Scholem Gershom - Alchimia e Kabbalah-SE (2015)

Scarica in formato pdf o txt
Scarica in formato pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 107

TESTI E DOCUMENTI

GERSHOM SCHOLEM
ALCHIMIA E KABBALAH
«Da quando il mondo europeo, sul finire del
Medioevo, venne a contatto con la mistica e
la teosofia ebraica, ossia con la kabbalah, ha
coniugato, nel corso dei secoli, le più varie
rappresentazioni con il suo complesso pro­
priamente costitutivo. Il nome di questa mi­
steriosa disciplina, esaltata e ammirata dai
suoi primi diffusori cristiani, Giovanni Pico
della Mirandola e Reuchlin, come la custo­
de della più antica e della più alta saggezza
misterica dell'umanità, divenne una parola
d'ordine in tutti i circoli interessati alla teo­
sofia e all'occultismo nell'epoca del Rina­
scimento e in quella successiva del Baroc­
co. Divenne una sorta di bandiera dietro la
quale -poiché non v'era da temere alcun
controllo da parte dei pochi autentici culto­
ri della kabbalah -praticamente tutto pote­
va venire offerto al pubblico: da contenuti
autenticamente ebraici a meditazioni solo
vagamente ebraizzanti di profondi mistici
cristiani, fino agli ultimi prodotti scaduti
della geomanzia e della cartomanzia. Il no­
me kabbalah, con il brivido reverenziale che
immediatamente incuteva, comprendeva tut­
to. Anche i più estranei elementi del folk­
lore occidentale, anche le scienze del tempo
in qualche modo orientate verso l'occul­
tismo, come l'astrologia, l'alchimia, la ma­
gia naturale, divennero "kabbalah". E ancor
oggi essa è appesantita da questa zavorra,
giunta in certi casi a oscurare totalmente il
suo autentico contenuto, presso la commu­
nis opinio, tra i profani come tra gli adepti
della teosofia, nell'uso linguistico di nume­
rosi scrittori europei e persino di studiosi.
[ ...] Gran parte degli scritti sul cui fronte­
spizio campeggia la parola kabbalah non ha
nulla, o pressoché nulla, a che vedere con
essa.
Risulta così decisivo distinguere quegli ele­
menti che realmente appartengono storica­
mente alla kabbalah o le si connettono da
quelli che sono stati confusi con essa attra­
verso uno sviluppo prodottosi al di fuori del­
l'ebraismo. Si pone dunque primariamente

In copertina: Illustrazione dal Uvre des figures hiéroglyphiques, Pa­


rigi, xvn secolo.
il compito di risolvere il problema dei rap­
porti tra alchimia e kabbalah. Da oltre quat­
trocento anni, infatti, per i teosofi e gli al­
chimisti cristiani d'Europa alchimia e kab­
balah sono divenuti ampiamente concetti si­
nonimici e si tende a credere che esistano
tra loro forti e intimi legami. Approfondire
criticamente questo problema sarà lo scopo
del presente studio».

TRADUZIONE DI MARINA SARTORIO

€ 19,00 ISBN 978-88-6723-379-3


TESTI E DOCUMENTI

·237·

GERSHOM SCHOLEM
ALCHIMIA E KABBALAH

TRADUZIONE DI MARINA SARTORIO

SE
Titolo originale: Alchemie und Kabbala

© 1984 SUHRKAMP VERLAG, FRANKFURT AM MAIN

© 2015 SE SRL
VIA SAN CALIMERO Il - 20122 MILANO
ISBN 978-88-6723-379-3
INDICE

ALCHIMIA E KABBALAH 9
Parte prima IJ
Parte seconda 57
Parte terza 89
ALCHIMIA E KABBALAH
L'ardimento giovanile e fors'anche la stoltezza fini­
scono malgrado tutto per esser ricompensati. Circa cin­
quant'anni fa, in uno dei miei primi lavori più impe­
gnativi di ricerca sulla kabbalah, scrissi riguardo al te­
ma 1 che ora, sul finire della mia attività di studioso, un
po' più erudito e fors'anche un po' più saggio, mi sono
proposto di riprendere ancora una volta e sviluppare.
In molte cose posso indubbiamente rifarmi a quel lavo­
ro giovanile, ma la prospettiva generale, acquisita nel
corso degli anni, si discosta di non poco da quella che
mi guidava allora, per non parlare del molto materiale
nuovo ora a mia disposizione.

' Gershom Scholem, Alchemie und Kabbala. Ein Kapitel aus der Geschichte
der Mystik, in « Monatsschrift fiir Geschichte und Wissenschaft d es] uden·
tums>> (d'ora in poi MGWJ), 6o (1925), pp. IJ·JO e 95-110.
PARTE PRIMA
Da quando il mondo europeo, sul finire del Medioe­
vo, venne a contatto con la mistica e la teosofia ebraica,
ossia con la kabbalah, ha coniugato, nel corso dei seco­
li, le più varie rappresentazioni con il suo complesso
propriamente costitutivo. Il nome di questa misteriosa
disciplina, esaltata e ammirata dai suoi primi diffusori
cristiani, Giovanni Pico della Mirandola e Reuchlin,
come la custode della più antica e della più alta saggez­
za misterica dell'umanità, divenne una parola d'ordine
in tutti i circoli interessati alla teosofia e all'occultismo
nell'epoca del Rinascimento e in quella successiva del
Barocco. Divenne una sorta di bandiera dietro la quale
- poiché non v'era da temere alcun controllo da parte
dei pochi autentici cultori della kabbalah- praticamen­
te tutto poteva venire offerto al pubblico: da contenuti
autenticamente ebraici a meditazioni solo vagamente
ebraizzanti di profondi mistici cristiani, fino agli ultimi
prodotti scaduti della geomanzia e della cartomanzia. Il
nome kabbalah, con il brivido reverenziale che imme­
diatamente incuteva, comprendeva tutto. Anche i più
estranei elementi del folklore occidentale, anche le
scienze del tempo in qualche modo orientate verso l'oc­
cultismo, come l'astrologia, l'alchimia, la magia natura­
le, divennero «kabbalah ». E ancor oggi essa è appe­
santita da questa zavorra, giunta in certi casi a oscurare
totalmente il suo autentico contenuto, presso la com­
munis opinio, tra i profani come tra gli adepti della tec­
sofia, nell'uso linguistico di numerosi scrittori europei e
persino di studiosi. In particolare, ancora nel xrx seco­
lo i teosofi francesi della scuola martinista (Eliphas Lé­
vi, Papus e molti altri) e in questo secolo ciarlatani co­
me Aleister Crowley e i suoi ammiratori in Inghilterra,
sono riusciti a confondere, per quanto umanamente
possibile, ogni genere di discipline occulte con la «san-
r6 SCHOLEM

ta kabbalah». Gran parte degli scritti sul cui frontespi­


zio campeggia la parola kabbalah non ha nulla, o pres­
soché nulla, a che vedere con essa.
Risulta così decisivo distinguere quegli elementi che
realmente appartengono storicamente alla kabbalah o
le si connettono da quelli che sono stati confusi con es­
sa attraverso uno sviluppo prodottosi al di fuori del­
l'ebraismo. Si pone dunque primariamente il compito
di risolvere il problema dei rapporti tra alchimia e kab­
balah. Da oltre quattrocento anni, infatti, per i teosofi e
gli alchimisti cristiani d'Europa alchimia e kabbalah
sono divenuti ampiamente concetti sinonimici e si ten­
de a credere che esistano tra loro forti e intimi legami.
Approfondire criticamente questo problema sarà lo
scopo del presente studio.
Nella discussione scientifica sui rapporti sistematici
tra alchimia - un movimento che sembra perseguire
uno scopo puramente iscritto nelle scienze naturali,
quale la trasmutazione dei metalli in oro - e mistica si
sono imposte due prospettive assai diverse tra loro. La
prima considerava questi rapporti da punti di vista pu­
ramente storici, come ad esempio è accaduto nei pon­
derosi lavori di Edmund von Lippmann e Lynn Thorn­
dike. 1 Sull'altro versante si affermava con crescente vi­
gore e si faceva più influente la tendenza a considerare
vaste regioni dell'alchimia come rivolte, in realtà, a de­
scrivere processi puramente interiori dell'uomo. A par­
tire dal 1850 si sono sviluppate in questo senso ipotesi
di grande portata basate sulla possibilità di riferire sim­
bolicamente, quasi senza eccezioni, i processi alchemici
e le azioni degli adepti alla vita «spirituale» interiore
dell'uomo. Oggetto dell'alchimia è, secondo questa pro­
spettiva, non la trasmutazione dei metalli, ma quella
dell'uomo. L'« oro filosofale» da produrre è dunque la
perfezione dell'anima, l'uomo nello stadio mistico della
rinascita o della redenzione. Sviluppatasi inizialmente

' E. von Lippmann, Entstehung und Ausbreitung der Alchemie, voli. 1-11,
Berlin 1919-193 r; L. Thorndike, A History o/ Magie and Experimental Scien­
ce, voli. 1-v, London 1923 sgg.
ALCHIMIA E KABBALAH I7

in Irlanda e in America, nei lavori di Mrs Atwood e di


E. A. Hitchcock, che fanno sfoggio di straordinaria eru­
dizione, questa tendenza fu poi ripresa da un allievo di
Freud, Herbert Silberer,2 e consolidata con gli stru­
menti della psicoanalisi. Stimolato da Silberer, C.G.
Jung ha poi sviluppato questa concezione dell'alchi­
mia, in lavori divenuti famosi e influenti, nel senso del­
la sua psicologia analitica basata principalmente sulla
teoria degli archetipi.}
Quando sia iniziato questo orientamento non chimi­
co ma psicologico dell'alchimia, è ancor oggi tema di
discussione, ma non intendo prendere posizione al ri­
guardo. E innegabile è che già alcuni passi dei profeti
nella Bibbia, in cui (come in Isaia 1, 25) si paragona la
purificazione di Israele a quella dei metalli, possono
avere ispirato simili orientamenti. Tra gli alchimisti di
epoche più tarde anche il paragone di Dio con l'oro
puro nel Libro di Giobbe (22, 24-25) ha svolto un gran­
de ruolo. A. E. Waite, in un lavoro apparso alcuni anni
prima delle ricerche di Jung, The Secret Tradition in Al­
chemy (1927), ha trattato ampiamente il problema della
datazione dell'interpretazione in chiave mistica dell'al­
chimia, individuandone il primo periodo verso la fine
del Medioevo. In ogni caso mi sembra si possa conveni­
re sul fatto che non pochi scritti alchimistici anche ce­
lebri, soprattutto dell'epoca successiva a Paracelso,
non perseguano affatto fini puramente chimici, e che
vadano intesi come indicazioni sul lavoro mistico del­
l'uomo su se stesso. Si può anche ammettere che molti
autori abbiano coscientemente pensato a una coinci-

' Mary Anne Atwood, A Suggestive lnquiry into the Hermetic Mystery,
London 1850 (nuova edizione Belfast 1918); Ethan Allan Hitchcock, Re­
marks upon Alchemy and the Alchemists, Boston 1857; Herbert Silberer,
Probleme der Mystik und ihrer Symbolik, Wien 1914 (trad. ingl. di S.E. Jel­
liffe, Problems o/ Mysticism and its Symbolism, New York 1917).
' C. G. Jung, Psychologie und Alchemie, Ziirich 1 944; Die Psychologie der
Obertragung, erliiutert anhand einer alchemistichen Bilderserie, Ziirich 1946;
Mysterium Coniunctionis, Untersuchung uber die Trennung und Zusammen­
setz.ung der seelischen Gegensiitz.e in der Alchemie, Ziirich 195 5-1956. Cfr.
anche Antoine Faivre, Mystische Alchemie und geistige Hermeneutik, in
«EranosJahrbuch>>, 42 (1973), pp. 323-356.
18 SCHOLEM

denza fra il processo chimico e quello mistico, e que­


sto, ritengo, soprattutto per gli alchimisti degli ambien­
ti rosacrociani. Senza dubbio siamo qui essenzialmente
in presenza di un movimento mistico i cui interessi per
le scienze naturali risultano essere prodotti secondari
della sua simbologia e della sua prassi simbolica. Ed è
proprio in questi circoli che l'identificazione di kabba­
lah e alchimia si è imposta con particolare vigore.4
Prima di accingerci a seguire i passaggi che hanno
portato dalla kabbalah in veste cristiana all'alchimia,
dobbiamo innanzi tutto rispondere alla seguente do­
manda: qual è la posizione della kabbalah nelle sue fon­
ti originali - in quanto sistema di simboli mistici più o
meno unitario in determinati tratti fondamentali del suo
sviluppo classico, al più tardi dal XII secolo fino al I 6oo
circa- nei confronti dell'alchimia? E inoltre: sino a che
punto l'alchimia era diffusa tra gli ebrei, anche prima
dello sviluppo della kabbalah o parallelamente a esso,
così da poter influenzare il formarsi di simboli cabalisti­
ci? Soprattutto questi interrogativi esigono ulteriori ri­
cerche. Quanto esigue fossero le conoscenze accertate
in tale campo è dimostrato dalle affermazioni di una co­
sì grande autorità in ambito bibliografico quale Moritz
Steinschneider, che ancora nel I 878 scriveva: «La kab­
balah stessa a mia conoscenza non insegna nulla di al­
chimia, sebbene abbia aderito ad altre discipline basate
sulla superstizione».' E nel I 894 sempre lo stesso auto­
re scriveva della « mancanza presso gli ebrei di scritti al­
chimistici, e questo può valere come un pregio». 6
Al tempo stesso egli faceva notare che «la letteratura
ebraica [offre] ben poco materiale sulla magna ars».7

' Privo di valore scientifico è il rovesciamento di tutti questi nessi in


Eliphas Lévi, secondo cui l'alchimia sarebbe piuttosto una figlia della kab­
balah; cfr. Der Schlussel zu den grofien Mysterien, nach Henoch, Abraham,
Hermes Trismegistos und Salomon, Miinchen 1928, p. 208.
' In «}eschurun» (l'edizione di Kobak), IX (1878), p. 85.
' In MGWJ, 38 (1894), p. 42.

7 M. Steinschneider, Die hebriiischen Ubersetzungen des Mittelalters, Ber­

fin 1893, p. 273. Nel frattempo sono usciti i tre istruttivi articoli sull'alchi­
mia nella ]ewish Encyclopedia, vol. I, pp. 328-332 (di M. Gaster), nella tede­
sca Enzyclopaedia Judaica, vol. n (1928), coli. 137-159 (di B. Suler), e nell'in-
ALCHIMIA E KABBALAH 19

Ciò concorda con il fatto che nell'antica letteratura al­


chimistica in lingua greca sono menzionati nomi di ebrei
o di ebree, come «Maria l'ebrea», ossia la sorella di Mo­
sè, negli scritti di Olimpiodoro e Zosimo,8 ma si tratta,
come in genere accade per la maggior parte delle fonti
riportate in questi scritti, di materiale pseudepigrafico.
La supposizione, espressa da molti studiosi, che Zosimo,
di gran lunga il più celebre alchimista greco del IV seco­
lo, fosse ebreo, è a mio giudizio infondata.9 Nell'xi seco­
lo, invece, l'ebreo spagnolo Moshe Sefardi, conosciuto
dopo il battesimo con il nome di Petrus Alphonsi, parla
di un libro rivelato dall'angelo Raziel a Set figlio di Ada­
mo in cui fra l'altro era descritta la trasmutazione degli
elementi e dei metalli tra loro.10 In realtà i filosofi classi­
ci ebrei accennano all'alchimia solo di sfuggita e spesso
condannandola. J ehuda Halevi respinge le teorie degli
«alchimisti e pneumatici», che nella letteratura araba

glese Encyclopedia ]udaica, vol. 2 ( 1971), coli. 542-549 (pure di Suler, ma rie­
laborato redazionalmente), in cui è stato preso in considerazione materiale
fino ad allora sconosciuto, soprattutto con la descrizione di due grossi codi­
ci miscellanei, quello di Gaster (ora al British Museum) e quello di Berlino,
che contengono esclusivamente traduzioni in ebraico di trattati arabi e in
parte anche latini.
' Su «Maria l'ebrea» vedi Lippmann, p. 46, il quale dichiara che si tratta
indubbiamente di un'ebrea, poiché le vengono attribuite le parole: «Non
toccare la pietra filosofale con le tue mani, perché tu non appartieni al no­
stro popolo, non sei della stirpe di Abramo». Ciò naturalmente non vuoi dir
nulla, potrebbe essere una delle tecniche usuali della pseudepigrafia. La di­
fesa di Robert Eisler di molte di queste finzioni è priva di fondamento; cfr. le
sue osservazioni in MGWJ, 69 (1925), p. 367.
' Cfr.]. Ruska, Tabula Smaragdina, Heidelberg 1926, p. 41, che cita anche
una fonte araba in cui Zosimo viene detto direttamente <d'ebreo>> . La pre­
dilezione di molti autori alchimisti per gli ebrei come autorità pseudepigra­
lìche non prova, come talvolta si è affermato, che a ciò dovesse corrisponde­
re necessariamente un effettivo ruolo di rilievo degli ebrei nell'alchimia del­
l'antichità.
'" Nel xm secolo Peter di Cornovaglia nella sua disputa contro l'ebreo Si­
mone cita da un libro perduto di Petrus Alphonsi: <<est quidem liber apud
Judeos de quo Petrus Alphonsi in libro suo quem appellavi! Humanum pro­
/icuum loquitur discipulo suo querenti ab eo que essent nomina angelorum
illorum que invocata valerent ad mutandum ea que ex elementis fiunt in alia
et metalla in alia, ita dicens: Hoc facillime potes scire si librum quem secre­
ta secretorum appellant valeas invenire, quem sapientes Judei dicunt Se th fi­
lio Adam Rasielem angelum revelasse, atque angelorum nomina et dei preci­
pua scripta esse»; cfr. R. W. Hunt, Studies in Mediaeval History presented to
FA. Powicke (1948), p. I p.
20 SCHOLEM

effettivamente appaiono spesso insieme. I loro esperi­


menti li avrebbero indotti in errore, ed essi« credevano
di poter misurare il fuoco elementare sui piatti delle lo­
ro bilance, per trarne creature a volontà e per modifica­
re le materie».11 Anche Josef Albo disprezza il falso ar­
gento ottenuto per mezzo dell'alchimia, melekhet ha­
alkimia, e che nella fusione finisce per dimostrarsi adul­
terato.12 In modo più benevolo si esprime nell'xi secolo
il famoso moralista Bahya ibn Paquda nei suoi Doveri
del cuore all'inizio del quarto capitolo, dove paragona lo
stato di equilibrio dell'anima agli sforzi dell'alchimista
. Il
per portare a comp1mento l a sua « opera»:

Colui che confida totalmente in Dio somiglia, nella pace


dell'anima e nella mancanza di inquietudine riguardo alle co­
se della vita quotidiana, all'alchimista, che attraverso la sua
scienza e la sua arte è in grado di trasmutare l'argento in oro,
il rame e il piombo in argento. Colui che confida totalmente
in Dio è però rispetto all'alchimista in grande vantaggio.
Quest'ultimo infatti ha bisogno continuamente, per portare
a compimento l'Opera, di particolari e indispensabili sostan­
ze, che non sempre né ovunque può trovare. Colui che confi­
da in Dio, invece, è sempre sicuro di trovare il suo sostenta­
mento perché non vive di solo pane [ .. ]. L'alchimista teme
.

per la sua vita; non confida a nessuno il suo segreto. L'altro,


invece, non teme nella sua fiducia in Dio nessun uomo, come
già cantava il salmista. [Salmi 56, 12]

" Così in Kuzari, m, 23 e 53· Per<< pneumatici>> l'autore intende i maghi


che cercano di attirare lo pneuma delle stelle e hanno lasciato delle istruzio­
ni in tal senso. Su questa scienza pneumatica c'è tutta una letteratura, di cui
fa parte anche il Sefer ha- Tamar (Libro della palma), da me pubblicato e tra­
dotto in tedesco nel I927. Il Se/er ha-Tamar è la traduzione in ebraico di un
ori�inale arabo andato perduto.
' Albo in Se/er ha--'iqqarim I, 8. Nello stesso periodo in Nord Africa an­
che Shimon ben Tzemach Duran (inizio del xv secolo), molto interessato al­
le scienze, si esprime, nel suo importante scritto filosofico, in modo forte­
mente polemico contro gli sforzi degli alchimisti. Cfr. il suo Magen avo/, Li­
vorno I785, f. Ioa.
11
Bahya ibn Paquda, lntroduction aux Devoirs des CCEurs, traduit par An­
dré Chouraqui, Paris (prima del I950), pp. 247-250. Intorno al I3oo, Jeho­
shua ibn Shu'eib nelle sue Omelie cita (Drashot, Krak6w I 573, f. I4d), una
versione abbastanza diversa del testo di Bahya, dove vengono citate le paro­
le di un chassid secondo cui<da fiducia in [o dedizione a] Dio>> sarebbe« la
vera alchimia». Non ho trovato questa fonte e ritengo che si tratti della ver­
sione abbreviata, semplificata e distorta di un passo citato a memoria.
ALCHIMIA E KABBALAH 21

L'autore continua poi su questa linea a paragonare le


angustie e gli affanni dell'alchimista con l'equilibrio, la
pace dell'anima dell'uomo che confida in Dio. Ma che
esercitare l'alchimia sia riprovevole, l'autore non fa pa­
rola.
Ancor più interessante è una derivazione della paro­
la kimzja, «chimica», dall'ebraico, conservata in fonti
arabe. Steinschneider la cita da Safadi; E. Wiedemann,
a cui l'indicazione di Steinschneider è rimasta scono­
sciuta, la cita invece da Sachawi, un autore del XIV se­
colo.14 La chimica si chiama così, «perché viene da
Dio», ki mzjah. Questa etimologia proviene realmente,
non v'è dubbio, da ambienti ebraici. Un alchimista
ebreo è attestato con certezza soltanto nel x secolo in
Egitto,15 mentre autori ebrei di scritti alchimistici me­
dioevali sono menzionati sulla base sia di errori sia, so­
vente, di pseudepigrafi. Lo scritto alchimistico ebraico
di Tzadit ben Hamuel citato da Berthelot è in realtà
16
dell'autore islamico Sadiq Muhammad ibn Umail.
Nella letteratura ebraica fu attribuito a Maimonide,
nella sua qualità di medico e studioso di scienze natu­
rali, un trattato di alchimia che si è conservato in nu­
merosi manoscritti ebraici, in diverse versioni come
'Iggeret hasodot, nella forma di una lettera al suo cele­
bre allievo Josef ibn Aqnin. Questo trattato esiste an­
che in una traduzione latina, probabilmente risalente al
XIII secolo.17

" M. Steinschneider, in <<]eschurun >> (Kobak), IX, cit. , p. 84; E. Wiede·


mann, Zur Alchemie bei den Jlrabern, in <<]ournal flir praktische Chemie >>,
76 ( 1907), p. I 13, ha certamente frainteso la derivazione e sulla base di una
lezione errata di un manoscritto ha tradotto <<perché essa è più benefica di
Dio>>. Neppure Steinschneider ha riconosciuto il senso dell'etimologia.
" In un responsum di Schemarja ben Elchanan di Kairawan, cfr. S. Assaf,
Responsa Geonica (in ebraico), Jerusalem I.942, p. I I5.
'' Cfr. Berthelot, La Chimie au Moyen Age, vol. 1, p. 249, e la rettifica in
<< Oriemalistische Literatur-Zeitung >>, I928, col. 665.
" Su questo scritto cfr. M. Steinschneider, Zur pseudepigraphischen Lite­
ratur, Ber! in 1862, pp. 26-27, e le sue Hebriiische Obersetzungen, pp. 765 e
922. Nel manoscritto ebraico della Bodleiana di Oxford, Neubauer-Cowley,
vol. II, p. 194, n. 2779 si trova una versione forse più estesa di questo testo,
la cui parte conclusiva non è chiara. Vi si trova anche, f. 20a, una ricetta per
la produzione della pietra filosofale.
22 SCHOLEM

Nel 1357, a Parigi, Nicolas Flamel- uno dei pochi a


cui, secondo i mistici e gli alchimisti, la produzione del­
la pietra filosofale sarebbe riuscita- comprava «per po­
chi soldi» un manoscritto indecifrabile su papiro, 18 e sa­
rebbe stato poi, nel 1378, non un cabalista, bensì un me­
dico ebreo battezzato, a svelargli, nel luogo di pellegri­
naggio di Santiago di Compostela, l'interpretazione
dello scritto e con ciò il mistero dell'alchimia. Il testo
era scritto da un «ebreo di nome Avraham» come istru­
zione ai membri del suo popolo. La dedica suona così:

Avraham l'Ebreo, principe, sacerdote e levita, astrologo e


filosofo, augura al popolo ebraico disperso per la collera di­
vina tra i Normanni, felicità e salvezza.19

Già questo titolo dimostra, con le sue contraddizioni, il


carattere fittizio di tale attribuzione.
In ogni caso, questa storia è tipica e mostra chi fosse­
ro, agli occhi degli alchimisti medioevali, i portatori del
loro sapere tra gli ebrei. Che in Spagna, già prima del
diffondersi della kabbalah, in ambienti ebraici vi fosse
interesse per la letteratura alchimistica, non meno che
per gli scritti relativi ad altri rami delle scienze occulte
coltivate nella letteratura araba, è testimoniato dall'esi­
stenza di traduzioni in ebraico dei due scritti di un au­
tore che si faceva chiamare Abu Aflal:t as-Saraqas�i, seb­
bene ovviamente non sia certo se questo nome indichi
una personalità esistita storicamente oppure solo fitti­
zia. Potrebbe riferirsi a un autore vissuto a Siracusa, in
Sicilia, o in Spagna, a Saragozza, e se, come scrive, era
medico alla corte del re di Saragozza,20 il periodo della
sua attività deve cadere nell'epoca precedente la con-

" Sul significato del latino cortex come «papiro>> vedi R. Eisler in MGWJ,
70 (r9z6), p. 194, che cerca di sostenere l'autenticità del racconto, e la mia
risposta, ivi, p. zoz.
" Cfr. in proposito Eugenius Philalethes (Thomas Vaughan), Magia Ada­
mica, trad. ted., Leipzig 1735, pp. 70-75, dove il racconto è riportato ampia­
mente.
2° Così il soprannome' viene inteso da Carlo Alfonso N alli no, Abu Af/.ab

arabo siracusano o saragozzano?, in «Rivista di studi orientali», IJ (I9JI­


I9JZ), pp. r65-17I.
ALCHIMIA E KABBALAH 23

quista della città da parte degli Almoràvidi nel I I Io. I


due libri si sono conservati soltanto nella traduzione
ebraica, ma non v'è dubbio che gli originali siano arabi.
L' autore parla in modo esplicito come musulmano. Il
primo testo è il Libro della palma, un trattato particola­
rissimo sulla teoria e sulla prassi della «filosofia pneu­
matica», ossia la scienza dell'estrazione del pneuma
delle stelle per mezzo di pratiche occulte.21 Il secondo
tratta di alchimia ed è intitolato 'Em ha-melekh (La ma­
dre del re), una definizione, a detta dell'autore, della
pietra filosofale. Entrambe le traduzioni sono indub­
biamente opera, come mostra il loro stile, della stessa
persona, e a giudicare dalla terminologia francese del
testo sull'alchimia, giungono dalla Provenza. Nello
'Em ha-melekh, che si è conservato integralmente/2 la
prima parte, di teoria generale, coincide in numerosi
passi con quella corrispondente nel Libro della palma,
ma come scienza in questione è sempre indicata l'al­
chimia invece della dottrina delle «opere» pneumati­
che e dei loro effetti. La seconda parte contiene detta­
gliate ricette alchemiche di natura chimica. Non esisto­
no indizi tali da poter affermare che prima della fine
del XIII secolo in ambienti ebraici si conoscessero testi
alchimistici latini, e si può con certezza dire che le co­
noscenze alchimistiche tramandate risalgono sempre a
fonti arabe. J ehuda ben Shlomo Cohen di Toledo, auto­
re verso la metà del XIII secolo di un'enciclopedia
ebraica delle scienze, in cui esprimeva un giudizio par­
ticolarmente sfavorevole sulla «Grande Opera» del­
l'alchimia, conosceva l'arabo, che a quel tempo gli

" Di questo libro ho pubblicato in un primo fascicolo il testo ebraico, Je­


rusalem I926, e in un secondo la traduzione tedesca, Hannover I927. Il li­
bro rientra ancora oggi tra i testi più enigmatici della letteratura occultistica
araba: cfr. più recentemente anche S. Pines, Le Se/er ha-Tamar et !es Maggi­
dim des Kabbalistes, in Hommage à Georges Vajda, Louvain I98o, pp. 333-
369.
22
Il manoscritto Gaster I9, ora al British Museum, è completo, ff. 3-22.
Circa la metà è conservata anche nel manoscritto del British Museum Or.
3659 (nel catalogo di Margoliouth n. IIo4), e diversi compendi si trovano
nelle collettanee di Jochanan Allemanno (ms. Oxford, Cowley n. 2234). Nel
fase. I della mia edizione del Sefer ha-Tamar, pp. 39-50, ho pubblicato alcu­
ni estratti di questo libro.
SCHOLEM

ebrei di Toledo non solo parlavano ma anche usavano


come lingua letteraria.23
Se dopo questa disanima preliminare sulla diffusio­
ne dell'alchimia tra gli ebrei, ci riponiamo la domanda
in precedenza accennata sulla posizione della kabbalah
in quanto sistema di simboli mistici nei confronti del­
l'alchimia, otterremo una risposta che invano cerche­
remmo presso gli storici di questa scienza.
Il centro dell'alchimia, comunque la si concepisca,
rimane sempre la trasmutazione dei metalli, considera­
ta come la cosa più alta e più nobile. Anche per gli al­
chimisti mistici l'oro costituisce il centro o il fine del­
l'«Opera», come simbolo del più alto stadio morale e
spirituale. Senza questa premessa non vi è alchimia. Ma
proprio questa premessa, questa concezione dello status
dell'oro, difficilmente si concilia con la simbologia ca­
balistica. Infatti nella kabbalah l'oro non è affatto il sim­
bolo dello stadio più alto. L'intera letteratura cabalistica
- centinaia e centinaia di testi e di compilazioni di sim­
boli presenti nei manoscritti24- è su tale punto unanime,
con le rare eccezioni di cui tratteremo espressamente in
seguito: l'argento è il simbolo della parte destra, del ma­
schile-dispensatore, della grazia e dell'amore (bianco,
latte); l'oro, invece, è il simbolo della sinistra, del fem­
minile, del rigore e del giudizio (rosso, sangue e vino).25
Questa suddivisione appare per la prima volta nel più
antico testo cabalistico in nostro possesso, il Bahir.26

