Sara' Un Filo Di Seta Nero - Enza Siccardi

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Copertina di Paolo Nutarelli

Edizioni Anarres

Recapito provvisorio: c/o Biblioteca Libertaria F. Ferrer,


P.zza Embriaci 5, 16123 Genova

Contatti con l'autrice: Ca' di Favale, via Zerli 1, 16040 Ne (Ge)


e mail: [email protected]

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Enza Siccardi

Sarà un filo di seta nero

Edizioni Anarres

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Presentazione

Alla fine della lettura e, credo, davvero, solo allora, il lettore


potrà acquisire il “senso” di tutto il viaggio attraverso le pagine
dei racconti che questo libro propone.
E' una donna che si racconta e che, attraverso momenti, citazioni,
osservazioni e scarne aperture emozionali, dice del suo essere
stata presente in momenti e situazioni rilevanti della nostra storia
degli ultimi sessant'anni, fino a giungere a parlare delle sue
proposte per il futuro di un possibile aggregato di persone, in una
vallata della Liguria.
Si pone una domanda, subito: “scrivere, perché?”, seguita da
un'altra: “scrivere, per chi?”.
La prima trova risposta nelle pagine che ci accompagnano nelle
diverse fasi dell'esperienza di Enza Siccardi, dalla prima infanzia
caratterizzata dall'essere una “ponentina di Liguria”, cresciuta in
una famiglia di comunisti, già partigiani, con la vocazione
all'ortodossia e all'inevitabile conformismo che ha caratterizzato,
nello scorso secolo, gli anni cinquanta di molti militanti
osservanti.
Quindi, per lei, fin da subito, la ricerca delle strategie e delle
soluzioni meno drammatiche per la sopravvivenza, a partire
dalla difesa di fronte alle più repressive e convenzionali istanze
educative, fino alle posizioni assunte, non più ragazzina, di fronte
alle scelte scolastiche e ai primi appuntamenti con la vita di una
ragazza ormai donna.

Periodi, quelli dalla nascita fino alla soglia dei vent'anni che, nel

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ricordo, adesso, assumono una colorazione più calda di quanto
non fosse allora, ma anche successivamente, per ancora molto
tempo. Quindi il periodo della presenza nelle organizzazioni per
l'emancipazione femminile, la protesta organizzata, fino anche
alle azioni violente della lotta armata degli anni settanta a
Genova. Da queste, per quanto fosse messa in conto come fatto
quasi inevitabile per chi sceglieva quella strada, l'esperienza
concreta del carcere.

Alcuni dettagli dell'esperienza antagonista riportano al contesto


del tempo, vi compaiono i nomi, i luoghi, le modalità di
organizzazione e di azione che, per chi allora viveva a Genova,
ma non solo qui, sono collocati nel ricordo di un periodo datato,
comunque unico della storia recente. L'esperienza del carcere
viene descritta attraverso rappresentazioni di luoghi e di persone
che stavano da una parte, e anche dall'altra: “guardie e ladri”,
immagini, condizioni, comportamenti, parole, ed anche sprazzi
di una certa umanità.
Qui, in questa esperienza che, data l'età e le situazioni, avrebbe
potuto anche essere vissuta più “sportivamente”, invece c'è la
testimonianza della condizione difficile e delicata della ragazza
incinta, della giovane donna alle prese con le importanti
decisioni personali, fino alla scelta di tenere il bambino che
desiderava, con le difficoltà della gravidanza in carcere e con
l'umiliazione finale del parto sotto occhi umanamente immaturi,
oggetto dei disgustosi e spregevoli commenti degli uomini
dell'istituzione, che la guardavano nel suo momento più difficile
ma, forse ancora oggi, il più dolce, nonostante tutto.

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L'esperienza termina e la vita di Enza prosegue, negli anni; la
donna matura nel tempo, va verso le sue successive età, ma quelli
che sono stati i suoi valori e i suoi simboli: i suoi punti fermi di
cui il racconto è pieno, restano.
Le rimangono la voglia di “fare”, la ricerca puntuale della
coerenza nelle proprie e nelle altrui azioni e modalità, la critica ai
simboli e alla loro sacralità – anche il giudizio sullo Stato che
“oggi come ieri, è lo Stato dei padroni”, e che ormai “annovera
tra le sue file speculatori e burocrati”, ricordando che “non era
intemperanza da corteo gridare -servi dei padroni- alle forze
dell'ordine durante le manifestazioni perché lo Stato è
un'istituzione dei padroni; l'essere “anarchica” e, per di più,
individualista fino al midollo, capace, per questo, di distinguere,
nell'intreccio delle relazioni, quanti le sono più simili per aspetti
non secondari; però unica, sempre soggetto “primus inter pares”,
ovunque.

Tante riflessioni, importanti per la comprensione del pensiero,


sull'affidabilità e la lealtà delle persone, sull'essere fedeli ad una
linea, così come alle persone, sui ruoli della famiglia di origine,
ed anche, forse, sulle possibili situazioni della propria vita
familiare, in seguito.
La “coerenza” emerge nei racconti sui genitori e nelle condizioni
personali della stessa autrice, dove è utile essere autosufficiente e
rivolta solo all'essenziale, senza mai concessioni alle questioni
del gusto e dell'estetica.
Forse buona parte dell'ortodossia originaria è rimasta nella

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persona che, a detta di un'amica: “si copre, non si veste”.

I rapporti con il mondo femminista degli anni sessanta-settanta e


le attuali valutazioni sulle donne in carriera portano a
considerazioni di altissima attualità, così come anche
all'evidenza di una sicura delusione per quanto si sarebbe potuto
cambiare, ma che non si è realizzato, e altro ancora.

Infine i pensieri per il futuro: i progetti di Enza che già nel


carcere di Voghera aveva deciso che il cerchio iniziato a
percorrere nel settantasei era da considerare chiuso, e che
doveva cominciare a pensare a “che fare”, come se si fosse
accesa una lampadina nella sua testa, che non si è più spenta. La
prima esperienza di Ca' Favale, con le sue aspettative e le sue
diverse ambiguità, i limiti, sicuramente derivati anche dalla
novità dell'esperienza, dal contatto con persone, donne in
particolare, che erano di mondi e di tempi diversi da quelli del
“sogno” e, certamente, distanti dalle aspettative di una persona
che arriva da “lontano” e che sta progettando il futuro con
l'entusiasmo, ma anche con i dubbi di chi ha capito – il tempo
glielo ha concesso – che con le persone, di solito “perse in una
marea umana indifferenziata”, occorre saper andare oltre quella
“corazza di ritorno” che copre e protegge, nascondendole, le
vere convinzioni e particolarità individuali, ma questa è una
ricerca che richiede attenzione e, soprattutto, tempo e
disponibilità.

In queste ultime considerazioni, forse, stanno sia la risposta alla

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seconda domanda “scrivere, per chi?” - a chi può giovare leggere
queste cose? -, che il significato dell'idea di un progetto per la
rinascita di un territorio e per l'occupazione, magari femminile,
nella sua valle -, basato sull'allevamento dei bachi da seta, con
tutto ciò che ne potrà conseguire.

Qui il racconto di Enza Siccardi si ferma; “chi avrà la curiosità di


sapere se e come il progetto è andato avanti, potrà fare un giro a
Ne: se qualcosa bolle in pentola potrà scoprirlo con facilità; se
nulla si muove, potrà sempre fare una buona abbuffata in qualche
agriturismo locale”.

Paolo Tellarini, Marzo 2015

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a lidia e jacopo

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Indice

Presentazione p. 3

1 – Scrivere, perché? Scrivere, per chi? p. 10

2 – Chiara e Nino, mamma e papà p. 17

3 – La militanza comunista p. 23

4 – Dopo il '68 p. 28

5 – Femminismo? p. 33

6 - Arresto, tradimenti, solidarietà p. 38

7 – Maternità p. 42

8 – L'arresto a scuola p. 46

9 – Voghera p. 51

10 – Ca' di Favale p. 56

11– Una questione di autostima p. 64


(Non è bello avviarsi a fine partita
con un autogol nel sacco)

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1. Scrivere, perché?

C'è chi pensa che il modo più diretto per comunicare sia la
parola. Tuttavia non sempre è così, dipende dalle situazioni,
dall'empatia maggiore o minore che in esse si crea tra i presenti,
dalla capacità oratoria di chi parla e dalla capacità di ascolto dei
suoi interlocutori.

In linea generale, non solo non ho capacità oratoria, ma sono


anche fortemente influenzata dalle vibrazioni che, lo vogliano o
no, le persone emanano quando si riuniscono per qualche
motivo. In una situazione “amicale” o, comunque, non ostile, la
percezione del dubbio, della perplessità altrui mi blocca, non
consentendomi di articolare per intero, in modo soddisfacente il
mio pensiero.
In una situazione che mi coinvolge anche emotivamente, come
quella che si creò con la Molinari alla biblioteca libertaria
Francisco Ferrer, in occasione della presentazione di un libro di
Emilio Quadrelli, la necessità “politica” prevale su ogni forma
di blocco. (Per il lettore non addentro alle "segrete cose",
Augusta Molinari era assistente di Gianfranco Faina, che nel
1976 aveva la cattedra di Storia dei Partiti Politici all'università
di Genova. Dopo l'arresto di Gianfranco, la testimonianza resa
dalla Molinari agli inquirenti ebbe il suo peso e venne citata
nella sentenza di condanna per il tentato sequestro dell'armatore
Tito Neri, emessa a Livorno nel 1980. Invece la biblioteca
Francisco Ferrer, con sede in piazza Embriaci 5, esiste dal 1976,
quando vari compagni si dedicarono alla sua organizzazione con

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l'intento di raccogliere, conservare e valorizzare pezzi della storia
degli anarchici e del movimento anarchico a Genova e non solo,
che altrimenti rischiavano, e tutt'ora rischiano, di essere perduti)
Al contrario, quando ho incontrato, sempre alla biblioteca Ferrer,
un discreto numero di “compagni” per tentare un chiarimento
soddisfacente in relazione alle “informazioni riservate” di cui C*
pareva essere depositario, mi hanno tolto parecchia lucidità il
fatto di essere parte in causa e l'assenza di chiarezza dei
partecipanti, decisi a non sbilanciarsi né in un senso né nell'altro,
accontentandosi di una spiegazione davvero miserevole se
rapportata alle indiscrezioni. Le "informazioni riservate", in base
alle quali avrei "venduto" Gianfranco, rendendone possibile la
cattura a Bologna, non potevano essere farina del sacco di C*,
che nel 1979 era troppo giovane, e dunque vanno ascritte alla
pratica di diffamare gli oppositori politici, da sempre in auge
nelle file dei comunisti. E' possibile che tale pratica venga
"nobilitata" dall'idea, anch'essa radicata e popolare, che "il fine
giustifica i mezzi". Da ex comunista ho trovato liberatoria e
fondamentale l'idea della coerenza tra mezzi e fini, ovvero che i
mezzi devono essere in sintonia con i fini che si vogliono
raggiungere.

Forse proprio per questo i miei racconti sono sempre scarni,


sintetici, quasi senza emozioni. Lo scrivere, quindi, è legato in
primo luogo a caratteristiche personali. Ma non solo. Mi frullano
sempre in testa le parole che un “compagno” più giovane disse
una volta a François, con il quale collaboro nella gestione della
biblioteca libertaria Francisco Ferrer già citata:

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“Perché ti devo credere?”
Giusta osservazione, se uno pensa di avere a che fare con un
imbonitore. Se però non è così, l'assenza di fiducia – fiducia
che, in ogni caso, non è mai un valore assoluto – taglia le gambe
a qualunque forma di comunicazione orale che non sia
prevaricatoria o subdola: se non mi credi “per principio” non ho
proprio niente da dirti.

Lo scritto ha, inoltre, il vantaggio di spersonalizzare il racconto.


Certo, sono sempre io che scrivo, ma non la Enza in carne ed
ossa con tanti anni sulle spalle, pronta magari ad incazzarsi
anziché lasciar correre, ma la Enza senza alone e materialità,
che può essere identificata, nel bene e nel male, con quello che
scrive. E ancora, per quanto possa apparire un'osservazione
banale, un testo scritto consente anche di rileggere un passaggio,
una parola, per rifletterci su. Infine, lo stesso racconto può
girare di mano in mano e quindi essere fruibile da persone
diverse, in situazioni diverse.

Detto tutto ciò, non sono affatto certa che la mia testimonianza
sia utile. Tuttavia, di fronte alle stronzate, alle incongruenze e
alla vacuità dell'agire odierno, preferisco dire in qualche modo
la mia anziché tacere, scuotendo sconsolata la testa.
Ho pensato tante volte che da mio figlio avrei accettato
qualunque cosa tranne un rapporto intimo con un tutore\tutrice
dell'ordine. Infatti non potrò mai dimenticare la violenza,
pesante perché gratuita, subita al momento del travaglio per la
presenza di tre poliziotti in sala parto. Tutti i lavori salariati sono

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di merda, ma alcuni lo sono più di altri specie se chi li fa perde
consapevolezza di sé e si identifica in toto col lavoro.
Tornerò in seguito sull'argomento, ma intanto quando sento che
alcuni compagni partecipano a partite di calcio tra guardie e ladri,
mi vergogno un po' per i ladri: non sanno, o non vogliono sapere;
hanno altre storie e altri vissuti alle spalle; sembrano possedere
poca coscienza critica e ancor minore desiderio di acquisirla.

