione
storica
i
cambiamenti
registrati
dai
singoli
sistemi
sociali
non
sono
unidirezionali
o
totali,
ma
possono
lasciare
che
permangano
isole
di
resistenza
nei
confronti
delle
tendenze
evolutive
dominanti.
In
società
che
hanno
raggiunto
livelli
superiori
possono
in
altri
termini
continuare
a
permanere
forme
del
livello
inferiore,
sia
pure
ridotte
per
importanza
e
diffusione.
Non
va
neppure
dimenticato
che
il
cambiamento
può
avvenire
trapiantando
parti
di
un
certo
ordinamento
in
un
altro,
diverso
per
storia
e
per
cultura.
Questi
trapianti
sono
talora
opera
di
una
cultura
giuridica
interna
che
guarda
con
favore
a
esperienze
giuridiche
di
altri
paesi.
In
generale,
tuttavia,
un
trapianto
giuridico,
per
diventare
parte
del
nuovo
sistema
e
svolgervi
effettivamente
le
funzioni
previste,
richiede
che
le
parti
da
recepire
trovino
condizioni
idonee
a
sviluppare
un
vero
e
proprio
radicamento
culturale
che
le
stabilizzi
dopo
averle
eventualmente
modificate
per
evitare
reazioni
di
rigetto.
Il
risultato
è
che
un
trapianto
può
riuscire,
non
solo
se
vi
è
un
atteggiamento
favorevole
da
parte
della
cultura
giuridica
interna,
ma
se
i
fattori
ambientali
nel
loro
complesso
consentono
il
radicamento
degli
istituti
trapiantati
nel
nuovo
organismo.
Habermas
ha
avuto
il
merito
di
tradurre
in
un
linguaggio
più
moderno
i
principali
motivi
ispiratori
della
Scuola
di
Francoforte,
ma
ha
anche
cercato
di
ricostruire
il
funzionamento
dei
sistemi
sociali
a
partire,
invece
che
dall'interno
delle
loro
strutture,
prevalentemente
dall'esterno,
vale
a
dire
dal
punto
di
vista
degli
attori
sociali.
Habermas
indica
le
principali
tappe
che
il
processo
di
evoluzione
del
diritto
attraversa
passando
da
un'istituzionalizzazione
del
denaro
e
del
potere
(cioè
dai
media
che
sostengono
la
differenziazione
dei
sistemi
dell'economia
e
della
politica)
a
uno
stato
democratico
che
finisce
col
costituzionalizzare
i
rapporti
di
potere.
Tale
ricostruzione
porta
Habermas
a
elaborare
la
distinzione
tra
due
tipi
di
diritto:
il
diritto
come
medium
e
il
diritto
come
istituzione.
Il
primo
tipo
di
diritto
serve
semplicemente
da
strumento
organizzativo
per
i
sottosistemi
che
si
sono
autonomizzati,
e
quindi
può
essere
legittimato
“mediante
procedimenti”,
data
la
difficoltà
di
pervenire
comunque
a
una
giustificazione
materiale.
Il
secondo
tipo
di
diritto
–
del
quale
fanno
parte
“i
fondamenti
del
diritto
costituzionale,
i
principi
del
diritto
penale
e
del
diritto
di
procedura
penale
nonché
tutte
le
regolazioni
di
forme
penali
contigue
alla
morale
(quali
quelle
relative
ad
assassinio,
aborto,
violenza
carnale
ecc.)”
-‐
non
può
invece
essere
sufficientemente
legittimato
“mediante
il
richiamo
positivistico
a
procedimenti”,
in
quanto
le
sue
norme
“appartengono
agli
ordinamenti
legittimi
dello
stesso
mondo
vitale”
e
costituiscono
“lo
sfondo
dell'agire
comunicativo”.