" L'autore lamenta che tra gli eruditi si trovino più malcostume e ingan­
no che fra tutti gli stolti messi insieme. Perché molti di loro usano il loro sa­
pere nel miraggio di riuscire a fabbricare l'oro, «ciò che essi chiamano la
"Grande Arte" , ma che mai riuscirà loro, perché è cosa impossibile>> ; così
M. Steinschneider, in «]eschurun>> (Kobak), IX, cit., p. 85 .
" Una bibliografia di tali«nomenclature delle selirot>> , come soleva chia­
marle Steinschneider nei suoi scritti, ho fornito in «Kirjath Sepher>> , x
( 19? 4). pp. 498 -5 15·
2 Il primo autore ebreo a far notare la contraddizione tra cabalisti e

<<scienziati>> nella valutazione dell'argento e dell'oro fu il <<cabalista razio­


nalista>> J akob Emden nel suo piccolo dizionario dei simboli cabalistici,
Tzitzim u-/erachim, Altona 1768, alla voce <<Zahav>> . Su questo passo si è già
soffermato S. Rubin, Heidentum und Kabbala, Wien 1893, p. 89.
" Cito secondo la suddivisione del libro nella mia traduzione, Leipzig
1923 (ristampata a Darmstadt nel 1970). Del Bahir ho trattato ampiamente
nel mio Ursprung und An/i.inge der Kabbala, Berlin 1962, pp. 29-174.
ALCHIMIA E KABBALAH 25

Con questo simbolismo, che certo risulta del tutto sor­


prendente dal punto di vista della storia delle religioni,
cade fin dall'inizio la possibilità di considerare la pro­
duzione dell'oro come qualcosa di essenziale, dal punto
di vista dell'autentico schema del mondo comune a tut­
ti i cabalisti, in particolare del mondo interiore, spiri­
tuale, teosofico. Per dimostrare il contrario, sono occor­
se forzature del testo e artifici notevoli. In che modo un
cabalista avrebbe potuto, nel simbolismo della via mi­
stica all'interiorità, concepire l'oro come il più alto rap­
presentante di ciò che su questa via egli doveva ancora
superare- ossia il din, il rigore e il giudizio-, come ciò
che avrebbe voluto cristallizzare, produrre da sé?
Zosimo, la cui alchimia tende fortemente alla mistica,
considera l'uomo d'argento, 'a�numivfrgwJtoç, come
stadio preliminare dell'uomo d'oro, xguoav-t}gwJtoç.27
Nella simbologia cabalistica è esattamente il contrario.
Si presenta dunque su questo punto un'opposizione
fondamentale, che ovviamente gli alchimisti mistici, te­
si ad armonizzare a ogni costo tutti i simboli, finivano
col non notare affatto, soprattutto perché soltanto po­
chissimi tra loro avevano letto scritti cabalistici autenti­
ci, né sarebbero stati in grado di farlo. Come abbiamo
detto, la simbologia cabalistica è assai peculiare. Ovun­
que negli altri sistemi di simboli del mondo ellenistico­
occidentale, e soprattutto nella stessa alchimia, il ma­
schile è rosso e il femminile bianco, certe materie sono
designate come «donna bianca» o «uomo rosso». D'al­
tra parte si può facilmente seguire un tale sviluppo, al­
l'interno dell'ebraismo, nella aggadah, che ha portato a
concezioni mistiche paradossali come la correlazione
del femminile con il giudizio e il rigore - ma non è ne­
cessario addentrarci qui in questo tipo di indagini.
È dunque comprensibile che nell'ebraismo e in par­
ticolare negli ambienti cabalistici solo raramente si pra­
ticasse l'alchimia. Erano due campi che non si conface­
vano l'uno all'altro e solo relativamente tardi, come
esporremo in seguito, vennero a contatto. In nessun li-

27 Cfr. Li ppmann, p. 81.


ALCHIMIA E KABBALAH

Qui dunque l'oro soddisfa ogni necessità del simboli­


smo alchimistico: rappresenta la congiunzione mistica
dei più alti princìpi che agiscono nel cosmo, congiun­
zione che si realizza attraverso il medium della creazio­
ne, che può essere sia la creazione del cosmo da parte
di Dio, sia il compimento alchemico dell'«Opera». Il
simbolismo sviluppato nel Bahir in questo contesto-la
«figlia del re» -, che è descritto in una parabola dalla
funzione del bet, corrisponde, consciamente o incon­
sciamente, al simbolismo della materia prima presso gli
alchimisti, che corrisponde alla materia primordiale, al
caos prima della creazione del mondo da parte di Dio.
Questo è uno dei rari passi della letteratura cabalisti­
ca classica che si situi pienamente nello spirito dell'al­
chimia. Ma già nei Tiqqune Zohar, che al n. 2 I utilizza­
no questo passo del Bahir, l'interpretazione è sostituita
- essendo per tale kabbalah inammissibile riferire la
zajin al principio maschile- con un'altra che si riferisce
al numero sette, cioè i sette giorni della creazione, me­
no rigorosa da un punto di vista sistematico, ma più ac­
cettabile. L'interpretazione che ne risulta è incoerente,
e il sostrato alchimistico traspare ancora: l'oro come
simbolo della più alta perfezione della creazione, della
luce primordiale.
Il conflitto tra il valore mistico e quello naturalistico
dell'oro nella kabbalah si esplicita acutamente laddove
si cerca di spiegare perché il rapporto tra l'oro e l'ar­
gento nel mondo naturale, terreno, sia capovolto rispet­
to al mondo superiore, spirituale. Questi tentativi, che
appaiono da un passo classico dello Zohar, l'opera prin­
cipale della kabbalah spagnola, redatto tra il I280 e il
1285, si diffondono in numerosi altri scritti. Se il rango
dell'oro nella merkavah inferiore e nel mondo fisico ad
essa subordinato era comunque salvaguardato e rima­
neva quindi posto per i tentativi puramente materialisti­
ci dell'alchimia, con tanta più forza rimaneva invece
sbarrata la strada a un'interpretazione mistica - volta al­
l'ordine spirituale delle cose - della prassi alchimistica.
Così il passo dello Zohar (n, I97b):
28 SCHOLEM

Vieni e vedi, qui [in Esodo 35, 5] l'oro viene prima e poi
l'argento, perché questo è il modo di calcolare dal basso al­
l' alto [forse anche: nel mondo inferiore?] . Ma se egli [Mosè]
volesse contare secondo il modo di calcolare della merkavah
superiore, incomincerebbe da destra [cioè a partire dall' ar­
gento] e soltanto dopo da sinistra. Perché? Perché è scritto
[Chaggaj 2, 8]: «Mio è l'argento e mio è l'oro» - prima l'ar­
gento e poi l'oro.29 Nella merkavah inferiore, invece, si inco­
mincia da sinistra e soltanto poi [segue] la destra, come è
scritto [Esodo 3 5, 5]: «oro, argento e rame» - l'oro prima e
poi l'argento.

Questo passo è chiaro, e il motivo dell'ordine capovol­


to nel mondo superiore rispetto a quello inferiore è
amato e trattato più volte dalla kabbalah antica. Conve­
niva alla teoria dei successivi cabalisti del XVI secolo
che la creazione del mondo inferiore avesse luogo per il
rispecchiamento della «luce riflessa» del mondo delle
sefirot. Così questo motivo si trova nella sequenza delle
lettere dell'alfabeto nei due mondi, e da qui nella teoria
dei nomi mistici di Dio e nell'Ephesia Grammata. In
questa linea si situa anche, come vedremo in seguito,
l'attribuzione della pietra dei sapienti all'ultima sefirah,
e del metallo meno nobile, il piombo, alla seconda, nel­
l'Esh Metzare/, su cui torneremo più avanti. I cabalisti
non si resero mai pienamente conto delle possibili con­
seguenze gnostico-antinomistiche di questa concezio­
ne. Altrimenti non si sarebbe permesso che circolasse­
ro scritti in cui, ad esempio, gli accoppiamenti tra le se­
firot proibiti, in base a questo principio, dalla Torah nei
mondi superiori, venivano descritti come non solo per­
messi, ma voluti.Jo
Ancor più radicale di questo passo dello Zohar è un
altro dallo pseudepigrafico Peli' a, li scritto intorno al

" Nel mondo delle selìrot divine, che costituisce il mondo superiore,
questa è dunque la sequenza. Il versetto in Chaggaj 2, 8 è anche nel Bahir il
riferimento per l'argomentazione riguardante il simbolismo di oro e argen·
to. Nel manoscritto ebraico Amburgo 252 (nel catalogo di Steinschneider,
2 4), f. 23 b, il versetto conclude una ricetta alchemica giudeo-spagnola.
'" Così nel Se/er temunah alla lettera shin, Lw6w 1892, ff. 22a/b e 62a/b:
«ciò che in uno è proibito, è lecito nell'altro».
" Peli'a, Koretz 1784, f. 16c.
ALCHIMIA E KABBALAH

1400, che espone la stessa idea di fondo e spiega con


esempi chiari, tratti dalla vita, come l'oro nel nostro
mondo sia più apprezzato proprio perché stiamo viven­
do nell'eone dell'oro, dominato dal potere del giudizio,
del rigore. Il modo giusto di valutare, ossia quello che
segue i rapporti mistici delle cose, è proprio dell'eone
precedente al nostro, quello della grazia, sottoposto al
dominio della sefirah chesed.32 Questa concezione è in
evidente contrasto con il pensiero degli alchimisti.
Non è chiaro invece se Zohar, I, 249 b- 2 50 a sia in­
fluenzato dall'alchimia. Vi si legge che se non fosse per
gli animali selvatici dimoranti nelle montagne in cui
cresce l'oro, non esisterebbe povertà tra gli uomini. E
ancora, che l'influsso del sole fa crescere l'oro.33 D'altra
parte, gli avversari dell'alchimia hanno tratto proprio
da questo rapporto «naturale» tra il sole e l'oro un ar­
gomento contro la possibilità di una trasmutazione ar­
tificiale dei metalli. Dice ad esempio Jehuda ben Shlo­
mo di Toledo: «l sapienti sanno che l'oro si forma nel­
la natura durante lunghi periodi di tempo, mentre l'al­
chimia crede di poter ottenere ciò in breve tempo».34
In modo lievemente diverso questo influsso è descritto
dallo Zohar, n, 172 a, dove, ispirandosi ad astrologia e
alchimia, si parla dell'influsso delle stelle sulla «cresci­
ta» dei metalli; qui l'autore si richiama a un (fittizio?)

" Un altro tentativo di spiegazione della predilezione per l'oro nel nostro
mondo, secondo cui l'argento sarebbe troppo sottile e quindi accessibile in
una dimensione spirituale soltanto a pochi, mentre la folla cerca il più duro
e rozzo oro, si trova in Naftali Bacharach, 'Emeq ha-melekh, Amsterdam
I648, ff. 28 d· 29a. Ancora in un altro modo spiega questo rapporto uno dei
capi dei chassidim di Chabad, r. Baer ben Schneur Salman: l'argento sareb­
be soltanto semplice grazia, mentre l'oro rappresenterebbe una profusione
di grazia e avrebbe dunque un rango superiore.
" Lo stesso anche in II, 2 36 b. Che i metalli«crescano» come piante corri­
sponde non soltanto alle concezioni alessandrine (ad esempio in Silberer, p.
75), ma anche a teorie come ad esempio quelle sostenute dall'alchimista ara·
bo del XII secolo i cui scritti furono tradotti, o forse anche redatti, in latino con
il nome di Artephius. Secondo questo autore le piante crescono dall'acqua e
dalla terra, mentre i metalli nascono dallo zol fo e dal mercurio. Il calore del
sole penetra la terra e si unisce a questi elementi nella formazione dell'oro
(Encyclopedia Judaica, vol. 2, col. 544). È probabile che la notizia secondo cui
Artephius non sarebbe un arabo, ma un ebreo battezzato (ibidem, col. 547),
non sia vera. Su Artephius cfr. anche W ai te, pp. I II· II2.
" C fr.«}eschurun>> , IX, cit., p. 85.
30 SCHOLEM

Libro del re Salomone sulla scienza delle pietre preziose,


chè potrebbe essere un riferimento a uno dei numerosi
lapidari diffusissimi nel Medioevo. Precedentemente
aveva menzionato, da un certo Libro della scienza supe­
riore dell'Oriente che probabilmente trattava di farma­
ci magici e pietre preziose, una concezione affine, se­
condo cui un tipo di oro particolarmente prezioso cre­
scerebbe sulle montagne più alte, dove vi è poca acqua,
e dove regnano non le comuni stelle, ma le comete.n
Un passo particolarmente influenzato dall'alchimia
si trova in Zohar, n, 23 b- 24 b, non tanto per l'esistenza
di affermazioni in senso stretto, quanto per tutto un si­
stema di simboli ad essa riconducibili. Espressioni di
questo passo hanno un loro parallelo negli scritti in
ebraico di Moshe de Leon, che va considerato l'autore
della parte principale dello Zohar.36 Un confronto pun­
tuale dimostrerebbe ancora una volta come questo li­
bro, nel suo linguaggio pseudoaramaico, venga prima
degli scritti ebraici di Moshe de Leon, che in essi in
parte lo copia, in parte lo parafrasa e lo sviluppa. Sulla
base dello schema aristotelico dei rapporti tra i quattro
elementi e le quattro qualità (caldo, freddo, asciutto,
umido) 37 viene sviluppata una serie di elementi in rela­
zione ai metalli e ai punti cardinali, tra cui, per le mie

" Notevole è anche il passo 1 1, I88a, in cui, facendo ri ferimento all'uso


pagano di adorare il sole, si dice che gli adoratori del sole nella loro anti­
chissima tradizione sono a conoscenza di segni particolari del sole per mez­
zo dei quali essi trovano i posti dove ci sono oro e perle. Ciò viene ampia­
mente descritto.
'' l due passi si trovano in Sheqel ha-qodesh, London I9II, pp. II 8- I22, e
in un lungo frammento di uno scritto non ancora identificato di Moshe de
Leon in Monaco Hebr. 47, ff. 366 sgg. e 386 sgg.; c fr. su questo scritto il mio
saggio in MGWJ (I927), pp. I09-I2J. Il carattere alchimistico di questo passo
è stato messo in evidenza da RobertEisler, Weltenmantel und Himmelszelt,
vol. II (I9IO), p. 452; e prima di lui, già nel I86o, da lgnatz Stern nella rivi­
sta « Ben-Chananja>> , 111, p. 178:«in tema di metalli [nello Zohar l traluce
sempre qualcosa dell'alchimia>> .
" Come ha mostrato A. Jellinek, Beitriige zur Geschichte der Kabbala, vol.
I (I8p), p. 38, questo schema è sviluppato da Aristotele nel De genera/ione
et corruptione, 11, I-J. Lo Zohar non ha usato necessariamente la traduzione
portata a termine nel 1250 da Moshe ibn Tibbon, ma può aver attinto da al­
tre fonti indirette ispirate ad Aristotele, che per le concezioni di cui stiamo
trattando sono molto numerose. Aristotele dice espressamente che queste
quattro qualità agiscono nel momento della produzione dei metalli.
ALCHIMIA E KABBALAH 31

insufficienti conoscenze sulla letteratura alchimistica an­


tica o più recente, non ho potuto trovare nessun esatto
parallelo.38

« merkavah superiore» (metalli primari)


fuoco acqua vento terra
nord sud est ovest
oro argento rame ferro

« merkavah inferiore» (metalli secondari)


ottone piombo stagno39 ferro (acciaio?)

I metalli secondari deriverebbero dai primari unen­


do il loro elemento con terra. Vengono poi descritti
dettagliatamente i rapporti e le trasmutazioni all'inter­
no di questo gruppo, e colpisce il continuo ricorrere a

" Neppure in Lippmann e in Julius Ruska vi è qualcosa del genere nelle


loro fondamentali opere sull'argomento. La connessione stabilita dalla kab­
balah tra l'oro e il nord è estranea alla simbologia alchimistica e deriva da
Giobbe 3 7, 22:«Dal nord giunge l'oro>>; questo versetto nel Talmud viene
tuttavia riferito al vento del nord, che rende l'oro meno costoso (il perché
non viene spiegato); cfr. Baba Ba tra', 25 b.
" La terminologia è interessante. Per «Stagno>> lo Zohar usa l'antico ter­
mine talmudico-greco kassitra (KaooL-rEgoç), che nel Talmud viene general­
mente trascritto in modo erroneo. Qui lo Zohar fa seguire la parola, che evi­
dentemente non doveva più ricorrere nell'uso, dalla spiegazione: <<che è un
rame inferiore [letteralmente: "più piccolo"]>> . Così anche Moshe de Leon,
ibidem, p. 122, senza riportare affatto il vecchio termine, scrive direttamen­
te nechoshet tachton, <<una forma inferiore di ra me>> . Per <<ottone>> Moshe
de Leon, ibidem, scrive <<rame giallo, metallo della terra>> . Il primo di questi
sinonimi deriva da Esdra 8, 2 7. Il nome dell'ottone è internazionale e assai
diffuso anche nel Medioevo; cfr. Lippmann, pp. 5 7' sgg. Lo Zohar dà una
definizione di questo metallo come una scoria gialla che è si mile all'oro. La
traduzione di questo passo inJean de Pauly, vol. 111, p. 121, è piena di erro­
ri.E la sua nota, vol. VI, p. 2 79, che in questa cosmologia alchimistica vede
la <<santa trinità>> , la dice lunga sulla qualità di questa traduzione. Come
l'ottone è una scoria dell'oro, così il piombo viene definito come uno scarto o
una scoria dell'argento in un altro passo, nella continuazione del brano dello
Zohar sulla fisiognomia che si trova stampata soltanto in Zohar Chadash, f.
33d. Qui vengono descritte le trasformazioni mistiche di Adamo nei patriar­
chi, dove Adamo viene trasformato in Abramo attraverso un processo in cui
l'argento <<produce un residuo che viene fuori come piombo>>. La stessa
concezione è ripresa nella recensione della fisiognomia nei Tiqqune Zohar,
n. 70, f. 128 b. Anche la parte dello Zohar intitolata Ra'ja' mehemna', che è
dello stesso autore dei Tiqqunim, considera il piombo come «residuo>> o
scarto nel processo di fusione dell'argento (m, 124l.
32 SCHOLEM

formule. Nei due testi paralleli di Moshe de Leon è in­


trodotto anche il simbolismo biblico delle quattro cor­
renti del paradiso e dei dodici buoi del mare di bronzo
nel tempio di Salomone. Indubbiamente il testo di Mo­
she de Leon nell'edizione a stampa (e anche nei mano­
scritti che ho potuto esaminare) al passo in questione è
abbastanza corrotto, ma è possibile correggerlo dal
punto di vista del contenuto. Vi si trova un esplicito ri­
ferimento agli alchimisti:

Il rame è rosso e porta le nature di entrambi [gli elementi


menzionati precedentemente, ossia oro e argento], perché co­
loro che conoscono l'« Opera» fanno di esso argento e oro. 40

Questa definizione degli alchimisti come 3toLYJ'ta(, ar­


tistae, è una formula, tradotta qui in ebraico, che ricor­
re regolarmente per l'« Opera» nel senso della «Gran­
de Opera» dell'alchimia e che anche nella letteratura

'" Il termine ebraico è ha-jod'im ba-melakha. Anche nella traduzione


ebraica del libro menzionato alla nota 22, lo 'Em ha-melekh, gli alchimisti so­
no detti ba'ale hamelakha. Già D. Chwolson, Die Ssabier un d der Ssabismus,
Sankt-Peterburg I 856, p. 66o, propone questa espressione, insieme a ba'ale
ha-'omanut, come termine tecnico in uso tra gli ebrei spagnoli per designare
gli alchimisti, senza però indicare le sue fonti. I singoli dettagli del lavoro al­
chemico sono detti pe'ula, la «Grande Opera>> invece melakha, così che ad
esempio all'inizio dello 'Em ha-melekh«l'attuazione della Grande Opera>>
viene resa in ebraico come pe'ulat ha me/akha. Il termine melakha in questo
pregnante significato è ancora corrente nel XVI secolo, ad esempio in Moshe
Cordovero, Pardes rimmonim, Krak6w 1592, f. 72b, e in Shimon ibn Lavi,
nel suo grande commento allo Zohar, Ketem pas, stampato soltanto nel I795
a Livorno, f. 445a. Va inoltre menzionato uno scritto, noto nella storia della
magia, tradotto in inglese e in tedesco, Des ]uden Abraham von Worms Buch
der wahren Praktik in der uralten gottlichen Magie, pubblicato probabilmen­
te a Colonia nel 1 725 (in realtà soltanto intorno al I8oo) da diversi mano­
scritti. Si credeva che l'originale fosse un manoscritto ebraico del IJ87. An­
ch'io ho sostenuto per un certo periodo questa opinione, c fr. MGWJ, 69, p. 95,
e« Bibliographia Kabbalistica >> (I92 7), p. 2. Ma l'ho accantonata da quando
ho riscontrato chiare allusioni agli scritti di Pico della Mirandola e al suo ac­
costamento di kabbalah e magia, non solo nel titolo, ma anche all'interno del
testo. In realtà il libro risale soltanto al XVI secolo ed è stato scritto da un non
ebreo, che pure rivela notevolissime conoscenze in campo ebraistico. Anche
questo autore usa (Iv, 7- soltanto nel testo tedesco!) il termine melakha per
«alchimia>> . Va detto fra l'altro che è questo stesso testo ad aver raggiunto
un'ampia diffusione in ambienti occultistici nella versione inglese di S.L.
Mathers, The Book o/ the Secret Magie o/ Abra-Melin the Mage, as delivered
by Abraham the ]ew. Mathers non conosceva l'originale, tedesco, che si è
conservato in molti manoscritti, in parte risalenti fino al XVI secolo.
ALCHIMIA E KABBALAH H

ebraica è stata usata per secoli.41 Per quanto né Moshe


de Leon né il passo citato dallo Zohar facciano riferi­
mento espressamente alle sefirot, sembra non esservi
dubbio che ai quattro elementi e ai quattro metalli pri­
mari corrispondano le quattro sefirot chesed, gevurah,
tz/'eret e malkhut, e il rame rappresenti quindi l'unione
di oro e argento in tz/'eret e malkhut il ferro. Se si in­
traprende un'ascesa mistica a partire dalla sefirah più
bassa o la purificazione dei metalli, allora si può pensa­
re che alla sefirah più bassa corrisponda la prima mate­
ria con cui l'«Opera» alchemica inizia. Il rame sarebbe
quindi lo stadio anteriore da cui verrebbero sviluppati
l'oro e l'argento, che qui si trovano ancora riuniti. Que­
sto corrisponde anche all'interpretazione del rame in
un altro passo dello Zohar, II, 138b, dove si tratta dei
materiali utilizzati nella costruzione del santuario enu­
merati in Esodo 25, 3, oro, argento e rame. Vi si afferma
che il rame (di colore prevalentemente rosso) unisce in
sé i colori, e dunque anche le qualità, dell'argento e
dell'oro, laddove quella dell'oro predomina. Il che
concorda esattamente con il passo citato di Moshe de
Leon, in cui gli alchimisti vengono nominati diretta­
mente.42 Che il rame in effetti fosse considerato da mol­
ti di loro come lo stadio anteriore dell'oro e dell'argen­
to, è cosa nota: si pensi a Zosimo, che nella sua visione
alchemico-mistica, spesso citata anche nelle epoche
successive, parla dei tre stadi dell'omuncolo di rame,
dell'uomo d'argento e dell'uomo d'oro (Lippmann, p.
8o). Nella generazione successiva allo Zohar il passo ci­
tato, II, 23b sgg., viene talvolta impiegato, ma ricorro­
no anche altre sequenze di metalli rispetto ai punti car­
dinali e alle sefirot, che si basano su uno schema del
tutto divergente da quello dello Zohar.43

'1 Ancora nel xvn secolo questo uso linguistico è familiare all'autore deJ.
l' Erh Metxare/. di cui tratteremo in seguito.
" Il ri ferimento a netxach e hod in A.
E. Waite, The Secret Tradition in Al·
chemy, p. 390, è, come molte altre cose in questo libro, errato.
" Il cabalista Josef di Hamadan, originario della Persia, ma che scriveva
in Spagna, intorno al I 300, ha usato questo passo dello Zohar nel suo scritto
sul tabernacolo, ms. British Museum, Margoliouth n. 464, f. 3 I b, e lo ha
34 SCHOLEM

Il simbolismo del colore dell'oro si divide tra il gial­


lo e il rosso. Nel passo dello Zohar (n, 171b) già citato,
il colore dell'oro è il giallo, come anche nel passo men­
zionato di Moshe de Leon in Sheqel ha-qodesh (p. 120),
in cui si legge:

Dal segreto del fuoco e dalla parte del nord nasce l'oro e
ad essi è unito, perché quando il calore naturale si avvicina al
freddo genera una natura la cui qualità è il giallo, e questo è
il segreto dell'oro. L'argento è unito al segreto dell'acqua e al­
la parte del sud, perché quando l'acqua e il sole si congiun­
gono nasce una natura bianca, che è il segreto dell'argento. Il
rame invece è rosso e fa nascere la natura del due [oro e ar­
gento], perché coloro che conoscono l'« Opera» sono in gra­
do di estrarre da esso la natura dell'argento e dell'oro.

Altrimenti è sempre il rosso il colore dell'oro. Il suo


simbolismo, così come ricorre in molti passi dello
Zohar, è fondato essenzialmente su un passo del Talmud
babilonese, ]oma' 44 b, che ha anche diversi paralleli nei
midrashim, dove a partire dalla Bibbia sono enumerati
sette tipi di oro.44 Va detto tra l'altro che in questo pas­
so del Talmud è già presente il passaggio del colore del­
l'oro dal giallo al rosso. Rifacendosi indubbiamente al
pensiero degli alchimisti, molti cabalisti interpretarono
in senso mistico questi sette tipi di oro, sulla base del
complesso formato dalle sette sefirot inferiori. Va ricor­
dato qui un passo della parte dello Zohar riguardante la
fisiognomia, 11, 73a, il cui titolo, Raza de razin (Segreto
dei segreti), corrisponde evidentemente al Secretum se­
cretorum, un trattato pseudoaristotelico di politica assai

messo in relazione con gli otto abiti del sommo sacerdote. Dagli otto abiti di
Dio, che corrispondono a quelli del sommo sacerdote, vengono gli otto me­
talli. L'autore ne enumera però , come lo Zohar, soltanto sette, usando per
l'ottone e lo stagno perifrasi come:«un altro [in feriore?] tipo di oro» (c fr.
sopra, nota 39), e<< rame levigato» (da 2 Cronache 4, 1 6). Altri schemi della
relazione tra i metalli e i quattro punti cardinali si trovano in Jitzchaq di
Acri, Me'irat'enajim, Monaco Hebr. 17, f. 2 7 b, e, ancora in un'altra varian­
te, nell'autore anonimo del Ma'arekhet ha-'elohnt, Ferrara I 558, f. 223 a.
" Similmente anche nel midrash a Cantico dei Cantici 3, I 7 e in Bamidbar
rabba, sezione I2 (nella traduzione tedesca di August Wiinsche, I885, p.
282).
ALCHIMIA E KABBALAH 35

diffuso nel Medioevo in cui si parlava anche di fisio­


gnomia.45 Il simbolismo dei sette tipi di oro è qui utiliz­
zato per rappresentare la storia di Davide:

Nel Libro di Adamo46 ho letto quanto segue: le forme [del


volto] del primo redentore47 somigliavano alla luna. Il suo
colore era oro verdastro nel volto, il suo colore era oro di
Ofir nella barba, il suo colore era oro di Saba nelle sopracci­
glia, il suo colore era oro di Parvaim nelle ciglia sopra gli oc­
chi, il suo colore era oro chiuso48 nei capelli, il suo colore era
oro fino49 sul petto sopra il cuore, il suo colore era oro di
Tarsis sulle braccia.

Questo passo, che fa splendere Davide, sebbene egli


corrisponda alla luna (e per gli alchimisti all'argento),
di tutti i sette tipi di oro, mi sembra, pur nella sua im­
penetrabilità, considerevolissimo. Che i capelli rossi di
Davide, di cui narra il Libro di Samuele, siano riferibili
al simbolismo dell'oro è evidente e risulta piuttosto sin­
golare che esso non appaia mai, a eccezione di questo
passo, per contrastare il riferimento usuale alla luna. I
Tiqqunim, poco più tardi della redazione della parte
principale dello Zohar, hanno riferito i sette tipi di oro

" Cfr. in proposito M. Steinschneider, Die hebriiische Obersetzungen, pp.