In definitiva ho in fondo la speranza che la mia esperienza possa


servire a qualcuno, dare uno stimolo, uno spunto per riflettere.
Non si tratta di un'esperienza così particolare da essere
irripetibile. E' certo irripetibile nei dettagli perché ognuno di noi
è un essere a sé, ma in linea di massima ognuno di noi – ed io
sicuramente – è anche una persona la cui vita ha molto in comune
con quella di milioni di altri esseri umani.
L'esperienza di ciascuno è il risultato di una ricerca
teorico\pratica i cui contenuti sono frutto sia della storia
personale sia del contesto nel quale si vive. Per questo la
conoscenza meno sommaria e superficiale dei momenti cruciali
vissuti da qualcuno può fornire stimoli di azione e riflessione a
chi è interessato a ricercare a sua volta.

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Scrivere, per chi?

Una bella domanda, destinata forse a rimanere senza risposta.


La nuova orizzontalità in cui siamo precipitati ha le sue regole,
alle quali è difficile sottrarsi, pena l'isolamento. Una di queste è
il desiderio di allontanare ogni fatica, sia essa fisica o mentale:
ogni obiettivo deve essere a portata di mano, non deve
richiedere tempi lunghi di riflessione e preparazione; insomma,
non può pretendere il classico “sbattone” per essere realizzato.
Inoltre ogni messaggio deve essere compreso con facilità, non
può richiedere tempi ulteriori di riflessione, meditazione,
ricerca. Infine, le informazioni si attingono dalla “rete”: un
modo sicuramente più veloce, sicuramente non “neutro” e non
so se più affidabile di quello di andarsele a cercare,
interpellando chi le detiene.

Dispersi nella marea umana indifferenziata, alla quale


puntualmente arrivano dagli agenti dell'informazione
suggerimenti su codici di comportamento, su ciò che è “in”,
prima di diventare “out”, gli individui (ovvero, per evitare
fraintendimenti, coloro che esistono a prescindere dagli
stereotipi e non vanno confusi con gli esempi estremi,
macroscopici, dell'uomo-massa) rischiano di continuare a
brancolare nel buio, tenendosi strette le proprie convinzioni, le
proprie particolarità, che tendono a diventare impermeabili a
ogni sollecitazione, a costituire una nuova “corazza”, oltre a
quella che abbiamo “naturalmente” in dotazione.

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E allora, è forse quella “corazza di ritorno” che mi piacerebbe
penetrare proponendo, a chi sta ancora cercando a “tentoni” e per
approssimazioni successive la sua strada, le incertezze, le
vicissitudini, le incongruenze e le positività del mio percorso. Un
percorso che, partendo dalle “verità rivelate”, ho cercato di
destrutturare, non con un'operazione mentale, o teorica, ma
sperimentando e riflettendo man mano sulle esperienze
attraversate.
Come dirò in seguito, le “verità rivelate” sono quelle che,
partendo da Marx e arrivando a Fidel e al Che passando per
Lenin Stalin, Mao Tse Tung mi hanno accomunato fin dall'inizio
e per anni alla sinistra italiana.

Per onestà devo aggiungere che, se quella che ho chiamato


“corazza di ritorno” è un'operazione difensiva, che uno attua su
di sé a salvaguardia della propria integrità e per non vendersi sul
mercato al miglior offerente, nel panorama antagonista c'è anche
chi, lontano da ogni indagine introspettiva e incapace di
autocritica, addebita a tutti gli altri ogni nefandezza e incapacità,
iscrivendosi nel novero dei “giusti”. Anche in questo caso si tratta
di un'operazione difensiva, ma di dubbia onestà perché vivere
scissi tra l'impossibilità attuale di mutare alla radice, con i nostri
soli mezzi, le condizioni di vita e l'appiattimento sul reale per
poter tirare avanti è, in fin dei conti, una forma di paraculismo.

E' difficile attribuire alla vita un valore “oggettivo” (c'è gia chi lo
fa con discreto successo), ma se si vive conviene attivare tutte le
possibilità in nostro possesso perché la vita di ciascuno si

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espanda al massimo, uscendo dai binari quantomeno secolari
(per non addentrarci in discussioni antropologiche) che ci stanno
portando all'estinzione.

In definitiva non credo di poter definire un soggetto, o una


pluralità di soggetti ai quali dedicare queste pagine. Accantonate
in via definitiva le tradizionali ripartizioni in destra e sinistra,
restano liberi da ogni appartenenza singoli individui che vivono
con difficoltà il presente, non pensano che papa Francesco e
Obama siano fari nella nebbia e cercano ogni giorno con rabbia
e determinazione di perseguire i propri obiettivi, egoistici e
solidali al tempo stesso.

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2. Chiara e Nino, mamma e papà

Essendo "figlia d'arte", occorre spendere qualche parola


introduttiva sui genitori, in particolare su Nino, prima di entrare
nel merito.
Nel ricordo di Vittorio Guglielmo, Vittò, citato in Francesco
Biga, U Curtu, Dominici Editore, Imperia, 2001, Nino, u Curtu,
Comandante della I Zona Operativa Liguria, "non ha pennacchi
né galloni dorati..." Così si cantava in quei tempi ma, per non fare
retorica, cerco nel mio vocabolario mentale "coraggio, umiltà,
onestà, verità, fede nei propri ideali", impressioni di sentimenti
che hanno appartenuto a Curto; ma forse per lui ciò non basta
perché il comandante Curto, il mio Comandante, apparteneva a
quella categoria di uomini che illuminano il cammino nei
momenti tragici della storia. Noi, in quel tempo.... non lo
abbiamo capito appieno nella sua grandezza e nella sua forza di
dare serenità ai deboli, ai disperati e a chi aveva paura della
morte. Questo era il mio Comandante.

Vittorio Guglielmo (Vittò)


Comandante della II divisione
d'assalto Garibaldi "F. Cascione"

Chiara, sua moglie, così si racconta:

"Io, donna comune, ponevo su un piatto della bilancia la mia


mediocrità, la mia sete di tranquillità e di sicurezza nel bel mezzo
di un mondo che si sarebbe presto sconvolto. E' pur vero che mio

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padre era un antifascista e per anni mi aveva annoiato con
prediche sui misfatti del fascismo, suscitando in me soltanto
incredulità..." (in Biga, op. cit., p. 33)

Partendo, com'è ovvio, da esigenze e punti di vista diversi, noi


ovvero io, Silvia e Marina, le tre figlie, tante volte ci siamo
chieste che cosa avesse accomunato due persone così
apparentemente diverse.
Chiusa, un po' asociale e tutta dedita al lavoro Chiara; chiuso,
all'apparenza bonario e senza dubbio integro, il Nino. Avevano
in comune l'integrità, ovvero l'onestà individuale assoluta e
totale, oltre al carattere chiuso. Chiara, ligia al dovere e dedita
anima e corpo al lavoro, è stata con ogni probabilità una
direttrice da incubo per la maggior parte dei suoi maestri; Nino,
finita la guerra, rifiutò la sistemazione nelle Coop, offertagli dal
Partito: dopo esser stato qualche tempo in Emilia, se ne tornò a
casa, non ritenendosi probabilmente adeguato alla carriera
manageriale, con tutte le sue implicazioni. Forse raccontò a
Chiara i motivi del “gran rifiuto”, ma a noi figlie neanche una
parola, né allora, né in seguito, vero antesignano dei CCCP di
“fedeli alla linea”.
Non so se quei due tratti caratteriali siano sufficienti per
condividere una vita, e quanto sia pesato a Nino, dopo gli anni
'50, trovarsi a dover affrontare la vita dei comuni mortali con tre
figlie sul groppone e ormai privo di illusioni per quel che
riguardava la politica.
Chiara, il cui impegno durante la guerra derivava dal fatto di
essere la moglie del “Cürto”, era andata in montagna per cercare

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di salvare la pelle, rendendosi utile, lassù, come poteva e sapeva.
Così l'esperienza partigiana che hanno condiviso aveva, per l'uno,
il carattere forte e totalizzante della realizzazione di un ideale, per
l'altra il valore, anch'esso forte, ma in qualche modo diverso, del
far propri – per necessità – gli ideali del suo uomo, e ad essi
contribuire nel miglior modo possibile.
Negli anni '40 e '50 Nino si era giocato il tutto per tutto. Aveva,
sì, una famiglia ma, come diceva lui stesso, non solo due bensì
innumerevoli figli. Valutata con il bilancino dell'opportunità,
potrà sembrare incoscienza, ma la dedizione totale di sé a
qualcosa che va oltre il personale è la caratteristica di Nino che
ho sempre apprezzato. Forse l'unica.
Già, ho difficolta a parlare di Nino nella veste di padre perché in
quella veste non l'ho conosciuto. Da quando sono in grado di
intendere e volere, ho chiaro – come chi mi conosce bene ha
sentito ripetere più di una volta – che sono orfana di padre,
almeno dal punto di vista affettivo / relazionale. Non ricordo una
carezza, una chiacchierata amichevole, una confidenza,
un'intimità.
Da bambina lo aiutavo, in campagna, quando si era improvvisato
agricoltore nel tentativo fallimentare di sbarcare il lunario senza
dover riprendere a navigare. La nostra “azienda” produceva
carciofi e garofani, che talvolta andavo a vendere al mercato di
Porto Maurizio con Maria, la donna “tuttofare” che viveva con
noi. Dopo questi ricordi passano almeno una dozzina d'anni per
acchiapparne un altro. Ero incinta e, dovendo abortire in una
casa, chiesi a mio padre di poter andare un paio di giorni a
Firenze col ragazzo di allora, il mio futuro e poi ex marito che

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lui, peraltro, conosceva.
“Firenze? E che c'è da fare a Firenze”?, fu la risposta. Ovvero,
no. Ma non il no secco, forse per timore di ribellione, ma il no
che vuol sembrare motivato. (Per la cronaca, risolsi ugualmente
il problema in un giorno, tornando all'ovile con un po' di
paranoie). Ancora due o tre anni di vuoto ed ecco che papà mi
scorta a Magistero, dove avevo “dovuto” iscrivermi dopo il
fiasco a Fisica. C'est tout. Ed è un po' poco, anche volendo
attribuire qualche dimenticanza al passare del tempo, che
cancella i ricordi.
Tutt'altra storia il rapporto con mia madre, che è stato
pesantemente repressivo in termini materiali fino
all'adolescenza, per poi trasformarsi in controllo più formale che
sostanziale.
Chiara e Nino si erano suddivisi i compiti di tipo "educativo":
noi saremmo state in linea di massima affidate alla gestione
materna fin verso i 14 anni, poi sarebbe intervenuto anche papà.
Col senno di poi e con qualche racconto di Silvia, la sorella
maggiore, sono alla fine riuscita a trovare attenuanti alla
pesantezza dell'educazione materna, ma è stato necessario che
passasse molta acqua sotto i ponti: fin verso i 30 anni ho vissuto
mia madre come una nemica, da imbrogliare ogni volta che se
ne presentava l'occasione.
Il periodo forse peggiore è stato quello dai 5 agli 8-9 anni. La
concezione negativa della sessualità rese Chiara particolarmente
attenta a reprimere con ogni mezzo a sua disposizione le prime
manifestazioni di natura sessuale, ad esempio la masturbazione.
Ma, più in generale, era assolutamente vietato tutto quello che

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avrebbe potuto dare origine a qualche problema: bisognava
cercare di essere talmente silenziose e incorporee da far
dimenticare la nostra esistenza. A quegli anni abbiamo reagito,
Silvia ed io, in modo diverso: Silvia ha subito, tacendo, e appena
le è stato possibile è "fuggita" da casa; anch'io ho subito tacendo
ma ho iniziato da molto piccola a mettere in atto strategie
difensive che hanno spaziato dal "cancellare" dalla memoria le
azioni più brutali al mentire, sempre e comunque, cercando di
organizzare la mia vita di bambina al di fuori delle maglie del
controllo.
Quando, raggiunta la maggiore età, Chiara non si è più sentita
responsabile della nostra educazione, ha acquistato, almeno per
me, una dimensione umana accettabile. Le sono debitrice per il
sostegno concreto, gratuito (cioè senza tentativi di
condizionamento) che mi ha dato dal '76 all'86 – il decennio, in
vari modi, carcerario. Ha fatto per me, e per noi (io e Vanja) tutto
quello che poteva fare, in apparenza senza troppo coinvolgimento
emotivo, diciamo con naturalezza – l'unica, tra tutte le persone
che conoscevo e che ritenevo “compagni” ad essersi manifestata
in questo modo, tranne François. Non mi dilungo in racconti
particolareggiati perché, nonostante quello che mi ha fatto
“cagare” da bambina, la rispetto: divenuta adulta io stessa, col
tempo sono riuscita a capire come la sua vita da piccola
sottoproletaria milanese, senza padre e con la nonna lavandaia
l'abbia condizionata portandola a identificare la sua meta
primaria in una vita tranquilla o "piccolo borghese" come
avremmo detto più tardi. La pace, tardiva, tra me e lei è stata
siglata quando, essendo io più vicina ai sessanta che ai cinquanta,

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non ricordo in quale occasione mi si è rivolta con queste parole:
“quando ti vedo, mi ride il cuore”. Le prime e uniche belle
parole che, in tutta la vita, ho udito da lei.
Detto questo, e botte a parte, ho imparato da Chiara alcune cose
fondamentali.
Il valore dell'autosufficienza, in particolare economica: la non
dipendenza da altri e, quindi, la capacità di badare a noi stesse è
stata un chiodo fisso che ci ha martellato in profondità nel
cranio.
La scarsa importanza della forma, rispetto alla sostanza. Non
abbiamo mai avuto in lei un modello da imitare, né dal punto di
vista estetico, né per quanto concerne l'igiene personale. Ne è
risultato, almeno per quel che mi riguarda, un gusto “fai da te”
abbastanza evidente. Un'amica di un tempo mi diceva:"Tu ti
copri, non ti vesti".
La scarsa stima per l'elemento maschile, ritenuto opportunista e
inaffidabile.
Il dedicarsi con passione, senza mezze misure e senza calcoli,
all'attività che si sceglie di fare.
Chiara è stata una formichina, che ha raggranellato per tutta la
vita, spendendo con parsimonia, quello che doveva servire a
mettere le figlie in grado di andare per la loro strada. Ci ha dato
quello che poteva darci e non ha potuto trasmetterci quello che
neppure lei aveva ricevuto.