Per
Habermas,
il
diritto
dovrebbe
inoltre
assicurare
non
solo
e
non
tanto
un
ordine
sociale
dei
comportamenti,
ma
una
compatibilità
culturale
dei
diversi
orientamenti,
giuridici
o
extragiuridici,
che
sia
in
grado
di
bilanciare
la
polverizzazione
e
l'anonimizzazione
dei
soggetti
ricorrendo
a
una
ridefinizione
universale
dell'atto
comunicativo.
Teubner
cerca
di
sviluppare
la
prospettiva
prevalentemente
strutturale
di
Luhmann,
distinguendo,
all'interno
della
generale
categoria
dell'autoreferenzialità,
vari
tipi
di
relazioni
capaci
di
potenziare
la
complessità
di
un
sistema
come
quello
giuridico:
l'autosservazione,
l'autodescrizione,
l'autorganizzazione,
l'autoregolazione,
fino
a
giungere
all'autopoiesi,
intesa
come
autoproduzione
del
diritto,
che
sembra
poterle
compendiare
tutte.
Il
sistema
giuridico,
tuttavia,
non
viene
visto
da
Teubner
solo
come
una
sistema
sociale
che,
utilizzando
le
dicotomie
legale/illegale,
lecito/illecito,
conforme
al
diritto/non
conforme
al
diritto
è
in
grado
di
applicare
criteri
anch'essi
giuridici,
e
quindi
autorefernziali,
relativamente
a
fatti
e
azioni
giuridicamente
rilevanti
e
secondo
modalità
giuridicamente
predefinite.
In
effetti
il
sistema
giuridico
è
comunque
in
grado
di
stabilire
una
sorta
di
comunicazione
indiretta
con
l'esterno,
e
in
particolare
con
altri
sistemi.
Questa
traduzione
nel
linguaggio
di
ciascun
sistema
dei
rumori
provenienti
dagli
altri
sistemi
consente
di
uscire
da
una
sorta
di
condanna
all'incomunicabilità
totale
fra
sistemi.
Si
può
dire
che
i
sistemi
sono
aperti
all'esterno,
ma
in
modo
“cieco”,
in
quanto
i
loro
cambiamenti
sono
elaborati
e
condizionati
da
quello
che
del
mondo
esterno
riescono
a
vedere
dal
loro
interno.
La
capacità
del
sistema
giuridico
di
organizzare
e
regolare
se
stesso
sulla
base
dei
fiochi
segnali
che
attraverso
una
serie
di
filtri
riescono
a
raggiungerli
determina
insomma
l'evoluzione
del
diritto.
Tale
combinazione
di
funzioni
è,
a
sua
volta,
il
risultato
di
un'evoluzione
che
conosce
varie
fasi.
A
una
fase
iniziale,
che
corrisponde
a
un
diritto
“socialmente
diffuso”,
dotato
di
“elementi,
strutture,
processi
e
confini
determinati
direttamente
dalle
regole
della
comunicazione
sociale
in
generale”,
succede
una
fase
caratterizzata
da
un
diritto
“parzialmente
autonomo”
che
comincia
a
definire
le
sue
componenti
e
a
usarle
operativamente.
Si
giunge
così
a
una
terza
fase,
quella
del
diritto
autopoietico
(autoproduzione
del
diritto)
che
è
caratterizzata
dalla
connessione
delle
componenti
del
sistema
giuridico
che
si
rafforzano
reciprocamente
in
una
serie
di
interazioni
circolari.
In
particolare,
la
norma
interagisce
con
l'atto
giuridico,
ma
anche
con
la
dogmatica
giuridica,
mentre
l'atto
giuridico
interagisce
con
la
norma,
ma
anche
con
il
procedimento
e,
sia
pure
in
modo
mediato,
dogmatica
giuridica
e
procedimenti,
interagendo
con
atti
e
norme
che
interagiscono
tra
loro,
mantengono
per
ciò
stesso
aperta
la
possibilità
di
un'evoluzione
ulteriore
del
diritto.