2 45-259, e M. Gaster, Studies and Texts, vol. II ( 1925), pp. 7 42-8 13.
" I venti riferimenti a questo Libro di Adamo che si trovano nello Zohar
non hanno un carattere unitario. Che la citazione in questo passo sia auten­
tica, come sembrerebbe dalla stilizzazione assai formale che la caratterizza,
non può essere più che una supposizione. Nella maggior parte di queste ci­
tazioni il carattere fittizio trapela da ogni parola, soprattutto in quelle sulla
mistica cabalistica della preghiera.
" Generalmente con il primo redentore o messia si intende Mosè, mentre
il riferimento a Davide indica piuttosto un simbolismo già decisamente ca­
balistico. La connessione tra Davide e la luna fa parte del nucleo fondamen­
tale del simbolismo cabalistico; il suo posto in questo sistema di simboli è al­
l'ultima sefirah, che è detta appunto anche << regno>> (di Davide o di Dio).
" Questi tipi di oro vengono nominati nella Bibbia, nella maggior parte
dei casi secondo il loro luogo d'ordine geografico. L'oro < chiuso>> (in ebrai­
co sagur) viene da 1 Re 6, 20, dove significa propriamente oro pressato o la­
minato. Il Talmud interpreta questo attributo spiegando che quando questo
oro viene venduto tutte le altre botteghe chiudono. Di qui era poi facile il
passaggio all'interpretazione cabalistica di questo oro come il più alto, come
oro mistico.
" Questo tipo di oro viene nominato in 1 Re ro, r8 tra le parti che com­
pongono il trono di Salomone.
SCHOLEM

anche ai capelli.50 Lo Zohar stesso, m, 2o6 b , dice inol­


tre che gli occhi di Davide splendevano di tutti i colori,
per cui non esistevano al mondo occhi di tale bellezza.
Due interpretazioni assolutamente contrapposte, di
cui l'una delle quali si inserisce nello schema classico e
subordina i sette tipi di oro all'argento, mentre l'altra si
presenta effettivamente come una meditazione mistica
in termini alchimistici, si susseguono nello Zohar esat­
tamente in successione, come se l'autore volesse far se­
guire a un'interpretazione comune un'altra assai più
profonda. Solo così si può comprendere la sequenza
nel contesto altrimenti omogeneo di questo passo dello
Zohar, dove la seconda interpretazione si dà parados­
salmente come continuazione della prima, sebbene la
neghi. Darò ora questo secondo passo nella sua tradu­
zione letterale. Per reinterpretarlo nel senso della kab­
balah tradizionale, i commentatori dello Zohar hanno
dovuto darsi gran pena. Knorr von Rosenroth lo cita,
senza rilevare alcuna connessione con un qualche con­
tenuto alchimistico, nella sua Kabbala Denudata, I, p.
298. La sua traduzione, priva di spiegazioni, rimane in­
comprensibile ed è in parte anche inesatta. La breve
parafrasi del passo nella traduzione francese di de
Pauly, IV, p. 65, non vale nulla. Tutte le parti tra paren­
tesi quadre sono naturalmente - come anche nelle cita­
zioni precedenti-mie aggiunte:

Ma non è forse scritto che ci sono sette tipi di oro? E se tu


credi che l'oro sia il rigore e l'argento l'amore, come può
l,oro stare sopra d"1 esso [l'argento]-.51
r - cos1
' non e' con esso.
Poiché infatti l'oro sta più in alto di tutto, ma [non l'oro co­
mune, naturale], questo è [piuttosto] oro in modo mistico,52
e questo è «oro mistico superiore», che è il settimo di tutti
quei [sette] tipi di oro. E questo è oro che splende e brilla

'" Tiqqunim, n. 70, f. 12 3b.


" Il tesro qui non è chiaro. Ho interpretato we-'ist 'laq come forma inter­
rogativa, quasi fosse we-'eikh 'ist'laq; ma forse semp licemente si deve legge­
re <<argento» invece di <<oro>> , e tradurre: <<e l'argento sta sopra [il rango
del]l'oro».
" Lo Zohar ama ricorrere a l l'espressione be'orach stim per indicare l'inte­
riorizzazione di un concetto.
ALCHIMIA E KABBALAH 37

negli occhi, e questo è [oro tale] che� se appare nel mondo­


chi lo ottiene [lo] nasconde dentro di sé, e da lì [cioè da que­
sto oro mistico] provengono e irradiano tutti gli altri tipi di
oro. E quando l'oro è detto [con ragione] oro?53 Quando
brilla e sale nello splendore [delle regioni mistiche] del «ti­
more di Dio »,54 e poi è nella [nello stato della] «gioia misti­
ca», che anche alle [regioni] inferiori può far nascere gioia.
E quando è nello stato del «rigore», [ossia] quando da quel
colore55 passa nel colore blu, nero e rosso, allora è [oro nella
regione del] «duro rigore». Ma il [vero] oro appartiene alla
«gioia» e ha il suo luogo là dove il timore di Dio ascende al­
la gioia e dove si alza la gioia.56 L'argento è invece al di sotto,
[conformemente al] mistero del braccio destro, perché la te­
sta [mistica] più alta è d'«oro», come è scritto [Daniele 2,
38]: «Tu sei la testa d'oro». «Il suo petto e le sue braccia so­
no d'argento» [ibidem, 2, J2, ma indica la regione] inferiore.
Ma quando l'«argento» diventa perfetto, allora è contenuto
nell'«oro». E questo è il segreto [del versetto in Proverbi 25,
I I ] : «mele d'oro in vassoi d'argento». Così risulta che [nella

" La meditazione che segue, con il suo simbolismo mistico dei colori, de­
scrive evidentemente diversi stadi non dell'oro naturale, ma dell'oro mistico
nell'anima. Che essa abbia rappresentato per i commentatori dello Zohar un
vero rompicapo è una dimostrazione indiretta del fatto che a questi autori di
epoche più tarde, soprattutto i secoli XVI e XVII, l'interpretazione mistica
con il ricorso a simboli alchimistici, qui così inequivocabile, era general­
mente estranea. Del resto un'omelia a ffine'sul tema dell'oro e dell'argento
-dove l'oro viene ri ferito alla sefirah superiore binah, forse addirittura alla
chokhmah, la sophia superiore-è compresa nello Sha'ar ha-razim, scritto tra
il 1280 e il 1290 a Toledo da Todros Abulafia, ms. Monaco Hebr. 209, f. 53b.
In questo libro vengono già usati alcuni passi dello Zohar.
" Timore e amore sono i più alti stadi dell'anima nel suo rapporto con
Dio; i cabalisti riferiscono questo timore di Dio del più alto grado alla sefi­
rah binah, che sta più in alto della sefirah dell'amore, chesed. Nelle versioni
stampate manca la particella del genitivo (dechilu invece di dedechitu).
" Gawwan, ma qui forse, come spesso nello Zohar, semplicemente con il
significato di modo d'essere, stato, qualità. Il senso è: quell'oro che è ascrit­
to allo stadio del rigore, come vuole il simbolismo classico della kabbalah,
non è affatto l'oro più alto, mistico, che corrisponde assai più al grado più
alto che si possa raggiungere sulla via della meditazione, quello del«timore
di Dio>> . Poiché nella kabbalah spagnola dello Zohar e negli scritti di Mo­
she de Leon questo grado più alto viene trasferito nella sefirah binah, oltre
la quale la meditazione (nell'ebraico di Moshe de Leon hitbonenut) non
può andare, mentre l'amore è in chesed, la sefirah successiva a binah, ecco
risultare la tesi spiegata in questo testo sulla superiorità del vero oro sull'ar­
gento.
" Qui forse entra in gioco l'idea della simcha shel mitzwah, della gioia in­
sita nel compimento dei comandamenti. L'agire del timorato di Dio è gioio­
so e genera gioia.
SCHOLEM

vera perfezione] l'argento diventa oro/7 e allora il suo luogo


è perfetto. E perciò ci sono sette tipi di oro. 58 E [anche] il ra­
me procede dall'oro, quando è mutato verso il peggio, e que­
sto è il braccio sinistro, blu è la gamba sinistra e rosso por­
pora la gamba destra ed è contenuta nella sinistra [ . . . ].
L'«oro superiore [mistico]» è però un se reto nascosto e il
f
suo nome è «Oro chiuso» [da I Re 6, 2o] ,5 chiuso e nascosto
a tutti, e per questo è detto chiuso, perché è nascosto all'oc­
chio che non ha alcun potere su di esso [cioè non lo percepi­
60
sce]; l'«oro inferiore» invece è percepibile.

Né i mistici cristiani e gnostici né gli alchimisti han­


no rappresentato l'«oro» nell'anima dell'uomo in mo­
do più chiaro di quanto non avvenga in questo tipico
passo di teosofia cabalistica. Esso è l'unico nell'intero
Zohar a utilizzare expressis verbis la trasmutazione dei
metalli, in questo caso dell'argento in oro, per un'inter­
pretazione mistica, e a presupporla così come un dato

" L'uso del verbo ithaddar nel senso di<< diventare>> è assai frequente nel·
lo Zohar e corrisponde all'uso linguistico medioevale del corrispondente
verbo ebraico.
" Questo << perciò» si ri ferisce alla spiegazione che segue nel testo. Il sen­
so è questo: l'uomo è costituito da sette membra principali (cfr. Bahir, §§ 55,
I I4 e I I6, e spesso nello Zohar), che corrispondono alle sette sefirot com­
prese tra binah e jesod- così anche qui, nelle righe che abbiamo tralasciato,
appare il color bisso come simbolo di jesod -, oppure ai sette stadi che
l'uomo deve percorrere nelle sue meditazioni. Nella loro armonia nel corpo
dell'uomo primordiale o macroantropo tutte le parti sono d'oro, natural­
mente di rango più o meno alto. Chi ristabilisce sistematicamente in sé la fi­
gura spirituale primordiale dell'uomo trasmuta la sua anima - che nelle ri­
spettive regioni è rappresentata dal <<rame», dall'<< argento>> e così via- in
oro quando giunge al grado più alto, la testa, ossia la regione della binah, del
timore di Dio, come abbiamo visto in precedenza, a partire dalla quale tutte
le singole parti ricevono, secondo la visione mistica, il loro vero luogo.
"Evidentemente Moshe de Leon aveva in mente questo passo dello
Zohar quando, nello Sheqel ha-qodesh, p. 46, scriveva: <<Essi [i saggi, intesi
come i saggi dello Zohar, i cui insegnamenti Moshe de Leon cercava di
dif fondere anche attraverso i suoi scritti in ebraico come antica saggezza dei
maestri della mishnah] dicono che il più prezioso fra tutti i tipi di oro è l'oro
chiuso, perché è un oro che è chiuso all'occhio e più in generale è chiuso a
tutto».
60 Anche questa conclusione esprime chiaramente che il discorso non

verte sui metalli naturali. L'intero passo, che è di ardua comprensione, può
dare un'idea di quali di fficoltà si presentino nella traduzione e nella spiega­
zione del senso dei passi propriamente cabalistici dello Zohar, se non ci si
vuole discostare dal senso preciso del testo. Nessuna meraviglia che nella
traduzione francese di de Pauly proprio questi passi siano pieni di errori.
ALCHIMIA E KABBALAH 39

di fatto nel mondo naturale. Se queste tendenze in dire­


zione della simbologia alchimistica vera e propria, così
come le abbiamo viste espresse qui e precedentemente
nel frammento del Bahir, § 36, fossero riuscite a entra­
re definitivamente nel mondo della kabbalah invece di
esserne più o meno eliminate, si potrebbe legittima­
mente affermare un'essenziale affinità tra le due cor­
renti. L'assoluto contrasto tra questo passo dello Zohar
e l'altro trattato in precedenza citato, n, 197 b, con la
relativa interpretazione, non ha bisogno di ulteriori
spiegazioni. Per operare un confronto con le descrizio­
ni dell'«oro filosofale» - per gli alchimisti mistici ciò
che lo Zohar chiama «oro mistico», zahav'ila'a- citerò
ora un brano che nel libro di Silberer (p. 101) è tratto
da Jitzchaq Hollandus:

I filosofi hanno scritto molto del loro piombo [ . . . ] e io so­


no dell'opinione che questa Opera saturnina non debba es­
sere intesa con il piombo comune, ma con il piombo dei filo­
sofi. Sappi, figlio mio, che la pietra, detta pietra dei filosofi,
viene da Saturno. E sappi come verità che in tutta l'opera ve­
getabile [chiamata così per il simbolismo della semina e del­
la crescita] non c'è mistero più grande che in Saturno. Infat­
ti neppure nell'oro [comune] troviamo la perfezione che si
trova in Saturno, perché interiormente [inteso in senso
pneumatico] esso è oro fino. In questo tutti i filosofi concor­
dano, ed è necessario che tu per prima cosa allontani tutto
ciò che vi è di superfluo. Poi devi volgere l'interno verso
l'esterno, che è il rosso: allora sarà oro fino [ ... ]. Tutte le
strane parabole in cui i filosofi hanno parlato in senso misti­
co di una pietra, di una luna, di un forno, di un vaso - tutto
questo è Saturno [ossia tutto questo è detto dall'uomo]; per­
ché tu non puoi aggiungere nulla di estraneo, oltre a ciò che
scaturisce da esso stesso. Nessuno al mondo è così povero da
non poter intraprendere e compiere l'Opera.

I sette gradi della purificazione alchemica, che corri­


spondono ai gradi della contemplazione di tanti sistemi
mistici e del processo interiore di integrazione, sono
61
già noti a Zosimo.

61 Silberer, p. 190; Lippmann, pp. 79-81.


SCHOLEM

Che il linguaggio e il simbolismo dell'alchimia si sia­


no estesi anche a regioni del simbolismo cabalistico di
per sé estranee all'alchimia, e in qualche modo abbiano
influito su di esse, non è da escludere. Due simbologie
che con forte probabilità o forse con certezza derivano
dalla terminologia alchimistica mi hanno colpito nello
Zohar, dove naturalmente assumono uno sviluppo to­
talmente diverso rispetto all'alchimia.
La prima riguarda brevi frasi di carattere mistico che
sembrano contenere una sorta di formule numeriche
magiche, soprattutto in Zohar, I, 77a, ma anche I, 32b e
72b; II, 12 b e 95 a; III, 162a: «l'uno sale da una parte,
l'uno scende dall'altra parte, l'uno entra nel due, il due
si alza a tre, il tre entra nell'uno». O «due sono uno e
uno è tre». Frasi il cui senso letterale nel contesto spes­
so non è difficile da stabilire e risulta assai meno emo­
zionante di quanto la formulazione patetica farebbe
supporre. Ma è proprio la forma esteriore che interes­
sa. Queste frasi suonano come antiche formule St cui
viene conferito un significato che le armonizzi con il
nuovo contesto. L'utilizzo di antiche formule divenute
incomprensibili è attestato già nel Bahir. Ora, proprio
nell'alchimia hanno una grande rilevanza frasi che so­
migliano inequivocabilmente a queste. Ho già ricorda­
to che nella letteratura alchimistica più antica ricorre
come grande autorità una (fittizia) «Maria l'ebrea». A
lei viene attribuita la seguente frase, che già agli alchi­
misti medioevali era incomprensibile, ma si era ugual­
mente tramandata lungo i secoli come formula misteri-
62
ca: «Due sono uno, tre e quattro sono uno, uno d'l-
venta due, due diventa tre e dal terzo diventa l'uno co­
me quarto ».63 Questa formula si trova anche nell'opera
originalmente scritta in arabo ma diffusa nel Medioevo

" Di queste formule ve n'erano molte. La più famosa è certamente que­


sta:<< Natura si rallegra della natura, natura supera la natura, natura vince la
natura>> , citata fra l'altro anche dal cabalista Jose f Gikatilla, un contempo­
raneo dello Zohar, nel suo commento alla aggadah di Pesach, p. 16 dell'edi­
zione di Gerusalemme (che erroneamente attribuisce il libro a Shlomo ibn
Adret).
" C fr. in proposito]. Ruska, Turba Philosophorum, Berlin I 9 J I , p. 241;
C. G. Jung, Psychologie und Alchemie, p. 46.
ALCHIMIA E KABBALAH

soprattutto in versioni latine, l'alchimistica Turba Phi­


losophorum.64 Waite, in uno dei suoi lavori giovanili, ha
voluto vedere nella forma letteraria della Turba come
trascrizione dei discorsi tenuti in assemblea dai filosofi
dell'antichità una certa affinità e un possibile rapporto
con lo Zohar. Effettivamente c'è una parte importante
dello Zohar, che porta il titolo di 'Idra, in cui viene de­
scritta un'assemblea di famosi adepti (fittizi) della kab­
balah, con rabbi Shimon ben Jochai e i suoi discepoli,
che tengono discorsi sulla figura mistica della divinità e
i suoi segreti. Waite era guidato naturalmente dalla vec­
chia convinzione che la parola pseudoaramaica 'idra si­
gnificasse appunto assemblea, sinodo, in corrisponden­
za al significato di turba. Ma questo significato è ricava­
to ad hoc, o meglio, è un'invenzione tardiva.65
Il secondo simbolismo che si trova in molti passi del­
lo Zohar66 e di cui ritengo si possa provare l'origine al­
chimistica è quello in cui il demonico, l'ipertrofia della
«parte sinistra» del mondo vengono designati come
«residuo dell'oro», «scoria dell'oro» o «scarto dell'o­
ro». Qui il simbolismo cabalistico classico, dove l'oro è
il simbolo della parte sinistra, del giudizio, concorda in
certo modo con quello alchimistico che separa per fu­
sione l'« oro filosofico» dai residui o dalle scorie dei
metalli come sono nella natura oppure nell'anima (cioè
negli stati dell'anima). Il demonico, rappresentato so­
prattutto nel principe della parte sinistra Samael, è na-

'"' Grazie all'opera di Ruska e agli studi su questo testo in Martin Plessner,
Vorsokratische Philosophie und griechische Alchemie in arabisch-lateinischer
Oberlie/erung, Wiesbaden 1975, la ricerca sulla Turba poggia su fondamenta
completamente nuove.
" C fr. A.E. Waite, The Doctrine and Literature o/ the Kabalah, London
1902, p. 460. L'uso zoharitico della parola 'idra è stato compiutamente ana­
lizzato da Jehuda Liebes nella sua dissertazione presentata a Gerusalemme
nel 1977,« Studi sulla lessicogralìa dello Zohan> (in ebraico).
"'"
1, 48a, 52a, 62b, 73a, 109b, tt8b, t6tb, 193a, 228a; II, 24b, 104a,

148 b, 149 b, 203 a, 224b, 236a -b, 2 75 a; m, 5' a, 84b. Così anche in Zohar
Chadash a Cantico dei Cantici (Warszawa 1885, identico nella paginatura al­
l'edizione di Ruben Margulies pubblicata a Gerusalemme nel 1953), 58b,
66b. Il significato originario di hittukha come<< fusione>> è ancora chiaro in
passi come II, 167, << Lo scarto [del metallo] nasce dalla fusione>>; c fr. in
proposito anche K. Preis, Die Medizin im Zohar, in MGWJ, 72 ( 1928), p. 170,
così come la voce«sospita>> nel sopracitato lavoro di]. Liebes, pp. 336-338.
SCHOLEM

to come scarto o residuo, da un eccesso, un'ipertrofia


del rigore.67 Uno dei termini utilizzati qui, hittukha, let­
teralmente «fusione», comporta l'immagine di un pro­
cesso di fusione dove le scorie, i residui, rimangono a
parte come scarto. A questo contesto appartiene anche
l'espressione, rimasta lungamente incompresa, e che ri­
corre in molti passi dello Zohar, sospùa de-dahaba, che
viene espressamente considerata identica a hittukha.68
Cinquant'anni fa non potevo comprendere questa pa­
rola, diffusa in tutta la parte principale dello Zohar, ed
ero incorso in supposizioni erronee. Ma anche l'ipotesi
espressa allora da Robert Eisler, che la parola debba es­
sere fatta derivare da un presunto auaaGrtYJ cioè hyle,
da leggersi sussipta in ebraico) e significhi la putre/actio,
la putrefazione o marcescenza della materia,69 è insoste­
nibile, come molte altre sue ipotesi in questo campo,
anche se allora avevo aderito alla sua concezione erro­
nea.70 In realtà l'espressione costituisce uno dei neolo­
gismi creati da Moshe de Leon a partire da parole tal­
mudiche, come se ne trovano molti nello Zohar. Nel
Talmud compare la parola kuspa nel senso di pula, di
scarto rimasto da corpi vegetali spremuti, ad esempio
in Ta'anit 24 b. 71 Questa parola è diventata nello Zohar
kuspita, diventato a sua volta, in diversi passaggi (ad
esempio Zohar, r, 61 a ha ksospita), sospita. Ora,
l'espressione zuhama de-dahaba è già negli scritti dei
cosiddetti «Fratelli Puri» di Bassora (x secolo) un ter-

67 Così espressamente in Zohar, l, I6 I b (tosefta): « Samael, che procede

dalle scorie della forza soverchia di Isacco », cioè dalla qualità del rigore,
che è rappresentata da !sacco. Di «scorie del rigore» come origine dell'«al-
tra parte» parla anche I, 74b. ,
" In 11, 224b e 236b i due concetti sono spiegati uno con l'altro.E note­
vole il fatto che, a parte due passi incomprensibili contenenti all'apparenza
formule mistiche, 1, 30a e Tiqqunim I 32 b, questa parola ricorra sempre in
connessione con l'oro. Non c'è una sospita dell'argento o del rame nello
Zohar. Forse c'era un termine alchimistico fisso per designare le scorie del­
l'oro? 1, II 8 sentenzia: <<nel luogo dove l'oro ha la sua dimora non si evoca­
no le scorie (sospita) >>, riferendosi a lsacco [il rigore] e Ismaele.
"Eisler, in MGWJ, 69 ( I925), p. 365. Dai dizionari greciEisler poteva pro­
vare l'uso della parola crUOOYJ'IjJLç soltanto nei geoponici bizantini, ma non
ne ?,li scritti alchimistici.
' Nella mia nota al saggio diEisler, ivi, pp. 3 7I-3 72.
" Cfr. ]. Levy, Worterbuch zu Talmud und Midrasch, 11, p. 370.
ALCHIMIA E KABBALAH 43

mine alchimistico per «residuo dei metalli», 72 che ha


naturalmente un grande ruolo in tutte le pratiche alchi­
mistiche. L'autore dello Zohar, che conosceva l'arabo,
ha qui usato un termine corrente in senso cabalistico. I
diversi sostantivi indicanti residuo, scoria, scarto, ven­
gono usati nello Zohar indifferentemente e hanno tutti
lo stesso significato.73 Sospita viene invece utilizzato
esclusivamente per gli scarti o i residui dell'oro; il per­
ché non è ancora chiaro. Il «residuo dell'argento», che
nello Zohar viene identificato spesso con il piombo (m,
124 a; Tiqqun 67; Zohar Chadash f. 33d), è detto zuhama.
Queste sono tutte le tracce di materiale direttamente
alchimistico che ho potuto trovare nello Zohar. A ciò si
aggiunge un ulteriore parallelismo che induce a riflette,­
re, indicatomi da M. René Alleau a Parigi nel 1972. E
innegabile che il simbolismo della shekhinah, l'elemen­
to femminile nel mondo divino delle sefirot rappresen­
tante l'ultimo di questi dieci gradi di emanazione all'in­
terno della divinità, così come viene abbondantemente
sviluppato nello Zohar, presenta stretti parallelismi con
il simbolismo della prima materia degli alchimisti. Sul
simbolismo cabalistico della shekhinah ho scritto molti
anni fa per l'«Eranos Jahrbuch».74 Molti dei simboli
collegati alla shekhinah tornano nella letteratura alchi­
mistica del tardo Medioevo, dove soprattutto la luna e
tutta la relativa simbologia del femminile vengono svi­
luppate in connessione con la prima materia dell'Opera
alchemica. Non credo si possa trattare di connessioni
storiche, quanto piuttosto di una affinità strutturale tra
l'ascesa dall'ultima sefirah fino alla più alta e gli stadi
che in una concezione mistica della magna ars la prima
materia percorre fino alla sua purificazione nell'oro fi­
losofale. I simboli a disposizione per questo tipo di de­
scrizioni erano per la loro stessa natura limitati, per non
parlare del fatto che il comune mondo di immagini bi-

72 Come è stato dimostrato da Lippmann, p. 3 79·


" C fr. sopra, note 66 e 68.
74 In «Eranos Jahrbuch >>, 2 I (I9 p), pp. 4 5-I o 7; ristampato in versione
riveduta nel mio libro Von der mystischen Gesta/t der Gottheit, Ziirich I962,
pp. I J5- I 9 I e 290-296.
44 SCHOLEM

bliche, soprattutto veterotestamentarie, poteva mettere


a disposizione fonti da cui trarre materiale sia ai cabali­
sti ebrei sia agli alchimisti cristiani. Non sono certo che
per questo occorra ricorrere all'ipotesi psicologica, che
si spinge ben oltre, degli archetipi dell'anima, così co­
me è stata sviluppata da Jung nei suoi scritti.
Nelle generazioni successive allo Zohar non sono pre­
senti numerose connessioni tra motivi cabalistici e al­
chimistici. Verso la metà del XIV secolo, a Toledo, Jehu­
da ben Asher nel suo responsum sulla trasmigrazione
delle anime paragona il processo del gilgul in cui esse
vengono purificate con il corrispondente processo al­
chemico di progressiva purificazione dei metalli, che
peraltro non si raggiunge immediatamente, ma solo
percorrendo numerosi stadi.75 Forse ulteriori ricerche
sulla letteratura cabalistica, soprattutto sulle fonti ma­
noscritte, porteranno alla luce altro materiale di questo
tipo. Lo sviluppo più sorprendente si situa alla fiRe del
xv secolo, nelle rivelazioni che Josef Taitatzak, divenu­
to poi un famosissimo maestro, dottissimo sia nelle co­
se ebraiche che in quelle umanistiche, mise sulla carta
in gioventù, intorno al 1480, quando ancora si trovava
in Spagna.76 In queste strane rivelazioni Dio, che parla
in prima persona, pronuncia lezioni su diverse discipli­
ne occulte. Taitatzak è il primo cabalista a identificare,
ancor prima di alcuni umanisti cristiani, l'alchimia con
la teologia mistica. Ciò è tanto più notevole se si consi­
dera che nessuno tra i grandi cabalisti del XVI secolo-al­
cuni dei quali allievi diretti, o allievi di allievi, dello stes­
so Taitatzak quand'egli era attivo a Salonicco, fino circa
al 153 5 -ha fatto proprie queste idee. Né Josef Caro, né
Moshe Cordovero ne fanno menzione. Almeno parti
delle rivelazioni di Taitatzak erano conosciute in questi
ambienti, anche se non siamo in grado di affermare che

" Il testo è riportato nella raccolta Ta'am zeqenim diEliezer Ashkenazi,


ed. Raphael Kirchheim, Frankfurt am Mai n 1855; il passo citato si trova al
f. 66a.
"' Su queste rivelazioni si veda il mio saggio in ebraico in « Se funot. An­
nua! o f the Ben-Zvi lnstitute>> , 11 (uscito con vari anni di ritardo nel1977l,
pp. 6 7- 1 12.
SCHOLEM

E così ci sono stati nel mondo uomini saggi tra i gentili, su


cui riposava lo spirito dell'impurità, che lo hanno raggiunto
[il mistero della trasmutazione dei metalli], e se nei tempi
antichi i saggi tra i gentili si facevano innanzi con lo spirito
dell'impurità, sta a voi farvi innanzi dalla parte della kabba­
lah pura [. .. ] e tu [il destinatario di queste rivelazioni] nel
tempo futuro avrai grande bisogno della conoscenza di que­
sto segreto, quando così grande sarà l'angustia che nessuno
[senza di essa] potrà vivere. 77

La chiusa risponde alla tendenza apocalittica, predomi­


nante in queste rivelazioni, dell'autore, il quale crede di
vivere le doglie del parto che precedono l'era messiani­
ca. Naturalmente l'identificazione tra kabbalah e vera
alchimia, che qui appare così inequivocabilmente, non
deve sorprendere in questo autore, che infatti identifica
anche altre discipline, di cui afferma il valore, con i mi­
steri della kabbalah, ad esempio l'astronomia e là scien­
za delle sfere. Già in un passo precedente (f. 92 b), in
una formulazione indubbiamente meno estrema, l'au­
tore parla di alchimia spiegando il significato della sca­
la di Giacobbe, su cui gli angeli salgono e scendono, se­
condo la Bibbia:

E nel segreto della scala diventeranno chiare anche cose


grandi e potenti, [cioè] come voi salirete nel segreto della
scala, e questo è il segreto del versetto: «Ed ecco gli angeli di
Dio salire e scendere su di essa» [ ... ] e qui vi diverrà chiaro
il segreto della natura nel salire e scendere, perché il segreto
del salire e scendere è il segreto della scienza della divinità. E
con ciò vi diverrà chiaro anche il segreto dell'oro e dell'ar­
gento superiori [mistici], e il segreto dell'oro e dell'argento
inferiori [terreni], e così come potete compierlo in questo
tempo e nella natura, da tutti i sette tipi di metalli, e questa è
la vera scienza della natura, che consiste nel segreto della
scala.

Se paragonate con le visioni di Taitatzak, che antici­


pano in modo sorprendente successive identificazioni
operate dai cabalisti cristiani, le dichiarazioni dei caba-

" Per il testo di questo passo, ivi, pp. 86-87.


ALCHIMIA E KABBALAH 47

listi del XVI e XVII secolo sui metalli, che usano motivi
alchimistici, rappresentano un passo indietro. Una pa­
noramica di tali affermazioni mostra in modo chiaro ta­
le arretramento. Il titolo fittizio di una sedicente opera
del Gaon Saadja, La pietra dei filosofi, nel commento al
Se/er ]etzirah (al cap. I, r) di Moshe Botarel, che era na­
tivo della Spagna e scriveva in Provenza, prova comun­
que soltanto che questo autore al confine tra kabbalah
e filosofia conosceva tali concetti dell'alchimia, da fonti
orali o scritte. (Botarel è famoso per la sua inestinguibi­
le propensione a inventare titoli e citazioni di libri ine­
sistenti. ) Intorno al r 5 30 Meir ben Gabaj, che viveva in
Turchia o in Egitto, usa un paragone che fa ricorso al
simbolismo dei metalli - l'argento e il piombo - per
spiegare i due impulsi, quello buono e quello malvagio,
nell'uomo. 78 Di trasmutazione dei metalli egli non par­
la. Inattendibile sembra l'affermazione di Gi.idemann
che il fondatore della setta russa dei giudaizzanti,
l'ebreo Zacharias arrivato a Novgorod nel 1470 con il
principe di Kiev Michail, fosse stato <<uomo assai ricer­
cato per le sue presunte conoscenze nella kabbalah e
nell'alchimia».79 Non ho potuto controllare le fonti di
Gi.idemann. Naturalmente nel xv secolo si fa spesso
menzione di alchimisti ebrei. Le arti alchimistiche di
David Raby, ebreo di Weiden, «tratte dalla lingua
ebraica» verranno menzionate in numerose miscella­
nee di kabbalah pratica.80 Si tratta notoriamente di un
certo rabbi David di Vienna. Nel 1420 un alchimista
ebreo, Salomon Teublin, era entrato al servizio del lan­
gravio di Leuchtenberg. 81 Di un loro contatto con la
kabbalah però non si parla. Salomon Trismosin, il mae­
stro di Paracelso, riferisce nel suo racconto sulle pere­
grinazioni alla ricerca della pietra filosofale di aver in-

" Cfr. il suo ponderoso compendio 'Avodat ha-qodesh, 1, 19.