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3. La militanza comunista

Vista a posteriori, la militanza nel PCI è stata, in pratica, un


percorso obbligato, l'ultima tappa dell'educazione familiare.
Nonostante che delle tre figlie io sia l'unica ad affermare di non
conoscere davvero mio padre, se non nella veste di ex partigiano
nella quale è, o, forse meglio, era noto nell'imperiese, oggi mi
sembra di essere quella che gli assomiglia di più nell'attitudine
prevalente al "fare", nella scarsa simpatia per i politici di
"carriera", in una qualche forma di megalomania o di fiducia, a
volte ben riposta, a volte eccessiva, nelle proprie forze e capacità.
Lasciata Imperia e approdati a Genova nel 1961, per prima cosa
vado a iscrivermi al PCI nella sezione competente per territorio,
la Tito Nischio di corso Torino, dove rimango fino alla
restituzione della tessera nel 1968. Sono stati anni importanti per
la mia formazione, e non sto alludendo alla formazione "politica"
ma alla formazione in senso lato. Sono gli anni in cui comincio a
mettere in pratica le idee trasmesse dalla famiglia per quel che
riguarda politica e vita personale. Risulterà ben evidente che, a
parte la diceria, in quegli anni ancora diffusa, che i comunisti
mangiassero i bambini, nella pratica, nella vita di tutti i giorni,
quegli stessi comunisti erano uno dei pilastri che sostenevano
l'organizzazione sociale: si sposavano, facevano figli, li facevano
battezzare e cresimare, lavoravano, avevano fiducia nelle
istituzioni e lasciavano ai politici locali e nazionali il compito di
affrontare in concreto e in linea teorica ogni tipo di problema
"sociale".
All'epoca, gli unici a prendersi "qualche libertà" erano gli

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operai... e non è certo un caso che le prime BR genovesi
abbiano trovato proprio in fabbrica orecchie pronte ad ascoltare.
Ma a parte la fabbrica, o meglio, per chi non lavorava in
fabbrica, tutto era già scritto: non c'era nulla da inventare, nulla
da ridiscutere. Il militante comunista si differenziava, poniamo,
dal buon cristiano per essere tutto casa e partito, anzichè casa e
chiesa. In ogni caso, tornando alla sezione, il mio impegno è
costante: diffusione della stampa, volantinaggi, feste dell'Unità,
commissione femminile. Passati i primi entusiasmi (non mi è
facile ricordare quanto sia durato "l'entusiasmo"), come
inevitabilmente accade, ogni attività portata avanti senza vedere
i risultati e anche, man mano, senza passione, diventa routine,
tran tran. La diffusione dell'Unità tendeva a trasformarsi in
consegna del giornale a domicilio: prendevamo nota degli
interni dei palazzi ai quali lasciavamo il giornale e le domeniche
successive si andava quasi a colpo sicuro... una pratica che in
seguito è stata ripresa da Lotta Comunista. Con il passare del
tempo è venuta fuori una di quelle che credo fossero le
caratteristiche paterne: il fastidio per la politica intesa come
dopolavoro o, se si vuole, il fastidio per il baratro esistente tra
dire e fare, tra ideologia e vita quotidiana. Dunque, un'esigenza
fondamentale di coerenza. Con una buona dose di ingenuità
criticavo i compagni perché le loro donne – fossero mogli, figlie
o fidanzate – non frequentavano la sezione e, almeno in
un'occasione, ebbi anche una risposta illuminante: il
"compagno" in questione preferiva che la moglie stesse a casa a
suonare il piano anziché partecipare alle riunioni.
In quegli anni comunque la vita nel PCI non era solo routine.

25
Col senno di poi era anche peggio: presa per i fondelli totale,
senza attenuanti. Ricordo una manifestazione a Livorno cui
partecipammo partendo in pullman da Genova, che aveva come
parole d'ordine: fuori l'Italia dalla Nato, fuori la Nato dall'Italia.
Che dire? Gli organizzatori sapevano senza dubbio che "se fa pe
ride"..., come i dirigenti del PCI sapevano che la Resistenza e i
suoi miti avevano, all'epoca della guerra partigiana, i giorni
contati. Quando penso alla grande beffa verso i partigiani
combattenti prima e in seguito verso i militanti comunisti mi si
contorcono ancora le budella. Non ho mai pensato che i morti,
incensati come eroi nel primo caso, si rivoltassero nella tomba: i
morti, come purtroppo mi è capitato di dire più di una volta, sono
morti – e buon per loro. Ai vivi resta il rammarico di morti
"inutili", di vittime sacrificali su un altare che non avevano
contribuito a erigere, per consentire alle "teste pensanti" del
partito di portare avanti una misera strategia, di cui oggi si sono
perse quasi del tutto le tracce nel generale declino degli dei,
tranne l'ambizione di gestire qualche fetta di potere, comunque
sia, e a qualunque prezzo.
In seguito l'avvicinarsi della stagione delle lotte universitarie, la
frequentazione di persone e situazioni diverse mi fornirono
stimoli nuovi, rendendo chiara ai miei occhi la routine
dopolavoristica e senza speranza dell'impegno nel partito. In ogni
caso, l'allontanamento dal PCI non è stato in primo luogo teorico:
non fu la critica alla "via italiana al socialismo" e neppure il
"tradimento degli ideali della Resistenza", di cui acquistai
consapevolezza più tardi, ma la sensazione di fare i cani pastori
di un gregge gestito e indirizzato in maniera non controllabile né

26
modificabile, l'impotenza del singolo in un organismo di massa
a carattere fondamentalmente maschilista, la comprensione di
cosa significhi, terra-terra, "centralismo democratico" con la
cooptazione per "meriti" vari, tra le file dirigenti, di parenti e
amici, nonché la pratica del fare carriera alzando le gonne.
Quando nel 1967-68 vedevo mio padre camminare lungo Via
XX Settembre a fianco delle manifestazioni con il sorriso da un
orecchio all'altro, provavo un misto di tenerezza e di pena. Era
anche contro il suo PCI che si manifestava, e che lui, avvocato
d'ufficio, difendeva a spada tratta nelle discussioni in casa
insieme alla Santa Madre Russia. In effetti ho impiegato
parecchio tempo a liberarmi del rispetto per i "teorici" e ad
apprezzare la coesistenza di teoria e pratica all'interno di
ciascuno - con tutti i limiti che ognuno di noi ha – cercando di
perseguire la coerenza, anziché la scissione tra dire e fare.
Mentre scrivo mi rendo conto che non esistono episodi salienti o
semplicemente degni di interesse negli anni della militanza
comunista: si è trattato, in qualche modo, di un periodo che ha
concluso la fase adolescenziale, consentendomi di saldare alcuni
conti con il mio passato e di entrare nell'età adulta, lasciandomi
in eredità il rifiuto per ogni forma di aggregazione strutturata, in
altre parole il rifiuto della forma partito, nelle versioni macro e
micro, l'amore per una certa coerenza personale, lo schifo per i
burocrati e per l'uso della politica a fini personali. L'uso
strumentale generalizzato, più dell'ingegno, sembra essere ciò
che, a partire dal pollice opponibile, differenzia la razza umana
dalle altre specie animali. Esso si manifesta non solo nelle
forme macroscopiche messe in atto da politici e faccendieri di

27
ogni ordine, rango e responsabilità, ma anche nelle forme
miserevoli che squalificano quotidianamente i "portatori di
verità".
Come spesso accade, da ragazza il cervello era un guazzabuglio
di idee che, con il tempo, si sono riordinate e precisate portando
saldamente alla ribalta l'idea base che ogni ipotesi deve essere
convincente sia per il cervello che per il cuore.

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4. Dopo il '68

Quando decisi di mettere nero su bianco le tappe che ritenevo


più significative della mia vita, pensavo di soffermarmi su vari
episodi che non avrebbero seguito necessariamente un filo
temporale. La prima stesura è stata effettivamente costruita a
partire da quell'idea. In ogni caso, rilettura dopo rilettura, un filo
cronologico ha preso il sopravvento, non so bene per quale
motivo, forse perché è più semplice da seguire.

Gli anni di una vita non sono tutti interessanti, neppure per chi li
ha vissuti, e occorre vagliare attentamente i ricordi per
selezionare ciò che ha un qualche significato socializzabile. Dal
'68 al '76, a parte la breve parentesi femminista, su cui mi
soffermerò, non ho memoria di eventi particolari: nel '69,
appena laureata in lingue, afferrai al volo una cattedra di inglese
a Settimo Torinese e iniziai a fare la pendolare. Ero sposata e
non mi era mai passato per la mente che invece di sposarmi
avrei potuto convivere. Il matrimonio non mi creava problemi,
forse perché, da buona comunista, avevo ben presente la
differenza tra “struttura” e “sovrastruttura” e non pensavo di
poter dare spallate alla società soffermandomi su aspetti che si
sarebbero affrontati e risolti dopo la rivoluzione. Mio marito
studiava ancora e dividevamo in parti uguali le 120.000 lire che
più o meno prendevo di stipendio. La novità del lavoro e la vita
da trasfertista mi impedirono di fatto per un paio d'anni di
partecipare agli eventi genovesi. Anche Torino avrebbe potuto
essere vissuta in modo più interessante, ma le mie caratteristiche

29
intrinseche non hanno mai favorito un contatto agile o agevole
con realtà non conosciute. Mi resi solo concretamente conto di
alcuni problemi quando, nel cercare una stanza con uso cucina,
mi furono mostrate varie situazioni piuttosto sfigate dove i
“meridionali” erano accatastati gli uni sugli altri, come oggi lo
sono gli extracomunitari, quando gli va bene.