Teubner
peraltro
condivide
con
Habermas
l'idea
che
la
funzione
del
diritto
consiste
nel
regolare
strutture
capaci
di
autoregolarsi
in
modo
da
non
snaturarne
o
scolorarne
i
contenuti.
Da
qui
l'importanza
di
un
diritto
“riflessivo”,
il
cui
compito
non
è
la
semplice
regolazione
della
società,
ma
la
regolazione
di
quelle
autoregolazioni
autonome
di
cui
sono
capaci
le
varie
aree
del
sociale.
Il
diritto
riflessivo
dovrebbe
designare
uno
strumento
adeguato
a
regolare
sistemi
sociali
già
autoregolati
attraverso
norme
e
processi
organizzativi
e
di
distribuzione
delle
competenze,
che
si
rendono
necessari
per
coordinarli
con
gli
altri
sistemi
sociali.
Teubner
costruisce
3
ipotesi
che
dovrebbero
racchiudere
le
principali
varianti
del
rapporto
“diritto/società”
in
prospettiva
evolutiva:
• l'ipotesi
dell'“incongruenza”
della
realtà
del
diritto
rispetto
alla
realtà
sociale,
e
viceversa
della
realtà
sociale
nei
confronti
del
diritto;
• l'ipotesi
dell'iperlegalizzazione
della
società,
che
si
ha
quando
la
regolazione
giuridica
“influenza
a
tal
punto
l'azione
interna
degli
elementi,
da
mettere
in
pericolo
la
loro
autoregolazione”
provocando
così
quegli
“effetti
disintegranti
nel
campo
regolato”;
• l'ipotesi
dell'ipersocializzazione
del
diritto
che
si
ha
quando
è
il
diritto,
non
la
società,
a
soccombere,
nel
senso
che
lo
sforzo
del
diritto
di
raggiungere
quante
più
mete
possibili
nell'ambito
di
quelle
assegnate
provoca
delle
ripercussioni
sulla
sua
struttura
interna
che
probabilmente
il
diritto
stesso
non
riesce
più
a
controllare.
La
conseguenza
di
quest'ultima
situazione,
che
rappresenta
l'esatto
opposto
dell'ipergiuridificazione,
è
che
in
questo
caso
il
diritto
viene
per
così
dire
“sottomesso”,
dall'esterno,
e
quindi
“politicizzato”,
“economizzato”,
“pedagogizzato”
ecc.,
il
che
per
Teubner
comporta,
come
risultato
negativo,
che
“l'autoproduzione
degli
elementi
normativi
del
diritto
viene
esposta
a
tendenze
disintegranti”.
Un
es.
del
progressivo
affermarsi
di
un
diritto
riflessivo
è
costituito
dalla
regolamentazione
giuridica
delle
associazioni
private.
L'intervento
dello
stato
in
tali
casi
non
ha
tanto
lo
scopo
di
livellare
i
loro
rapporti
interni
di
potere
quanto
di
renderle
consapevoli
degli
effetti
sociali
della
loro
organizzazione
e
di
sviluppare
le
loro
capacità
di
autocontrollo.
I
gruppi
di
interesse
che
costituiscono
una
variabile
indipendente
capace
di
creare
convergenze
di
obiettivi
non
limitate
dai
confini
degli
stati,
tendono
ad
ampliare
ulteriormente
l'area
della
loro
possibile
influenza
divenendo
talora
capaci
di
aggregazioni
così
ampie
da
riuscire
ad
agire
contemporaneamente
in
più
stati
anche
restando
al
di
fuori
delle
sedi
ufficiali
del
diritto
sovranazionale.
Questo
fenomeno
è
stato
descritto
recentemente
da
Teubner
sotto
la
denominazione
di
“costituzioni
civili”.
Quanto
più
si
rafforzano
i
processi
autonomi
di
regolamentazione
di
interessi
diffusi
a
seguito
di
normazioni
realizzate
indipendentemente
dagli
stati,
tanto
più
si
rafforzano
le
costituzioni
civili
che
creano
nuove
figure
giuridiche,
capaci
di
autoregolamentazione
a
livello
intrastatuale,
ma
anche
a
livello
sovranazionale.