" Cfr. M. Gudemann, Geschichte des Erziehungswesens und der Cultur
der Juden in Deutschland, vol. m, Wien 1888, p. 156.
'" Cfr. ibidem, p. 155, così come le citazioni di antichi manoscritti conte­
nenti segullot (ricette) riportate da Max Grunwald in diversi fascicoli delle
<< Mitteilungen flir judische Volkskunde >> .
" Ne riferisce Gerhard Eis, Ostbairische Grenzmarken, in << Passauer Jahr­
buch > , I ( 1957), pp. 11- 16.
SCHOLEM

contrato nel 1480 in Italia un ebreo che parlava il tede­


sco ed eseguiva operazioni alchemiche insieme a un ita­
liano, operazioni a cui avrebbe partecipato come assi­
stente. Ma le loro arti sarebbero consistite in falsifìca­
zioni. 82 Un marrano di Jativa, nel 1482, sarebbe stato in
possesso oltre che di scritti magici anche di «scritti al­
chimistici ebraici». 83
Altre fonti portano alla kabbalah. Risale al più tardi
al XVI secolo un testo sui sette gradi di demoni, conser­
vato in un manoscritto del British Museum (Margo­
liouth n. 845, ff. 89-94). Al capitolo v vi si afferma che
il quinto re dei demoni, di nome Maqabai (!), è anche il
genio dell'alchimia. Ma può darsi benissimo che il testo
abbia origine già nel primo Medioevo, come molti altri
trattati sui diversi gradi e principi dei demoni. Di carat­
tere cabalistico-alchimistico sono le affermazioni di
Moshe Cordovero nel suo compendio della kabbalah,
composto nel 1548 a Safed, Pardes rimmonim, cap. IX,
§ 3 (Cracovia I 592, f. 69 a). Cordovero riferisce qui,
senza citare le fonti, anche di una sorta di processo al­
chemico nel cui corso si .formano nell'acqua in piena
ebollizione particelle pietrose, l'alchimistico idrolito,
con cui egli intende spiegare un passo del Sefer ]etzirah
sulla congiunzione degli elementi. Molto più oltre si
spinge l'autore anonimo di un grande lavoro, composto
(probabilmente a Safed) intorno al I 55 2, il Galle ra­
zajja', che specula sul passo dello Zohar da noi già ana­
lizzato, n, 23 b, e tratta di sei tra i metalli ivi menziona­
ti - oro, argento, ferro, piombo, rame, stagno - e dei
rapporti che intercorrono tra loro. L'ottone non è no­
minato dall'autore, che probabilmente non ne com­
prendeva più il significato, altrimenti non avrebbe con­
siderato il ferro come sospita dell'oro. Con la giusta
mescolanza dei sei metalli, che nella sua ricostruzione
si coniugano, egli spiega le azioni magiche dell'uccello

" Cfr. Splendor Salir, Alchemica! Treatises o/ Solomon Trismosin, ed. Kc­
gan Pau], London s.d. ( 1900 ca.), p. 83.
" Fritz Baer, Die ]uden im Christlichen Spanien, parte 1, tomo 11, Berlin
19J6, p. 513·
ALCHIMIA E KABBALAH 49

metallico, lo Jaddua' di cui narra lo Zohar, m, 184b.84


Notevole è che dalla mescolanza dei metalli nascano
forze impure che quindi, è presumibile, si potrebbero
vincere mediante la separazione.
Un atteggiamento benevolo nei confronti dell'alchi­
mia è quello di rabbi Shimon ibn Lavi, che scrive nel
1 570 a Tripoli in Nord Africa, autore di un grande
commento allo Zohar, Ketem Pas (Livorno 1795), anco­
ra pochissimo utilizzato per le ricerche sulla kabbalah.
A proposito del passo dello Zohar, I, 249 b, da noi già
commentato, egli nota:

Da questo possiamo dedurre che ai saggi dello Zohar nes­


suna cosa delle scienze naturali era nascosta. Essi conosceva­
no infatti le cose secondo il loro fondamento e la loro essen­
za, e inoltre sapevano che nulla sussiste nel mondo naturale
che non abbia le sue radici in quello superiore [ ... ]. Devi sa­
pere che l'oro e l'argento, secondo la loro origine naturale, il
loro elemento e minerale [?], sono identici, e non curarti di
coloro che dicono che siano due cose distinte una dall'altra,
perché essi vedono che c'è un minerale da cui viene l'argento
e un altro da cui viene l'oro e [perciò] dicono che sussiste
una differenza tra loro. Ma non è così, perché non esiste nes­
sun'altra differenza tra loro se non il colore. Perché l'essen­
ziale nell'oro è originariamente argento. E a seconda dei luo­
ghi in cui nasce l'argento, ci sono minerali che sono esposti
al calore del sole e in conseguenza della sua forte irradiazio­
ne nel corso del tempo diventano rossi e si trasformano in
oro, perché con l'aumentare del calore il colore bianco cam­
bia e diviene rosso, come puoi vedere anche nella frutta la
cui superficie esposta al sole si fa rossa mentre la superficie
non esposta rimane bianca o verde, perché il sole rende ros­
sa o nera o bianca ogni cosa, secondo la sua natura, confor­
memente alla disposizione della sua materia. E così è anche
per i minerali. Quelli esposti al sole e rivolti verso sud si co­
lorano di rosso, quelli invece su cui il calore del sole non si
irradia con forza rimangono bianchi, e [così] sulla terra essi

"' Cfr. l'edizione incompleta del Galle Razajja', Mohilew 1812, ff. 28 d -
29a. È possibile che le presunte fonti «caldaiche» della narrazione nello
Zohar abbiano un qualche rapporto con quelle pseudonabatee del Libro del­
la palma di cui ho curato l'edizione. In entrambi i casi si tratta dell'allesti­
mento di macchine-oracolo in forma di uccello sotto l'effetto di concezioni
astrologico-alchimistiche.
SCHOLEM

vengono chiamati con nomi [diversi], oro o argento, a secon­


da della diversità della loro posizione nell'assumere il colore
rosso. Ma tu devi sapere che essi [in verità] sono una cosa e
indifferenziati, tranne che nella loro posizione. Perciò i saggi
tra gli alchimisti [in ebraico: maestri dell'alchimia] non si oc­
cupano degli altri metalli per eseguire con essi qualche «La­
voro», ma soltanto dell'argento, per farlo divenire rosso,
perché questi due metalli sussistono in se stessi, ma hanno
un'unica origine, e infatti persone degne di fede, che veniva­
no da Ofir [nell'India orientale?], ci hanno detto di aver tro­
vato colà un minerale metà oro e metà argento, non essendo
completamente maturato sotto il calore del sole, per cui si
deve fonderlo e così trame oro e argento, ognuno per sé. E
io scrivo questo per annunziarti la loro [degli autori dello
Zohar] saggezza, a cui nulla è rimasto nascosto.

Shimon ibn Lavi aveva dunque una certa stima per


l'alchimia, e si spingeva a forzare il simbolismo cabali­
stico verso quello alchimistico affermando, poche righe
più avanti, «che anche per i cabalisti l'oro significa il so­
le e l'argento la luna».85 Effettivamente questo è il lin­
guaggio simbolico degli alchimisti, mentre la sua affer­
mazione sui cabalisti è invece particolarmente dubbia e
si fonda, per quanto mi risulta, unicamente su un'inter­
pretazione allegorica del passo dello Zohar, r, 249 b, che
però non trova rispondenza con il senso letterale. Come
vedremo in seguito, neppure l'autore dell'Esh Met:zare/,
indubbiamente incline a questo tipo di interpretazioni,
ha osato assumere il simbolismo lunare per l'argento
specifico degli alchimisti. Soltanto due generazioni suc­
cessive, ibn Lavi Avraham Azulaj, che come ibn Lavi ve­
niva da Fez in Marocco, dove l'alchimia aveva una gran­
dissima importanza, avrebbe ripreso questo simbolismo
nel suo commento allo Zohar, m, 184b, dove si parla
dell'uccello magico di Balak. Qui oro e argento vengo­
no effettivamente ascritti alla luna e al sole.86 Il passo in

" Un altro passo che fa riferimento al mistero dei colori nel loro rappor·
to con i metalli e alla falsificazione del ferro da parte dei «filosofi», cioè de·
gli alchimisti, si trova in ibn Lavi anche al f. 298 b.
,. Nel commento allo Zohar di Azulaj, 'Or ha-chamma, vol. IV, Przemysl
1898, f. 47a. Ma già in annotazioni del XIV secolo, conservate nel manoscrit·
ALCHIMIA E KABBALAH p

Azulaj sembra derivare dal commento allo Zohar di Mo­


she Cordovero, che però, nel lessico del simbolismo ca­
balistico in Pardes rimmonim, cap. XXIII, f. I5 I c, non di­
ce nulla di una corrispondenza tra argento e luna.
Del tutto diverso rispetto a ibn Lavi è l'atteggia­
mento verso l'alchimia in Chajim Vital Calabrese, il più
influente discepolo di Jitzchaq Luria. Su Luria stesso
non sappiamo nulla di certo al riguardo.87 Il suo disce­
polo, sopravvissutogli di quasi cinquant'anni - morì
nel I62o a Damasco-, ha lasciato molte testimonianze
di rilievo utili per le nostre ricerche. Nella sua raccolta
di appunti autobiografici, composta intorno al I6Io, il
Libro delle visioni, conservatasi fino ai nostri giorni nel
manoscritto dello stesso Vital e pubblicato integral­
mente nel I954,88 si dice che una volta Luria avrebbe
letto sulla sua fronte la frase di Esodo 3 I, 4: «lavorare
con l'Arte oro, argento e rame», a «indicare il peccato
da me commesso di aver trascurato per due anni e mez­
zo lo studio della Torah ed essermi occupato della
scienza dell'alchimia». 89 Anche nel suo proemio al trat-

to Parigi 8o6, f. 97 h, luna e argento sono riferite simbolicamente l'una al­


l'altro.
" Già in Ch. Vita!, Sha'ar ha-gilgulim, Jerusalem 1912, f. 48 a, fra varie tra­
dizioni sulle proprietà delle piante che egli afferma di aver appreso dal suo
maestro, ma senza entrare nei particolari, abbiamo informazioni sulla mu­
scatella, in arabo akhlil dhahab, la cui proprietà sarebbe di «poter produrre
[la trasmutazione] alchemica dei metalli in oro >> . Questa pianta compare an­
che in altre fonti, ovviamente con un altro nome, e sembra provenire dalla
tradizione araba. Avraham Chamoj, collezionista di tradizioni ebraico-orien­
tali, ancora intorno al 1870 raccontava: «Quand'ero giovane, desideravo ac­
quisire cognizioni nell'alchimia e sapere su cosa essa si basi nell'affermare
che, in virtù di una certa pianta, stagno e piombo si trasformano in oro. E
questa pianta si chiama pianta aurea, in arabo bashishat 'al-dhahab >>; cfr. il
suo Nifla'im ma'assekha, Livorno 1881, 24b. Qui egli si riferisce al passo in
Vi tal, la cui fonte però egli afferma di aver trovato in Sha'ar ruach ha-qodesh,
anche se essa non appare nelle versioni stampate. Anche il cabalista geroso­
limitano Chajim Josef Azulaj, nel suo volume collettaneo Midbar qedemot,
Livorno 1793, f. 98c, accenna all'esistenza di una pianta che trasmuta il
piombo o l'argento in oro, <<come abbiamo sentito da autori attendibili>>.
" H o preso visione di questo manoscritto nella primavera del 1932 a Li­
vorno. Esso è stato pubblicato dopo la Seconda guerra mondiale da Aharon
Z. Eshkoli sulla base di un microlilm di cattiva qualità, che egli stesso aveva
realizzato nel 1944; l'edizione (Jerusalem 1954) è purtroppo assai poco at­
tendibile.
" Proprio questo passo, che in edizioni precedenti basate su copie del
manoscritto autografo si trova nella giusta posizione (ad es. nell'ed. Bagdad
SCHOLEM

tato, composto relativamente tardi, sull'etica cabalisti­


ca, Sha'are qedushah, egli si rammarica che molti si oc­
cupino di cose in cui bene e male, verità e menzogna
sono mescolate, o che non hanno alcun valore (devarim
betelim), ed elenca, ma senza dire a quale categoria ap­
partengano, vari esempi: farmaci (magici?), la scienza
dell'alchimia e numerose pratiche che fanno ricorso ad
amuleti e scongiuri.90 Secondo un altro appunto all'ini­
zio dell'«autobiografia», l'epoca in cui egli si occupava
di alchimia dovrebbe risalire agli anni tra il 1567 e il
I 569 (quindi prima di conoscere Luria); anche qui egli

dice di aver trascurato per due anni e mezzo lo studio


della Torah, all'età di ventiquattro anni.91 Queste noti­
zie trovano effettivamente piena conferma in un altro
manoscritto, un indubbio autografo di Vital, in cui egli
ha raccolto pratiche magiche e ricette alchimistiche re­
lative ai metalli. Questo importante manoscritto si tro­
vava da anni nella preziosa raccolta di Shlomo Mus­
sajow, un cultore della letteratura cabalistica (morto
nel 1922), a Gerusalemme, dove è stato da me scoperto
nel 1930.92 La terza parte di questo manoscritto, i ff. 34-
35 caratterizzati da una grafia sefardita serrata ma stu­
penda, tratta in 83 paragrafi di «pratiche chimiche re­
lative ai sette metalli». Vi si trovano numerosissime
formule particolareggiate di natura puramente chimica,
ma che utilizzano anche molti termini alchimistici, che
forse un giorno, sulla base delle fotografie fatte a suo
tempo, potranno essere analizzate più approfondita­
mente.93 Anche dopo aver rinunciato alla pratica chimi­
ca dell'alchimia, Vital usa ancora nei suoi scritti cabali-

1866, f. 5oa), è stato incomprensibilmente tralasciato (p. 151) da Eshkoli,


che pure ne fa espressamente menzione in una nota (a p. 1), nella sua edi­
zione del Se/er ha-che�jonot.
�· Così nella prefazione alla prima edizione, Costantinopoli 1734· Anche
in Sha'ar hamitzwot, Jerusalem 1905, ff. 38a e 42b, Vita! tradisce generiche
conoscenze chimiche di tipo popolare.
" Questa notizia si trova all'inizio della sua «autobiografia», p. 1.
" Dopo essere stato restituito alla famiglia, che lo ha consegnato alla co­
munità di Buchara, luogo di origine di Mussajow, il manoscritto, che ancora
nel 1943 si trovava in prestito alla Jewish National Library di Gerusalemme
con l'intera collezione di Mussajow, è scomparso.
" Vita! utilizza qui i termini tecnici arabi, non quelli latini o italiani.
ALCHIMIA E KABBALAH 53

stici la simbologia dei metalli, in un modo che si disco­


sta dal passo dello Zohar citato in precedenza. Appare
qui la materia protagonista dell'alchimia medioevale e
anche successiva, il mercurio o argento vivo, nel suo si­
gnificato cabalistico. Esso subentra all'ottone menzio­
nato dallo Zohar.94 Vital simbolizza questi sette metalli
- nell'ordine: argento, oro, rame, stagno, piombo, mer­
curio, ferro- con le sette sefirot comprese tra chesed e
malkhut e i sette pianeti secondo la tradizionale se­
quenza, in un autentico schema alchimistico-astrologi­
co.95 Al mercurio fa corrispondere la sefirahjesod e con
ciò il simbolismo sessuale. Jung ha fatto notare che un
simile significato sessuale del mercurio identificato con
Cupido è presente in alcune visioni latine medioevali.%
Ma da questo schema non vengono tratte conseguenze.
Che le connessioni siano nuove lo si può vedere con­
frontandole con le interpretazioni delle sefirot fatte dal­
le generazioni precedenti, dove il mercurio ancora non
appare e al suo posto è mantenuto l'ottone. Abbiamo
ad esempio un trattato, intitolato Sullam ha-se/irot (La
scala delle sefirot), conservato al British Museum in un
manoscritto copiato nel 1 5 5 0, dove la sequenza dei me­
talli è la seguente: argento, oro, ferro, stagno, rame, ot­
tone (chiamato qui semplicemente metallo), piombo.97
Questi sono gli sviluppi all'interno della kabbalah
spagnola, e quindi proveniente da Safed, nel corso del
XVI secolo. Nel periodo successivo si possono indicare
due tendenze che testimoniano l'interesse, e talvolta
anche più di questo, per l'alchimia in ambienti cabali-

" Il lungo brano si trova ne! Se/er ha-liqqutim, attribuito a Vita!, Jerusa­
lem I9IJ, f_ 8 9b, ma anche alla fine del compendio della kabbalah, scritto
intorno al 16jo, Chesed le-Avraham di Avraham Azulaj, da un manoscritto
di Vita! su Salmi 84, 7·
" Secondo Vita! anche le forze delle <<bucce», qelipot, nei mondo della
jetzirah e in quello della 'assijah, sono assegnate ai materiali a partire dall'ar­
gento, mentre l'oro corrisponde alla << buccia>> del mondo della beri'ah; cfr.
Ch. Vita!, in Arba' me'ot sheqel kesef, Krak6w 1886, f. 9 c/d.
"" Cfr. anche la simbologia corrispondente nell' Esh Metzaref, di cui ci oc­
cuperemo più avanti. Il passo in C.G. Jung, Mysterium Coniunctionis, 11, p.
53· Altrimenti nel libro di Jung il mercurio appare nell'aspetto femminile,
non in quello fallico, di Mercurio.
97 Nel manoscritto British Museum (Margoliouth n. 1047), f_ 231.
54 SCHOLEM

stici ebraici. Dalla kabbalah occidentale del xvn secolo


sono giunte sino a noi, in fonti ebraiche ancora conser­
vate, le considerazioni del medico e cabalista praghese
Shabetaj Sheftel Horowitz, contenute nel suo She/a'tal
(Sovrabbondanza di rugiada), stampato nel 1612 ad
Hanau. In generale quest'opera sviluppa in modo assai
particolareggiato le idee di Cordovero, che ovviamente
in certi capitoli, peraltro non rilevanti per il nostro di­
scorso, si riallaccia alle concezioni di Luria. Alla fine
del terzo capitolo (ff. 36 c - 37 c) si trova una teoria ca­
balistica dell'alchimia abbastanza dettagliata, in cui, ri­
facendosi alla dottrina dell'interazione di tutti i mondi
e delle sefirot stesse, viene sviluppata la dottrina della
trasmutazione dei metalli uno nell'altro «com'è nota ai
saggi dell'alchimia». L'autore cerca inoltre di dimo­
strare in modo nuovo il primato dell'oro sull'argento,
facendo ricorso alla dottrina, esposta in modo sistema­
tico soltanto nel xvr secolo, dei quattro mondi, in
ognuno dei quali le dieci sefirot si ripetono secondo la
loro struttura; 98 il più alto di questi mondi, quello delle
emanazioni, è ascritto al sole, mentre l'argento è asse­
gnato come simbolo dominante soltanto al mondo suc­
cessivo per rango.99 Tra il 1620 e il 1640 Josef Shlomo
Delmedigo, un cretese che per lunghi anni aveva sog­
giornato in vari paesi d'Europa ed era divenuto noto
come medico, cabalista e filosofo, produsse un gran nu­
mero di scritti, la maggior parte dei quali non fu mai
stampata.100 In un manoscritto del Jewish T heological
Seminary di New York si trova l'inizio di un suo tratta­
to sulla pietra filosofale e sull'elisir di lunga vita. Pur­
troppo il manoscritto, che doveva consistere di dieci
capitoli, si interrompe già alla settima pagina.
Abbiamo maggiori notizie sulla grande diffusione
dell'alchimia tra gli ebrei del Marocco, di cui possedia-

" Sui quattro mondi nella concezione della kabbalah tardiva, vedi il mio
Kobboloh (in inglese), Jerusalem I974• p. I I9.
., Una traduzione integrale di questo lungo passo sarebbe opportuna.
'"' Su Delmedigo, vedi Abraham Geiger, Biogrophie ]ose/Solomo del Me­
digo's, Ber!in I 840, che giustamente ha messo in luce la contraddizione in­
terna nel suo atteggiamento riguardo alla kabbalah.
ALCHIMIA E KABBALAH 55

mo documenti fino al nostro secolo. Anche in questo


caso alchimia e kabbalah procedono spesso uniti. In un
manoscritto della collezione Gaster si narra di un
«maestro e santo» di Gerusalemme che in Marocco
avrebbe tentato la «Grande Opera» (in ebraico: me­
lakha).101 Nel dicembre del I928 trovai, nella collezione
di manoscritti di Badhav a Gerusalemme, un foglio sin­
golo, scritto intorno al I 700 in corsivo marocchino, che
conteneva «tinture» alchimistiche in ebraico. Intorno
al I7oo il cabalista marocchino Jaaqov Katan si occupa­
va di alchimia, e su questo argomento avrebbe compo­
sto un poema didascalico scritto in arabo (con caratteri
ebraici), se dobbiamo prestar fede all'identificazione
dell'autore proposta da Jaaqov Toledano. Questo scrit­
to, che analizzai nel gennaio del I929, contiene soltanto
citazioni di numerosi autori arabi, tra cui Djabir, Cha­
lid e Iraqi, ma nessun materiale ebraico. Dove sia finito
il trattato, che doveva comprendere quasi cinquanta fo­
gli, mi è del tutto ignoto.102 Una testimonianza autono­
ma, e dunque doppiamente probante, di un ebreo afri­
cano sull'ampia diffusione dell'alchimia in Marocco, è
presente nella relazione del noto teologo di Halle
Johann Salorno Semmler, che naturalmente conosco so­
lo di seconda mano. Un ebreo del Nord Africa, che
Semmler aveva incontrato negli ultimi anni di vita, gli
avrebbe riferito che l'alchimia era molto diffusa in Ma­
rocco tra gli ebrei. Il resto del racconto sembra piutto­
sto chiacchiera apocrifa.103 Io stesso ho conosciuto per-

101
L'autore spiega le cause del fallimento di quell'esperimento con rifles­
sioni di natura demonologica; ms. Gaster I05 5 (ora al British Museum), ff.
42b-43a. Dall'epoca della distruzione del tempio il mondo è infatti caduto
nel disordine e anche i nessi naturali sono stati turbati dalla signoria delle
forze demoniache.
102
Altre notizie suJaaqov Katan dai manoscritti di Toledano, inJosef ben
Najim, Malkhe rabbanan (sui rabbini del Marocco), Jerusalem I93I, f. 64a.
Anche il manoscritto, contenente testi alchimistici tradotti in ebraico so­
prattutto da originali arabi, descritto da Gaster nel suo articolo <<Alchemy >>
nella Jewish Encyclopedia, vol. I, pp. 328 sgg., proviene dal Marocco, e risa­
le al I 690 circa.
'"' Non conosco questo racconto direttamente, ma soltanto dallo scritto,
assai incompleto, di Salomon Rubin sull'alchimia 'Even ha-chakhamim,
Wien I874, pp. 9I-92 (in appendice al sesto volume del periodico << Ha-sha-
SCHOLEM

sonalmente a Gerusalemme alla fine del 1924lo studio­


so marocchino, ormai quasi ottantenne, Makhlouf Am­
sellem (o anche Amsallam), un cabalista che conosceva
e praticava anche l'alchimia e aveva composto da diver­
si testi due grossi codici, uno sulla kabbalah e l'altro
sull'alchimia, che mi fece vedere. Mi riferì di essere sta­
to in gioventù alchimista di corte dello sceriffo del Ma­
rocco. Ho trovato conferma di queste affermazioni
molti anni dopo in un saggio pubblicato nel 1906, Note
sur l'Alchimie à Fez, di G. Salmon, che aveva già visto
questi manoscritti in casa sua, a Fez, nel 1904. Salmon
riferisce che all'inizio degli anni settanta del secolo
scorso Amsellem era stato alchimista di corte del sulta­
no Mulai Hassan, che nelle ore di ozio si dedicava allo
studio dell'alchimia, indubbiamente più per scopi ma­
gici e occulti che per trovare la pietra filosofale.104 Se­
condo il racconto di Amsellem, il sultano aveva raccol­
to qualcosa come 2000 manoscritti di argomento alchi­
mistico e voleva entrare in possesso anche di quelli di
Amsellem. I trattati di alchimia che ho potuto vedere
erano arabi ma scritti in caratteri ebraici. Poco prima
della sua morte, Amsellem aveva incominciato a pub­
blicare i suoi trattati cabalistico-alchimistici, ma morì
nel 1927 dopo aver dato alle stampe soltanto l'intro­
duzione (che posseggo). Non ho potuto stabilire con
certezza dove siano finiti i manoscritti.

char>> ), che non indica le fonti. Probabilmente il racconto si trovava nella


terza o quarta parte dell'opera di J.S. Semmler, Unparteirche Sammlungen
zur Historie der Rosenkreuzer, Halle 1788, di cui ho potuto vedere soltanto i
primi due fascicoli, ma di cui si sa che era dedicata anche a questo problema
dell'alchimia.
"" G. Salmon negli << Archives Marocaines>> , vol. VII (1906), pp. 451- 462.
Ruben Brainin ha riferito di una sua visita ad Amsellem nel 1 926 nella rivi­
sta jiddish pubblicata a Londra <<Yidishe Shtime>> (1926), n. 2162. Questo
articolo era precedentemente apparso anche nel <<Tag>> di New York.
PARTE SECONDA
Sull'interesse tra gli ebrei italiani per l'alchimia, an­
che senza connessione alcuna con la kabbalah, abbia­
mo numerose testimonianze. Il poeta Moshe Rieti (xv
secolo) menziona l'alchimia nel suo poema didascali­
co Miqdash m'at (p. 20) fra le prime nell'enumerazio­
ne delle scienze, definendola con il nome ebraico di
chokhmat ha-tzeri/a, che non ho trovato da nessun'altra
parte nella letteratura medioevale. Egli non stabilisce
alcuna connessione tra l'alchimia e la kabbalah, di cui
avrebbe ampiamente scritto negli anni successivi.' Alla
fine del xv secolo, Jaaqov ben David Provenzali espri­
meva il suo entusiasmo per l'alchimia in una missiva in­
viata allo studioso mantovano David ben Jehuda Mes­
ser Leon, che conteneva una laudatio in favore dello
studio delle scienze profane; la missiva fu probabilmen­
te scritta a Napoli nel 1490, poco prima dell'espulsione
degli ebrei dalla Sicilia, che allora era spagnola. Note­
vole in questo scritto è il fatto che nella quasi totalità le
citazioni sono falsificate, poiché evidentemente l'autore
volle divertirsi. 2 L'autore inventa le più incredibili cita­
zioni del Talmud palestinese, tra cui anche il seguente
passo sull'alchimia da un presunto commento di rabbi
Asher, il famoso talmudista vissuto nel XIV secolo a To­
ledo, al trattato Sheqalim. A proposito di Ecclesiaste 7,
12: «la saggezza tiene in vita chi la possiede», viene at­
tribuita a rabbi Asher la seguente osservazione:

' Anche senza fare riferimento alcuno alla kabbalah, l'autore provenzale
Kalonymus ben Kalonymus (xm secolo) celebra coloro che abbiano cono·
scenze, tra l'altro, di alchimia; vedi la traduzione tedesca di Julius Lands·
berger delle 'lggeret ba'ale chajim, Darmstadt 1882, p. 265.
' Il primo a evidenziare che queste citazioni sono false è stato Steinsch­
neider nel suo catalogo dei libri ebraici della Bodleiana, col. 1248. Cfr. an·
che J.N. Epstein nella rivista ebraica «Hamaggid>> (1902), pp. 360 e 384.
Victor Aptowitzer in MGWJ, p ( 1908), p. 315 definisce l'autore di questo
scritto un lestofante, la qual cosa potrebbe non esser molto lontana dal vero.
6o SCHOLEM

Ciò è come nel caso dei ricchi della casa di marqo'aja [let­
teralmente: «la casa degli stracci! »], che conoscevano a me­
nadito la natura dei succhi dei vari tipi d'oro e sapevano co­
me sbucciare l'argento dalle scorie.