E poi l'impatto con la scuola, il gruppo di ragazzi che cantava


“viva Marx, viva Lenin”, la preside che osservava con aria
perplessa il mio abbigliamento, calzettoni di lana compresi. In
effetti ho sempre lavorato “per la grana” (si fa per dire): non mi
piaceva insegnare, lo facevo cercando di rispettare i ragazzi, per i
quali, comunque, la simpatia iniziale con gli anni è andata
scemando, ma che sono sempre stati più simpatici della
maggioranza dei colleghi.
Erano gli anni di Lotta Continua, delle autoriduzioni, delle spese
proletarie. L'aver fatto un passo indietro (o avanti)
dimissionandomi dal PCI costituiva un discrimine: era iniziata la
mia, personale, resa dei conti con l'educazione familiare, che
avrebbe coinvolto tutti gli ambiti tranne il modo, all'apparenza
“onesto”, con cui ci si guadagna da vivere. A suo tempo mia
madre mi ha “confessato” che, se non le creava problemi il fatto
di avere una figlia in galera per “motivi politici”, si sarebbe
trovata in difficiltà a difendere una figlia ladra o rapinatrice. Oggi
è davvero difficile trovare qualcosa di “onesto” in un paese dove
tutto si compra e si vende, dalla mozzarella agli organi umani di
ricambio, e dove l'arte di arrangiarsi ha pervaso ogni ambito, con
buona pace dei predicatori laici e religiosi. La stessa idea di

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“onestà” ha un sapore antico, difficile da descrivere, difficile da
identificare.
Il rifiuto del partito portò con sé il rifiuto di entrare a far parte di
una delle varie organizzazioni strutturate che, fra l'altro, come di
consueto, erano a carattere prettamente maschile e dove, a detta
di qualcuno, il ruolo delle “compagne” era soprattutto quello di
“darla via” senza troppe menate, e di costituire la truppa degli
“angeli del ciclostile”. In ogni caso le campagne che Lotta
Continua e poi Potere Operaio portavano avanti mi attiravano e
così partecipavo alle iniziative come “cane sciolto”. Non tardai
tuttavia a rendermi conto dei limiti di quell'agire: andare di casa
in casa a ritirare le bollette da autoridurre equivaleva ad
assumere un ruolo di mediazione che alla lunga non poteva
funzionare.
Non è “offrendo servizi” che si favorisce l'impegno sociale delle
persone, anzi tale pratica consolida l'attitudine alla delega e alla
deresponsabilizzazione. Lo stesso può dirsi per le occupazioni
di case, specie quando si occupa per “altri”.
Dei legami che si erano creati negli anni delle “lotte”
universitarie, mantenevo quello con i luddisti di Balbi. Durante
le occupazioni di Magistero, erano stati gli unici compagni a
partecipare numerosi alle nostre riunioni, attirati anche dalla
platea quasi totalmente femminile della facoltà. Mi piacevano le
cose che dicevano, i loro punti fermi (sopravvivere impedisce di
vivere), la critica della società del lavoro, l'essere contro tutto e
contro tutti – non operaisti, non terzomondisti, non intrippati
con i sottoproletari, senza rispetto e senza moralismi. Ludd, la
protesta contro l'introduzione delle macchine a vapore

31
nell'industria, era l'esatto contrario delle “magnifiche sorti
progressive” che la sinistra neopositivista e mai rivoluzionaria
andava sponsorizzando tra i suoi ceti di riferimento – operai,
studenti e classi medie.
I “miei” conti cominciavano a tornare: da favola a lieto fine, lo
scientismo e i suoi adepti venivano interpretati per quello che
erano e che sarebbero diventati sempre più: la nuova casta
sacerdotale, da osannare e temere.
Parlare dei luddisti di Balbi equivale a parlare di un gruppo di
persone di cui Gianfranco Faina era forse il più noto e senza
dubbio uno dei più autorevoli, anche per “carisma” personale. Ma
il tempo stringeva. In tutta Italia, da nord a sud, i tamburi
avevano cominciato a rullare, chiamando alla mobilitazione e
all'organizzazione da un lato per fronteggiare possibili avventure
"golpiste", dall'altro per dare forza e contenuto al dibattito sul
comunismo. Così, anche a Genova, si passò dal sostegno ai
compagni della XXII Ottobre, proletari che nel percorso di
autorganizzazione lasciano sul terreno la prima “vittima” e
vengono catturati, alle “grandi manovre” di avvicinamento alle
BR, ancora non presenti, almeno ufficialmente, nell'area
genovese.

A tirare le file per rendere possibile la coabitazione di marxisti-


leninisti e libertari è proprio lui con, forse, una dose notevole di
“ingenuità” oppure un impulso irrefrenabile ad agire. Il tentativo,
destinato all'insuccesso, porterà all'espulsione di Faina dalle BR e
alla fondazione di AR (Azione Rivoluzionaria). Al riguardo c'è
una curiosa analogia tra l'accusa di essere un “provocatore”

32
lanciata dal PCI contro Gianfranco in un poco amichevole
libello messo in circolazione in quegli anni e l'accusa di essere
“soggettivamente provocatore” con la quale i brigatisti
giustificarono la sua espulsione, intimandogli peraltro di lasciare
la città.

Forse oltre alla tempistica oggettiva è stato l'istinto di


conservazione a far si che il mio tentativo di attacco al Serviam
(vedi cap. 6) precedesse di poco la nascita di AR, in cui senza
dubbio sarei finita anch'io – impossibile dire con quali risultati.

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5. Femminismo?

E' strano trovarmi oggi qui seduta a pensare con un po' di


scetticismo a femminismo & femministe mentre, per decenni, ho
creduto che le donne fossero dotate di una marcia in più e a buon
diritto si battessero per conquistare il loro "posto al sole".
Nel frattempo, liberandosi dell'antico ruolo, le donne sono entrate
"in carriera", in magistratura e nei corpi repressivi, pubblici e
privati . Manca ancora la Presidente della Repubblica, ma
arriverà anche lei.
Perché la diffusa presenza del "femminile" a ogni livello della
società civile e politica è sconfortante, almeno per me, e mi crea
una sorta di imbarazzo e rifiuto?
In estrema sintesi, perché rappresenta l'accettazione da parte di
molte, troppe donne, del potere e del modello maschile, supposto
che di modello si tratti, una specie di cooptazione che ha avuto
inizio, o meglio, è stata caldeggiata dal momento in cui è apparso
evidente che le "donne" non avrebbero rappresentato un
problema, anzi, avrebbero svolto il ruolo assegnato loro con
rigore e perizia, forse anche meglio dei colleghi uomini. In realtà,
sfrondato di tutti i fronzoli che, di volta in volta, hanno
caratterizzato la denigrazione del "diverso" tipo "cervello più
piccolo e visceralità", il cosiddetto modello maschile sembra
sorreggersi su tre stampelle: amore del denaro, violenza,
prevaricazione – prescindendo dalle quali è difficile trovare
contenuti sensati. Del resto, il comportamento verso le donne non
è dissimile da quello verso la specie in genere, gli animali e la
terra nel suo complesso.

34
Il punto è tutto qua.
Come il Sessantotto in Italia non è stato un momento
rivoluzionario, ma una sorta di svecchiamento e
ammodernamento della società civile, allo stesso modo non c'è
traccia di "rivoluzione" nel percorso che ha portato le donne a
condividere il potere a ogni livello.
Negli anni Settanta, agli esordi del movimento, le femministe –
da non confondere con le donne delle commissioni femminili
dei partiti – non si battevano per "la parità", non volevano avere
le stesse opportunità degli uomini. Ci tenevano a sottolineare la
loro differenza, la volontà di attuare percorsi diversi, in tutta
autonomia, percorsi di "sorellanza", di solidarietà, di creatività
capaci di delineare un mondo o una realtà nuova e diversa. Il
percorso, se mai è iniziato, si è interrotto abbastanza
velocemente ed è costellato di "buone intenzioni" espresse in
volantini, documenti, qualche gesto eclatante, ma nulla di
sostanziale, di materiale, di percepibile con chiarezza e senza
ambiguità.
D'altra parte è evidente da tempo che nessun gruppo sociale può
fare la rivoluzione da solo: occorre essere immersi e alimentarsi
di un clima effervescente; la disponibilità diffusa a confrontarsi
e a sostenere il nuovo che vuole emergere; la critica profonda ed
estesa nel corpo sociale ai capisaldi su cui si fonda l'ordine
costituito, tra i quali si annoverano, oltre al lavoro salariato (che
sia fintamente autonomo o a domicilio, fa poca differenza), la
religione e la famiglia. Senza abbattere queste tre colonne
portanti di ogni società consolidata, a occidente come a oriente,

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a nord come a sud, la tensione al cambiamento tende a
trasformarsi in tentativi, che spesso vanno a buon fine, di ottenere
qualche vantaggio, di migliorare la propria posizione. Forse non è
il caso di sputarci sopra, ma occorre aver chiaro che si tratta di
"aggiustamenti" interni al sistema. Fra l'altro, se lo slogan "donna
è bello" è stimolante, sempre di slogan si tratta: per trasformarsi
in concetto che sintetizza "qualcosa di più ampio" occorre che
questo "qualcosa di più ampio", questa progettualità al femminile
prenda corpo, si manifesti, si proponga.
Purtroppo le "ambizioni" delle femministe si sono scontrate da un
lato con la difficoltà di affrontare e rendere tangibile un percorso
nuovo, straordinario e non compatibile con l'ordine costituito, da
un altro con la strategia di annichilimento di qualsiasi velleità di
"cambiamento" portata avanti in svariati modi da ideologi
asserviti, dai burocrati di qualsivoglia schieramento, dall'apparato
ecclesiastico, da quello economico e dai suoi funzionari,
rappresentanti e mediatori.
Non sarebbe corretto, tuttavia, attribuire le difficoltà incontrate
nel tentativo di dar corpo alla progettualità femminista solo a
fattori esterni. Ogni donna interessata a non seguire il percorso
assegnatole dalla tradizione, con le varianti e i limiti imposti dalla
modernità, avrebbe dovuto analizzare in modo serio se stessa, i
suoi desideri e le sue frustrazioni, senza sfogare l'insoddisfazione
in un ribellismo destinato a scemare nel tempo. Forse
l'accostamento è azzardato, ma la condizione delle donne, negli
anni settanta come oggi, ricorda quella dei giovani loro coetanei:
alle fiammate giovanilistiche è succeduto per molti il sedersi
nella poltrona più comoda possibile o mollare del tutto il colpo,

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emigrando, allora, verso il lontano Oriente, dove si poteva
vivere con poco, in qualche modo anestetizzati, e oggi
analizzando il proprio ombelico. Mettere se stessi al centro del
proprio microcosmo è un'operazione fallimentare a livello di
relazioni, perché prevede l'instaurazione di rapporti non paritari,
ad esempio di sudditanza; fa vivere in modo competitivo, anche
quando in realtà non c'è niente per cui competere. Se penso alle
esperienze passate, a Cà di Favale per esempio, sono purtroppo
davvero poche le donne che, a mio criterio, erano tali di fatto:
non femminucce, non donne maschili ovvero di potere; donne
magari in ruoli più frequentemente maschili ma che avevano
nell'atteggiamento e nel porsi qualcosa che le differenziava dai
"compagni". Troppo spesso ho avuto a che fare con la demenza
femminile, che consiste nella pratica della "confessione", nel
riunirsi in gruppetti a sparlare di qualcuna/o, per nascondere il
vuoto che, in assenza di esperienze su cui riflettere e crescere, di
avventure, di fantasie, riempie ogni angolo di cuore e cervello;
nel non poter vivere senza l'approvazione maschile e nel mal
sopportare la presenza e a volte la critica di altre donne.

Oggi come oggi mi sono – forse – convinta che l'individuo


anarchico è tanto donna quanto uomo, ovvero che le differenze
di genere sono, appunto, differenze di genere e non implicano
altro. E però, quando vedo la prostituzione maschile e
femminile nei confronti del potere, penso che la prostituzione
femminile tradizionale, materiale e terra-terra, sia molto meno
ambigua e pericolosa. Ma poi rifletto anche sul ruolo
fondamentale della donna nell'educazione dei figli, quei piccoli,

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grandi mostri che scorrazzano nelle città e nelle campagne hanno
tutti una mamma, ahimè, che con ogni probabilità non ha saputo
trasmettere loro qualcosa di sensato. Insomma, senza un
cambiamento radicale ce la staremo a menare all'infinito, con
poca speranza di cavare un ragno dal buco.

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6. Arresto, tradimenti, solidarietà

A notte fonda, intorno alle due del 21 gennaio 1976, imboccata


via Luccoli, mi stavo dirigendo con Emilio in piazza Lavagna.
Avevamo con noi diversi “corpi di reato”, infilati in un sacchetto
di plastica, che Emilio, cavallerescamente, portava in braccio. In
particolare stavamo trasportando una pentola a pressione
riempita di materiale esplosivo e un volantino in cui si
rivendicava un "attentato", mai concretizzato, al Serviam,
organizzazione costituita da don Tacchino presso la parrocchia
San Pio X, che si era distinta per volgarità nella campagna
condotta a Genova contro aborto e divorzio, di cui all'epoca si
discuteva in parlamento, facendo affiggere sui muri cittadini
manifesti da caccia alle streghe.
All'improvviso il gelo: una macchina stava percorrendo la
strada in discesa, dunque verso di noi. I fari accesi, erano
caramba. Non era il caso di mollare il tutto per darcela a gambe:
oltre a non farcela, avremmo rischiato, fra l'altro, di farci sparare
addosso. Così, “tranquillamente”, continuiamo ad avanzare
finché la macchina si ferma e ci viene chiesto che cosa avessimo
nel sacchetto. Non ricordo la risposta che abbiamo farfugliato. I
carabinieri prendono il sacchetto e, visto il contenuto, ci
spingono in piazza Soziglia, chiamano rinforzi... e così finisce
un'avventura e ne inizia un'altra.
Nei pochi istanti in cui riusciamo a parlarci, concordiamo di
aver trovato il sacchetto per terra, di averlo raccolto incuriositi e
di essere diretti a casa per controllarne il contenuto. Veniamo
poi separati e portati in caserma. Occorre aggiungere che i nostri