I
sistemi
non
possono
essere
costruiti
con
una
logica
di
apertura
totale
nei
confronti
del
cambiamento,
a
pena
di
perdere
i
propri
confini
e
quindi
di
scomparire.
Ciò
tuttavia
non
toglie
che
essi
possano
costruire
delle
strutture
adeguate
a
regolare
quelle
sorte
spontaneamente,
e
che,
d'altro
lato,
più
soggetti
possano
costruire
proprie
strutture
sociali
aventi
carattere
normativo,
ma
non
statuale,
in
una
visione
pluralista.
Muovendo
dal
superamento
della
contrapposizione
tra
razionalità
formale
e
razionalità
materiale,
solitamente
ancorata
alla
contrapposizione
tra
regolazione
giuridica
(formale)
e
autoregolazione
sociale
(materiale).
Teubner
tenta
di
ipotizzare
una
reazionalità
giuridica
che
non
consiste
nella
scelta
di
un
solo
punto
di
orientamento
(società
invece
di
diritto),
ma
nell'inserire,
all'interno
del
diritto,
momenti
riflessivi
in
grado
di
combinare
entrambi.
Particolarmente
rilevante
per
la
sociologia
del
diritto,
è
la
questione
della
legittimazione,
vista
in
una
prospettiva
evolutiva,
vale
a
dire
come
necessario
sostegno
dei
mutamenti
del
diritto.
Per
cogliere
le
specificità
delle
loro
posizioni
rispetto
a
questo
tema
centrale
occorre
muovere
da
3
elementi-‐base
che
in
varie
forme
compaiono
nelle
loro
trattazioni.
Tali
elementi
sono:
• l'insieme
delle
“strutture”
che
selezionano
gli
ordinamenti
normativi
e
le
singole
norme
che
possono
rientrare
in
un
certo
processo
di
legittimazione;
• l'insieme dei “criteri” in grado di stabilire una connessione tra le strutture e i soggetti di cui sopra.
Questi
diversi
approcci
alla
questione
della
legittimazione
comportano
diversi
modi
di
intendere
la
principale
fonte
di
legittimazione
degli
ordinamenti:
la
costituzione.
Già
nella
teoria
costituzionalistica
del
XIX
secolo
la
costituzione
può
assumere
invero
diversi
significati
a
seconda
del
compito
prioritario
che
a
essa
viene
affidato.
La
costituzione
è
stata
così
presentata
come
un
“limite”
che
seleziona
e
filtra
l'operare
degli
organi
e
degli
apparati
dello
stato,
come
un
“contratto”
che
si
ipotizza
stipulato
da
tutti
i
soggetti
coinvolti,
e
come
un
punto
di
“equilibrio”
la
cui
definizione
viene
affidata
a
determinati
criteri
di
portata
estremamente
generale.
Questo
significa
che,
sia
pure
attraverso
una
serie
di
finzioni
e
muovendo
da
un
punto
di
vista
formale
e
gerarchico,
l'assestamento
generale
del
rapporto
stato/società
poteva
essere
affidato
a
una
costituzione
intesa
in
modo
unitario.
La costituzione sembra fungere da strumento di regolazione delle diverse regolazioni emergenti dal diritto e dalla società.
Affrontando
il
tema
della
costituzione
in
modo
non
statocentrico
ma
pluralistico
come
suggerito
dalla
molteplicità
delle
costituzioni
civili,
la
costituzione
in
senso
ampio
può
essere
insomma
intesa
come
il
sistema
che
costituisce
e
regola
i
giochi
sociali.
In
tale
contesto
essa
svolge
il
compito:
a)
di
definire
i
limiti
che
occorre
osservare
per
non
uscire
dal
gioco
del
diritto;
b)
di
stabilire
i
ruoli
riservati
ai
vari
attori-‐giocatori
per
farli
entrare
nel
gioco
del
diritto;
c)
di
precisare
i
criteri
ai
quali
essi
dovranno
ispirarsi
per
sfruttare
i
margini
di
variabilità
ammessi
dal
gioco
del
diritto.