Il presunto commentatore conosce il senso della cita­


zione inventata alla perfezione:

In questa famiglia erano tutti alchimisti e facevano colare


i succhi di diverse erbe e da essi ricavavano l'oro. Inoltre sa­
pevano separare con facilità le scorie dall'argento. E questa è
una scienza ben nota. Ma non volevano che fossero note le
erbe i cui succhi facevano scorrere, ricavandone oro.3

Che l'autore parlando di erbe intendesse semplicemen­


te le sostanze che ricorrono nei processi alchemici, mi
sembra escluso dall'ultima frase. Anche nel prosieguo
della sua lettera Provenzali elogia l'alta posizione del­
l' alchimia nel novero delle scienze naturali.4 Dall'Italia
proviene anche un manoscritto ebraico, databile intor­
no al XVI secolo, ora a Oxford (Neubauer n. 1959, ff.
132-149), contenente un Libro dell'arte spagirica- una
delle definizioni correnti dell'alchimia.
Diverse fonti citano un alchimista ebreo chiamato
rabbi Mordechaj de Nello (secondo un'altra indicazio­
ne, de Nelle, poi deformato in de Delle) , che veniva
dalla contea di Milano, benché notizie sulla sua vita ci
giungano soltanto da Germania, Polonia e Boemia.
Che abbia soggiornato a lungo in questi paesi si deduce
dal fatto che non solo scriveva in tedesco ma in questa
lingua forgiò anche numerosi versi, peraltro goffi. La

' Il testo ebraico della lettera è stato pubblicato da Eliezer Ashkenazi (dal
Cod. Parigi 897) nel volume collettaneo Divre chakhamim, ed. Metz I 849,
pp. 63-75. Il nostro brano è a p. 68. Avraham Chamoj lo ha riportato senza
citazione delle fonti in uno dei suoi volumi; cfr. Nifla'im ma'assekha (I 88I),
f. 24b. Cfr. in proposito anche Immanuel Loew, Die Flora der Juden, vol. IV,
p. 402. Le molte citazioni false, che Provenza( i trae dal Talmud palestinese,
imitano lo specifico aramaico di questa opera con una grande quantità di er·
rori. La paradossale ironia nella frase <<i ricchi della famiglia degli straccio­
ni >> è voluta. Il termine leva' nel senso di <<natura», in uso soltanto a partire
dal Medioevo, tradisce il falsario. Evidentemente l'autore conosceva anche
le credenze sulle piante capaci di trasmutare i metalli.
< Divre chakhamim, p. 70.
ALCHIMIA E KABBALAH 61

sequenza dei luoghi in cui fu attivo non è del tutto chia­


ra; è conosciuto come seguace di Paracelso attraverso il
manoscritto identificato da Karl Sudhoff a Kassel, inti­
tolato In Cementa et Gradationes Theophrasti Paracelsi
Interpretatio Mordachij de Nelle ]udaeo. Peuckert ha
presentato (da questa stessa fonte?) una sua poesia, sa­
rebbe forse preferibile definirlo un detto, in lode di Sa­
lamon Trismosin, il presunto maestro di Paracelso, di
tenore indubbiamente mistico:

Studier nun daraus du bist,


So wirstu sehen was du bist,
Was du studierst, lehrnest und bist,
Das ist eben darauss du bist,
Alles was ausser unsser ist,
lst auch in unss, Amen.5

Sotto, l'indicazione, che rimanda alla Polonia: «Mar­


docheus Nelle, Judaeus, wonnedt [sic] zu Crakkauw in
Pollenn anno 1573 » (Mardocheus Nelle, Judaeus, abi­
tante a Cracovia in Polonia anno 1573). Prima o forse
dopo questo soggiorno in Polonia, lo troviamo come
alchimista a Dresda alla corte del principe elettore di
Sassonia Augusto I. Questo principe, che governò dal
I 553 al I 5 86, era un cultore appassionato di alchimia,
egli stesso «operava» e aveva fatto costruire a Dresda
un grandioso laboratorio, la «Casa d'oro». Nell'archi­
vio di Dresda è conservato uno scritto, in una copia
del 1779 ma indubbiamente autentico, che tratta della
produzione del «metallo rosso-oro», vale a dire la
tinctura rubea degli alchimisti, e contiene anche profe­
zie sul destino dei suoi successori. In margine al mano­
scritto originale il principe doveva aver scritto di pro­
pna mano:

Le Opere e i Lavori di Mardochai rabbi de Nelle qui de­


scritti sul metallo rosso-oro sono stati realmente trovati da

' «Studia ora da che cosa sei, l Così vedrai che cosa sei, l Che cosa studi,
impari e sei, l Ciò è appunto da che cosa sei, l Tutto ciò che è al di fuori di
noi, l È anche in noi, Amen>> .
SCHOLEM

noi, e per l'intero lavoro, dall'inizio alla fine, sono state im­
piegate quarantun settimane. Augusto.6

Dalla Sassonia Mordechaj dev'essere poi giunto a Pra­


ga alla corte dell'imperatore Rodolfo II (I576-I612),
protettore ancora più insigne dell'alchimia e di altre di­
scipline occulte - al punto di venir chiamato dagli al­
chimisti «l'Ermete Trismegisto tedesco». Anche qui
compose versi, sulla tragica fine di un famoso alchimi­
sta della generazione precedente.7 Queste notizie non
contengono nessun accenno a un qualche riferimento
da parte di questo adepto a fonti ebraiche, né tantome­
no alla kabbalah.
Un altro autore di cui abbiamo una documentazione
storica ineccepibile è Avraham Portaleone da Mantova,
che nel I583 scrisse in latino i Tre dialoghi sull'oro stam­
pati l'anno successivo a Venezia.8 Egli distingueva tre ti-

' Cfr. per queste citazioni le fonti in K. Sudhoff, Versuch einer Kritik der
Echtheit der Paracelsischen Schrz/ten, vol. n (I 894), p. 7I5, così come Wiii­
Erich Peuckert, Pansophie, ein Versuch zur Geschichte der wei/Sen und
schwarzen Magie, Stuttgart I936, p. p8. Sul manoscritto di Dresda si riferi­
sce in un articolo pubblicato nella «AIIgemeine Zeitung des Judentums >>,
45 (I88!), p. 262. Sul principe elettore Augusto I e i suoi alchimisti di corte,
vedi Karl Kiesewetter, Die Geheimwissenscha/ten, Leipzig 1895. pp. I02-
I I2. Nella seconda edizione di questo libro, uscita nel I909, che contraria­
mente a quanto assicura l'editore R. Blum è completamente diversa dalla
prima, tutte le citazioni riportate non sono più presenti.
7 Secondo Kiesewetter, p. 96 (che attingeva sicuramente da Schmieder,
Geschichte der Alchemie, I8J2), de Nelle, che prima nelle fonti veniva defini­
to espressamente come rabbi e come ebreo, doveva essersi fatto battezzare a
Praga. Per incarico dell'imprenditore, che faceva trascrivere in un in folio
latino tutti gli esperimenti e i procedimenti alchimistici fatti a corte, de Nel­
le (qui sempre de Delle) doveva porre in rima tutte le storie degli adepti, che
venivano aggiunte alla descrizione principale degli esperimenti. Kiesewetter
cita, da Johann Conrad Creiling, Edelgeborene Jungfrau Alchymia, Tiibin­
gen I730 (p. Ioo), i versi composti da de Nelle sull'avventurosa carriera del­
l'alchimista inglese Edward Kelley alla corte di Rodolfo II, dove morì, dopo
un tentativo di fuga dal carcere in cui era stato rinchiuso, nel I595· Il fatto
che Kiesewetter parli sempre di de Nelle, anche per il periodo in cui egli vis­
se alla corte di Rodolfo II, usando il suo nome ebraico Mordechaj, difficil­
mente si concilia con la notizia del suo battesimo. All'epoca, al momento del
battesimo i neofiti prendevano sempre un nuovo nome, un nome cristiano.
Non trovo un modo di spiegare questa contraddizione.
' De auro tres dialogi. Non avendo potuto vedere personalmente questo
libro, uso le citazioni che si trovano in Lynn Thorndike, A History o/ Magie
and Experimental Science, vol. v (I94I), p. 645.
ALCHIMIA E KABBALAH

pi di oro: L l'oro volgare; 2.l'oro chimico; 3.l'oro di­


vino: esclusivamente di quest'ultimo parlavano i cabali­
sti nei loro scritti.9 Interpretava dunque ancora corret­
tamente i loro simboli? In ogni caso non approfondisce
l'aspetto cabalistico del suo argomento, per quanto mi
è dato di sapere (non ho visto direttamente il testo). Ne­
gli stessi anni anche lo studioso ebreo Avraham Jaghel,
in seguito convertitosi al cattolicesimo con il nome di
Camillo Jaghel e divenuto attivo come censore, si inte­
ressava, pur senza essere egli stesso un profondo cono­
scitore di cose cabalistiche, dei rapporti tra kabbalah e
alchimia.10 Egli si richiamava fra l'altro anche agli scrit­
ti precedentemente menzionati di Abu Afla}:l, che era
anche ampiamente citato nel manoscritto collettaneo
del cabalista filosofeggiante, o filosofo cabalisteggiante,
Jochanan Allemanno, un contemporaneo e conoscente
di Pico della Mirandola. u
Degno di esser menzionato è infine l'interesse per
l'alchimia nel corso di tre generazioni di una famosa fa­
miglia di ebrei italiani. Jehuda Arjeh de Modena, cono­
sciuto nei suoi scritti italiani come Leone Modena, era
una delle figure più celebri di quell'epoca; sulla sua vi­
ta ricca di contrasti ci informa l'autobiografia insolita­
mente sincera, quasi spietata, documento insolito nella
letteratura ebraica. Modena era un oppositore della
kabbalah. Già suo zio Shemaja (fine del XVI secolo),
che aveva un banco di pegni a Modena, si era interessa­
to di alchimia, e ciò gli era costato la vita. Infatti un cri­
stiano, allettandolo con inganni e promesse concernen­
ti l'alchimia, gli aveva fatto tirar fuori tutto l'oro e

' A p. 96 del libro di Portaleone.


10
Così nel libro di A. Jaghel Bet ja'ar levanon; I. S. Reggio ha pubblicato
alcuni estratti dal manoscritto in «Kerem Chemed», II (I8J6), pp. 49-50.
" Allemanno si interessava non soltanto di kabbalah, ma anche di ogni
altra scienza occulta, come testimoniano le sue collettanee, ms. Oxford,
Neubauer n. 2234. Egli assomiglia in questo ai contemporanei umanisti del­
la cerchia di Marsilio Ficino a Firenze, con cui del resto aveva intensi rap­
porti e da cui era tenuto in grande stima. Sull'alchimia come vera scienza,
vedi l'introduzione stampata nel suo grande commento al Cantico dei Can­
tici, Sha'ar hachesheq, Halberstadt 186o, f. 36b, e le notizie contenute nelle
collettanee in « Kerem Chemed », II, cit., p. 48.
SCHOLEM

l'argento custoditi nella bottega per poi ucciderlo e de­


rubarlo di tutto. 12 Lo stesso Leone Modena (nato nel
1 571) si lasciò condurre sulla strada pericolosa dell'al­
chimia nel 1603 dal medico Avraham de Cammeo di
Roma, che dodici anni dopo sarebbe divenuto rabbino
di quella comunità. Nell'alchimia, secondo quanto egli
stesso afferma, mise molto del suo denaro. Ma anche il
figlio primogenito di Leone, Mordechaj, il suo predilet­
to, verso la fine del 1614 incominciò a trascurare lo stu­
dio della Torah per dedicarsi completamente all'alchi­
mia, che praticava insieme a un coltissimo prete cattoli­
co di Venezia, Giuseppe Grillo. Scrive Leone Modena:

Divenne così sapiente che i maestri di quella scienza, dive­


nuti in essa vecchi e grigi, si meravigliavano che un giovane
come lui avesse potuto raggiungere una così profonda cono­
scenza. Nel mese di maggio del 1615 si trasferì in una casa nel
ghetto vecchio e provvide egli stesso a tutti i preparativi ne­
cessari per l'«Opera» e ripeté quindi un esperimento che ave­
va imparato e sperimentato a casa del prete, ossia trarre dieci
once di argento puro da nove once di piombo e un'oncia di ar­
gento. E io ho osservato e controllato personalmente com'egli
eseguiva questo esperimento e ho venduto l'argento [così ot­
tenuto] per sei lire e mezzo all'oncia e so che era autentico.
Naturalmente era un lavoro lungo e faticoso, che richiedeva
ogni volta due mesi e mezzo. Facendo i conti, si sarebbero po­
tuti guadagnare in tal modo circa mille ducati all'anno. Ma
questo non è tutto, e anch'io ho rovinato la mia vita con lo stu­
dio di simili cose. Non avrei riconosciuto il mio errore [in
ebraico letteralmente: «non avrei ingannato me stesso)) , che
nel contesto sarebbe incomprensibile], se improvvisamente,
durante la festa di sukkot nell'autunno del 1615, a causa di
questo suo peccato non avesse incominciato a riversarsi mol­
to sangue dalla testa nella bocca. Da allora smise di occuparsi
di quest'arte, perché si disse che forse erano stati i vapori e le
esalazioni dell'arsenico e del sale, utilizzati in quest'«Opera)),
a danneggiargli la testa, e così rimase per due anni, fino alla sua
morte, occupandosi ormai solo di cose senza importanza.n

12
Cfr. MGWJ, 38 ( 1894), p. 42 e l'autobiografia di Modena, Cha;j'e ]ehuda,
Kyiv 1911, p. 12.
" È quanto afferma Io stesso Modena nella sua autobiografia, p. 30 (anno
1603) e p. 34 (anno 1614). Una lettera di Modena ad Avraham Cammeo sul-
ALCHIMIA E KABBALAH

Ho riportato integralmente il racconto di Leone Mo­


dena, perché la descrizione dell'esperimento alchimi­
stico di suo figlio potrebbe essere in relazione con un
altro, di cui parleremo, realizzato da un certo rabbi
Mordechaj e che ha anch'esso come oggetto la produ­
zione di argento mediante l'arsenico.
Sempre a riguardo degli interessi alchimistici tra gli
ebrei italiani va considerato il problema che ci vien po­
sto da un testo di carattere alchimistico-cabalistico, il
cui originale non possediamo, che ha svolto un ruolo
significativo nella letteratura alchimistica tJOn ebraica
da Christian Knorr von Rosenroth in poi. E importan­
te, per le nostre considerazioni, approfondire questo
problema. Nella sua Bibliotheca Hebraea, vol. n, Ham­
burg 1721, p. 1265, Johann Christian Wolf menziona,
unico tra i bibliografi, 14 un libro alchimistico, l'Es h
Metzaref, titolo da lui erroneamente tradotto con ignis
purgans, «il fuoco purificante», invece di ignis purgan­
tis, come ricorre in Malachia 3, 2, dove questo «fuoco
del fonditore d'oro» è paragonato al «giorno del Si­
gnore». Come fonte Wolf cita un saggio di Dethlev
Cluver - un autore assolutamente ostile all'alchimia -,
che ne avrebbe trattato nelle sue Historische Anmerck­
ungen uber die nutzlichsten Sachen der Welt (Osserva­
zioni storiche sulle cose più utili del mondo, 1706), pp.
172 sgg. Ho potuto esaminare questo raro testo soltan­
to nel 1979 a Berlino. Alle pagine 172- 175 sono riporta­
ti alcuni estratti dal libro di Knorr von Rosenroth su
cui subito torneremo. Già il titolo del saggio di Cluver,
Die guldene Cabala der Juden l wie nach Anweisung der
Sefiroth die Verwandlung der Metallen geschehen musse,
um Gold und Silber herauszubringen (La kabbalah
d'oro degli ebrei l come secondo le indicazioni delle se­
firot debba avvenire la trasmutazione dei metalli, per
estrarre oro e argento), non corrisponde in modo esat­
to al reale contenuto del libro, in cui le dieci sefirot

la magia, scritta nel 1605, è stata pubblicata in Ludwig Blau, Leo Modenas
Brie/e und Schri/tstucke (1907), pp. 83-84.
" Nemmeno M. Gaster è a conoscenza di questo testo nel suo articolo
« Alchemy »
per la prima Jewish Encyclopedia.
66 SCHOLEM

hanno solo un ruolo simbolico nella serie di corrispon­


denze con i metalli, ma non vengono usate direttamen­
te per fabbricare l'oro. Cluver sostiene inoltre che gli
ebrei stimavano a tal punto questo libro da ritenere che
nessun cristiano fosse degno di conoscerne il contenu­
to, e a testimonianza di ciò riferisce di un «insolente
ebreo» che «ancora di recente» si sarebbe «espresso,
qui alla borsa» (ad Amburgo quindi, dove Cluver scri­
veva), in tal senso. Pura mitologia, se si considera che
lo stesso Cluver doveva tutte le sue conoscenze proprio
a una fonte cristiana.
Christian Knorr von Rosenroth stupì il mondo cri­
stiano annunciando sul frontespizio del primo volume
della sua Kabbala Denudata, pubblicato a Sulzbach nel
1677, che esso conteneva tra l'altro anche un «compen­
dio del libro cabalistico-alchimistico Aesch Mezareph
sulla pietra filosofale», ciò che comprensibilmente
avrebbe acceso la curiosità dei cultori dell'alchimia. 1'
Hermann Kopp, l'unico vero storico dell'alchimia, a
cui questo libro ha presentato non pochi problemi,
scrive16 di aver cercato a lungo, senza alcun risultato, il
libro nella prima parte della Kabbala Denudata. L'insi­
gne studioso ha però cercato male, e ha trovato una fal­
sa consolazione interpretando in modo erroneo una
nota esatta nell'opera alchimistica Kompass der Wei­
sen,17 concludendone che il libro era stato combinato
con lo Zohar e reso così irriconoscibile. In realtà le ven­
ti ampie citazioni, tratte dai capitoli I-VIII di questo
scritto e tradotte generalmente alla lettera, sono chiara-

" Compendium Libri Cabbalirtico-Chymicz; Aesch Mezareph dicti, de La­


pide Philosophico.
16
H. Kopp, Die Alchemie in iilterer und neuerer Zeit, vol. n, Heidelberg
r886, p. 2JJ. Citando da Kompass der Weisen, pp. 318 sgg., lo scritto alchi­
mistico pubblicato nel 1782, Kopp afferma che a detta dell'autore fra tutti i
libri di alchimia l'Esh Metzaref sarebbe quello scritto nel modo più chiaro,
«anche se non si deve immaginare di trovarvi tutto così chiaro, così perfet­
to e con tutti i sostegni che si desidererebbero >>.
17 Kopp riferisce anche che questo trattato non si trova integro in Knorr,
ma che « bisogna cercarlo smembrato neii'Alphabeto H ebraico [il lessico dei
simboli]>>. L'aggiunta malinconico-ironica di Kopp: «e da ciò ho dovuto de­
sistere >> è stata talvolta fraintesa nel senso che il libro non esisterebbe affat­
to e tutto sarebbe un bluff rosacrociano di Knorr.
68 SCHOLEM

jesod è il mercurio, perché questo è il /undamentum


totius artis transmutatoriae, presuppongono un testo
ebraico. L'autore conosceva il Talmud e comprendeva il
latino, come mostra il tentativo di spiegazione, sulla ba­
se del commento di Rashi al passo relativo, della parola
aspirkha (in b. Gittin 69 b) con mercurio, perché è tan­
to quanto aqua sphaerica quia e sphaera mundana pro­
flui!. Sphaerica con afe/ prostetico corrisponderebbe
certo a questa forma ebraica, sempre che si sorvoli sul­
la confusione tra le consonanti ka/ e qof, frequente in
ebraico quando si tratta di parole straniere. L'interpre­
tazione è quindi giusta, anche se si basa su una lezione
errata.20
Ancor più chiaramente testimonia del carattere di
questo testo il suo stesso contenuto. Il primo capitolo
comprendeva evidentemente un'introduzione, di cui è
citato il brano principale; i capitoli dal secondo all'ot­
tavo lasciano chiaramente trasparire la sequenza in cui
erano disposti. Il testo era ordinato - nei capitoli che
abbiamo a disposizione, ma non è chiaro se ve ne fosse­
ro altri - secondo i metalli, e più esattamente nella se­
quenza oro, argento, ferro, stagno, rame, piombo, mer­
curio e zolfo. Tre tipi di contenuto lo compongono: un
contenuto puramente cabalistico, che riguarda il sim­
bolismo mistico dei metalli nella loro connessione con
le sefìrot, citando, si noti, lo Zohar non più di una volta;
un contenuto puramente chimico, che in sostanza de­
scrive singole operazioni e processi, senza alcun rap­
porto con le altre parti del testo; e infine, come a con­
cludere ogni capitolo, una parte astrologica che descri­
ve gli amuleti planetari corrispondenti ai vari metalli, e
fornisce materiale rilevante per l'indagine sulle origini
di tale scritto. Quest'ultima parte è collegata alla prima

usa il verbo in questa accezione. Aloys Wiener (di Sonnenfels) nelle parti in
ebraico del suo Splendor Lucis, Wien 1744, usa il verbo shinnah per « egli
trasmutÒ>> (ad es. p. 1 07). Allo stesso modo Knorr ha usato alterare nel fron­
tespizio della sua opera e nella spiegazione in versi.
'" La lezione con la consonante resh, che è antica e si trova anche nel ma­
noscritto talmudico Monaco Hebr. 95, è erronea: essa è dovuta a un'altera­
zione dell'originale consonante da/et, che è graficamente molto simile. La
forma corretta sarebbe aspedikha.
ALCHIMIA E KABBALAH

in modo più o meno felice, anzi piuttosto infelice, ap­


plicando in modo indiscriminato il metodo della gema­
tria (mistica dei numeri).
Nell'introduzione si parla di Eliseo, il discepolo del
profeta Elia, come di « un modello della scienza natura­
le e un dispregiatore delle ricchezze ». Questo tema I,
pp. I I 7 e I 5 I, è tratto dall'interpretazione di un episo­
dio (la guarigione di Naaman) in 2 Re, cap. v. Segue una
breve sintesi di ciò che nei singoli capitoli verrà tratta­
to più ampiamente. In Knorr (I, pp. II6-II 8) si legge:

Sappi però che i misteri di questa saggezza [chimica] non


sono estranei [oppure non sono lontani] ai più alti misteri
della kabbalah. Ciò che è il fondamento delle categorie
[praedicamenta] nella [parte della] santità lo è anche nell'im­
purità. E ciò che le sefirot sono nella [nel mondo più alto
della] 'atzilut, esse lo sono anche nella [nel mondo più basso
della] 'assijah, persino in quello dei suoi regni che è detto co­
munemente minerale, per quanto più grande possa essere la
loro dignità [excellentia] nelle [regioni] superiori. Il luogo di
[della prima sefirah] Keter è preso qui dalla radix metallica,
che la natura tiene profondamente nascosta e occultata tra
profonde tenebre e da cui derivano tutti i metalli. Così è na­
scosto anche Keter e da essa emanano tutte le rimanenti sefi­
rot. Il luogo di Chokhmah l'ha il piombo, perché esso - così
come Chokhmah si trova più vicina di tutte le altre alla sefi­
rah Keter - procede direttamente dalla radix metallica; e in
altre simili rappresentazioni allegoriche [aenigmatibus] è
detto [così come Chokhmah] il« padre» delle materie [natu­
rae] seguenti.21 Il luogo di Binah è occupato dallo stagno,
che per il suo colore bianco-grigio, simile ai capelli dei vec­
chi, e per il suo stridere22 indica il rigore e il giudizio. A Che­
sed viene riferito da tutti i maestri della kabbalah l'argento,
per via soprattutto del suo colore squisito e del suo impiego.
Ad esso si addicono anche le materie bianche. Seguono quel­
le rosse. E appunto sotto Gevurah, stando all'opinione più
diffusa tra i cabalisti, è localizzato l'oro, che secondo Giobbe

21
Qui dunque il piombo sembra essere usato come uno dei simboli per la
prima materia.
" Lo stridere compare come simbolo del rigore già nel Bahir, § 28 , in un
simbolismo delle vocali. Qui viene applicato al cosiddetto « grido dello sta­
gno », che ricorre anche nel libro di alchimia menzionato nel primo capito­
lo, lo 'Em ha-melekh, f. 3 b.
SCHOLEM

37, 22 è riferito anche al Nord, non tanto a causa del suo co­
lore, quanto piuttosto del suo calore e del suo zolfo. A Tif'e­
ret è riferito il ferro, che sulla base di Salmi 2, I 2 è detto an­
che ze'ir 'anpin (l'intransigente).23 Netzach e Hod sono il
luogo dell'androgino rame, così come anche le due colonne
nel tempio di Salomone vengono riferite a questi due modi e
di fatto secondo r Re 7, I 5 erano di bronzo. Jesod è l'argento
vivo; a questa sefirah è dovuto il soprannome chaj, «viven­
te», in modo particolare.24 A Malkhut, infine, viene riferita la
«medicina dei metalli» [cfr. in proposito oltre], per moltissi­
mi motivi, ad esempio perché rappresenta le due nature at­
traverso la metamorfosi dell'oro o dell'argento, della parte
destra o della sinistra, del giudizio o della misericordia. Di
tutto ciò è trattato in un altro luogo [di questo libro?] più
profusamente. Così ti ho trasmesso la chiave per aprire gran
parte delle porte che sono chiuse, e ho aperto la porta ai più
riposti santuari della natura.25 Se però qualcuno volesse ri­
partire diversamente questo ordinamento, non mi troverei
affatto in contraddizione con lui, perché tutto mira comun­
que solo a Uno. Si potrebbe dire che le tre [sefirot] superiori
sono l'acqua sorgiva delle coste metalliche. L'«acqua spes­
sa» [la prima materia] è Keter, il sale Chokhmah, lo zolfo Bi­
nah, e le sette [sefirot] inferiori rappresentano i sette metalli,
cioè: Gedulah [Chesed] e Gevurah, argento e oro; Tif'eret,
ferro; Netzach e Hod, stagno e rame; Jesod, piombo e
Malkhut sarebbe [in tale sistema] il femminile dei metalli e la
«luna dei saggi», e parimenti il campo in cui viene gettata la
semente dei minerali segreti e, lo si comprende, l'acqua au­
rea, così come questo nome appare di fatto in Genesi 36, 39·
Ma sappi, figlio mio, che qui tali misteri sono nascosti, che

" Questo è un simbolismo comune nello Zohar, soprattutto nelle due


'idra. Quello che i cabalisti cristiani traducevano erroneamente come ma­
cro-antropo, il « grande uomo primordiale>> , nel testo originale dello Zohar
significava piuttosto il « longanime >>, la sefirah più alta, in cui non esistono
le forze del rigore. Forze che compaiono invece nell'« intransigente>> .
" Nella kabbalah, soprattutto in J osef Gikatilla, il nome divino biblico El
chaj viene riferito a jesod. Nello Zohar e in Gikatilla l'argento vivo, in ebrai­
co kesefchaj, non compare; anche Virai invece spiega questa relazione tra
l'argento vivo ejesod, come abbiamo visto sopra, nota 95 di p. 53·
" Ritrovo una fraseologia del tutto simile nel libro scritto nel r65o da
Thomas Vaughan, Magia Adamica, quasi alla fine: « Se tu conosci la prima
materia, hai scoperto il santuario della natura; apri la sua porta >> (nella tra­
duzione tedesca, Leipzig 173 5 , p. 1 5 5 , la frase suona non molto diversamen­
te: « Non c'è nulla tra te e i suoi tesori, se non la porta, che in verità deve es­
sere aperta>>).
ALCHIMIA E KABBALAH 71

nessuna lingua umana può pronunciarli. E io non voglio ol­


tre [come è scritto in Salmi 39, 2] «peccare con la mia lin­
gua, ma porrò un freno alla mia bocca».

Mi sembra che, oltre a questo passo, non manchi mol­


to dell'introduzione, ed effettivamente si conclude con
una formula di chiusura. A proposito di questa lunga ci­
tazione sono opportune alcune osservazioni. Strano, e
difficilmente adattabile sia a una qualche simbologia re­
lativa alle sefirot tra quelle conosciute, sia a una sequen­
za dei metalli di tipo alchimistico, è il primo schema, in
cui regna una certa confusione. Che le sefirot superiori
comprendano anche piombo e stagno risulta partico­
larmente artificioso e da un punto di vista cabalistico
inconcepibile. La penultima sefirah,jesod, è qui il mer­
curio inteso come metallo, nell'aspetto maschile del
simbolismo sessuale. Ciò corrisponde effettivamente ad
alcune fonti, da me già citate.26 Non meno strana è
l' affermazione della natura androgina del rame, di cui
non ho trovato alcuna traccia nella letteratura alchimi­
stica, per quanto si potrebbe spiegare con il simbolismo
delle due colonne del tempio di Salomone. Quanto alla
« medicina dei metalli », essa è uno dei nomi dati dagli
alchimisti alla pietra filosofale o dei sapienti, evidente­
mente per il fatto che aveva la forza di trasmutare i me­
talli malati, ossia vili, in sani, ossia nobili.27 Nel secondo

26
Cfr. sopra, nota 96, a p. 5 3 .
27 Cfr. Silberer, p. 7 5 . Questo termine viene usato nella letteratura ebraica
già nel xv secolo da Shimon b en Tzemach Duran, nel suo Magen avot, Li­
vorno 178 5 , f. 1o a. Un altro simbolismo impiegato dall'Esh Metzare/ per
malkhut è il « Mar Rosso >>, da cui viene ricavato il sale filosofale, sal sapien­
tiae, e che è percorso dalle navi di Salomone che trasportano l 'oro (in Knorr,
I, p. 346). Ma la « medicina dei metalli >> potrebbe ugualmente significare la
prima materia, che infatti costituisce il materiale da cui si ricavano le tinture
necessarie per guarire i metalli, cioè per farne metalli nobili. (L'espressione
« pietra dei sapienti >> non compare mai nei compendi di Knorr.) In questo
passo l'autore definisce come << mistero >> il fatto che la medicina dei metalli
rappresenti la sfera più bassa, mentre i) piombo- considerato in genere co­
me il più vile d ei metalli- rappresenta chokhmah, la sefirah più alta dopo ke­
ter. Ciò potrebbe essere in conn essione con la già menzionata sequenza ca­
povolta, come in uno specchio, nel nostro mondo rispetto al mondo supe­
riore. Ma è difficile fissare qui una chiara gerarchia dei metalli corrispon­
dente all'ordine delle sefirot, e tutti gli elementi si combinano piuttosto alla
rinfusa.
SCHOLEM

schema, che si presenta con maggior chiarezza, v'è una


contraddizione laddove malkhut viene descritta con
simboli che appartengono notoriamente alla prima ma­
teria. Nell'ottavo capitolo (citato in Knorr I, p. 456) la
luna dei sapienti viene espressamente denominata come
la materia operis. Al tempo stesso la luna viene definita
« come una medicina che conduce al bianco ». Questo
secondo schema è interessante soprattutto da due pun­
ti di vista. La distinzione fra le tre sefirot superiori, che
non sarebbero metalli, ma l'acqua sorgiva delle cose
metalliche, e le sette sefirot inferiori, che rappresentano
realmente i sei metalli e la materia prima, potrebbe di­
mostrare che l' autore era già influenzato dall'innovazio­
ne introdotta da Paracelso per cui anche il sale, accan­
to a mercurio e zolfo, costituiva un elemento fonda­
mentale, qui detto acqua sorgiva, di tutti i metalli.
Nel XVI e xvn secolo « acqua spessa » era un nome del
mercurio, ossia dell'argento vivo, ma talvolta indicava
anche il caos o la materia prima, che ovviamente può si­
gnificare la stessa cosa. Rimane oscuro come l'autore im­
maginasse i rapporti tra l'ultima sefirah, così inequivoca­
bilmente connessa con la materia prima dell'alchimia, e
la prima, che appartiene alle acque sorgive dei metalli.28
La seconda cosa notevole in questo schema è la biz­
zarra interpretazione di Genesi 36, 39 come purificazio­
ne del mercurio. Questo versetto, che chiude l'enume­
razione dei re edomiti (quelli che avevano dominato
Edom prima degli israeliti) nominando la sposa dell'ul-