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compagni ci stavano aspettando in piazza Campetto e quindi,
vedendo l'arrivo dei rinforzi, presumibilmente immaginarono
l'accaduto.
Bon, noi andiamo con i CC, loro a casa, in pappa dura. Tant'è che
Gianfranco Faina, con cui allora ero in relazione, anche
personale, viene a conoscenza del nostro arresto solo la mattina,
ascoltando il giornale radio della Liguria. Probabilmente gli
venne un coccolone. A me, ripensandoci dopo tanti anni, viene
ancora l'incazzo di allora: a nessuno dei nostri “compagni di
merende” era venuto in mente di avvisarlo. Proprio vero che la
paura fa 90 – o anche 120 – e se ha campo libero la fa da padrona
riducendo al silenzio ogni spinta verso un comportamento leale
nei propri confronti e nei confronti delle persone con le quali si
sta portando avanti un progetto o, semplicemente, una relazione
politica non banale. Questo intendevo utilizzando la parola
“tradimenti”.
La disparità, diciamo così, tra affermazioni bellicose e paura
incontrollabile mi ha colpito all'epoca, non appena sono riuscita a
sapere come erano andate le cose, segnando in modo direi
indelebile il mio approccio futuro ai cosiddetti “compagni”:
diffidenza totale verso chi parla con troppa enfasi o sicumera di
rivoluzione; verso chi tende a presentarsi senza titubanze o
incertezze come rivoluzionario tutto d'un pezzo; verso chi parla
in modo intimidatorio e assoluto. Ho in mente più di un
personaggio del genere.
Volendo considerare il bicchiere mezzo pieno, il nostro gruppetto
di azione fu indotto subito – alla prima “uscita” - a verificare la
scarsa disponibilità dei singoli a pagare un prezzo per il proprio

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“essere contro”, evitandoci traumi peggiori. “Vogliamo tutto,
subito, e anche senza pagar dazio”.
In effetti è come se si giocasse a guardie e ladri: uno spasso,
oggi siamo ladri, ma domani potremmo essere guardie. D'altra
parte, sotto questo cielo plumbeo, ogni ruolo è intercambiabile e
tutti i gatti sono bigi.
Ma non esiste solo merda. Gianfranco sapeva dove ero diretta e
che occorreva “ripulire” il posto. Essendo noi stati arrestati da
diverse ore, esisteva il rischio di trovare nell'appartamento
l'antiterrorismo – il rischio di lasciarci la pellaccia. Con un
amico fidato tirano a sorte a chi tocca intervenire. La sorte
predilige Gianfranco. Lo immagino salire le scale e aprire la
porta, aspettandosi un'accoglienza fragorosa. Invece non accade
niente. Enza ha tenuto, Emilio non sapeva nulla di “preciso”, e
dunque il luogo può essere ripulito da ogni traccia, riacquistare
il suo aspetto di modesto pied-a-terre e attendere di essere
“trovato”.
L'intervento è importante, soprattutto perché impedisce
l'attribuzione anche ad altri, per quanto sconosciuti, dei reati che
ci sono imputati. Due persone non fanno gruppo; più persone
diventano “inevitabilmente” “associazione sovversiva con
finalità di terrorismo”. Dunque, grazie Gian.
E questo grazie, di cuore e col cuore, che ti dissi a suo tempo,
non è per te, che ormai sei polvere, ma è rivolto ai tanti “amici
ed estimatori” dell'ultima ora, che hai trovato post-mortem.
Trascorso il tempo necessario a elaborare il lutto e tacitare le
paranoie, oggi possono ricavare da te, personaggio o eroe
romantico, qualcosa di utile alla propria bottega.

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Non è facile esprimere senza essere superficiali cosa si intende
per solidarietà. Sono state manifestazioni di solidarietà quelle in
cui si gridava “Enza libera”?
Per alcuni certamente sì, ma si tratta in ogni caso di una
solidarietà facile, poco impegnativa e, soprattutto, a costo zero. Io
avevo frequentato per qualche mese un collettivo femminista,
avendo anche un buon rapporto con alcune donne: da nessuna ho
ricevuto una cartolina che esprimesse, con l'eventuale dissenso
per l'"azione", il dispiacere per l'arresto. Ho avuto lo stesso
trattamento che spesso si riserva alle ragazze in minigonna:
cercano rogne. Quando cerchi rogna – e la trovi – in fondo hai
quel che meriti.
La solidarietà non ha “peso specifico”: può essere pesantissima,
ed è l'esempio di Gian appena fatto, o leggera. Giuliano mi
scrisse : “avresti fatto meglio a rimanere a insegnare”. Non mi
approvava, ma mi era amico e ci teneva a comunicarmelo.

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7. Maternità

Mi è difficile affermare con sicurezza che Vanja sarebbe nato


ugualmente se non fossi stata arrestata. Me lo sono chiesto tante
volte, per quanto si tratti di una domanda destinata a rimanere
senza risposta.
Di certo volevo un figlio, un ancoraggio concreto nella
volubilità di relazioni e sentimenti, e quindi non rimasi incinta
per caso. Impossibile dire se, in condizioni “normali”, mi sarei
convinta a portare a termine la gravidanza oppure no.
Torniamo, comunque, ai dati di fatto. Al momento dell'arresto
non sapevo ancora di essere incinta e continuai a ignorarlo fino
a quando, a Marassi, saltarono le mestruazioni. Qualche giorno
di attesa e poi, immagino, anche perché non ricordo il
particolare, test di gravidanza e responso. Al momento, e per
qualche tempo, vissi in una condizione di grande angoscia.
Leggevo sui giornali che sarei stata accusata di tentata strage e
avrei potuto essere condannata a vent'anni di galera. Cercavo di
mantenere un po' di raziocinio e/o di sangue freddo, ma l'ipotesi,
per quanto paradossale, di far nascere mio figlio in carcere, per
abbracciarlo solo una volta che fosse diventato adulto, era
insopportabile. Ho passato nottate da un lato a piangere e
dall'altro a impormi di smettere per non far soffrire in anticipo,
dentro di me, chi avrebbe avuto poi i suoi dolori. Sono certa
che, senza l'appesantimento morale e materiale della gravidanza,
avrei affrontato il carcere in maniera più “sportiva”: sapevamo
tutti che, prima o poi, ci sarebbe toccato.
Quando la notizia che ero incinta divenne di dominio pubblico

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scattò la ricerca di chi fosse il padre. Le ipotesi non erano tante,
ma sicuramente più di una. Tuttavia, finché fu necessario, tenni
fede alla promessa, fatta a suo tempo, che il figlio era “solo” mio
e me ne sarei fatta carico in toto. Pian piano i nove mesi
passarono, il fatto di essere incinta mi garantiva il “privilegio” di
poter bere vino buono. Inoltre quando, verso agosto o settembre,
fui costretta a stare a letto per evitare un parto prematuro, Rosella
fu autorizzata a stare in cella con me. (Rosella Simone era allora
la compagna di Giuliano Naria, accusato di aver partecipato nel
1976 all'omicidio del giudice Coco e della sua scorta. Nel giugno
di quell'anno erano stati arrestati a Gaby, in Val d'Aosta. Accusata
inizialmente di banda armata, dopo qualche mese Rosella fu
scarcerata per insufficienza di prove, mentre Giuliano, in attesa di
giudizio per l'omicidio Coco, fu condannato a 9 anni per banda
armata.)
Non so quante opere ha cercato di farmi ascoltare alla radio, ma
non dimenticherò mai i giorni passati insieme, come non
dimenticherò le terribili interpretazioni de “La locomotiva” nelle
quali in precedenza ci eravamo esibite all'aria, con la speranza di
farci sentire da Giuliano.
Avvicinandosi il momento del parto, mia madre aveva parlato
con il primario del reparto di S. Martino in cui avrei dovuto
essere ricoverata per avere rassicurazioni sul trattamento che
avrei ricevuto. Non è possibile immaginare una risposta più
politically correct : “Signora, per noi i pazienti sono tutti uguali.
Non si preoccupi”. Sta di fatto che le doglie iniziano di sabato,
quando il primario è assente, e io mi trovo in una sala “pre-parto”
da sola, con tre poliziotti seduti a un tavolo di fronte a me, a

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godersi lo spettacolo. Non sono portata all'odio; magari mi
incazzo facilmente ma posso dire di aver odiato davvero
pochissime persone, tra cui quelle tre facce di merda.
Ero sdraiata sul letto, cercando di respirare nel modo giusto, di
non irrigidirmi, di fare, insomma, le cose per bene, ma non era
facile. Dopo un po' (non saprei proprio dire quanto), tirando in
ballo la sofferenza del nascituro per la rottura delle acque e la
lentezza della dilatazione, venne deciso di procedere con il
taglio cesareo. Saperlo fu una liberazione, la fine di un incubo.
Mi portarono fuori da quella stanza in lacrime e mia madre,
vedendomi piangere, cercò di tranquillizarmi sull'operazione.
Ma erano lacrime di gioia.
Forse con lo scorrere del tempo e il diffondersi della coscienza
popolar-democratica, è diventato più difficile – e sicuramente
meno trendy – utilizzare le proprie capacità critiche. Un tempo,
ma non cent'anni fa, anche i bambini, quelli proletari di sicuro,
sapevano che gli sbirri erano nemici. Oggi è possibile giocare a
calcio con chi, domani, se si dà il caso, ti arresta. Non c'è più
religione e tutti i gatti parrebbero diventati bigi. Ma non è così.
Sia chiaro, tuttavia, che considerare nemici i componenti
dell'apparato repressivo non è un sentimento “ad personam”:
nemica è la funzione, e, dunque, chi la esplica. In effetti
nonostante l'enfasi e i deliri sul tricolore, lo Stato non è un ente
benefico e neppure una creazione popolare. È un'entità di
“classe”, se questo ricorda ancora qualcosa a qualcuno, che
difende interessi di classe. Oggi, come ieri, è lo Stato dei
padroni, tra le cui file vanno ormai annoverati speculatori e
burocrati. Non era un'intemperanza da corteo gridare “servi dei

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padroni” alle forze dell'ordine durante le manifestazioni, perché
lo Stato è, o è stato dalla nascita fino alla sua estinzione,
un'istituzione “dei padroni”.
Ma, tornando al parto, quando alla funzione oggettiva si aggiunge
l'idiozia di chi la esplica, allora non c'è speranza e non si riesce a
distinguere l'umano che pur esiste in ogni sbirro.
Nel caso specifico, essendo ovviamente la sorveglianza un fatto
formale perché non esisteva “pericolo di fuga” le menti malate
che svolsero il loro compito nel modo descritto forse avevano
ricevuto ordini precisi. Tuttavia, se si ha fegato, gli ordini si
possono anche interpretare e, in casi estremi, disattendere. È però
possibile che la decisione di comportarsi con brutalità sia stata
farina del loro sacco: “che sballo, così vediamo come nasce un
bambino”.
È complicato e difficile, credo, per uno sbirro disobbedire agli
ordini. Ma se, nello svolgimento del suo lavoro di merda uno va
anche oltre il lecito, mettendoci del suo, allora ha introiettato la
divisa e, in tal caso, il disprezzo va tanto alla divisa quanto a chi
la indossa.

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8. L'arresto a scuola (1984)

Nel 1976 inizia il decennio dedicato, obtorto collo, alla galera.


La prima carcerazione finisce nell'autunno '77, con
l'affidamento al servizio sociale; nel maggio '79, in occasione
del blitz genovese del generale Dalla Chiesa, faccio una breve
rimpatriata a Marassi, dove rimango una ventina di giorni e
sono infine scarcerata dal giudice istruttore – sarebbe stato
infatti troppo ottimistico pensare di passare indenne al check-in
visti i precedenti.
Ero sospesa dall'insegnamento, in attesa del procedimento
disciplinare del ministero P.I., e cercavo di non appoggiarmi del
tutto su mia madre lavorando a pieno ritmo: per qualche mese
riuscii a tenere, in casa sua, un bimbo piccolo, a fare interviste
per la Doxa e a tentare di vendere libri a domicilio, attività,
quest'ultima, che abbandonai quasi subito perché era più facile
che i miei ipotetici clienti vendessero qualcosa a me anziché io a
loro.
In ogni caso, il tempo passava veloce, Gianfranco, papà di
Vania, era latitante, ma a me avrebbe fatto molto piacere
salutarlo e ... presentargli il piccoletto, cosa che alla fine riuscii
a fare. L'arresto, per quanto breve, del '79 mise in moto, a livello
scolastico, un altro procedimento disciplinare, il che,
concretamente, significava dover vivere con l'assegno
alimentare.
La provvisorietà sembrò aver termine nel 1980, quando ripresi a
insegnare. Avevo affidato a Gabriele Fuga, avvocato amico che
andava a trovare Gianfranco in carcere, il compito di discutere

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con lui la possibilità di riconoscimento di Vania, che, a mio
parere presentava qualche problema, vista la situazione familiare
di Gianfranco. Quando lui si ammalò lasciai perdere: non volevo
trasformare un fatto affettivo in questione burocratica. Nel 1981
Gianfranco morì nella casa in Toscana dove era stato portato una
volta "liberato" in extremis all'istituto tumori di Milano.
La vita riprese, il lavoro anche.
Nel 1984 insegnavo alla scuola media Gastaldi, l'ultima in cui
sono stata prima di andare in pensione.
Nell'ora “buca” ero uscita per fare un po' di spesa e stavo
rientrando.
Lungo salita Oregina incontro l'applicato di segreteria, col quale
a stento ci salutavamo per antipatia reciproca (nel 1976, quando
sono stata arrestata la prima volta, lavorava come me alla
Pastorino serale e aveva testimoniato di avermi visto battere a
macchina a scuola il pomeriggio precedente l'arresto).
In modo insolito, che lì per lì mi ha colpito e ho registrato in
automatico, mi fa un “buongiorno, prof”, esibendosi in un grande
sorriso. “Che succede?”, mi chiedo. Comunque entro a scuola e
un bidello mi avverte che sono attesa dalla preside. Mi avvio
verso la presidenza e sulla porta di un'aula un prof di tecnica
(anche lui di solito poco cordiale, presumo per divergenze
politiche, anche se non avevamo mai discusso... uno dei vantaggi
della notorietà !!) mi saluta sorridendo (o forse ghignando, al
momento non avevo elementi per scegliere l'una o l'altra
possibilità). Anche questa volta registro la mia perplessità senza
riflettere, ma in seguito quei due momenti mi sono tornati
vivissimi alla mente.