• Quanto
all'importanza
della
definizione
di
“limiti”
posti
dallo
stato
ai
suoi
organi
si
può
osservare
che,
nell'esperienza
storica,
l'elaborazione
della
struttura
della
costituzione
ha
talora
addirittura
preceduto
la
sua
piena
legittimazione.
Il
processo
di
adattamento
della
struttura
dello
stato
alla
costituzione,
che
inizia
immediatamente
dopo
la
promulgazione
di
quest'ultima,
richiederebbe
invero
una
costituzione
già
legittima,
ma
questo
non
può
avvenire
in
modo
definitivo
anche
perchè
quello
della
legittimazione
è
un
processo
continuo.
• Quanto
all'importanza
dei
soggetti
è
appena
il
caso
di
ricordare
che,
per
la
costituzione
italiana,
l'apertura
alle
culture
giuridiche
di
soggetti
esterni
ai
procedimenti
legislativi
può
sempre
avvenire,
successivamente
alla
promulgazione
delle
leggi,
attraverso
un
istituto,
quello
del
referendum,
volto
a
provocare
l'abrogazione
delle
leggi
che,
sottoposte
alla
verifica
del
voto,
non
risultino
conformi,
per
i
loro
contenuti
o
per
gli
effetti
eventualmente
prodotti,
alla
cultura
giuridica
prevalente
nella
società.
Comunque,
anche
se
eterogenee
le
culture
giuridiche
dei
soggetti
riescono
spesso
a
coabitare
non
solo
formalmente,
all'interno
della
costituzione,
grazie
alla
compresenza
di
disposizioni
di
diverso
orientamento
ideologico-‐politico,
ma
anche
sostanzialmente
nella
società.
Se
“dal
punto
di
vista
giuridico,
il
popolo
ha
una
costituzione,
da
più
ampio
punto
di
vista
culturale
il
popolo
è
una
costituzione,
intendendo
con
ciò
che
esso
vi
è
entrato,
o
dovrebbe
entrarvi,
con
la
sua
cultura.
• Quanto
ai
criteri,
la
costituzione,
data
la
modificabilità
dei
giochi
da
essa
previsti,
può
essere
intesa
come
punto
di
equilibrio
di
una
sintesi
complessa,
nella
quale
confluiscono
apporti
innovativi
provenienti
dai
più
diversi
settori
della
società.
Nei
termini
della
teoria
dei
sistema
la
costituzione
assume
in
effetti
il
compito
di
gestire
dal
punto
di
vista
culturale
due
confini:
verso
l'interno
e
verso
l'esterno,
verso
il
diritto
e
verso
la
società.
Il
compito,
doppiamente
selettivo,
svolto
dalla
costituzione
dovrebbe
garantire
la
costante
congruità
della
cultura
giuridica
interna
ed
esterna,
nei
confronti
dei
testi
costituzionali.
Le
costituzioni
moderne
prevedono
istanze
di
controllo
che
garantiscono
unità
dei
criteri
interpretativi
nei
confronti
di
coloro
che
a
livello
giurisprudenziale
e
legislativo
possono
oltrepassare
i
confini
di
senso
della
costituzione.
La
stessa
costituzione
italiana,
il
cui
processo
applicativo
è
stato
di
particolare
lentezza,
ha
posto
l'istituzione
di
una
Corte
costituzionale
tra
le
prime
tappe
della
sua
graduale
realizzazione.
