I Poteri Degli Schermi 1

Scarica in formato docx, pdf o txt
Scarica in formato docx, pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 33

I POTERI DEGLI SCHERMI

SUPERFICI DI VISIBILITA’, SUPERFICI DI PROTEZIONE


Reimparare a vedere gli schermi. Effetti della pandemia e poteri dell’archi-
schermo
1. “Screen New Deal”
Gli schermi sono diventati più popolari grazie al lockdown impostoci dalla pandemia
di Covid 19 quale nostro principale mezzo di comunicazione col mondo. Da anni
sono protagonisti di una serie televisiva di grande successo internazionale: Black
Mirror. Il colore che gli assegna quel titolo suggerisce che l’eroe in questione non
può essere lo schermo elettronico o digitale ancora spento; sono infatti il segno, la
figura o addirittura l’immagine a costruire lo schermo e, a sua volta, lo schermo
costruisce il segno, la figura o l’immagine appunto costituendosi come schermo.
Nel caso di uno schermo spento anziché definirlo privo di immagini, occorrerebbe
parlare piuttosto di uno schermo che espone la propria immagine e, con essa,
l’imminenza di altre immagini. Riguardo la serie televisiva, a confermare la presenza
di immagini sullo schermo interviene la caratterizzazione di questo come specchio.
Lo schermo elettronico o digitale ancora spento altro non permette di riflettere se non
le immagini della condizione che gli spettatori stessi della serie si troveranno a vivere
in un futuro ormai alle porte. Black Mirror sembra fare non certo degli schermi
elettronici e digitali in quanto tali, ma della nostra esperienza di essi la “pars pro toto”
di quel dispositivo socio-culturale che ci sta avviluppando.
Una riflessione genealogica sulle nostre esperienze schermiche non potrà evitare di
interrogarsi anzitutto sugli effetti che la pandemia di Covid-19 ha prodotto sui nostri
rapporti con gli schermi i quali non sono semplici superfici utili a mostrare o
nascondere certe porzioni del visibile e tra loro intrappolarci. Pensiamo alla siepe che
Leopardi guardava guardava dal colle dell’Infinito e che gli schermava il paesaggio
sottostante, stimolandolo a immaginare quanto non poteva vedere. Come quella siepe,
in ogni epoca gli schermi hanno operato una certa distribuzione del visibile e
dell’invisibile, di volta in volta istituendo relazioni e perciò aprendo esperienze;
anziché come semplici superfici, gli schermi hanno sempre funzionato da interfacce.
Gli schermi sono diventati via via appunto le principali interfacce visuali della nostra
comunicazione. Abbiamo tuttavia avuto bisogno dello shock della pandemia da
coronavirus per renderci massicciamente conto, nella nostra esperienza collettiva, di
certe potenzialità implicite; non ci siamo più limitati a scambiarci foto di cibo prima
di assaggiarlo, ma abbiamo preso a consumarlo insieme grazie agli schermi. Gli
screen studies si sono concentrati prevalentemente sullo statuto di surface del loro
oggetto di studio; tali studi hanno prevalentemente considerato gli schermi appunto
quali superfici che mostrano certe porzioni del visibile, anziché includere nella loro
considerazione anche le parole da essi veicolate.
Nel frattempo, ci troviamo usciti dal lockdown, ma entrati in un mondo in cui la più
diffusa esigenza sembra diventare quella di essere connessi; ci si può chiedere allora
se un’efficace risposta a tale esigenza non potrà venire da certi “head-up displays
(HUD)” indossabili, ossia visori che possono trasmetterci non solo immagini, ma