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Entro in presidenza, dove gli Amici del Popolo mi stavano
aspettando per notificarmi un mandato di cattura. Rimango
senza parole, anche perché il Marano cui dovevo quel servizio
mi era del tutto sconosciuto.
(Mario Marano ha militato nelle Unità Comuniste Combattenti
(UCC) e quindi nel 1980 nella Brigata XXVIII Marzo, che si era
formata a Milano dopo l'esecuzione, da parte dei carabinieri del
generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, dei militanti delle BR
Annamaria Ludman, Lorenzo Betassa, Riccardo Dura e Piero
Panciarelli, sorpresi nel sonno e freddati nella casa di via
Fracchia, a Genova, dove i CC entrano grazie alle indicazioni
fornite loro da Patrizio Peci. Marano si pente tardivamente,
anche a seguito della trentina d'anni di galera accumulati nei
processi a Roma contro le UCC e a Milano per l'uccisione di
Walter Tobagi, quando ormai altri, tra cui lo stesso suo compare
Barbone, avevano vuotato ampiamente il sacco, costringendolo
a raschiare il fondo del barile e a dare versioni pilotate per
accreditarsi come pentito ed ottenere i relativi benefici.)
Poi chiedo di telefonare a un'amica, per incaricarla di andare a
prendere Vanja all'uscita pomeridiana da scuola e mi avvio,
scortata dagli armigeri. La preside, gentilmente, immagino per
evitare imbarazzi, aveva tolto il personale dai due piani e così,
in un silenzio irreale, ci avviamo all'uscita senza incontrare
anima viva.
Tempo dopo, quando ormai avevo metabolizzato l'arresto, mi
balza davanti agli occhi l'immagine di quei sorrisi disgustosi: i
due stronzi sapevano quel che stava per accadere.
Più di una volta mi sono chiesta che cosa spinga persone alle

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quali, direttamente, non hai fatto nulla, a godere delle tue
disgrazie e mi verrebbe da pensare che si tratti di pura e semplice
cattiveria, quel sentimento che, facendoti accanire contro altri, ti
aiuta a scaricare le frustrazioni e a sentirti, in qualche modo, più
"grande" dell'omuncolo che sei.
Messa così, ha tutta l'aria di un raccontino indolore.
Nell'iniziare a narrare questi episodi di “vita vissuta” ho notato
come mi venga difficile esprimere emozioni che pure mi hanno
turbato i sonni – e anche le veglie – man mano che gli eventi
accadevano.
Forse, ma senza la pretesa che sia davvero così, ho dovuto
iniziare a non esistere emozionalmente troppo presto – prima
ancora di imparare a parlare – abituandomi, per necessità, ad
esercitare un controllo delle emozioni che mi ha lasciato segni
evidenti di durezza. Così, se da un lato questa corazza mi ha
aiutato nelle varie traversie, dall'altro ha limitato e condizionato
le mie capacità emozionali.
Voglio concludere questa puntata con un'annotazione un po'
fantozziana sul processo di primo grado, che può essere utile a
chi ignora, nella loro concretezza spicciola, i meccanismi di
scambio, i funambolismi e, tutto sommato, la messa in scena del
rito processuale, pentiti e loro testimonianze compresi.
Dunque, nei primi giorni del processo, che si svolgeva a Milano,
Marano è invitato dalla Corte a riconoscere le persone che ha
denunciato, me compresa. Va ricordato che all'inizio di ogni
udienza veniva fatto l'appello degli imputati ed io ero sempre
presente. Arrivato il mio turno, Marano, che era seduto davanti
alla corte, si gira verso di me con fare titubante, mi guarda, e

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torna a voltarsi verso la corte. Ripete questa manfrina tre volte e
alla terza, irritata per il protrarsi della sceneggiata, mi alzo e
dico: "certo che mi riconosce, sono tre giorni che mi vede
rispondere all'appello!". Questo intervento spinge ovviamente
Marano a risolvere i suoi dubbi e a riconoscermi. L'avvocato
Gaetano Pecorella, mio difensore in quel processo, esce
furibondo dall'aula e io mi rendo conto di avergli in qualche
modo rotto le uova nel paniere.
In ogni caso, quando in seguito ho riflettuto su quell'udienza,
non ho avuto ripensamenti: come sarei stata se, andando le cose
in altro modo, fossi stata l'unica di tutti i coimputati accusati da
Marano a beneficiare di un "ripensamento" del pentito? Senza
dubbio mi sarei fatta un po' schifo.

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9. Voghera

Era il 23 o 24 Dicembre del 1984. Avevo anch'io ricevuto la


visita e il pacco dono da casa. Per quanto “senza fede”, le feste in
carcere contavano di più anche per me. Nel pomeriggio, mentre
eravamo in sezione a girovagare e chiacchierare, arriva una suora
e ci comunica che si stava preparando il trasferimento di
qualcuna di noi. Parlava a tutte, ma in un momento ho
intercettato il suo sguardo e, in qualche modo, ho capito che di
me si trattava. Poi ho cercato conferma da lei e l'ho avuta, per
quanto indirettamente. Non ricordo se ho saputo in anticipo che
sarei stata portata a Voghera.
Voghera, la bestia nera, da un lato temuta, dall'altro mostrina da
appuntare sul petto, indice del “riconoscimento” da parte dello
stato della tua “pericolosità”. Ho dato l'addio alle leccornie
natalizie e mi sono preparata spiritualmente al viaggio. O così
pensavo. Di trasferimenti ne avevo fatti parecchi, anche in treno,
partendo dalla stazione centrale di Milano con manette e relativa
catenella ai polsi, o in macchina. Non ero invece mai salita su un
blindato dei CC, che probabilmente è stato studiato apposta per
far star male chi vi si trova. Sta di fatto che, un po' per la
tensione, un po' per il mezzo di trasporto, nel tragitto riuscii
anche a vomitare.
Bon, eccomi a Voghera. Non mi ero fatta nessun film... Voghera,
bastava la parola. Il comitato di accoglienza è formato da due
“super” guardiane: occhi di ghiaccio, la “tedesca”, e la kapò
bruna. Il rito è spogliarsi, fare le flessioni, caso mai ci fosse
nascosto qualcosa nel sedere o in vagina. Ma non sono tanto le

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singole fasi dell'accoglienza ad essere inquietanti – lo è il tutto,
studiato apposta per farti sentire quel verme che non sei e che,
se volessero, potrebbero “schiacciare” a piacimento.
Non sono riuscita a sottrarmi al senso di umiliazione che,
probabilmente, è uno degli obiettivi della procedura. Quando
infine, ricoperta dei panni della “casa”, sono arrivata in sezione
ero uno straccio.
A Voghera le sezioni in cui allora era rinchiusa la popolazione
femminile detenuta erano quattro: nella prima vi erano le BR
“classiche”; nella seconda le BR di Senzani; nella terza le
appartenenti a Prima Linea, ovvero, per quanto riguardava quel
carcere, le “dissociate” e nella quarta le compagne che, pur non
facendo militanza in carcere, non erano né belligeranti né arrese.
Mi sarebbe stato difficile scegliere anche perché ho appreso in
seguito la ripartizione appena descritta. Sapevo però che a
Voghera c'era Donata Ortolani, che conoscevo appena ma era,
quantomeno, mia concittadina, e chiedo di andare dove era lei.
Sbarcai così nella quarta sezione e venni provvisoriamente
posteggiata nella cella di Donata.
Nell'immediato, dopo l'abbraccio iniziale, nessuna domanda.
Donata, che con ogni probabilità aveva fatto a suo tempo la
stessa trafila, fu molto attenta e delicata: mi libera delle vesti
della “casa”, mi dà qualcosa da mettermi, mi fa bere – insomma
cerca di farmi superare il brutto momento con gesti essenziali,
senza essere né invasiva né curiosa. Ancora oggi sento di
doverla ringraziare per quell'accoglienza.
Sono rimasta a Voghera da fine dicembre a quando ho ottenuto
gli arresti domiciliari, tra fine settembre e i primi di ottobre.

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Delle due “super” guardiane, la bruna non ha mai dato segno di
appartenere al genere umano. In realtà si tratta di un modo di
dire. Il genere umano è un concetto astratto, e gli esseri umani
sanno essere tutto e il contrario di tutto. La kapò di Voghera può
essere annoverata tra le file dei servi sadici del potere; la
“tedesca”, invece, sepolto da qualche parte un cuore l'aveva,
tant'è che al momento del congedo, quando sono partita per gli
arresti domiciari, mi ha salutato augurandomi buona fortuna, e
non c'era ironia nelle sue parole, era sincera.
Sono tanti i ricordi di Voghera – delle compagne, delle situazioni,
delle polemiche, delle visite, in particolare quelle di Vanja. Per il
momento mi limito a registrare un flash “mentale”, che è
all'origine dei progetti futuri. Era una fredda giornata d'inverno, e
mi trovavo all'aria, seduta da qualche parte, forse per terra.
All'improvviso mi si accende in testa una lampadina. Trascrivo in
parole quella che era una “visione” o una sensazione globale, non
articolata.
<<Sarei uscita da Voghera e mi sarei posta il problema del “che
fare”. Con quell'esperienza si era chiuso il cerchio che avevo
iniziato a percorrere nel '76. Dal decennio trascorso avevo
appurato di saper “reggere il carcere” ed era anche chiaro che da
lì in poi il futuro non mi avrebbe riservato nulla di arricchente se
avessi continuato a muovermi sulla scia del passato. Una volta
fuori avrei sicuramente potuto impegnarmi a sostegno dei
detenuti, ma sarebbe stato, per così dire, un dejavu, un percorso
scontato, quasi obbligato. Per non vivere “di rendita” avrei
dovuto mettere a fuoco altri obiettivi>>.
Cosa che ho puntualmente cercato di fare. Da quel giorno ha

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avuto inizio il percorso mentale e pratico che avrà come
approdo Ca' di Favale.
Tornando a Voghera, posso dire di aver sperimentato in quel
carcere la falsità di almeno una comunista, che parlando di me a
una “correligionaria”, si espresse a babbo in termini
assolutamente negativi. Quando lo venni a sapere perché chi
aveva ricevuto la confidenza me ne parlò rimasi indifferente, e
non mi venne neppure in mente di andare a fondo chiedendo
spiegazioni all'autrice della maldicenza messa in giro. Ritenevo
infatti che si trattasse delle solite chiacchiere da cortile, ma con
ogni probabilità sbagliavo – un errore che ho pagato in seguito.
Di aver “visto” la fragilità di almeno una guardiana, giovane,
trimestrale, che, dopo aver sorvegliato un colloquio con Vanja,
mi accompagnò in sezione piangendo – lei, una qualunque
“vispa teresa”, turbata dal solo immaginare il delirio emotivo di
madre e figlio di 8 anni a colloquio in carcere.
Di aver sentito la capacità di Vanja di andare oltre l'apparenza
quando, tenendomi le mani, mi chiese “perchè tremi?”
spiazzando la mia convinzione di essere riuscita a “fare la dura”
o, forse meglio, a trattenere l'emozione.
Voghera, dove una BR romana di passaggio, nel giro di saluto
alle detenute della sezione, arriva da me e sbirciando le riviste e
i giornali che avevo in cella se ne esce con l'espressione
schifata: “gli anarchici anche qui?”
Voghera dove, dopo una lite a distanza con una “compagna”
della sezione, la mattina dopo mi pongo il problema se andare
all'aria, ed essere, con ogni probabilità menata, oppure non
andare. L'amor proprio mi suggerisce di andare. Non succede

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niente, ma la paura del peggio l'avevo avuta.