" Particolarmente nelle opere del teosofo inglese Thomas Vaughan, che
scriveva sotto lo pseudonimo di Eugenius Philalethes, si trovano lunghe de­
scrizioni sull'equiparazione della prima materia con il caos e con il mercu·
rio, così come con l'« acqua spessa », ad esempio nella Magia Adamica del
1650 e nel Lumen de Lumine del 16p. Non ho potuto stabilire se queste
simbologie si trovino già nel libro dell'alchimista tedesco H einrich Khun·
rath sul caos ilico, pubblicato nel 1 5 97. Un altro concetto dell' Esh Metzare/
che sicuramente non deriva da fonti ebraiche, ma che è del tutto estraneo
anche alla concezione di Pico della Mirandola, è quello di kabbala naturalis
(in Knorr, 1, p. 441), che si trova invece anche nella Magia Adamica di Vau·
ghan. Suppongo che questo concetto abbia origine in Paracelso, dai cui
scritti l'autore ebreo dell'Esh Metzare/ potrebbe aver mutuato anche il con·
cetto del leone verde ( per cui egli usa il termine ebraico gur, cioè « giovane
leone>>), un concetto comune tra gli alchimisti del XVI e xvn secolo, per de·
finire la« materia della medicina dei metalli >>, cioè la prima materia.
ALCHIMIA E KABBALAH 73

timo di questi re, ha nella kabbalah una lunga e alquan­


to strana storia, su cui non possiamo qui soffermarci.29
Il passo suona così: « Poi morì [il re] Ba al Chanan [ . . . ]
e regnò al suo posto Adar, e il nome della sua città [era]
Pau e il nome di sua moglie Meetabel, figlia di Matred,
figlia di Me-zahav ». L'ultimo nome, Me-zahav, letteral­
mente « acqua aurea », come secondo nome del padre,
suggeriva già anticamente un'interpretazione alchimi­
stica. Ne fa menzione, per respingerla, Avraham ibn
Ezra (xn secolo), nel suo commento a questo versetto:
« Alcuni vedono qui un 'allusione a coloro che produ­
cono l'oro dal rame, e queste sono vuote chiacchiere ».
Nel 1400 me-zahav veniva realmente usato in ebraico
come l'equivalente alchemico dell'acqua aurea.30
Oltre all'autore dell'Esh Metzaref, anche lo studioso
ebreo Benjamin Mussafia, un medico e filologo allora

" Nello Zohar, I, 1 4 5 b si dice che rabbi Jochan an ben Zakkai avesse dato
di questo versetto ben 300 interpretazioni cabalistiche; lo stesso si dice an­
che nel midrash ha-ne'elam, in Zohar Chadash, ff_ 6 d -7 a. Una simile inter­
pretazione mistica si trova nella 'Idra rabba, in Zohar, m, 1 3 5 b e 142a, e
proprio questa interpretazione ha avuto un grande ruolo n ella storia della
kabbalah. Il versetto di Genesi ha ispirato con la palese irrilevanza di quella
osservazione le speculazioni dei mistici. Nell'articolo <<Aichemy>> deii Ency­
'

clopaedia ]udaica, vol. 2, col. 543, B. Suler avanza l'ipotesi- a mio parere as­
sai inverosimile- che il nome di M eetabel forse ricordasse agli alchimisti la
parola greca metabolé per << trasmutazione >>.
10
Questa spiegazion e del nome si è sviluppata a partire da un passo del
midrash Bereshit rabba a Genesi 36, 39 (ed. Theodor, pp. 999-Iooo, par. 8 3 §
4) così come da un passo parallelo nel Targum ]erushalmi, 1, che segue però
una tendenza ancora diversa. << Che mai significano per me oro e argento!>>
avrebbe esclamato il padre divenuto ricco. Ma n el secondo Targum ]erushal­
mi troviamo già che Matred, il padre di Meetabel, era un orafo, poi divenu­
to ricco ecc. Ch e M atred addirittura fosse il primo orefice al mondo lo dice
nel XIII secolo, senza fare riferimento al secondo nome di Me-zahav, il com­
pilatore yemenita del Midrash ha-gadol (ed. Margulies,J erusalem 1 947), 1, p.
6 1 5 . Da questa fonte Natanel ibn Jeshaja, che pure scriveva n ello Yemen,
nell'anno 1 3 27, ha poi sviluppato l'ipotesi che Matred fosse un alchimista;
cfr. il suo scritto arabo Nur a'{.-'{.Ulam (Luce nella tenebra), ed. Josef Kafi):l,
Jerusalem 1 9 5 7, p. r 56. Uno sviluppo affine di questo motivo, riferito però
all'altro nome del padre, Me-zahav, è presupposto n ell'osservazione di
Avraham ibn Ezra. Intorno al 1400 l'interpretazione alchimistica d el nome
come riferito all'« acqua aurea>> era ormai conosciuta anche in Europa, come
dimostra il Melekhet-Me-ha-zahav, il testo, << che rasenta l'alchimia>> , descrit­
to da M. Steinschneider n el suo Verzeichnis der hebriiischen Handschri/ten zu
Ber/in, 1, Berlin 1 878, p. 46. L'affermazione di B. Suler ( 1 928) cheAvraham
ibn Ezra interpreti in senso alchimistico il passo di Esodo 3 2, 20 sul vitello
d'oro ridotto in polvere si fonda in realtà su un equivoco.
74 SCHOLEM

assai noto, pubblicò, nel 1640 ad Amburgo, uno scritto


in latino in lode dell'alchimia, che porta il titolo di Me­
zahab Epistola, e parte proprio dall'interpretazione al­
chimistica di questo versetto in tutti i suoi particolari.
Mezahab sarebbe l'aurum potabile degli alchimisti. L'au­
tore cerca di far derivare l'importanza dell'alchimia per
gli ebrei già dalla Bibbia e così cita piuttosto arbitraria­
mente un gran numero di passi biblici e fonti più tardi­
ve. Egli usa anche l'interpretazione alchimistica della
polverizzazione del vitello d'oro, un motivo amato tra
gli alchimisti cristiani del tempo . 31 Non ho peraltro tro­
vato alcuna connessione con I'Esh Metzare/ L' autore di
questo libro si discosta dal suo stesso schema della re­
lazione tra gli elementi e le sefirot quando è in difficoltà
con il simbolismo. Risulta allora evidente l'estraneità e
l'imbarazzo dell'autore nei confronti del suo materiale.
Egli deve così ascrivere lo stagno anche alla sefirah net­
zach , l'oro in particolare anche a tz/'eret, per poter
mantenere il simbolismo alchimistico del sole e situare
l'oro come la « più perfetta tra le pietre ». Ma, mentre il
sole anche nella kabbalah rimane collegato a questa se­
firah, l'oro è sempre riferito al giudizio. Il simbolismo

" L'insolito scritto di Mussafia è stato stampato e commentato da Johann


Jakob Schudt nelle sue Judische Merckwurdigkeiten, vol. 111, Frankfurt am
Main 1714, pp. 329-339. Lo scritto non contiene alcun materiale alchimisti­
co e il suo scopo era affiancare ai numerosi scritti cristiani di alchimia del
suo tempo un panegirico ebraico dell'alchimia. Un ampio commento ai­
l'Epistola di Mussafia fu pubblicato da Johann Ludwig Hannemann a Fran­
coforte nel 1 694 con il titolo Ovum Hermetico-Paracelsico-Trismegistum, id
est Commentarius Philosophico-Chemico-Medicus in quandam Epistola m Me­
zahab dictum de Auro. Nel luglio del 1927, a Londra ho potuto sfogliare un
esemplare di questo libro di oltre 400 pagine senza trovarvi materiale di
qualche rilevanza per l'alchimia ebraica. In connessione con il motivo pre­
sente in Mussafia del vitello d'oro inteso in senso alchimistico è notevole
uno scritto anonimo che ho visto nel 1938 in America: «Moses Guldenes
Kalb l nebst dem magischen-Astralischen-Philosophischen-absonderlich dem
cabalistischen Feuer l vermittelst welchem letzterem Moses l der Mann
Gottes l dieses giildene Kalb zu Pulver zermalmet l aufs Wasser gestaubet
un d den Kindern Israel zu trinken gegeben » (Il vitello d'oro di Mosè l ac­
compagnato dal Fuoco magico - Australe - Filosofico - e in particolare cabali­
stico l per mezzo del quale Mosè l l'uomo di Dio l ha ridotto in polvere
questo vitello d'oro l l'ha disperso nell'acqua e lo ha dato da bere ai figli
d'Israele), Frankfurt am Main 1723. L'autore non si richiama però allo scrit­
to di Mussafia, ma usa abbondantemente il primo volume della Kabbala De­
nudata, per dare al suo scritto una coloritura cabalistica.
ALCHIMIA E KABBALAH 75

lunare dell' argento, poi, deve essere del tutto tralascia­


to dall'autore, poiché nella kabbalah il simbolismo del­
la luna rappresenta sempre l'ultima sefirah, malkhut, e
non vi è modo di collegarlo con chesed, a cui si riferisce
invece il simbolismo cabalistico dell'argento. Comun­
que sia, nell'intero schema l'oro non occupa affatto un
posto eccessivamente importante, poiché l'autore in
generale si piega al simbolismo cabalistico. Egli non ha
quindi alcun motivo per conferire un rilievo particolare
all'oro, e diviene comprensibile che fra tutte le pratiche
alchemiche ne riporti con precisione soltanto una, che
insegna come ottenere per trasmutazione l' argento. Il
processo, che ha la durata di circa quattro mesi, è de­
scritto per metà in termini chimici e per metà in simbo­
li alchimistici, e rimane comunque incomprensibile.
Dal terzo capitolo del testo Knorr (I, pp. 48 3-48 5)
cita un rabbi Mordechaj in re metallica de argento, che
B. Suler dichiara essere quel Mordechaj figlio di Leone
Modena il quale trasmutava il piombo in argento, poi
andato in rovina a causa dell ' alchimia.32 Qualora una
tale ipotesi risultasse vera, e questo presupporrebbe
che il figlio di Modena abbia lasciato degli scritti, il no­
stro testo andrebbe situato tra il 1620 e il 166o, e
Knorr von Rosenroth ne sarebbe venuto a conoscenza
non molto tempo dopo la sua stesura. Per una datazio­
ne così tardiva non ci sono ulteriori prove nelle citazio­
ni riportate. L'unica cosa certa è che l' autore ha usato
l'edizione dello Zohar stampata a Cremona nel 1560,
perché ne cita la numerazione delle pagine. 33 Dal passo

" Cfr. il citato resoconto di Leone Modena nella sua autobiografia. Con·
siderando il grande amore di Leone Modena per il figlio, ci si aspetterebbe
che egli menzionasse i manoscritti da lui lasciati, anche se erano testi di na­
tura alchimistica. Ciò invece non avviene. D'altra parte, esiste una certa affi­
nità tra la descrizione di Modena dell'esperimento alchimistico del figlio e la
ricetta alchemica contenuta nell'Esh Metzare/in cui appare anche l'arsenico.
Non ho potuto verificare se l'avvelenamento da arsenico possa davvero pro­
vocare un'emorragia cerebrale, come racconta Modena.
" In Knorr, I, p. 303, dove questo passo dello Zohar, l'unico- a parte il
generico accenno in I, p. J O I -che ho riscontrato in questi frammenti, è ci­
tato integralmente dal cap. I I dell'Esh Metzare/. Un ulteriore limite da con­
siderare per la datazione è probabilmente l'uso di citazioni dal latino Pseu­
do-Avicenna, pubblicato a Basilea nel I po. È invece inesatto che, come af-
SCHOLEM

(alla fine dello Zohar) sulla funzione del vero medico


egli sarebbe stato indotto a cercare in « libri segreti » i
misteri della guarigione delle creature per mezzo del­
l'alchimia. Soltanto uno storico può giudicare se dal­
l' analisi di questo processo chimico, di cui non ho po­
tuto verificare l'eventuale origine in altri testi, ma che
rappresenta comunque una tipica mescolanza di alchi­
mia scientifica e mistica, si possa ricavare qualche ulte­
riore indicazione per stabilire la datazione. L'originale
ebraico della citazione dovrebbe essere di grande inte­
resse per quanto riguarda la terminologia - sempre che
essa non sia, come avviene spesso in questo genere di
scritti, in una qualche lingua diversa dall'ebraico, in tal
caso probabilmente l'italiano. Non ho potuto rico­
struirlo in tutte le sue parti. Alla fine della sua esposi­
zione, rabbi Mordechaj aggiunge: « Confronta quanto
detto con gli scritti del filosofo arabo, perché egli trat­
ta più approfonditamente dell'arsenico », che in effetti
ha un ruolo importante in questo processo. Il filosofo
arabo non è Djabir, in latino Geber, bensì, non v'è
dubbio, Avicenna, a cui veniva attribuito uno scritto, il
De anima in arte alchymiae, che trattava ampiamente
dei « quattro spiriti », e fra questi vi è l'arsenico. 34 È
possibile che rabbi Mordechaj abbia conosciuto la tra­
duzione latina di questo libro. Che egli sapesse il latino
si ricava da quanto dice a proposito del nome Jupiter,
che era proibito pronunciare come nome del pianeta
chiamato in ebraico con il nome di Tzedeq, perché tale
nome proveniva dal culto pagano. La sua interpreta­
zione del ferro unisce kabbalah e alchimia nel simbo­
lismo:

Questo metallo è la linea di mezzo, che corre da un'estre­


mità all'altra [nella kabbalah una definizione della sefirah ti/' e­
re t] . Qui è il maschile e il marito, senza cui la vergine non ri­
mane incinta. Questo è il «sole dei sapienti » senza cui la luna

fermano alcuni autori, il nostro scritto citi il Parder rimmonim di Moshe


Cordovero. Il passo in questione si trova in Knorr prima di una citazione
dall'Erh Metzaref.
" Così secondo Lippmann, pp. 368 e 407.
ALCHIMIA E KABBALAH 77

sarebbe eternamente nell'oscurità. Chi ne conosce i raggi, la­


vora [come] in pieno giorno; gli altri si dibattono nella notte.35

Le interpretazioni alchimistiche del piombo e dello


zolfo (pp. I 8 5 e 242) mi sono rimaste incomprensibili.36
Un altro passo (pp. I p- I p) menziona il simbolismo
alchimistico del leone verde, rosso e nero dandolo per
conosciuto. Dal materiale di tipo chimico non posso
trarre conclusioni sull'esatta datazione dello scritto, e
rimane solo l'ipotesi, di cui ho già detto, che rabbi
Mordechaj sia il figlio di Leone Modena. Che lo scritto
non possa risalire a prima del I 5 6o- I 5 70, anche questo
ho già spiegato. L'autore parla di peregrinazione del­
l' alchimista attraverso i quattro mondi, un tema della
kabbalah tardiva, ma non usa ancora nessuna specifica
visione della kabbalah luriana, che aveva incominciato
a diffondersi dall'Italia a partire dagli inizi del xvn se­
colo. La scelta si restringe quindi tra la seconda metà
del XVI secolo e la prima metà del XVI I. Alla datazione
più tardiva farebbe pensare il ricorso indiscriminato al­
·
la gematrz a, anche nelle sue forme più complicate; l'al­
tra troverebbe invece riscontro nella forma letteraria
del libro come discorso rivolto a un allievo, che dai ca­
balisti successivi viene molto meno usata. Ma per stabi­
lire la datazione di tale testo è importante soprattutto la
sua terza componente, quella di contenuto astrologico.
Di tutti i metalli, le citazioni riportate da Knorr conten­
gono anche il relativo « kame' a », cioè l'amuleto con un
quadrato numerico magico composto da un determina-

" In Knorr, I, p. 206.


16
Il passo tradotto sul piombo suona così: « In particolari trasmutazioni la
sua natura solforosa da sola non è di utilità alcuna; ma soltanto in combina­
zione con altri tipi di zolfo, in particolare quelli dei metalli rossi [cioè ferro e
rame] esso riduce le "acque spesse" [la materia primo], quando esse sono di­
venute sufficientemente "terra" , [e le trasmuta] in oro, come anche in argen­
to, quando per mezzo del mercurio viene trasferito nella natura sottile
d eli'" acqua sottile", ciò che fra l'altro può accadere anche molto comoda­
mente con lo stagno >>. Secondo quanto affermato a p. 34 5, il piombo è inol­
tre anche il sol primordiolis. Nelle considerazioni sullo zolfo l ' autore mescola
costantemente passi biblici con raccomandazioni alchimistiche. L'alchimista
è qui colui che ha messo piede nella << casa dei sentieri >>, al cui ingresso leva
la sua voce la sapienza, cioè la sapienza dell'alchimia (secondo Proverbi 8, 2).
SCHOLEM

to numero di righe corrispondente al pianeta cui il me­


tallo è ascritto.37 La connessione planetaria viene indi­
cata per ogni metallo, e corrisponde di fatto alle classi­
che tavole di relazioni degli astrologi.
Ma i quadrati si differenziano concretamente e quasi
totalmente da quelli della più antica magia astrologica
medioevale, conservati anche nel manoscritto ebraico
Monaco 2 I 4, ff. I 4 5 -q6. Presento ora una tabella di
queste relazioni, costruita secondo la sequenza tradi­
zionale dei pianeti e non secondo il sistema cabalistico
delle sefirot:

Numero Sefirah
righe relativa
Metallo Sefirah
quadrato al metallo
magzco in Vita!
Saturno 3 piombo chokhmah hod
Giove 4 stagno binah e netzach netzach
Marte 5 ferro tif' eret malkhut
Sole 6 oro gevurah e tif'eret gevurah
Venere 7 rame ho d tif'eret
Mercurio 8 mercuno jesod jesod
Luna 9 argento chesed chesed

Dalla tabella risulta chiaramente che questa simbolo­


gia non è nata in ambienti cabalistici, in cui indubbia­
mente sarebbe stato l'ordine in cui sono disposte le se­
firot a stabilire il numero di righe dei quadrati, bensì in
ambienti di astrologi, che basavano la sequenza dei pia­
neti semplicemente sull'ordine, capovolto, di distanza
dalla terra, ovviamente secondo le concezioni del tem­
po. E ciò è avvenuto evidentemente in modo cosciente
e sistematico. Che l'intera sequenza non si possa far
coincidere con il tradizionale simbolismo cabalistico
delle sefirot risulta già dal fatto che Saturno viene
ascritto alla chokhmah, mentre ad esempio i Tiqqune
Zohar, scritti intorno al I 3 00, lo riferiscono (a dire il ve-
ALCHIMIA E KABBALAH 79

ro in un passo alquanto oscuro) alle sefirot inferiorije­


sod o malkhut.38 Ritengo che l 'origine di questi amuleti
planetari possa esser stabilita chiaramente. Essi sareb­
bero penetrati in particolari ambienti ebraici attraverso
il De occulta philosophia di Cornelius Agrippa di Nette­
sheim, un'opera a suo tempo diffusissima e celeberrima
(pubblicata per la prima volta integralmente a Colonia
nel 1 5 3 3 ). Ciò concorderebbe con la datazione qui ipo­
tizzata dell'Esh Metzaref Soprattutto le edizioni di Pa­
rigi ( 15 67) e Lione ( I6oo) hanno trovato molti lettori in
Italia. Agrippa è il primo a introdurre questa simbologia
(a eccezione del sole), proprio nella stessa forma in cui è
presente nel nostro testo, in nuovi ambienti del mondo
occidentale, dove peraltro era conosciuta fin dal XIv se­
colo. Tutto il capitolo XXII del libro II è dedicato a que­
sto tema. Agrippa non cita né da testi arabi, da cui la sim­
bologia probabilmente proviene, né da testi cabalistici,
ma semplicemente da « libri magici », ossia da mano­
scritti che hanno rapporti con il libro magico Picatrix.39

" CosìJakob Zwi Jolles, nel suo lessico del simbolismo cabalistico Kehillat
Ja'aqov, Lw6w 1 870, s. v. « Shabtai >>, interpretava i due p assi in Tiqqun, 70,
ff. 121 b e 132b su Saturno.
" Sui quadrati magici e la provenienza araba di questo sistema diffusosi
poi anche in Occidente, cfr. Aby Warburg, Gesammelte Schrz/ten, vol. II
(1932), p. p8, così come il grande lavoro di Wilhelm Ahrens in « lslam >>, VII
(I9I6), pp. 1 8 6-240, specialmente pp. 197-203, e più recentemente i prezio­
si materiali dell'edizione facsimile, annotata e pubblicata da Karl A.
Nowotny a Graz nel 1967, dell'editio 1 5 3 3 , soprattutto pp. 430-433 e 906-
908. La connessione tra i metalli e i pianeti è antica e gli arabi l'hanno tratta
da fonti greche e siriache. Nel suo meritorio lavoro Hebriiische Amulette mit
magischen Zahlenquadraten, Berlin 1 9 1 6, Ahrens non fa alcun cenno ai qua­
drati nell'opera di Knorr. Ritengo che la maggior parte degli amuleti citati
da Ahrens abbiano origini non ebraiche, non malgrado, ma anzi proprio a
causa dei numeri ebraici, usati perlopiù in modo visibilmente maldestro e
pedissequo. Soprattutto dalle rappresentazioni mitologiche sul rovescio, as­
sai rare in quelli ebraici, si può inoltre dedurre che amuleti del genere sono
nati, senza nessun modello ebraico, nell'ambiente degli adepti della magia
naturale della scuola di Agrippa, che conoscevano tutti quantomeno l'alfa­
beto ebraico. Certamente anche in scritti ebraici si trovavano descrizioni di
immagini mitologiche dei pianeti prese da fonti non ebraiche, come ad
esempio nel Sefer ha-Levana (Libro della luna), tradotto dall' arabo in ingle­
se e pubblicato da Greenup a Londra nel 1912, o nell'ebraico Saggezza dei
caldei, pubblicato da Gaster nel suo Studies and Texts, vol. 111 (19 2 5 - 1928),
pp. 104· 1 08, ma senza alcun riferimento ai quadrati magici numerici. Amu­
leti di indubbia, dimostrabile origine ebraica, che rispondano ai requisiti de­
scritti da Agrippa o dall'Erh Metzare/, non ne ho mai visti. Nel ricco mate-
So SCHOLEM

Un autore come Agrippa, così appassionato di cose ca­


balistiche, se avesse usato fonti della kabbalah certa­
mente non avrebbe tralasciato di farne in un modo o
nell'altro menzione. I caratteri dei pianeti da lui de­
scritti sono del tutto estranei alla tradizione ebraica, e
Agrippa può indubbiamente averli inventati (come ipo­
tizza Karl Nowotny) .40 Da parte ebraica abbiamo una
testimonianza del xv secolo del siciliano rabbi Nissim
Abul Faraj, il padre del famoso traduttore di scritti ca­
balistici e arabi Flavius Mithridates, ossia Raimundus
Mocada,41 che afferma di aver praticato la magia e di

riale contenuto nelle Mitteilungen der Gesellscha/t /ur judische Volkskunst


non è documentato, che io sappia, nessun amuleto del genere. Né sono
ebraici gli amuleti analizzati da E. B. Pilcher nel saggio Two Cabbalistic and
planetary Charms, in« Proceedings of the Society of Biblica! Archaeology »,
28, London I906, pp. I I O· I I8 (che Ahrens non conosceva). Tutti questi au·
tori sottovalutano le tendenze giudaizzanti della magia araba e cristiana in
generale e della magia occidentale da Agrippa in poi in particolare. A queste
tendenze non fa necessariamente sempre riscontro autentico materiale
ebraico. Così, risultano prive di valore scientifico anche le affermazioni di
Erich Bischoff, prese, fra l'altro senza citare la fonte, palesemente da Knorr
e da Agrippa; cfr. Elemente der Kabbalah, vol. n, Berlin I 9 I 4 , pp. I 4 5 · I 5 8 .
Nelle fonti ebraiche di«kabbalah pratica » soltanto il quadrato d i Saturno è
piuttosto diffuso già a partire dal xv secolo. Avraham ben Eliezer Halevi (ca.
I460· I 5 3o), uno degli esuli dalla Spagna, ne conosce l'uso in caso di parti
difficili e dai suoi maestri ha già appreso che si devono scrivere le lettere da
a le/ lino a tet, che venivano usate anche per i numeri da I a 9, secondo il lo­
ro ordine nell'alfabeto (e non secondo l'ordine nelle righe del quadrato); cfr.
i manoscritti Gaster 438, ff. I 3 a e I 7a, e Deinard I 24 (ora al Jewish Theolo­
gical Seminary di New York), che nel contenuto è uguale al manoscritto Ga­
ster. Senza il nome di Avraham Halevi il testo si trova nel manoscritto Ga­
ster 5 67, f. I 2 I a, e nel Ronu le ]aaqov, scritto da Jaaqov Tzemach intorno al
I 64o a Gerusalemme, ms. Bodleiana, Oxford (Neubauer n. I B7o, f. I 54). Le
fonti arabe per il quadrato di Saturno, che risalgono lino al x secolo, sono
elencate in Pau! Kraus, ]abir ibn Hayyan, vol. 11, Il Cairo I942, p. 73 (anche
qui nell'uso in caso di parto difficile), e in Martin Plessner nella sua tradu­
zione tedesca dell'arabo Picatrix, Das Zie! des Weisen von Pseudo Magriti,
London I 962 (Studies of the Warburg Institute, vol. 27), p. 407.
'" Di un antico amuleto cristiano-cabalistico contenente il simbolo di
Giove, con un quadrato la cui somma è 34 e lo pseudoebraico Elav (Padre
di Dio) come calco ebraico di Jupiter (composto dalla combinazione di
«]o » e «Pater »), a cui si aggiunge l'angelo Jahpiel come angelo di Jupiter,
assolutamente inesistente nelle fonti ebraiche, tratta l'opuscolo di Louis
Loewe, The York Meda!, or the supposed JewiJh Meda!, /ound in York. . . in
the year I 829, London I 84 3. Le indicazioni che vi ho trovato sui «caratteri >>
di Giove non hanno riscontro nelle fonti che ho potuto consultare; sono
quindi sospette. Vedi il lavoro di Nowotny citato alla nota 39, p. 79·
" Su Flavius Mithridates, un convertito di grande cultura, che da ebreo
portava il nome di Samuel ben Nissim Abul Faraj, abbiamo un saggio di
ALCHIMIA E KABBALAH Br

aver fabbricato un amuleto del sole fatto d' oro e recan­


te la tipica immagine del leone su una faccia, e sull'altra
un quadrato magico, che nella tavola di Agrippa, ma
anche nelle fonti arabe di gran lunga anteriori, è pro­
prio di Saturno.42 La contraddizione nella sistematizza­
zione dei quadrati numerici secondo le sequenze dei
pianeti è qui evidente. Questo rabbi siciliano che veni­
va dall'Egitto o dalla Siria non conosceva dunque lo
schema più tardivo. Niente dimostra che l'autore del­
l'Esh Metzare/ conoscesse l'arabo e avesse attinto diret­
tamente da fonti arabe. Che sapesse il latino è invece
già stato detto. Ma se si ipotizza un influsso da fonti la­
tine, non può trattarsi che di Agrippa, se non di un au­
tore ancora più tardivo. Poiché questo libro non riuscì
a diffondersi, né lasciò tracce dimostrabili nella lettera­
tura ebraica, si può dire che sia alquanto azzardato - da
parte di autori come Athanasius Kircher (nell'Oedipus
Aegyptiacus, pubblicato nel 1 6 5 3, ossia un quarto di se­
colo prima della Kabbala Denudata) e di altri anteriori­
considerare cabalistici questi amuleti planetari,43 e lo