La
costituzione,
in
effetti,
segna
l'atto
di
nascita
di
un
nuovo
ordinamento,
da
essa
stessa
fondato
e
legittimato,
che
è
chiamato
a
regolare
la
vita,
non
solo
della
generazione
di
coloro
che
hanno
condiviso
il
medesimo
momento
storico
dei
padri
costituenti,
e
possono
quindi
sentirsi
vincolati
da
un
atto
normativo
che
hanno
visto
prendere
forma,
ma
anche
delle
generazioni
successive,
che
si
troveranno
a
dover
rendere
omaggio
alla
volontà
di
generazioni
precedenti
dalle
quali
saranno
inevitabilmente
separate
da
un
rilevante
divario
culturale.
Ciò
non
comporta
necessariamente
che,
col
tempo,
la
costituzione
sia
destinata
a
rifiutare
l'evoluzione
e
diventare
la
meno
culturalmente
radicata
delle
leggi.
Si
può
anzi
sostenere
che
proprio
i
molteplici
e
spesso
contraddittori
elementi
contenuti
in
una
moderna
costituzione
la
mettono
in
condizione
di
mantenere
quella
singolare
commistione
di
rigidità
e
flessibilità,
che
le
può
consentire
di
sopravvivere
al
suo
tempo.
CAPITOLO 6
CONCLUSIONI
I “NUOVI PROBLEMI
Alcuni
problemi,
attualmente
individuati
e
studiati
soprattutto
sul
versante
sociologico,
stanno
segnalando
motivi
di
tensione
tra
diritto
e
società.
Cerchiamo
di
elencarli
a
seconda
del
profilo:
sostanziale,
spaziale
e
relazionale,
che
li
caratterizza.
a)
La
maggiore
complessità
“sostanziale”
dei
rapporti
diritto/società
sembra
dipendere
dall’accresciuta
capacità
di
ricostruire,
sulla
base
degli
strumenti
conoscitivi
esistenti,
catene
di
connessioni
causa-‐effetto
giuridicamente
rilevanti.
Queste
catene
possono
diventare
così
lunghe
e
complesse
da
rendere
estremamente
arduo
il
loro
controllo,
con
gli
strumenti
offerti
da
una
concezione
gerarchica
delle
fonti,
sia
da
parte
degli
autori
sia
da
parte
dei
destinatari
delle
decisioni
giuridiche.
Questo
comporta
un
rilevante
aumento
della
percezione
della
rischiosità
del
diritto,
intesa
come
divario
tra
certezza
attesa
e
certezza
offerta.
In
una
prospettiva
sociologica
il
diritto
non
è
la
sola
struttura
in
grado
di
svolgere
la
funzione
di
regolare
e
assorbire
i
rischi.
La
famiglia
quale
gruppo
originario
ha,
ad
es.,
svolto
tradizionalmente
la
funzione
di
proteggere
dai
rischi
fondamentali
dell’esistenza
i
propri
componenti
fornendo,
nei
momenti
del
bisogno,
sostegno
non
solo
economico,
ma
anche
psicologico.
I
primi
ad
avvertire
che
le
strutture
giuridiche
vigenti
non
sono
in
grado
di
offrire
sufficienti
strumenti
decisionali
a
chi
dovrebbe
professionalmente
essere
chiamato
a
gestire
i
rischi
elevati
sono
gli
operatori
giuridici.
Questo
aumenta
la
loro
propensione
ad
avvalersi
di
criteri
di
decisione
misti,
recepiti
anche
al
di
fuori
del
diritto
positivo
e
per
questo
in
grado
di
offrire
quella
copertura
sul
versante
dell’opinione
pubblica,
che
non
appare
più
possibile
ottenere
ricorrendo
a
ideologie
largamente
diffuse.
In
una
situazione
caratterizzata
da
tante,
percepibili
fonti
di
incertezza,
non
resta
alla
cultura
giuridica,
interna
ed
esterna,
che
gestire
i
rischi
conseguenti
senza
ignorarli,
ma
affidandosi
a
strategie
diverse.
Questo
rende
il
diritto
non
solo
incerto
quanto
agli
effetti
prodotti,
e
quindi
insicuro,
ma
anche
incerto
quanto
ai
contenuti
della
decisione,
e
quindi
imprevedibile.