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10. Cà di Favale

È l'obiettivo che ho perseguito con più determinazione (o


cocciutaggine, a seconda del punto di vista).
Non ho mai avuto – e non l'ho adesso – la malsana idea di
esprimermi con espressioni del tipo "che bello vivere in mezzo
alla natura"; ogni ambiente naturale ha un suo fascino e,
dunque, la scelta di una collocazione "in campagna" deriva da
altri motivi.
Negli anni '90 arriva a compimento il processo di reazione dello
stato all'attacco portato avanti da organizzazioni, armate e non,
della società civile. Ciò ha significato non solo "repressione" ma
anche, e soprattutto, propaganda intensa e capillare, che aveva
lo scopo di convincere anche chi non era mai stato un obiettivo
della "guerriglia", a sentirsi in "pericolo" se non si fosse
schierato a difesa delle istituzioni. Slogan del tipo BR=SS non
hanno attecchito granché nella società civile, mentre altre
espressioni quali "anni di piombo" e "terrorismo" sono entrate
nell'uso comune, nonostante l'evidente grossolanità.
Certo, lo stato e le sue varie componenti (politici, giornalisti,
giudici e guardie armate) avevano pagato un prezzo, ma che dire
del prezzo che ha sempre pagato chi non appartiene ai circoli del
potere? I morti, come i vivi, non sono tutti uguali: un qualunque
militare che passa a miglior vita nell'esercizio delle sue funzioni
vale indubbiamente di più di un qualunque operaio che muoia
cadendo, ad esempio, da un'impalcatura – anch'egli
nell'esercizio delle sue funzioni; o di qualunque "migrante"
annegato, tra l'indifferenza generale, in quel "Mare di Morti"

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che è il Mediterraneo. Se ci si ferma a riflettere sul perché le
reazioni della cosiddetta società civile sono tanto diverse davanti
a bare apparentemente uguali, orpelli a parte, viene in mente che,
nel caso di vittime "eccellenti", la "commozione popolare"
potrebbe essere stimolata dal timore di perdere, nel caso di crollo
del regime, le briciole che cadono dal tavolo della "Grande
Abbuffata" – un po' come gli schiavi neri difendevano, se
necessario, le dimore dei padroni bianchi. Se invece muore uno
sfigato qualunque non vale la spesa di porsi troppe domande,
sembra essere sufficiente cantare le solite litanie a proposito di
interventi e garanzie, come non dimenticava mai di fare il
presidente Napolitano, nella sua duplice veste di "super partes" e
di ex comunista.
Se all'intervento diretto della propaganda di stato si aggiunge la
devastazione psicologica determinata da pentimento e
dissociazione nella base dei simpatizzanti, non è difficile capire
perché si sia creato un vuoto, si sia cercato con ogni mezzo di
"dimenticare", di anestetizzarsi, di immaginare o far finta di
credere che sia possibile creare "un altro mondo" facendo volare
palloncini colorati e appendendo ai balconi bandiere multicolori.
Anche per me, che in qualche modo e non pesantemente, sono
stata coinvolta negli eventi degli anni '70 e '80, è risultato sempre
più difficile affrontare o contribuire ad affrontare la situazione
con gli affini cui mi relazionavo.
Il primo tabù che mi ha condizionato e mi condiziona tuttora è la
questione della "fiducia". Qualunque impresa si voglia
intraprendere, anche la più innocua, occorre avere un certo grado
di fiducia in coloro che ci sono a fianco. Ciò fa sorgere subito un

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altro problema: che cosa consente di integrare la visceralità nel
decidere che ci si può fidare di Tizia e di Caio? Ovviamente non
basta saper recitare a memoria un tot di versetti – non satanici.
Nel cercare una risposta, agli inizi degli anni '90 ho spesso
considerato che in precedenza, il "far politica" non era
un'operazione separata dalla vita: si mangiava spesso insieme, si
giocava, si scherzava, si faceva l'amore e si fumavano spinelli –
chi voleva farlo – con un certo grado di "sportività" affettuosa.
Il condividere tanti momenti consentiva a tutti di farsi un'idea
abbastanza precisa delle caratteristiche di ognuno. Sparito quel
desiderio di condivisione, ci si è trovati attorno a un tavolo quasi
esclusivamente per scrivere volantini, organizzare
manifestazioni, parlare di carcere. Alla fine ognuno tornava a
casa propria, dove lo aspettavano figli, genitori, fidanzati e
fidanzate: la vita aveva cominciato ad essere vissuta "a
comparti". Tutto ciò da un lato consentiva di socializzare analisi,
idee e concretezza di ciascuno, ma dall'altro stendeva un velo,
spesso pietoso, sui desideri, le motivazioni che spingevano ad
attivarsi. In ogni caso si veniva a creare una comunità fittizia
che, fortunatamente, a lungo andare ha dichiarato forfait.
Qual era dunque un modo praticabile per avvicinarsi agli altri
con semplicità e senza troppe barriere, per scegliere tra le varie
persone i propri "amici"? Probabilmente non esiste una ricetta
che funziona sempre e in qualsivoglia situazione. Io ho pensato,
con una buona dose di ingenuità e, forse, un po' di disperazione,
che un modo potesse essere quello di mettersi nelle condizioni
di condividere il più possibile, a partire dalla materialità più
terra-terra: lavorare insieme, costruire con le proprie mani il

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proprio progetto, per quanto inizialmente limitato, ci avrebbe
messo nella condizione ottimale, almeno per quanto riguardava
conoscenza reciproca e fiducia. Quel ci identificava un piccolo
gruppo di amici, diversi per età ed esperienza. Dopo un periodo
abbastanza lungo di incontri e discussioni alcuni rinunciano: il
progetto pareva azzardato e i rapporti interpersonali fragili,
quantomeno a causa della differenza di età. Non ho rigettato in
toto le critiche, rendendomi ben conto che, se è difficile parlare di
"parità" in condizioni normali, l'esistenza di un grosso divario
dovuto a età ed esperienza priva la parola di un contenuto reale.
Che fare, però? Come porre rimedio all'inaffidabilità del circuito
cittadino, organizzato in modo tale da deresponsabilizzare il
singolo, consentendogli di sfangarsela con poco dispendio di
energie? Sembrava un circolo vizioso e per me, alla fine, è
diventato pressante – forse obbligatorio – saltare il fosso: se non
ora, quando? Tra qualche anno sarei stata troppo vecchia per
riprendere il discorso, avrei avuto meno energie e, intorno, gli
stessi problemi, incancreniti dall'assenza di soluzioni e
prospettive.
Così ho saltato il fosso. Non volevo restare impantanata nella
palude genovese. Avrei forse dovuto prestare maggior attenzione
da un lato alla perplessità e ai dubbi di chi mi era vicino da lungo
tempo ed era più simile a me per esperienza e dall'altro
all'entusiasmo con pochi spunti critici e propositivi con cui i
"giovani" guardavano a una "nuova esperienza", che la mia
"solidità" e "rigidità" avrebbe salvaguardato dalla deriva
"newage".
Per evitare equivoci dico subito che una soluzione meno

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drastica, meno impegnativa e dunque più abbordabile da
persone così diverse per età, esperienze e desideri come
eravamo noi, sarebbe stata quella di impegnarsi in un progetto
più agevole e facilmente gestibile – ad esempio, un luogo più
piccolo e meno cadente. In realtà, però, io non volevo una "casa
grande" da poter condividere con altri. Non volevo qualcosa di
simile a una "famiglia allargata". Volevo un luogo che potesse
garantire l'autonomia di ciascuno e, al contempo, la
collaborazione tra "diversi", un luogo dove fosse possibile
salvaguardare la singolarità di ognuno e, al tempo stesso,
metterlo in relazione con tutti gli altri. In effetti davo per
scontato che la condivisione di difficoltà e impegno avrebbe
creato legami più solidi delle chiacchiere. Pareva quasi che
pensassi a noi, che ci lanciavamo nell'avventura, come a dei
"buoni selvaggi" privi di chiaroscuri, di ambiguità, di
opportunismi e, magari, con desideri, riflessioni, progettualità, o
assenza di progettualità, destinati a manifestarsi col tempo.
Avevo chiare in testa solo le linee generali di un percorso, che
non prevedeva la creazione di una comune e neppure, forse, di
una comunità, ma la sistemazione del luogo per renderlo
vivibile e nel contempo capire chi eravamo, cosa chiedevamo a
noi stessi e agli altri, come ci saremmo, oppure come ognuno si
sarebbe rapportato al territorio, che cosa avremmo potuto
mettere in comune e che cosa ciascuno avrebbe tenuto per sé, o
condiviso solo con alcuni. Come avremmo affrontato la
disparità economica in modo soddisfacente per tutti, creando, ad
esempio, in loco la possibilità di guadagnarsi da vivere con
attività artigianali, tipo falegnameria. Nessuno di noi ha mai

61
pensato di vivere "da contadino" e abbiamo sempre considerato i
campi e gli ulivi come una parte importante, ma solo una parte,
del nostro modo di sfangarcela.
Insomma, una microsocietà capace di salvaguardare le
individualità al suo interno. A essere sincera devo ammettere che
una delle mie idee più tenaci, ma incompresa e in qualche modo
boicottata è stata quella degli spazi individuali e non di coppia:
ovvero, in ipotesi, una stanza di circa 25 mq a persona, come
luogo riservato e inviolabile, mentre cucina, bagno, sala lettura
ecc. sarebbero stati comuni. Sappiamo tutti che la coppia non è
per l'eternità, ma, se anche lo fosse, è sempre formata da due
individui che, magari, hanno anche (o potrebbero/vorrebbero
avere) una vita da single o semplicemente, ogni tanto il desiderio
di separarsi dalla dolce metà.
Una microsocietà non basata su ruoli e specializzazioni: chi
aveva abilità specifiche le avrebbe socializzate, fungendo per il
tempo necessario da istruttore di altri, mentre, almeno in teoria,
eravamo tutti contrari alla creazione e perpetuazione di ruoli fissi.
Forti dell'esperienza in atto, avremmo cercato relazioni e
complicità in valle studiando i modi più utili per essere vissuti in
concreto non come un aggregato strampalato e incomprensibile,
ma come una fonte di stimoli, nuove possibilità, iniziative,
interventi. Ci saremmo dotati di una stamperia, perché gli antichi
amori sono duri a morire e, in definitiva, avremmo fatto risuonare
in valle un ritmo vitale contagioso.
Purtroppo non è andata proprio così. Forse uno dei difetti alla
base del progetto era proprio il fatto che volessi qualcosa per cui
non ero attrezzata: il mio vissuto, molto politico e privo di una

62
reale condivisione, mi aveva portato a sottovalutare i problemi
di base che questa pone.
Non è il caso o il momento di ripercorrere, passo dopo passo, il
percorso di Ca' di Favale. Nel periodo di massima operosità
abbiamo fatto qualche tetto e intonacato muri; nei periodi di
massima espansione verso l'esterno abbiamo partecipato e
organizzato incontri del CIR (il bollettino di corrispondenze e
informazioni rurali); abbiamo ospitato i componenti della
Maknovicina, gruppo itinerante che ha sostato per qualche
tempo da noi per aiutarci nel lavoro materiale e che mi è rimasto
impresso per l'autonomia, il senso concreto della vita in
comune, l'assoluta mancanza di fronzoli, di preamboli, di
discussioni per tirare a far tardi; abbiamo organizzato con Ripe
Rosse la traversata da Ripe a Caffa seguendo l'Alta Via dei
monti liguri, un percorso di tre giorni cui parteciparono una
sessantina di persone e che è stato un'esperienza positiva in
termini di organizzazione. I problemi ai quali non siamo stati
capaci di dare soluzione hanno cominciato a manifestarsi con
l'allargamento del gruppo dei residenti. Condividevamo tutti
l'esigenza di non chiuderci in noi stessi, ma mentre qualcuno
pensava che fosse positivo accogliere chiunque ne facesse
richiesta purché si trattasse di una persona decente, contando
sul fatto che col tempo "sarebbe cresciuta", qualcun altro – io
sicuramente – non era disposto ad accettare di convivere a
tempo indeterminato con soggetti con i quali era difficile, se non
impossibile, stabilire relazioni sensate, men che mai paritarie.
[La pedagogia non è mai stata il mio forte].
Così ci siamo trovati con nuovi arrivi la cui presenza non era

63
frutto di una conoscenza e condivisione di alcuni principi base
del progetto, ma rispondeva a esigenze personali – di
sistemazione, amorose, o non meglio precisate. La "resa dei
conti" era vicina e sarebbe stata di una violenza e volgarità
difficili da dimenticare e indegne di qualunque causa, per quanto
misera. Né serve a nobilitare lo squallore di quei giorni di
"discussione" l'entrata in campo, per la prima volta, dei concetti
di individualità e collettivo, che devono essere indubbiamente
affrontati quando si vuol creare un gruppo coeso. Giusto per
tirarmi su il morale posso concludere che l'esperienza di Ca' di
Favale è stata negativa proprio in relazione a quegli aspetti che
sembrerebbero essere ovvii e scontati quando i "compagni"
parlano al bar tra uno stuzzichino e l'altro: rifiuto del principio di
autorità, disponibilità ad ascoltare chi esprime esigenze diverse
da quelle che vanno per la maggiore, perseguire il proprio
comodo senza caparbietà, mostrandosi capaci di avere uno
sguardo che vada oltre il proprio ombelico, negazione di ogni
discriminazione legata a età e sesso. Si potrebbe continuare, ma
perché fustigarsi?