Umberto Cassuto, in «Zeitschrift fiir die Geschichte der Juden in Deutsch­


land >>, v ( 19 J4), pp. 2 30-2 36, oltre a diversi importanti lavori di Ch. Wirszub­
ski nelle pubblicazioni della Israel Academy of Sciences and Humanities;
possiamo inoltre trovare un'ampia analisi delle sue traduzioni cabalistiche
nell'opera di Wirszubski, Giovanni Pico's Encounter with ]ewish Mysticism,
che sarà pubblicata postuma prossimamente.
" Cfr. in proposito M. Steinschneider, Hebriiische Bibliographie, vol. xx
( 188o), pp. 124- 126 (da una monografia italiana di R. Starraba pubblicata
nel 1879). Questo rabbino, astrologo e mago è anche un compilatore del
manoscritto astrologico-mantico ebraico Monaco Hebr. 246. La stessa re­
lazione tra i quadrati magici e i pianeti si trova attestata già, senza toni al­
chimistici, anche in manoscritti ebraici precedenti l'epoca di Agrippa; la
somma delle righe nei rispettivi quadrati non è però identica a quella di
Agrippa. A quanto mi risulta, in uno scritto strettamente cabalistico, una
relazione di questo tipo viene dettagliatamente descritta per la prima volta
nel libro, scritto nel 15 3 8 a Gerusalemme, 'Even ha-shoham (da Genesi 2,
12), di Josef ben Avraham ibn Sajjai:l di Damasco; rifacendosi probabil­
mente a fonti astrologico-mantiche, vi vengono descritte le figure dei pia­
neti che si trovano sul rovescio dei talismani planetari. Nel manoscritto
Gerusalemme 8° 416, f. 86b l'autore dichiara che la<< scienza dei quadrati >>
planetari è un grande segreto, comunicatogli dal suo maestro (di cui non
dice il nome). A partire dal f. 120 egli descrive ampiamente questi quadra­
ti planetari.
" Athanasius Kircher ha trattato ampiamente questi quadrati planetari
nel suo Arithmologia sive de abditis numerorum mysteriis, Roma 1665 , ma
anche già nell' Oedipus Aegyptiacus, 11, altera pars, Roma 16 5 3 , pp. 70-78.
82 SCHOLEM

stesso autore del nostro testo in nessuna parte li pre­


senta come tali. Ma non solo genericamente, bensì an­
che nei singoli esempi di quadrati magici vi è concor­
danza tra Agrippa e l' autore dell 'Esh Metzaref Que­
st' ultimo infatti nel quadrato magico del sole, cioè del­
l'oro, ha sostituito la somma delle righe I I I con un
quadrato della somma delle righe 2 I 6, per far risultare
il rapporto con il leone, il simbolo della forza, della se­
firah gevurah. La parola ebraica per leone, arjeh , ha il
valore numerico di 2 I 6. Qui dunque, per rimanere fe­
deli al simbolismo sefirotico, lo schema di Agrippa è
stato modificato in un dettaglio significativo.
Abbiamo dunque a che fare in questo scritto con un
sincretismo cabalistico-alchimistico, così come poteva
manifestarsi in un ebreo italiano colto vissuto tra il
I 570 e il I65o. Lo si è già detto: qui non si tratta della
produzione dell'oro, quanto, come conviene al simbo­
lismo cabalistico qui predominante, della trasmutazio­
ne dei metalli in generale e della produzione in parti­
colare dell 'argento a partire da metalli impuri, vili. I
diversi elementi cabalistici, chimici e astrologici si pre­
sentano in connessioni piuttosto deboli, inconsistenti.
Il tentativo isolato di combinazione dei tre ambiti mo­
stra chiaramente quanto poco essi abbiano in comune
e soprattutto quanto sia difficile combinare simboli­
smo cabalistico e alchimistico-astrologico se si vuole
armonizzarne gli elementi non solo in una tesi genera­
le, come abbiamo visto in Josef Taitatzak, ma anche
nei dettagli. L'esistenza di un' autentica tradizione, o al­
meno di una tendenza, cabalistico-alchimistica tra gli
ebrei è smentita da questo tentativo piuttosto goffo di
creare qualcosa del genere, che d'altra parte testimo­
nia a mio parere quale fosse l'in fluenza, probabile so­
prattutto in Italia, di elementi non ebraici in singoli ca­
balisti .
Oltre a Knorr von Rosen roth, nessuno sembra aver
conosciuto questo libro. L'affermazione del teosofo
Wynn Westcott, del circolo di Madame Blavatsky, se­
condo cui il libro esisterebbe in un testo ebraico o piut­
tosto aramaico-caldaico come trattato autonomo, non è
ALCHIMIA E KABBALAH

degna di fede.44 Non si può dire con certezza dove sia fi­
nita la copia di Knorr; nel suo lascito, di cui un solo re­
perto importante fu dato all'amico Franciscus Mercu­
rius Van Helmont, il libro non è conservato. Gli autori
che hanno scritto dopo Knorr lo conoscono soltanto
dalla Kabbala Denudata. Per gli appassionati di alchimia
che non potevano procurarsi il costoso Opus Magnum
di Knorr nell'originale latino, o forse non erano in gra­
do di leggerlo, un anonimo, che si definiva « a lover of
Philaletes », realizzò in un libro a parte una traduzione
inglese dei frammenti riportati nell 'opera di Knorr: A
Short Enquiry Concerning The Hermetick Art. Address'd
to the Studious Therein. .. To which is Annexed, A Col­
lection /rom Kabbala Denudata; and Translation o/ the
Chymical-Cabbalistic Treatise, Intituled Aesch Mezareph;
or, Puri/ying Fire. Questo libro fu pubblicato a Londra
nel 1714· Contiene sia il testo latino dei frammenti sia la
loro traduzione inglese.45 In una copia conservata alla
Jewish National Library di Gerusalemme, il proprieta­
rio del libro, Daniel ben Josef Cohen de Azevedo, mem­
bro della comunità ebraica portoghese di Londra, ha af­
fermato di aver personalmente ricevuto il volume dal­
l'autore, Robert Kellum.46 Una ristampa di questa edi­
zione fu pubblicata, con alcune correzioni e arricchita
di note, dal noto occultista inglese Wynn Westcott con
lo pseudonimo « Sapere Aude ».47

" Westcott nel libro del 1 894, citato sotto, alla nota 47 in questa pagina.
" Ian MacPhail, Alchemy and the Occult (Catalogo della Pau! Mellon
Collection della Yale University Library), vol. II, New Haven 1968, p. 5 14.
" In margine all'esemplare il proprietario ha fatto annotazioni in parte in
spagnolo e in parte in ebraico; in una di esse, a p. 47, menziona il nome del­
l'autore. Infatti, riferendosi a un'osservazione dell'anonimo autore nell'in­
troduzione, in cui egli riferisce come uno dei maestri, versato nel sapere rab­
binico, gli avrebbe detto che cosa significa e che cosa non significa il nome
ebraico jona per « colomba >>, il proprietario del libro annota, in ebraico:
« Io, Daniel Cohen, figlio di rabbi R. Josef de Azevedo, ho detto questo al­
l'autore nell'anno 1714, e il nome dell'autore è Robert Kellum ».
" L'opera è stata pubblicata come vol. IV della Collectanea Hermetica.
Nella prefazione si legge: « L'Aesch Mezareph è quasi completamente alche­
mico nei suoi insegnamenti ed è più indicativo che esaustivo nelle sue spie­
gazioni. Lo caratterizza il metodo allegorico di insegnamento e le similitudi­
ni devono essere recepite con attenzione altrimenti risulteranno confuse. I
processi alchemici sono esposti ma non in modo tale da poter essere portati
SCHOLEM

Non è da meravigliarsi che, mancando il testo nella


sua completezza, siano subentrati ad esso scritti alchi­
mistici pseudepigrafici. Che essi non siano autentici ma
risalgano al massimo al xviii secolo, già risulta dalle af­
fermazioni contenute nei titoli. Molti di questi mano­
scritti apparvero nel catalogo di vendita compilato nel
1 786 a Vienna dal libraio Rudolf Graffer,48 e in cui si of­
friva un commento al compendio tratto da Knorr (con
una prefazione) dell'Esh Metzare/ scritto da un altri­
menti ignoto Leander de Meere, e che sino a ora è stato
impossibile rintracciare. Vi comparivano inoltre una
« kabbalah aurea degli ebrei e anche istruzioni delle se­
firot su come debba avvenire la trasmutazione dei me­
talli », che ricorda il titolo di D. Cluver. Eppure ciò che
fa presagire questo titolo non è ancora nulla in confron­
to a quanto immagina J . K. Huysmans, il famoso roman­
ziere del « satanismo »: nel sesto capitolo del suo ro­
manzo Là-bas il protagonista, un grande satanista, pren­
de « da uno degli scaffali della sua biblioteca un mano­
scritto, l'Aesch Mezareph, il libro dell 'ebreo Abraham e
di Nicolas Flamel, ricostruito, tradotto e commentato
da Eliphas Lévi ». Il misterioso manoscritto si trova in
realtà pubblicato nel supplemento a Eliphas Lévi, La
clef des grands mystères, uscito a Parigi nel 1 86o (pp.
407 sgg . ) , come se fosse, ma è pura fantasia, il testo « ri­
trovato » dell'Es h Metzare/; e con ciò il grande mistago­
go, che ancora oggi trova chi lo legge, si rivelava un au ­
tentico discendente dell'antica pseudepigrafìa alchimi­
stico-mistica.
Così Knorr aveva indicato questa funzione della
kabbalah come alchimia mistica in un verso della dedi­
ca latina posta in epigrafe alla premessa come spiega­
zione del frontespizio allegorico della sua opera:

Alterat abstrusos minerarum in corde meatus49

a termine da un neofita; ogni tentativo di farlo mostrerà che qualcosa di im·


portante è stato omesso tra una fase e l'altra >>.
" Ho visto un esemplare di questo fascicolo nella biblioteca dei massoni
olandesi all'Aia.
" <<Altera [ossia trasmuta] le vie astruse dei minerali nel cuore >>.
ALCHIMIA E KABBALAH

il che non può più essere riferito a comuni funzioni chi­


miche della kabbalah.
Di un'alchimia ebraica posteriore all'Esh Metzaref si
sa poco, e ancor meno si sa su eventuali rapporti tra
questa e le idee della kabbalah. Ho già detto dell'alchi­
mia in Marocco. Ricette alchimistiche per la produzio­
ne dell'oro o per la « colorazione » dei metalli si trova­
no ancora in manoscritti più tardivi, soprattutto collet­
tanee di una cosiddetta « kabbalah pratica », un concet­
to che nell'uso linguistico ebraico altro non significa
che magia.50 Ancor più rare le testimonianze su ebrei
dediti all'alchimia. Assai dubbia pare l'autenticità di
una notizia che riferisce di un adepto di Amburgo, tale
Benjamin }esse. Un anonimo, che }esse avrebbe preso
presso di sé dall'orfanotrofio, racconta che egli viveva
così ritirato ad Amburgo da essere sconosciuto a tutti.
Alla sua morte, avvenuta nel 1730, all'età di ottantotto
anni, egli lasciò al suo pupillo un considerevole lascito,
mentre il resto dell'eredità andò per testamento a due
cugini in Svizzera. Di essa facevano parte anche una
scatola contenente una pesante polvere di colore scar­
latto (la pietra filosofale) e quattro grandi ceste il cui
contenuto era di minor valore, trattandosi di lingotti
d'oro. Kopp, che ha letto questo racconto, suppone
fondatamente che sia stato inventato allo scopo di allet­
tare gli alchimisti, i quali nel leggerlo dovevano sentir
già l'acquolina in bocca .51 Il testo riferisce anche minu­
ziosamente tutto ciò che l'adepto avrebbe fatto nell'ul­
timo giorno di vita: fra l'altro come poco prima di mo-

'" Simili ricette si trovano ad esempio nei manoscritti Gerusalemme 8°


87; nella collezione Gunzburg (a Mosca), Codex Io86 (del I700 circa) con il
titolo Ma'as.reh chemia. . . 'al qabbala ma'assz"t (Opera della chimica . . . per la
kabbalah pratica), nel catalogo di manoscritti del Talmud Torah di Livorno,
pubblicato da Bernheimer nel I 9 I 5, cod. I I 2, n. 8. Una ricetta alchemica si
trova anche in Avraham Chamoj, Nifla'im ma'assekha ( IBBI ), f. 24b.
" Kopp, r , p. 95. Anche B. Suler sembra aver usato la stessa fonte, poiché
riferisce il nome di uno degli eredi in Svizzera. È alquanto inverosimile che
in Svizzera intorno al I7JO un ebreo di nome Avraham abbia potuto lasciare
in eredità una tale quantità di oro come quella descritta, perché a quei tem­
pi gli ebrei potevano soggiornare soltanto nei due villaggi di Endingen e Le­
gnau, e una tale eredità avrebbe fatto sensazione provocando certamente
qualche conseguenza, di cui avremmo notizia.
86 SCHOLEM

rire recitò i salmi in ebraico e bevve un po' di malvasia.


Nel vecchio cimitero ebraico di Amburgo non è sepol­
to nessun Benjamin J esse.52
Una figura realmente esistita è invece Chajim Samuel
ben Rafael, a suo tempo ampiamente conosciuto come
Doctor Falk e ancor più con il soprannome di « Baal­
shem di Londra »/3 morto in questa città nel 1 782. Le
numerose notizie e polemiche contemporanee che lo ri­
guardano trovano in parte conferma e si arricchiscono
di ulteriori informazioni nei suoi manoscritti e nel dia­
rio del suo assistente.54 Che egli fosse cabalista e prati­
casse la magia e l'alchimia potrebbe corrispondere al
vero. Ma proprio sull'aspetto alchimistico della sua at­
tività le notizie sono particolarmente scarse. Abbiamo
comunque, in una fonte indipendente, la testimonianza
di un suo allievo, rabbi Tobiah ben Jehuda, originario
della regione di Cracovia, che nel 1773 avrebbe raccon­
tato all'ebraista e diarista Ezra Stiles dell'università di
Yale di aver visto personalmente la « pietra filosofale » e
la trasmutazione dei metalli.55 Che l'interlocutore di
Stiles venisse effettivamente da Londra, dove aveva as­
sistito a tali pratiche, appunto presso il Doctor Falk, è
fatto autentico. Se il « Baalshem di Londra » era stima­
to in ambienti non ebraici, anche dell'aristocrazia, la
sua fama era invece discussa tra gli ebrei, poiché lo ac­
compagnava non solo l'aura oscura del mago ma anche
l'ancor più oscura reputazione (probabilmente non
priva di fondamento) di criptosabbatiano. Ma quando
nel 1 782 egli morì, sulla tomba venne elogiato come
« vessillo della Torah, nello studio come nella pratica ».

" Ho cercato nel libro di Max Grunwald, Hamburgs deutsche ]uden bis
IBII, Hamburg 1904, che si basa sulle tombe dei vecchi cimiteri ebraici, so­
prattutto quello di Ottensen .
" Su di lui cfr. H. Adler in << Trans.actions of the J ewish Historical Society
of England », v (1908), pp. 148-173, così come Ceci) Roth, Essays and Por­
traits in Anglo-]ewish History ( 1 962), pp. 1 J9 - 1 64.
" I manoscritti sono conservati nella raccolta Adler del Jewish Theological
Seminary di New York e nella biblioteca del Bet-Din (l'ex Bet Hamidrash) di
Londra. Cfr. A. Neubauer, Catalogue of the Hebrew Manuscripts in the Jews'
College, London-Oxford 1 886, n. 1 27- I J O, p. J7.
" Cfr. il saggio di Arthur Chiels in Studies in ]ewish Bibliography, History
an d Literature, in honour o/ Edward Kiev, New York 1971, pp. 8 5 - 89.
ALCHIMIA E KABBALAH

Invece Chajim J osef Azulaj, celebre « ambasciatore » di


Gerusalemme nonché eminente studioso, si espresse su
di lui con grande indignazione, a Parigi nel 1778 , quan­
do una delle ammiratrici del « Baalshem di Londra », la
marchesa de Croix, riferì a sua lode com'egli avesse in­
segnato a lei, una non ebrea, la kabbalah pratica.56 An­
cor più equivoca era negli ambienti ebraici la reputa­
zione di tre altri personaggi di cui sappiamo che si de­
dicavano all'alchimia sul finire del XVIII secolo. Uno di
essi era J akob F rank, il capo della setta che prese il suo
nome, di cui ho già trattato altrove; di lui sappiamo che
a Briinn (Brno) e poi a Offenbach aveva installato un
laboratorio di alchimia e che negli « insegnamenti » ai
suoi allievi più volte aveva fatto riferimento all'alchi­
mia.H Frank e suo nipote Moses Dobruska, la cui atti­
vità di alchimista è anch:essa indubbia, si erano però
convertiti pubblicamente al cattolicesimo. Dobruska,
che dopo il battesimo aveva ricevuto a Vienna il titolo
nobiliare con il nome di Franz Thomas Edler von
Schonfeld/8 era stato, insieme a Ephraim Josef Hirsch­
feld, che invece non si fece mai battezzare/9 tra i prin­
cipali ispiratori dell' associazione segreta massonica dei

" Cfr. Ch.J.D. Azulaj, Mo'aga! tov ha shalem , Jerus alem I 934. p. I 24.
-

" Jakob Frank aveva allestito un laboratorio di questo tipo, come confer­
ma la documentazione presentata nel secondo volume del lavoro di Alexan­
der Kraushar, Frank i Frankfci polscy, Krak6w I895, p. 73· In molti paragra­
fi del libro contenente gli insegnamenti di Frank, conservato in un mano­
scritto polacco dal titolo Libro delle parole del Signore, Frank parla di alchi­
mia, ad esempio nel § 2 54: <di mondo intero desidera e cerca di fare l'oro;
così io desidero trasmutare voi in oro puro >>. Altri accenni anche nei para­
grafi I O I 3 , I 698 e I 790 (sugli effetti dell'acqua aurea, che attraverso la sa­
pienza dell'alchimia conferisce potere e vita). Anche di Wolf Eibeschiitz, fi­
glio di rabbi Jonatan Eibeschiitz, che parteggiava per i sabbatiani e i franki­
sti, Jakob Emden riferisce che già in giovane età, nel I 76 I, trovandosi ad Al­
tona praticava l'alchimia; cfr. J. Emden, Hit'avequt, Lw6w I 8 7o, f. 20. Avreb­
be trasmutato il rame in oro; comunque sia, era notoriamente molto ricco.
'" Su Dobruska ho pubblicato un'ampia ricerca, The Career o/ a Frankist:
Moses Dobruika and bis Metamorphoses (in ebraico), nella rivista trimestrale
di Gerusalemme « Zion », 3 5 ( I97o), pp. 127- I 8 I , la cui versione francese,
corretta e ampliata, Du Frankisme au Jacobinisme: La vie de Moses Dobruika,
è stata pubblicata dalle parigine Éditions du Seui!.
''' Su Hirschfeld vedi il mio saggio in Yearbook o/ the Leo Baeck Institute,
vol. VII, London I 962, pp. 247-278. Sulla base di nuovi studi, ho in prepara­
zione una più ampia monografia su questo personaggio.
88 SCHOLEM

« Fratelli di San Giovanni Evangelista venuti dall'Asia


in Europa » , che fra il I 78 3 e il I 790 fecero parlar mol­
to di sé in Austria e in Germania, anche per il fatto che
era la prima associazione massonica di lingua tedesca
ad accogliere tra le sue fila degli ebrei.60 Gli scritti di
questi « Fratelli Asiatici » (come venivano comunemen­
te chiamati) , in parte pubblicati,61 non lasciano dubbi
sulle loro tendenze alchimistiche, che però non si devo­
no far risalire alla tradizione cabalistica ebraica, come
altri importanti elementi della loro dottrina, bensì van­
no ricollegate al rosacrocianesimo della fine del XVIII
secolo, su cui tornerò al termine di queste mie conside­
razioni. Che i quattro personaggi citati avessero, accan­
to all'interesse piuttosto marginale per l'alchimia, an­
che convinzioni cabalistiche, o meglio eretico-cabalisti­
che, non può esser messo in dubbio, ed è altrettanto
certo che, nella prospettiva ebraica, fossero soltanto fi­
gure marginali, oppure già al di fuori della tradizione.

"' Cfr. Jakob Katz, Jews an d Freemasons, Cambridge 1 970, pp. 26· 5 3 .
''' Dal lascito d i Isaak Daniel Itzig, uno sconosciuto che s i celava sotto il
nome di Frater a Scrutato nel I SoJ, a Berlino, ha pubblicato gran parte di
questi scritti, in cui è chiaramente presente la combinazione di alchimia,
teosofia e kabbalah.
PARTE TERZA
A conclusione di questo mio studio, vorrei tornare
all'interrogativo posto all'inizio, ossia come alchimia e
kabbalah siano potute divenire concetti in grande mi­
sura sinonimici tra i teosofi e gli alchimisti cristiani eu­
ropei, e come questo processo di identificazione dei
due ambiti sia rispecchiato nei testi.
Per la comprensione di questo passaggio dalla kabba­
lah all'alchimia, così come si verificò dopo il 1 5 oo, e so­
prattutto a partire dal 1 6oo, mi sembrano importanti due
elementi, che contribuirono in modo essenziale a questo
cambiamento di significato, piuttosto discutibile, come
già abbiamo detto. Tralascio, peraltro senza sottovalu­
tarlo, il terzo elemento che ha influito su tale passaggio,
ossia la ciarlataneria. Per essa valgono le parole di Kopp
su tante categorie di scritti alchimistico-cabalistici:

Per costoro [ . . ] la kabbalah era solo la raganella da agita­


.

re il più delle volte già nel titolo per richiamare l'attenzione


del pubblico su libri i cui stessi autori non capivano nulla di
una tale scienza occulta, non foss' altro di cosa dovesse realiz­
zare, e come. 1

Il tono piuttosto ironico delle affermazioni di Kopp mi


ha impedito di comprendere se egli ritenga che invece
altri elementi abbiano contribuito a stabilire una rela­
zione autentica tra alchimia e kabbalah, soprattutto a
partire dalla pubblicazione della Kabbala Denudata.
Ma noi seguiremo un'altra direzione.
Si può dire che la tesi di Pico della Mirandola secon­
do cui kabbalah e magia sono le « due scienze che più
chiaramente di tutte le altre dimostrano la divinità di
Cristo », tesi che a suo tempo fece scalpore e fu anche

' Kopp, II, p. 232.


SCHOLEM

puntualmente condannata dal papa, dia inizio a questo


processo di identificazione della kabbalah con altre di­
scipline. Pico introduce la kabbalah in quel mondo di
simboli, diversi tra loro ma tesi a un unico fine, in cui il
circolo fiorentino di Marsilio Ficino vedeva modi di­
versi di esprimersi di una religione e di una tradizione
delle origini comune a tutta l'umanità. Pico e i suoi im­
mediati successori, quali J ohannes Reuchlin, il cardina­
le Egidio da Viterbo, il francescano Francisco Giorgio
e il dotto convertito Paulus Riccius, non parlano anco­
ra di alchimia. Ma i due elementi essenziali al pass aggio
di cui ci stiamo occupando hanno origine, anche se non
ancora in forma sistematica, proprio nei suoi scritti: la
reinterpretazione cristiana della kabbalah, e la magia,
così come egli l'intendeva. Ovviamente la magia natu ­
rale del XVI secolo, basata soprattutto sulla occulta phi­
losophia di Agrippa von Nettesheim, che pur faceva
sua sin dalle prime pagine la definizione di magia di Pi­
co, si allontana già fortemente da quel concetto, dove
operavano ancora elementi medioevali dell' angelolo­
gia, della demonologia e dell'evocazione degli spiriti.
Agrippa, che era influenzato in molti aspetti dalle due
opere di Reuchlin dedicate alla kabbalah2 e aveva co­
noscenza diretta di alcuni passi della « kabbalah prati­
ca >>, nella sua grande opera di armonizzazione di tutte
le discipline occulte identifica in grande misura la kab­
balah con la magia (come lui l'intendeva, naturalmen­
te) . Agrippa aveva espunto certi elementi della kabba­
lah speculativa che era possibile introdurre nel suo si­
stema occultistico, senza curarsi del fatto che alcune
connessioni erano completamente false, come ad esem­
pio nel Libro m, cap . x, quella tra le sette sefirot e i pia­
neti. Egli non disponeva di conoscenze particolarmen­
te approfondite sulla dottrina e sulla simbologia cabali­
stiche, ma sapeva perfettamente come saldare insieme
l' angelologia e la demonologia ebraiche medioevali con
quelle cristiane. Il simbolismo della natura interpretato
alla maniera neopitagorica poteva essere definito in

2 De verbo mirifico, Base! 1494, e De arte cabali.rtica, Hagenau 1 5 1 7.


ALCHIMIA E KABBALAH 93

buona fede come cabalistico da ogni discepolo (e non


ne mancavano) che seguisse i suoi insegnamenti.
Non può meravigliare che nella generazione successi­
va ad Agrippa, quindi soprattutto dalla seconda metà
del XVI secolo in poi, ci sia stata tutta una corrente di idee
cosmologiche e cosmogoniche, per la maggior parte trat­
te dalle più disparate speculazioni degli studiosi, che uti­
lizzò a modo proprio la cornice già esistente della magia
naturale.3 Nel campo dell'alchimia l'influsso esercitato
dall'opera di Agrippa si presenta soprattutto nel libro,
che ebbe a partire dal 1 6 1 5 numerose ristampe, Cabala,
Spiegel der Kunst und Natur in Alchymia, le cui tavole
« alchimistico-cabalistiche » non avevano assolutamente
nulla a che vedere con la kabbalah ebraica. Va inoltre
notato che è in seguito all'indirizzo dato da Agrippa che
il concetto di kabbalah come arte magica del più basso
grado prese a diffondersi in vasti ambienti. Infatti, dopo
aver acquistato credito nel mondo colto, la magia inse­
gnata da Agrippa incominciò a penetrare - spesso in for­
ma assai semplificata, verrebbe quasi da dire brutale -
negli strati più bassi della popolazione. Fregiandosi so­
vente del nome di kabbalah, nei libri di magia dell 'Eu­
ropa occidentale si trovò così a svolgere un ruolo che
non si è ancora del tutto esaurito. Negli studi sulla leg­
genda di Faust con i suoi libri di magia queste stesse con­
nessioni sono venute alla luce nel modo più vivace.�
Mentre in Agrippa i rapporti tra magia naturale e
kabbalah e la contemporanea assenza del momento al­
chimistico si possono ancora definire con precisione,
non sono riuscito nei miei studi a dare una risposta al
problema della posizione di Paracelso riguardo a quel
complesso di problemi costituito dal rapporto tra alchi­
mia, magia e kabbalah. La posizione per nulla univoca
di questo importante occultista del XVI secolo nei con­
fronti della kabbalah, che gli era nota dagli scritti di

' Questo processo è descritto dettagliatamente nel già menzionato Pan­


sophie ( I 936) di W.-E. Peuckert, a cui si è aggiunto in seguito François Se­
cret, Les kabbalistes chrétiens de la Renaissance, Paris I 964.
' Cfr. soprattutto Karl Kiesewetter, Faust in der Geschichte und Tradition
( I 893), soprattutto il secondo volume.
94 SCHOLEM

Reuchlin e Agrippa, richiederebbe un'indagine che mi


è attualmente impossibile, non avendo a disposizione,
qui a Gerusalemme, i necessari strumenti, soprattutto
la grande edizione critica di Sudhoff. I due grossi lavo­
ri di Will-Erich Peuckert, Pansophie ( 1 93 6) e Gabalia
( I 967), che trattano così approfonditamente l'opera di
Agrippa, di Paracelso e dei loro allievi, mi lasciano per­
plesso proprio rispetto al problema decisivo della posi­
zione di Paracelso, e devo dunque !imitarmi a sperare
che un altro studioso, dotato di senso critico, voglia af­
frontare il complesso problema.
Indimenticabile rimarrà per me la visita che feci in­
sieme a un amico, vent'anni or sono, alla mirabile bi­
blioteca mistica di Oskar Schlag a Zurigo. Presi a caso
da uno scaffale un volume dell'edizione Sudhoff di Pa­
racelso e subito mi cadde lo sguardo su una frase che
così iniziava: « Il diavolo, da quel grande cabalista che
è . . . ». Ma era davvero un caso? Soltanto molto più tardi
appresi che Paracelso distingue tra una kabbalah de­
moniaca e una divina, e mentre condanna la prima, in­
nalza fino al cielo la seconda.
Se gli alchimisti potevano concludere, dall 'equipara­
zione della magia sperimentale con la kabbalah di
Agrippa e dei suoi allievi, che anche i processi naturali,
sperimentali e tuttavia occulti dell'alchimia rientrasse­
ro nel concetto globale di kabbalah, quelli tra loro che
avevano invece un orientamento più mistico e teologico
avevano a disposizione la « kabbalah cristiana » per po­
ter considerare identiche le due eterogenee discipline.
L'espressione « kabbalah cristiana » per indicare specu­
lazioni interamente o anche solo a metà cabalistiche di
tendenza cristiana non viene ancora usata dai suoi pri­
mi rappresentanti . Essa appare per la prima volta nel
titolo di un poema didattico francese, La saincte et tre­
screstienne cabale, dedicata dal francescano Jean The­
naud al re Francesco I e mai pubblicata allora, e soltan­
to in parte nella nostra epoca.5 Nei numerosi testi di

' Cfr. }. L. Blau, The Christian lnterpretation o/ the Cabala in the Renais­
sance, New York 1 944, pp. 89-98, 1 2 1 - 1 44·
ALCHIMIA E KABBALAH 95

questa corrente stampati nel XVI secolo, manca sia una


simile terminologia che una chiara connessione con l'al­
chimia.
Tali elementi compaiono decisamente mescolati nel
grosso in folio dell'allora celebre alchimista e mistico
Heinrich Khunrath di Lipsia ( r 56o- r 6o5) , pubblicato
nel r 6o9, l'Amphitheatrum sapientiae aeternae solius
verae, christiano-cabbalisticum, divino-magicum nec non
physico-chymicum tertrinum catholicum, dove il proces­
so di identificazione si afferma con forza.6 Il verboso au­
tore sguazza felice nel mondo immaginifico delle disci­
pline da lui descritte nel frontespizio. I suoi concetti ri­
guardo a ciò che è cabalistico sono manifestamente in­
fluenzati dalla miscellanea pubblicata a Basilea nel r 5 87
da Johann Pistorius, Artis Cabalisticae. . . Scriptorum To­
mus I, un in folio di quasi mille pagine in cui due testi
autentici della kabbalah si trovavano insieme a scritti
cristiano-cabalistici di Pico, Reuchlin, Paulus Riccius,
del francescano Archangelus de Burgonovo e ai dialo­
ghi sull'amore, a loro tempo famosi, di Leone Ebreo
(Jehuda Abarbanel). Tutto questo materiale eteroge­
neo, che in parte non ha nulla, o assai poco, a che vede­
re con l'autentica kabbalah , viene inserito nella raccol­
ta come cabalistico, fra l'altro, per quanto mi risulta,
senza citare le fonti. L'interesse di Khunrath per l'alchi­
mia, intesa soprattutto come alchimia mistica, era acce­
sissimo e già costituisce il tema dominante degli scritti
che precedettero la sua opera principale. In uno di essi,
che era assai diffuso, egli tratta con dovizia di simboli il
« caos ilico » come prima materia dell 'alchimia, dando
un deciso contributo a quella tendenza che vedeva un
parallelismo tra l'opera-di-sette-giorni della creazione
divina e la « Grande Opera » degli alchimisti con il suo
dispiegarsi nei corrispondenti sette stadi.7 Le grandi in-