Talora
la
tutela
da
eventuali
rischi
tende
pertanto
a
essere
affidata
a
soluzioni
spontanee
e
partecipative
suggerite
da
ordinamenti
diversi
da
quello
statuale,
anche
rifacendosi
ad
argomenti
di
carattere
morale,
oppure
a
una
concertazione
in
cui
prevale
l’interlocutore
politicamente
più
forte.
Altre
strategie
cercano,
invece,
di
fare
di
necessità
virtù,
ispirandosi
direttamente
a
valori
che
fungano
da
bussola
per
superare
incertezze
interpretative.
Si
fa
così
riferimento
a
un
concetto,
come
quello
di
“persona”,
definito
alla
luce
di
una
sfera
di
diritti
intangibili,
di
natura
giuridica
ed
extragiuridica,
che
sono
di
per
sé
incompatibili
con
una
supina
accettazione
di
tutti
gli
effetti
consentiti
dal
progresso
della
società.
La
dottrina
può
pertanto
teorizzare
un
graduale
e
sempre
più
aperto
distacco
dal
mito
della
certezza
del
diritto,
in
quanto
questa
non
può
più
essere
assicurata
in
misura
soddisfacente
impiegando
strategie
univocamente
tecnico-‐
giuridiche,
tese
a
ridurre
l’intervento
di
influenze
culturali
esterne,
ma
deve
essere
sostituita
dalla
funzione
latente,
assai
più
realistica,
del
mantenimento
dell’incertezza
entro
margini
sopportabili.
Un’importante
implicazione
dell’eclissi
del
principio
della
certezza
del
diritto
è
che
utenti
e
operatori
avvertono
sempre
più
che
il
diritto
rappresenta
talora
il
rischio
maggiore
rispetto
a
quello
che
dovrebbe
contribuire
a
superare.
La
diffusa
perdita
di
fiducia
degli
utenti
nella
capacità
del
diritto
di
risolvere
equamente
e
in
tempi
accettabili
i
conflitti
che
vengono
a
esso
sottoposti
provoca
evidenti
conseguenze
negative
sull’attendibilità
della
razionalità
formale
che
si
identifica
con
un
programma
di
decisione
come
quello
condizionale,
di
pressoché
universale
applicazione
perché
basato
sul
semplice
schema
“se…allora”.
Tale
sfiducia
provoca
inoltre
una
crescente
propensione
ad
aggirare
gli
strumenti
rischiosi
e
lunghi
della
giustizia
ordinaria
per
utilizzare
quelli,
forse
altrettanto
rischiosi
ma
certo
più
brevi,
di
una
giustizia
informale.
b)
La
maggiore
complessità
“spaziale”
dei
rapporti
diritto/società
che
accompagna
i
fenomeni,
apparentemente
antitetici
ma
per
molti
versi
connessi,
della
globalizzazione
del
diritto
e
della
sua
regionalizzazione,
mette
in
discussione
i
confini
tradizionali
dello
stato
e
comporta
l’esigenza
di
un
profondo
riassetto
del
ruolo
dell’organizzazione
statuale.
Decisivo
in
questo
contesto
appare
il
“mutato
rapporto
tra
politica
ed
economia,
tradizionalmente
organizzato
dagli
stati
e
negli
stati”.
Esso,
infatti,
“evidenzia
una
cesura
significativa
rispetto
al
periodo
della
storia
europea
contrassegnato
dalla
preminenza
assoluta
dello
stato.
La
globalizzazione
rappresenta
una
sorta
di
fuoriuscita
dell’economia
dal
contenitore
statale
e
una
tendenziale
affermazione
della
sua
autonomia
e
autosufficienza
rispetto
al
processo
politico”.
Questo
mutamento
degli
equilibri
tra
politica
ed
economia
nella
dimensione
spaziale
ha
prodotto
un
rilevante
mutamento
della
cultura
giuridica,
sia
di
quella
interna
degli
operatori
sia
di
quella
esterna
degli
utenti.