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11. Una questione di autostima
(Non è bello avviarsi a fine partita con un autogol nel sacco)

Arrivata sin qui con sette decenni alle spalle che, nonostante le
lunghe aspettative di vita, non sono proprio una bazzeccola, il
pensiero più comune che immagino venga banalmente in mente
è: perché non appendere la bicicletta al chiodo? Un bel paio di
pantofole calde, tanta televisione a tenere compagnia, un po' di
tempo da passare, magari, con i nipoti... ovvero, il calvario
dell'attesa della dipartita.
Purtroppo, o meglio, senza esprimere pareri, il lutto anticipato,
il pianto sulla vita che finirà, non mi si addice. A essere sincera,
sono andata un po' in pappa all'apparire dei primi segni di
cedimento, ma, dopo essermi dibattuta come un pesce preso
all'amo, ho riacquistato calma e freddezza sufficienti per andare
avanti senza angosce. E così la riflessione sul che fare adesso si
è presa il suo spazio, accompagnandomi pian piano a una
conclusione.
Prima di delineare a grandi linee il progetto occorre mettere
qualche puntino sulle i.
E' invalsa nell'uso corrente un'interpretazione univoca e
“negativa” di individualista, secondo la quale il soggetto in
questione sarebbe incentrato in maniera esclusiva su di sé e sui
suoi interessi.
Le cose tuttavia non sono semplicemente così, con buona pace
dei marxisti di ogni risma. Individualista, infatti, come
sostantivo che rimanda a individualismo, è anche colui che
difende e privilegia l'autonomia e l'irriducibilità dei valori di cui

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l'individuo è portatore, rispetto a quelli della comunità di
appartenenza. E' fin troppo facile oggi riflettere sul fatto che la
società di massa, la massificazione a livello mondiale, rendono
sempre più difficile identificarsi come individuo anziché come
uno dei tanti che nascono, crescono e muoiono senza sapere
perché.
Ogni individuo è in grado, innanzitutto, di reggersi sulle proprie
gambe, senza aiuto di stampelle: è dotato di un apparato sensitivo
e critico che gli consente di attingere, rielaborare, implementare o
combattere le idee e le pratiche operanti nella società; è, per
appartenenza alla specie, un “animale sociale” che non cerca di
relazionarsi a chiunque incroci sulla sua strada, ma stabilisce
relazioni forti e sensate con chi sente simile per qualche aspetto
non secondario. Forse l'espressione che meglio esprime la sua
unicità e la sua socialità è “primus inter pares”.
Chiarito, spero, questo aspetto che ritengo fondamentale, credo
sia facile fare i passi successivi che portano al progetto.
Una delle idee basilari di Cà di Favale, che non siamo stati capaci
di perseguire con continuità e tenacia, era quella di non
rinchiuderci su noi stessi, ma di stabilire interazioni e legami con
il territorio in cui operavamo e con quello di provenienza –
ovvero di esprimere concretamente il nostro essere “animali
sociali”, rendendo esplicita e ricca di contenuti la nostra idea di
anarchia. Questo era forse ciò che si aspettavano da noi alcune
persone della valle, probabilmente incuriosite (e in qualche caso
preoccupate) dall'insediamento di anarchici nel comune di Ne.
Come troppo spesso accade, è più facile coniare slogan e
immaginare percorsi antagonisti che non mettere in moto pratiche

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e comportamenti capaci di esprimere modi radicalmente diversi
di essere, vivere e lavorare. Lo spazio sociale è in realtà pieno di
modelli di riferimento teorici che ben poco hanno a che vedere
con la vita quotidiana dei loro propugnatori. Noi non siamo stati
e non siamo eccezioni a questa regola. Forse la sola cosa che
possiamo affermare con certezza è che abbiamo coscienza dei
limiti del nostro agire. Negli oltre dieci anni di vita a Ca' di
Favale mi vengono in mente tre sole occasioni in cui il nostro
agire si è caratterizzato in modo inequivocabile.

La prima è collegata all'arresto per partecipazione a banda


armata di Massimo Porcile, avvenuto a Sussisa nel 2009: nel
volantino di solidarietà a Massimo, distribuito in valle dove lui
ha numerosi amici, la scelta di campo era precisa perché, senza
sottovalutare le differenze ideologiche che, alla fine, rendono
praticamente impossibile organizzare percorsi comuni, rimane
indiscutibile la solidarietà a chi viene individuato dallo Stato
come nemico, ipotetico o reale, e viene incarcerato.

Poi c'è stata la vicenda del funerale di Roberto Leimer, un


compagno anarchico di Ne morto nel 2006, con il quale
avevamo rapporti non particolarmente stretti, ma sinceri, per
quel che la parola può significare. Roberto era solo e i suoi
parenti, prendendo in mano la situazione, avevano optato per
una scelta davvero incredibile – il funerale religioso – visto che
la “fede anarchica” di Roberto era nota in tutto il paese.

Come ormai risulta chiaro da tutto ciò che precede, il nostro

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intervento non fu tanto per Roberto, al quale più nulla poteva
ormai interessare, ma per noi stessi e contro la violenza della
famiglia e della Chiesa. Eravamo numerosi sul sagrato dove era
la bara e abbiamo contestato, attimo per attimo, la funzione
funebre, inventandone un'altra e accompagnando infine con canti
la tumulazione della bara sulla quale eravamo riusciti a deporre la
bandiera rossa e nera degli anarchici.

L'ultimo episodio riguarda Adelina, il nostro maiale che viveva


libero, fatto fuori da un cacciatore nel periodo in cui è aperta la
caccia al cinghiale. In quell'occasione abbiamo affisso in tutto il
comune il volantino riprodotto nella sezione fotografica,
ritenendo privo di senso lasciar correre o lamentarsi dell'accaduto
con le singole persone. Non sappiamo quali chiacchiere il testo
abbia alimentato, ma abbiamo avuto, quale “risarcimento” da
parte dei cacciatori, un cinghiale di un centinaio di chili.

Di recente ho riflettuto su questo aspetto ripensando al rapporto


con il comune di Ne. Ne conta circa tremila abitanti; le attività
prevalenti sono agricoltura e olivicoltura; esistono piccole
fabbriche e cave di materiale per edilizia. Tra le peculiarità dei
suoi abitanti va registrata la tendenza maschile a ignorare, in
pubblico, le donne evitando per lo più di rivolgersi a loro, oppure
facendo in loro presenza battutacce degne delle bettole più
infime. Le donne anziane lavorano per lo più in campagna, le
giovani spesso e volentieri lasciano l'agricoltura per attività
diverse, rivolgendosi alla ristorazione o all'impiego in riviera.
Perché, mi sono chiesta, non cercare di impiantare proprio qui

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qualcosa di nuovo e di diverso, che possa servire a creare
occupazione, soprattutto – o esclusivamente – femminile e ad
attirare turismo rivierasco offrendo una produzione artigianale
di qualità, utile a riprendere contatto, snobbando la tecnologia
avanzata, con un antico mestiere come la tessitura, senza
dimenticare le sensibilità più raffinate, che inducono a prendere
in considerazione l'idea della "seta non violenta", ovvero
ottenuta senza bollire i bozzoli con la farfalla dentro.
Il pensiero è andato ai racconti di Silvia, una donna calabrese di
Santa Sofia d'Epiro che conosco da tanto tempo e dalla quale ho
sentito parlare per la prima volta dell'allevamento in casa dei
bachi da seta.
Dalle prime ricerche effettuate, esclusivamente in rete, ho
ricavato insieme a Teresa e Paolo (vedi Ringraziamenti) che mi
supportano attivamente nella raccolta dati, un po' l'idea di aver
bussato alla porta di un club privé... ma vedremo, perché finito
di scrivere potrò dedicare più tempo alle indagini sul campo,
avendo in mente un orientamento preciso: un'attività svolta da
un gruppo di donne associate, magari, in cooperativa, che
condividono un criterio antispecialistico ed egualitario, nel
senso che ognuna sa fare il lavoro di tutte le altre e la
remunerazione è la stessa a prescindere dalle mansioni.
Se si lascia libera la fantasia, o si procede per associazioni di
idee, vengono subito fuori tessitura, telai, colori (ovviamente
naturali), ma anche manodopera, lavoro, produzione, vendita...
Una bella scommessa ipotizzare un organismo i cui membri
prendono tutti la stessa paga e sono in grado di svolgere
qualsiasi mansione. L'uguaglianza di partenza non è data (per

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noi, qui a Ne, come per nessuno sulla faccia della terra), ma
l'uguaglianza di trattamento e di guadagno è una possibilità che
dipende da noi.
E la mensa per le lavoratrici? E l'asilo per i bimbi? E... e...
Forse è saggio tenere a freno la fantasia e iniziare a piantar gelsi,
dalle more bianche e nere, che, comunque impiegano cinque anni
ad avere la giusta chioma con cui alimentare i bachi voraci.
Perché la seta, anziché canapa, iuta o lino? Per qualche aspetto la
scelta è casuale (le informazioni che ho avuto riguardavano i
bachi da seta), per altri è un po' snob. La seta ha da sempre un
fascino particolare, basti pensare alla “via della seta”, la pista
carovaniera che già prima dell'era cristiana partiva da Antiochia e
Tiro e, dopo aver attraversato Persia e Afghanistan raggiungeva il
Pamir, dove venivano effettuati gli scambi tra i mercanti dell'est e
quelli dell'ovest. D'altra parte credo che, partendo da zero, esista
un livello iniziale comune ai vari materiali, che riguarda tessitura
e colorazione della materia prima.

E qui mi fermo. Se qualcuno avrà la curiosità di sapere se e come


il progetto è andato avanti, non mi resta che invitarlo a fare un
giro a Ne: se qualcosa bolle in pentola potrà scoprirlo con
facilità; se nulla si muove, potrà sempre fare una buona abbuffata
in qualche agriturismo locale.

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Ringraziamenti

Tutte le persone che voglio ringraziare sono o sono state


importanti. L'ordine di successione è casuale e nulla ha a che
vedere con una “graduatoria”.

Teresa e Marilena, le maestre di Vania, che nel 1984 era iscritto


alla terza elementare della scuola X Dicembre di Oregina, hanno
affrontato con sensibilità e autorevolezza la situazione venutasi
a creare a scuola, con il mio arresto nel 1984, nelle relazioni con
alunni, genitori e personale docente.

François, amico di una vita, mi è sempre stato vicino in modo


affettuoso e critico, dandomi grande disponibilità quando ho
avuto bisogno di solidarietà concreta e materiale, stando vicino
a Vania negli anni 84-86 e partecipando a suo modo (modo che
mai è stato “compiacente”) alle vicende successive.

Silvia, i cui racconti vivaci e nostalgici sulla vita a Santa Sofia


d'Epiro, enclave albanese in Calabria, hanno reso palpabile una
dimensione di “vita contadina” ricca di fascino e serenità
nonostante il fascismo, la guerra e tutti i problemi e le difficoltà
cui nessuno poteva sottrarsi. Dai suoi racconti ho tratto l'idea
che sta alla base dell'ultimo capitolo.

Paolo e Teresa mi hanno sorpreso per l'attenzione e l'empatia


con cui si sono rapportati allo scritto, aiutandomi a renderlo
fruibile con integrazioni e suggerimenti.

71
Vania mi ha dato un valido supporto tecnico, evitando o
rinunciando, come gli avevo chiesto, a esprimere commenti e a
entrare nel merito dei contenuti almeno fino alla stesura
definitiva.

72
Anni 30. Nino e Rosa Siccardi, a Cannes

Fotografia di Curto e di
Chiara, finita in mano ai
tedeschi. Riprodotta in un
centinaio di copie, fu
distribuita dalla polizia
politica fascista a tutti i posti
di blocco e a tutti i Comandi
il 24 Febbraio 1945, con
l'obiettivo di catturarli
entrambi.

73
Agosto-Settembre 1944. Zona di Valcona. Enza e Silvia, figlie di Nino

Ottobre 1944, zona di Pieve di Teco. Silvio Bonfante (Cion), vice


comandante della II Divisione F. Cascione. Uno dei "figli" del Curto,
e74
anche suo nipote, che si ucciderà a Upega il 17 Ottobre 1944 per
non essere catturato dai tedeschi.
Lapide in memoria di Cion a Upega

Partigiani caduti a Upega 75


San Bernardo di Conio, Montegrande

76 San Bernardo di Conio, Montegrande


77
Vanja, 1989

78
Francois e Vania, 1981
Cà di Favale

Cà di Favale

79
80
per contatti:
edizioni Anarres c/o
Biblioteca Libertaria Francisco Ferrer,
Piazza Embriaci 5, 16123 Genova

Cà di Favale. Via Zerli 1, 16040 Ne(Ge)

Stampato in proprio, Genova, ottobre 2015

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