6 L'edizione più comunemente diffusa è stata pubblicata ad Hanau nel

I 609, ma ne esiste un'altra pubblicata a Magdeburgo nel I 6o8. Di questo


strano libro ho potuto esaminare solo la traduzione francese di Grillot de
Givry uscita a Parigi nel I 900.
7 Lo scritto di Khunrath Vom hylirchen Chaos fu pubblicato in tedesco
nel I 597, e in latino l'anno successivo. Ho potuto esaminare quest'opera sol-
SCHOLEM

cisioni allegoriche che illustravano l'opera di Khunrath,


e che erano state pubblicate separatamente già anni pri­
ma, venivano considerate nei circoli alchimistici e teo­
sofici come significative raffigurazioni di ciò che si in­
tendeva per kabbalah. 8 Queste incisioni erano cono­
sciute anche dal famoso cabalista della scuola luriana
J aaqov Tzemach, evidentemente ancora nel periodo del­
la sua vita di marrano, di cripto-ebreo, in Spagna, pri­
ma della riconversione all'ebraismo avvenuta a Salonic­
co . In uno dei suoi scritti polemici contro la kabbalah
cristiana, giudicata una completa falsificazione, egli si fa
beffa di queste raffigurazioni. Non nomina esplicita­
mente Khunrath, ma la sua descrizione non lascia alcun
dubbio sull'identità delle immagini.9
Piuttosto prudente nel considerare la kabbalah come
un elemen to dell'alchimia è il Lexicon Alchemiae del
paracelsiano Martin Ruland ,10 che fu pubblicato poco
più tardi dell'opera di Khunrath e a suo tempo godette
di larga fama, mentre nei decenni successivi tra gli al­
chimisti mistici questa convinzione si imporrà quasi co­
me ovvia. Tornando indietro nel tempo, più o meno al­
l'epoca di Khunrath, troviamo una chiara identificazio­
ne dell'alchimia con la tradizione della kabbalah nelle
interpolazioni inserite da P. Arnauld nella sua prima
edizione dell'alchimistico Livre des figures hiéroglyphi­
ques di Nicolas Flamel, del 1 6 1 2 . Nella descrizione dei
rotoli di un presunto manoscritto su papiro che Flamel
avrebbe ritrovato, Arnauld aggiunge, come fossero pa­
role dello stesso Flamel, che per quanto l'opera dell'al­
chimia vi sia descritta con grande diligenza e abilità in
figure che spiegano in modo abbastanza comprensibile

tanto nel 1 978 all'Aia. Allo stesso ambito appartiene il suo De lgne Magorum,
pubblicato postumo nel 1 6o8 a Strasburgo.
' Queste incisioni in rame erano già apparse separatamente nel I 602. La
prima edizione del De lgne Magorum menzionata alla nota precedente con­
teneva come seconda appendice anche un anonimo Bericht eines Cabalisten
iiber die 4 Figuren des gro./Sen Amphitheatri Khunradi. Non ho mai visto que­
sto scritto.
' Ho pubblicato questo scritto polemico di Tzemach in « Kirjath Sepher »,
XXVII ( I 9 j l ) , p. 1 08.
10 M. Ruland, Lexicon Alchemiae, Frankfurt am Main 1 6 1 2 , pp. 295 sgg.
ALCHIMIA E KABBALAH 97

e chiaro di cosa essa tratti, tuttavia nessuno può vera­


mente comprendere l'alchimia se non ha approfondito
lo studio della loro (vale a dire degli ebrei) kabbalah
così come viene attestata nella tradizione (Cabale tradi­
tive) e non ne ha analizzato diligentemente i libri . 1 1
Nello stesso periodo anche il paracelsiano Franciscus
Kieser, che era a conoscenza di scritti inediti di Khun­
rath, unisce kabbalah e alchimia in questo stesso spiri­
to. Aveva pubblicato nel 1 6o6 una sorta di estratto del­
le dottrine paracelsiane, la Cabala chymica, in cui si di­
ce che la magia è la filosofia dell'alchimia « e una parte
rilevante della kabbalah ». Da vero paracelsiano, egli di­
stingue tra una kabbalah demoniaca e una perfetta: la
prima dev' essere condannata, la seconda è invece la più
alta realizzazione della vera filosofia. Sempre nello stes­
so libro Kieser, proprio come Arnauld nelle sue aggiun­
te a Flamel e come successivamente Thomas Vaughan,
spiega che si deve « dire chiaramente che nessuno arri­
verà mai alla conoscenza del summus arcanus se non è
già grandemente esperto di magia e di kabbalah, ed è
parimenti vero che tutti coloro che hanno avuto la pie­
tra sono stati, cosa sufficientemente provata, maghi e
cabalisti ». 12 Parole che ricordano molto da vicino l' af­
fermazione di Khunrath: « Kabbalah, magia e alchimia
Il
devono essere unite e unite devono essere praticate » .
La concezione mistica dell'alchimia trovò espressio­
ne pochi anni dopo negli scritti, pubblicati a partire dal
1 6 1 4 ed esercitanti un vasto influsso, dei cosiddetti ro­
sacroce, soprattutto nella Chymische Hochzeit des Chri­
stian Rosenkreutz (Le nozze chimiche di Christian Ro­
senkreutz ) , di cui oggi è unanimemente riconosciuto

" Su queste interpolazioni ha richiamato l'attenzione, in <<Bibliothèque


d'Humanisme et Renaissance>>, 3 5 ( I97J l , p. I 04, François Secret, che cita
un.' edizione del Livre des figures hiéroglyphiques pubblicata a Parigi nel I 970,
p. 77- Su Flamel cfr. anche A. E. Waite, The Secret Tradition in Alchemy, pp.
I J7· I 62.
11
Non ho potuto stabilire l'origine della seconda interpolazione cabali­
stica di Arnauld citata da Secret nel suo saggio (p. I I o) . Egli parla di qual­
cosa che « gli antichi e saggi cabalisti » avrebbero descritto nelle « meta­
morfosi del serpente di Mercurio». Non so dire a cosa si riferisse.
" H. Khunrath, De lgne Magorum, nuova ed., p. 7 5 -
SCHOLEM

come l' autore Johann Valentin Andreae ( 1 5 8 6- I 6 54), il


teologo e teosofo svevo che nei movimentati anni gio­
vanili sognava una riforma universale della cristianità
fondata sul misticismo. Non è molto importante per
noi stabilire se esistesse una vera e propria organizza­
zione della confraternita dei rosacroce già prima del
xvm secolo; l'importante è che alcune delle discussioni
di allora sul movimento ispirato dagli scritti fondamen­
tali dei rosacroce sono significative per il processo che
stiamo analizzando, se si considera quale duraturo in­
flusso esercitarono.
Soprattutto vari teosofi inglesi, che parteciparono
con particolare vivacità a questo dibattito, ebbero un
ruolo importante per l'affermarsi in nuovi ambienti del­
l'identificazione di kabbalah cristiana, alchimia e ma­
gia, e in seguito esercitarono, nel XVIII secolo, un gran­
dissimo influsso sulle organizzazioni dei rosacroce.
Penso innanzi tutto a Thomas Vaughan e al poco più
anziano Robert Fludd ( I 57 4- I 6 3 7) . In molti scritti di
Fludd il simbolismo cabalistico si unifica con quello al­
chimistico, laddove naturalmente la fabbricazione del­
l'oro rappresenta soltanto un simbolo materiale della
trasmutazione dell'uomo stesso verso lo stadio della
perfezione in Cristo. N el suo trattato intitolato I.:erpice
d'oro della verità (scritto intorno al I 62 5 ) e nel suo ulti­
mo grande libro, la Philosophia Moysaica/4 egli trova
nel simbolismo cabalistico delle due forme in cui com­
pare la lettera alef, che nelle fonti ha naturalmente ben
diversi sviluppi, la trasmutazione alchemica dell'oscura
materia prima nella chiara e splendente pietra filosofa­
le. 1' Un cabalista del XIII secolo, J aaqov Kohen di Soria,
nella sua interpretazione dell'alfabeto ebraico distin­
gueva tra un'oscura forma esteriore delle lettere e una
loro luminosa figura mistica, simboleggiata sui fogli di
pergamena della Torah dagli spazi bianchi tra le forme

14 Il trattato di Fludd Truth's Golden Harrow è stato pubblicato da C. H.


J osten nella rivista trimestrale << Ambix », m ( I 949), pp. 9 I - I 50. Della Philo­
sophia Moysaica ho esaminato l'edizione Gouda I6J8.
1 ' Così ad esempio nel trattato pubblicato da Josten, pp. I I 5 e I 24, e nel­
la Philosophia Moysaica, ff. 2o a, 23 e, e in molti altri passi.
ALCHIMIA E KABBALAH 99

visibili marcate dal nero dell'inchiostro. Reuchlin, che


aveva letto, e citato, questo trattato da un manoscritto
cabalistico conservatosi fino ai nostri giorni, 16 ispirò a
Fludd l'interpretazione alchimistica, che ricorre conti­
nuamente nei suoi scritti. E ancora, le pietre incastona­
te sul pettorale del sommo sacerdote, con le loro luci già
interpretate misticamente dai cabalisti, nella Torah urim
we-tummim - l'ebraico « urim », il cui significato origi­
nario non è più chiaro, poteva facilmente essere inteso
come « luci » - indicano per Fludd il processo della tra­
smutazione delle « pietre », che trova il suo compimen­
to nella pietra filosofale o dei sapienti, che sarebbe ap­
punto questo « urim ». Negli scritti di Fludd abbonda­
no simili interpretazioni alchimistiche di versetti biblici
e di motivi cabalistici, generalmente tratti da Pistorius,
che si mescolano a immagini tratte da altre fonti.
Lo stesso si può dire dei trattati, ancora molto letti
nel xvm secolo, di Thomas Vaughan, che continua­
mente mescola e connette uno all'altro i due universi
simbolici. Nella Magia Adamica egli dice espressamen­
te che la kabbalah degli ebrei era chimica e si esprime­
va in realizzazioni che concernevano l'ambito della na­
tura, citando come fonte il fittizio libro di Avraham
l'Ebreo, su cui erano fondate del resto anche le rivela­
zioni di Nicolas Flamel . 17 Tutti questi scritti precedono
9i 2 5 - 50 anni la pubblicazione della Kabbala Denudata.
E naturale che gli autori i quali scrivevano in questo
spirito trovassero conferma nell'opera di Knorr di ciò
che essi da tempo pensavano sull'armonia, se non addi­
rittura sull'identità, tra alchimia e kabbalah. D'altro la­
to, in un'opera come il Coelum Sephiroticum Hebraeo­
rum di Johann Christophorus Steeb (Magonza 1 679) ,
posteriore di due soli anni al primo volume della Kab-

" Cfr. in proposito il mio volume Judaica, III, Frankfurt am Main 1973,
pp. 2 5 1 -252. L'interpretazione di Jaaqov Kohen delle lettere dell'alfabeto
ebraico è stata a suo tempo da me pubblicata in Madda'e ha-jahadut, vol. II,
Jerusalem 1927; in particolare, il passo sulle due ligure dell aie/ si trova alle
'

pp. 201-202. Reuchlin l'ha usato, peraltro senza identificare la sua fonte, nel
De arte cabalistica, f. LXI! V (nella traduzione francese di E Secret, pubblica­
ta nel 1 973, p. 249).
17 Nella traduzione tedesca di Magia Adamica, Leipzig 1 7 5 3 , p. 70.
IOO SCHOLEM

bala Denudata (che, come abbiamo visto, comprendeva


l'Esh Metzare/) , non appare nulla di questi nuovi svi­
luppi, e il cielo sefìrotico viene descritto esclusivamente
con gli strumenti forniti da Agrippa e dalla raccolta di
Pistorius, mescolati a medicina e scienze naturali, e so­
prattutto alchimia. Un testo esemplare della confusio­
ne, sia pure in buona fede, tra simbolismo della natura
e simbolismo cabalistico.
Non sono in grado di dire quando l'uso dei due trian­
goli disposti a formare l'esagramma (la stella a sei pun­
te) sia stato introdotto dagli alchimisti per significare
l'unione alchemica di fuoco e acqua. Esso veniva spie­
gato con l' interpretazione, tratta dal midrash , della pa­
rola ebraica shamajim come combinazione delle due pa­
role esh, fuoco, e majim, acqua. E comunque intorno al
1720 questo simbolismo era già conosciuto e veniva ap­
plicato frequentemente in alchimia. Peuckert spiega
l' esagramma inscritto in un cerchio come segno magico
usato dagli ebrei presumibilmente nella negromanzia
citando come fonte Paracelso, sebbene nelle note am­
metta che il disegno in questione si trova soltanto in una
postilla aggiunta a mano in una copia dell'edizione di
Huser da lui consultata a Breslavia.18 Del resto questo
disegno poteva avere una qualche relazione con l'uso
magico dell' esagramma come « sigillo di Salomone » e
poi come « scudo di Davide » che ricorre in alcuni amu­
leti ebraici, anche se non solo in questi, di cui ho tratta­
to in altra sede. 19 Il termine ebraico « scudo di Davide »

" Cfr. W.-E. Peuckert, Pansophie, p. 245, dove i disegni del pentacolo e
dell' esagramma sono tracciati nel doppio circolo; di essi Paracelso dice che
questi caratteri presso alcuni ebrei sono « tenuti gelosamente segreti. Perché
essi eseguono tutto, vincono tutti i malefici, hanno potere contro il diavolo e
valgono più di tutte le figure, pentacoli, sigilli di Salomone, perché in essi è
al nome dell'Altissimo che si fa ricorso >>. La contraddizione tra questa frase
e i due disegni riprodotti nel testo è palese. Che essi in realtà non siano af­
fatto di origine ebraica, ma cristiana, è reso evidente dalle iscrizioni. Nel
pentacolo è scritta non solo la designazione greca (in caratteri latini) del no­
me di Dio, te-tra-gram-ma-ton, ma anche il nome Gesù nella consueta antica
grafia, ]hsus, mentre l'esagramma reca in latino i due nomi Adonai e ]eova ­
tutto ciò sarebbe assolutamente impossibile per gli ebrei. Sul fatto che si
tratti di una aggiunta più tarda, vedi ibidem, p. 508.
" Cfr. il mio volume ]udaica, 1 , Frankfurt am Main 1 964, pp. 75 - 1 1 8.
ALCHIMIA E KABBALAH 101

era certamente conosciuto all'alchimista che nel I 724


pubblicò a Berleburg, famoso centro di teosofia cristia­
na, un opuscolo intitolato Naturae naturantis et natura­
tae Mysterium, das ist Geheimniss der Natur im Schtld
Davids (Naturae naturantis et naturatae Mysterium, ov­
vero il segreto della natura nello scudo di Davide) .20
Al termine di questo sviluppo si situano due teosofi
della Germania meridionale nei cui scritti giunge a
compimento quel compenetrarsi di kabbalah e alchi­
mia di cui ho voluto descrivere le origini. Si tratta di
due spiriti fortemente mistici, che cercarono di svilup­
pare per la loro teosofia una simbologia il più possibile
universale: Georg von Welling ( I 6 5 2 - I 72 7) e Friedrich
Christoph Oetinger ( I 702- I 78 2 ) , che esercitarono un
grande influsso sulla loro generazione e su quella suc­
cessiva. La ponderosa opera di Welling, che svela la sua
essenza già nel titolo, lunghissimo secondo il gusto del­
l' epoca, fu pubblicata integralmente soltanto nel I 73 5
come « Opus Mago-Cabbalisticum et Theosophicum, da­
rinnen der Ursprung, Natur, Eigenschaften und Ge­
brauch des Saltzes, Schwefels und Mercurii in dreyen
Theilen beschrieben , und mit sehr vielen sonderbaren
mathematischen, theosophischen, magischen und my­
stischen Materien , auch die Erzeugung der Metalle und
Mineralien aus dem Grunde der N atur erweisen wird;
samt dem Haupt-Schliissel des ganzen Wercks und vie­
len curieusen mago-cabbalistichen Figuren. Deme noch
beygefiiget: Ein Tractatlein von der Gottlichen Weis­
heit; und ein besonderer Anhang etlicher sehr rar- und
kostbarer chymischer Piecen » ( Opus Mago-Cabbalisti­
cum et Theosophicum, in cui vengono descritti in tre
parti l' origine, la natura, le proprietà e l'uso del sale,
dello zolfo e del mercurio, e in cui viene dimostrata con
moltissime straordinarie materie matematiche, teosofi­
che, magiche e mistiche anche la fabbricazione dei me­
talli e dei minerali dal fondamento della natura; insie-

20
Nel 1 909, questo libro era segnalato nel Catalogo 5 3 9 (Judaica e He·
braica) dell'antiquariato Josef Baer & Co. di Francoforte al numero 8 1 7.
Non mi è stato sin qui possibile rintracciarne un esemplare.
1 02 SCHOLEM

me alla chiave principale di tutta l'Opera e molte curio­


se figure mago- cabalistiche. E in aggiunta ancora: un
trattatello sulla Saggezza Divina; e una speciale appen­
dice con molti rarissimi e preziosissimi passi chimici) .
Questo libro si trovava nel 1 769 sulla scrivania di
Goethe, all'epoca in cui egli era entrato nel circolo di
Susanna von Klettenberg. Goethe lo descrive a modo
suo, per cui non si capisce bene cosa l' autore si propo­
nesse con la sua opera, in Dichtung und Wahrheit (Poe­
sia e verità ) , parte seconda, libro ottavo. La finalità del
libro è fon damentalmente identica a quella di Paracel­
so, il cui proposito centrale consiste nel porre in rela­
zione una con l'altra le due luci, la luce della grazia e
quella della natura, e di mostrarle nella dialettica del
loro agire. Come egli stesso afferma nella prefazione, i
suoi interessi non sono rivolti all'alchimia fisica, tesa a

insegnare la fabbricazione dell'oro; la sua mira punta piutto­


sto a qualcosa di molto più alto, ossia come la natura possa
esser vista e riconosciuta muovendo da Dio, e Dio possa es­
ser visto e riconosciuto in essa, e come poi da questa cono­
scenza sgorghi il vero e puro servizio della creatura come of­
ferta di ringraziamento del peccatore verso il creatore.

Concezioni alchimistiche reinterpretate in senso teoso­


fico dominano la struttura e il procedimento di pensie­
ro del ponderoso volume, e ad esse vengono costante­
mente anche intrecciate le idee dei mago- cabalisti, fino
a una completa amalgamazione dei due ambiti. Questo
termine di mago-kabbalah denota quella combinazione
di magia e kabbalah che, introdotta da Pico e poi co­
stantemente sviluppatasi, si « trova in tutti gli scritti di
cui abbiamo trattato sino a ora, così come in J akob
Bohme.21 Welling, che era indubbiamente un uomo di
straordinaria cultura ed erudizione, ha ripreso anche
residui di concezioni cabalistiche ebraiche. Egli cono­
sceva assai bene la Kabbala Denudata di Knorr, ma so-

" Il passo in Bohme si trova nelle Theosophische Fragen ... von gottlicher
0//enbarung, nella terza parte, § 34, nell'edizione di Schiebler del 1 864, vol.
6, p. 602.
ALCHIMIA E KABBALAH 1 03

stanzialmente nella sua opera la kabbalah non è signifi­


cativamente diversa da quella di Paracelso e della sua
scuola: a parte il nome, essa non ha nulla in comune
con la tradizione ebraica.
Il mito fondante che costituisce il punto di partenza
della sua opera (soprattutto nel primo capitolo sul sale
e l'opera-di-sette-giorni della creazione) e che è poi sta­
to da molti ripreso è del tutto estraneo alla tradizione
cabalistica. Si tratta di una variante in sé assolutamente
originale del tema, proveniente dall'apocalittica ebraica
(il Libro di Enoch) e sviluppato poi dagli gnostici, della
rivolta di Lucifero all'inizio della creazione. Le conce­
zioni di Welling al riguardo sono state legittimamente
definite come un « mito cosmico della storia ». 22 Infatti,
secondo Welling:

In principio era il mondo di luce di Dio e degli spiriti, nel


cui centro Lucifero come la prima e la più magnifica tra le
creature di Dio rispecchiava il divino. Ma Lucifero ostacolò
con la sua volontà l'azione della luce divina.

Così nella sua sfera si produsse uno spazio di caos, di


oscurità e di pesantezza, da cui Dio creò il sistema sola­
re. Lucifero infatti, crogiolandosi nella consapevolezza,
nella percezione della gloria che lo circondava, aveva
finito per dimenticare la sua origine e si era così isolato
da Dio, sviluppando una propria volontà. Secondo i di­
segni del Signore, Adamo, invece di Lucifero, avrebbe
dovuto « essere immagine e somiglianza di Dio e domi­
nare la terra ». Ma anche Adamo cadde nel peccato e si
allontanò da Dio, e la storia consiste nella lotta tra le
potenze luciferine e divine nella creazione e nell'uomo
stesso. Soltanto nel tempo ultimo il mondo sarà trasfor­
mato in virtù del rigore divino, il mondo di luce di Dio
sarà ristabilito e tutti gli esseri, e lo stesso Lucifero, sa­
ranno ristabiliti nella loro originaria condizione armo­
nica e predialettica. Ora, i tre elementi alchimistici fon-

22
Così Erich Trunz nella HamburgerAusgabe delle opere di Goethe ( 195 5 ) ,
vol. 9. p . 7 1 7; i n questa sede n e seguo l'eccellente ricapitolazione, d a me con·
trollata sui testi.
104 SCHOLEM

damentali di Paracelso - sale, zolfo e mercurio - hanno


ognuno una relazione particolare con una delle tre epo­
che della storia della salvezza: il sale, con il mondo di
luce di Dio, la caduta di Lucifero e la creazione del
mondo del Genesi; lo zolfo con il balsamo vitale di tut­
te le creature, ma anche con il fuoco annientatore che
determina lo stato dell'uomo dopo la morte e il tempo
ultimo del giudizio universale; il mercurio, infine, con
la restituzione di tutte le cose nell'eone del nuovo cielo
e della nuova terra.
Nella concezione di Welling ha un ruolo importante
un elemento della aggadah ebraica che egli aveva tratto
dai mago-cabalisti, ma che non è propriamente cabali­
stico. La parola ebraica per cielo, shamajim, veniva
spiegata già nel midrash antico come l'unione di fuoco
e acqua, esh e majim.23 Questa etimologia, ripresa an­
che dai cabalisti ebrei, entrò già con Pico e Reuchlin
anche nella kabbalah cristiana, dove ebbe grande diffu­
sione. Per Welling nell'« acqua focosa » del cielo, esh­
majim, che precede la creazione del mondo, si unisco­
no i tre elementi. Egli rappresenta simbolicamente que­
sta concezione con un cerchio in cui è inscritto l'esa­
gramma, proprio come tra gli alchimisti i due triangoli
opposti uno all'altro venivano usati per significare gli
elementi dell'acqua e del fuoco. Così, per mezzo di
Welling, la figura ebraica dello scudo di Davide, di cui
egli sembra veramente non sapere nulla, approdava in
molti scritti alchimistici e rosacrociani del xvm secolo
come simbolo di perfezione. 24

" Cfr. anche sopra, p. 1 00 . Nel Talmud babilonese, Chagiga u a, questa


interpretazione viene citata da una baraita (mishna non autoritativa). Nel
midrash Bereshit rabba, sez. 4, § 8 (ed. Theodor, p. 3 1 ) essa viene fatta risali·
re, come molte altre considerazioni sull'opera-di-sei-giorni della creazione
nel Talmud, a Rav, il principale rappresentante della tradizione esoterica nel­
la prima metà del III secolo. Theodor riporta qui anche altri detti, nonché
passi che presuppongono un conflitto tra fuoco e acqua che si sarebbe risol·
to nel « cielo >>.
" La figura dell'esagramma iscritta in un circolo si trova in Welling (sen­
za iscrizioni e interpretata in senso puramente alchemico) nella prima tavo­
la, a p. 8, e nella quinta, a p. 96. Le speculazioni di Welling su shamajim co­
me fuoco celeste e acqua celeste che si riversano rispettivamente nel sole e
nella luna, loro recipienti, si trovano fin dall'inizio, pp. 6-7, e percorrono
ALCHIMIA E KABBALAH 105

Naturalmente Welling menziona anche idee autenti­


camente cabalistiche, come le speculazioni sulle sefìrot,
per mezzo delle quali, spiega, i « mago-cabalisti ebrei »
illustravano i diversi modi di agire della divinità sugli
spiriti, gli angeli e le creature terrene.2' Ma proprio sul
punto decisivo egli si allontana da tali concezioni. Que­
sto passo mostra quanto poco il suo libro potesse costi­
tuire una fonte per la conoscenza della kabbalah ebrai­
ca e come tutto venga trasformato in senso cristiano (e
alchemico-mistico) . Scrive Welling (p. 208 ) :

Soltanto perché noi non possiamo mai combinare tutti


questi loro segreti e queste meravigliose suddivisioni con la
verità della Sacra Scrittura, e di fatto non ne abbiamo motivo
alcuno, perché essi [gli ebrei] non riconoscono la rivelazione
della Maestà Divina, Fiat/6 e noi non abbiamo voluto ricor­
rere ad essa. La loro Cabbala è dunque fatta così, ma chi sa
unire nel modo giusto il Nuovo Testamento con il Vecchio in
tutte le parti, quegli ha imparato perfettamente la giusta
Cabbala [ . . . ] . La Cabbala ebraica non è altro che un abuso
dei Nomi Divini, in quasi tutte le sue parti.

Si può dire che con questa deformazione, o trasforma­


zione, per non dire trasmutazione, della kabbalah ebrai­
ca in una kabbalah meramente cristiana, e con ciò deci­
samente più accessibile alla reinterpretazione alchimi­
stica, il processo di cui ci siamo interessati raggiunge il
suo culmine.
L'impressione lasciata dal libro di Welling fu suffi­
cientemente duratura da far sì che ancora nel 1 780 i
massoni nel loro processo verso la mistica ricorressero

l'intero libro. Suler afferma, senza dare indicazioni più particolareggiate


(nell'articolo << Alchemie >> del 1 928, col. 1 JS), di aver trovato questo disegno
in numerosi libri alchimistici del xvm secolo. Negli scritti dei rosacroce e
dei massoni di tendenze mistiche, soprattutto nelle istruzioni stampate dei
« Fratelli Asiatici >>, la figura ricorre frequentemente. Nella letteratura mas­
sonica essa viene detta in genere « stella sigillo >>.
" Quando Welling, senza ulteriori precisazioni, accenna ai mago-cabali­
sti, spesso riportando citazioni, non si tratta, per quanto ho potuto verifica­
re, di frasi cabalistiche autentiche. Si direbbero piuttosto citazioni da testi
paracelsiani o affini. Sarebbe interessante identificare queste fonti.
26
Con il Fiat Welling intende la divinità di Cristo già indicata, a suo avvi­
so, da Genesi r , 3, e che gli ebrei non hanno riconosciuto.
106 SCHOLEM

a quest'opera come a una tra le fonti principali delle lo­


ro idee. Sia gli scritti dottrinali dei « Gold- un d Rosen­
kreuzer » che quelli, in parte sviluppatisi nello stesso
ambito ma anche distanziatisi da esso con toni forte­
mente polemici, dei « Fratelli Asiatici », hanno ripreso
quasi alla lettera il mito luciferino di Welling.27 Negli
scritti dei « Fratelli Asiatici » questa mitologia pseudo­
cabalistica si è congiunta in modo sorprendente con
una tradizione relativa agli inizi della creazione autenti­
camente cabalistica, sebbene eretica, perché sorta negli
ambienti che in seguito avrebbero appoggiato Shabetaj
Tzevi.28
Una più autentica connessione tra kabbalah e simbo­
lismo alchemico-mistico di carattere cristiano si realiz­
za infine, nella generazione successiva a Welling, nelle
concezioni del prelato e teosofo svevo J. Chr. Oetinger,
che aveva studiato teologia, conosceva le raccolte allora
pubblicate di passi dello Zohar reinterpretati in senso
cristiano29 e che da un cabalista di Francoforte morto
giovanissimo, Koppel Hecht/0 era stato iniziato agli
scritti di Bohme, che a suo dire sviluppavano il simbo­
lismo cabalistico autonomamente e in modo chiaro .JJ

2 7 F. Runkel, Geschichte der Freimaurerei in Deutschland, vol. I I , Berlin


I9J2, p. I 2 I ; citato in Rolf Zimmermann, Das Weltbild des jungen Goethe,
Mi.inchen I969, p. I 82: « Il quarto capitolo di Welling sul mondo dei pri­
mordi si trova rielaborato quasi alla lettera nei protocolli delle lezioni [cioè
nelle istituzioni] ai discepoli del primo grado >>. Queste istruzioni sono ante­
riori al I78o, per cui Hans Heinrich von Ecker und Eckhofen poté ripren­
derle nel primo grado di quelle per i « Fratelli Asiatici >> del I 782. Una com­
parazione precisa sarebbe forse possibile servendosi del m ateriale in B.
Beyer, Das Lehrsystem des Ordens der Go/d- un d Rosenkreuzer, Leipzig I 92 5,
che però non ho potuto procurarmi.
" Come ho dimostrato nel mio lavoro (in tedesco) su Ephraim Hirschfeld,
in Yearbook of the Leo Baeck lnstitute, vol. VII, ci t., pp. 270- 2 7 I , e in quello
(in ebraico) su Moses Dobruska (vedi nota 58 , p. 87), pp. 1 4 1 - I42.
" Oetinger ha usato soprattutto la raccolta di Gottfried Christoph Sommer,
Specimen Theologiae Soharicae cum Christiana Amice Convenientis, Gotha
I 7 4.
i
�' Koppel Hecht morì nel dicembre del I 729; Oetinger g i aveva fatto vi­
sita nella primavera di quello stesso anno. La sua pietra tombale è riportata
in Markus Horovitz, Die lnschriften des alten Friedhofs der israelitischen Ge­
meinde zu Frankfurt ( I 90 i ) , p. 209.
" Cfr. in proposito anche Ernst Benz, Die christliche Kabbala, Zi.irich
I 9 5 8, pp. 26-30. Che nella comunità ebraica Hecht fosse un uomo stimato e
colto risulta da quanto è scritto sulla sua pietra tombale, ma nulla prova che
ALCHIMIA E KABBALAH 1 07

Ma non è necessario che mi soffermi su questo tema,


poiché sulla preistoria delle tradizioni cabalistiche
presso i teologi svevi del xvn secolo e sul « simbolismo
cabalistico e alchimistico in Oetinger » abbiamo ora
due eccellenti lavori di Friedrich Haussermann, che h a
approfondito notevolmente l' argomento.32

egli fosse il più notevole cabalista della comunità, come scrive Benz. La co­
munità, che visse un periodo di grande inquietudine per gli elementi sabba­
tiani che intorno al 1 720 si agitavano in essa e nella vicina Mannheim, e che
in generale aveva un atteggiamento assai circospetto nei confronti delle ten­
denze cabalistiche, accolse comunque un gran numero di cabalisti, primo
fra tutti David Grunhut (morto nel 1 723), che sulla sua pietra tombale viene
designato espressamente come tale (Horovitz, p. 1 87).
" I lavori di Hiiussermann, Pictura Docens e Theologia Emblematica, so­
no stati pubblicati nei « Bliitter fur Wurttembergische Kirchengeschichte >>,
66/67 ( 1966- 1 967), pp. 6 5 - 1 5 3 , 68/69 ( 1968- 1 969), pp. 207-3 46, e ( 1 972), pp.
7 1 - 1 1 2 . Essi sono tra i migliori a disposizione sulla kabbalah cristiana del
xvn e xvm secolo.
FINITO DI STAMPARE
NEL MESE DI MAGGIO 2016
DA GECA SRL - SAN GIULIANO MILANESE

Potrebbero piacerti anche