informazioni multimodali, consentendoci di mantenere lo sguardo dritto davanti a
noi.
2. L’archi-schermo come principio transistorico di mostrazione e insieme di
occultamento
L’ “archi-schermo” si sforza di far emergere le molteplici implicazioni di volta in
volta connesse al differente caratterizzarsi storico-culturale degli schermi. Va inteso
come un tema, o un “principio” che tuttavia, ben lungi dal darsi al principio, non
cessa di formarsi e trasformarsi con e attraverso le sue variazioni preistoriche e
storiche. Di volta in volta esso si retroietta quale “principio” e nel contempo declina
la sua funzione che consiste nel mostrare e insieme celare, con l’implicito valore di
protezione che questo secondo aspetto comporta. Ecco perché definito un “principio
transistorico di mostrazione e insieme di occultamento”: un principio che consente
loro di presentare segni, figure o immagini in forma diretta, indiretta o addirittura
negativa. Questo si connette all’ambiguità e alla reversibilità del corpo inteso come
“Korper” (corpo-oggetto) e insieme “Leib” (corpo vivo). In quanto Korper, e dunque
visibile, il mio corpo può intercettare una fonte luminosa e mostrarsi così ai vedenti,
nel contempo nascondendo loro quanto gli sta immediatamente dietro, nonché
proiettando una macchia scura su una superficie circostante che, a sua volta, ce la
rende visibile: la sua ombra che può caratterizzarsi come “macchia in negativo” del
corpo che la proietta. Questo ci segnala come servano due schermi per vedere
un’ombra: uno che la produce intercettando la fonte luminosa, l’altro che la presenta
accogliendone la proiezione e dunque situandola nello spazio circostante; si
qualificano come schermo “negativo” e “positivo”. Quanto in tal modo appare sul
secondo schermo non è che l’ombra intesa quale fenomeno fisico; riconoscervi una
figura vuol dire sovrasignificare implicitamente quel fenomeno fisico, nel contempo
sovrasignificando la superficie stessa su cui l’ombra si proietta, ossia iscrivendo
quest’ultima in una specifica variante di archi-schemro, in cui segni, figure o
immagini divengono tali. Occorre inoltre considerare che la funzione di fare ombra
può venire distaccata dal corpo e assegnata a un “oggetto tecnico” che diverrà a sua
volta uno schermo “negativo”. Le variazioni dell’archi-schermo contribuiscono a
produrre, in diversi contesti socio-culturali, diversi regimi di visibilità. Gli schermi
sono una componente decisiva dell’instaurarsi, dell’affermarsi e del variare di tali
regimi. Perciò anziché qualificarli soltanto in relazione alla luce, è più opportuno
definirli “regimi di visibilità”, includendo anche la considerazione della componente
schermica. La parola “regime” conserva la connotazione politica che le faceva
indicare l’ “azione di dirigere”; parlare di regimi di visibilità significa allora parlare
dei poteri impersonali di dirigere o distogliere la luce e perciò gli sguardi, di mostrare
e di occultare, di affermare somiglianze e diversità.
Il vocabolo “schermo” fa notoriamente riferimento univoco all’azione di “difendere”,
ma nel corso dei secoli l’uso di questo vocabolo è andato sedimentando nel suo
significato, una peculiare ambiguità, cosicché esso può voler dire tanto “nascondere”
quanto “mostrare”. Dall’estremo della pura “protezione”, in cui il termine schermo ha
la sua etimologia, quello della pura “mostrazione” è iscritto invece nel significato di
display che è stato presentato come la superficie dell’esibizione senza residui, ovvero
di una trasparenza assoluta.