In
vista
dell’affermazione
di
un
vero
diritto
globale,
per
il
quale
si
richiederebbero
elementi
non
ancora
diffusi,
come
una
cultura
giuridica
dotata
di
adeguati
livelli
di
selezione
e
di
astrazione
oltre
che
di
un
adeguato
potere
sanzionatorio,
si
stanno
pertanto
delineando
numerose
aree
nelle
quali
la
tutela
di
principi,
come
quello
della
libertà
di
scambio,
stabiliti
dalle
rispettive
costituzioni
richiede
la
presenza
di
autorità
internazionali,
oppure
insiemi
di
regole
di
livello
sopranazionale
e
non
munite
di
apparati
sanzionatori.
Il
realistico
riconoscimento
del
progressivo
aumento
del
peso
e
della
rilevanza
di
un’omogenea
codificazione
sopranazionale
non
può
comunque
far
ignorare
che
tale
processo
viene
normalmente
accompagnato,
anche,
ma
non
solo,
nell’area
dell’Unione
Europea,
dal
consolidamento
di
normazioni
diversificate
rispetto
al
livello
dello
stato
e
di
portata
anche
regionale
oltre
che
sopranazionale.
Nel
caso
dei
regionalismi
e
localismi
riemergenti,
ancor
più
che
nel
caso
della
globalizzazione
e
dell’internazionalizzazione,
si
può
parlare
di
fenomeni
non
solo
economici
e
amministrativi,
ma
anche
culturali,
che
l’approccio
statocentrico
non
aveva
di
fatto
del
tutto
eliminato.
Queste
diverse
forme
di
normazione
basate,
da
un
lato
su
una
“futuribile”
cultura
giuridica
caratterizzata
dall’aspirazione
ad
acquisire
una
dimensione
universale,
e
d’altro
lato
su
una
cultura
giuridica
più
rivolta
al
passato
e
“tradizionale”,
caratterizzata
da
forti
e
consolidati
radicamenti
territoriali
e
da
uno
stretto
contatto
con
usi
e
costumi
geograficamente
localizzabili,
non
danno
in
effetti
luogo
a
una
contrapposizione
in
termini
rigidamente
alternativi.
I
due
processi,
infatti,
possono
essere
facilmente
visti
come
la
risposta
a
un
medesimo
fenomeno
in
grado
di
provocare
contestualmente
sia
una
perdita
di
autorità
del
diritto
positivo
d’origine
statuale,
sia
una
rivalutazione
di
culture
giuridiche
locali
mai
del
tutto
dimenticate.
c)
L’aumentata
complessità
“relazionale”
in
riferimento
soprattutto
a
rapporti
tra
decisori
giuridici
e
attori
sociali,
che
accompagna
l’attuale
processo
di
frammentazione
culturale,
sfugge
alla
rigida
dicotomia
appartenenza/estraneità
costruita
per
un
pluralismo
intrastatuale,
e
spinge
invece
a
tenere
conto
di
posizioni
che,
anche
per
l’indebolimento
di
fattori
di
convergenza
già
consolidati,
risultano
frantumate
in
una
moltitudine
di
istanze
eterogenee
che
hanno
sensibilità,
memorie,
finalità
diverse.
I
problemi
appena
visti,
che
sono
stati
sollevati
soprattutto
dalla
teoria
sociologica,
delineano
nel
loro
complesso
una
serie
di
insufficienze
al
livello
specifico
del
diritto
che
sembrano:
a)
richiedere
criteri
di
decisione
più
adeguati
per
gestire
gli
attuali
livelli
di
rischio;
b)
tenere
conto
di
un
numero
sempre
maggiore
di
situazioni
non
coincidenti
coi
limiti
della
sovranità
statuale;
c)
confrontarsi
con
un
processo
di
crescente
frammentazione
culturale
al
quale
lo
stato
non
sembra
in
grado
di
rispondere.