Dalla pietra alla pelle: materia e poteri degli schermi


1. Gorkij, lo schermo e il perturbante
Diceva Maksim Gorkij che lo schermo è di per sé qualcosa di perturbante: un
semplice pezzo di tela bianca posizionato in una stanza, che tutt’a un tratto viene
popolato da immagini di cui non si capisce bene la natura, immagini vive, che hanno
un effetto dirompente sui sensi e sulla mente di chi abita quella stanza. Poi
svaniscono e resta lo schermo vuoto, quel semplice pezzo di tela bianca che lascia lo
spettatore solo a domandarsi se quel profluvio di vita è realmente esistito, oppure è
stato prodotto in modo incontrollabile e delirante dalla sua immaginazione: “un
indefinibile terrore”. La paura che provano gli spettatori è esattamente riconducibile
al grande tema del perturbante freudiano, laddove si realizza, nella mente e nel corpo
dell’osservatore, un’incertezza tra l’animato e l’inanimato: qualcosa che ci sembra
possedere caratteri vitali si dimostra privo di vita. Ancora oggi, quando lo schermo
del nostro laptop, del nostro tablet o del nostro smartphone non si anima più delle
immagini e dei contenuti che veicola normalmente, tendiamo a dire che “è morto”;
pensare che uno schermo possa essere “morto” oppure che possa essere “vuoto”,
significa riconoscergli di contro una vita, una pienezza. Per molti anni la teoria del
cinema si è disinteressata dello schermo in quanto tale, dedicandosi a ciò che di più
importante vi veniva proiettato sopra. La rivoluzione digitale e l’esplosione degli
schermi ha senza dubbio favorito una maggiore attenzione allo schermo in quanto
tale e alla sua lunga e complessa archeologia. Lo schermo è tornato così ad essere, da
una parte, un oggetto di cui studiare la materialità e il graduale passaggio
all’immaterialità, recuperando quel lontano significato che rimandava a un’idea di
protezione, di difesa, finanche di nascondimento.
Lo schermo, l’“ostacolo” materiale, rimane invisibile e non visto in ciò che è da
vedere; il computer è costruito in modo tale che i lettori non vedano mai lo schermo
come tale, nella sua materialità, perché esso, appena acceso, si empie di caratteri,
simboli o immagini. Se lo schermo rimane bianco, o peggio, si oscura e annerisce, ciò
significa che lo strumento non funziona.
2. La trasparenza dello schermo
Lo schermo cinematografico è il primo schermo a non essere percepito come tale, a
riempirsi di altro da sé, a premere sui sensi e a sussistere nell’immaginario dello
spettatore per ciò che transita come spettro su di esso; dà luogo a tutte le forme
sensibili. Al cinema non vediamo allora più lo schermo, ma esso ci immerge in un
“ambiente” che dissimula la materialità della mediazione.
3. Cervello-corpo ed esperienza delle immagini
Il corpo umano svolge un ruolo fondamentale nella vita cognitiva umana. Trent anni
di ricerca neuroscientifica hanno cambiato radicalmente il modo di concepire il
rapporto tra corpo, mente e mondo. In particolare il nostro modo di concepire la
percezione visiva. Abbiamo compreso che guardare il mondo è estremamente più
complesso di una semplice attivazione del cosiddetto “cervello visivo”, ma implica
l’attivazione anche delle aree motorie, di quelle delle regioni cerebrali coinvolte nelle
nostre risposte affettive ed emozionali. La scoperta dei neuroni specchio, neuroni
motori che controllano l’esecuzione delle azioni ma rispondono anche alla loro
osservazione quando eseguite da altri, ci ha fornito una nuova nozione empiricamente
fondata di intersoggettività, concepita prima di tutto come intercorporeità.
In molte situazioni possiamo capire direttamente il significato delle azioni altrui
grazie all’equivalenza motoria tra ciò che fanno gli altri e ciò che sappiamo fare noi.
L’intercorporeità diventa così la più diretta fonte di conoscenza che abbiamo degli
altri. Ogni rapporto che intratteniamo con gli altri implica la condivisione di una
molteplicità di stati, quali, ad esempio, l’esperienza di emozioni e sensazioni. Grazie
alla creazione di una “consonanza intenzionale” questi meccanismi ci consentono di
riconoscere gli altri come nostri simili e verosimilmente rendono possibile la
comunicazione intersoggettiva ed una comprensione implicita degli altri. Significa
che le azioni e le esperienze sensoriali ed emozionali altrui non ci sono aliene, ma
abbiamo un accesso dell’interno agli altri che ci permette entro certi limiti di
comprenderli.
Lo spazio attorno al nostro corpo, detto spazio peri-personale, all’interno del quale
esplichiamo le azioni del capo e degli arti superiori, è mappato dagli stessi neuroni
che guidano i movimenti del capo e dell’arto superiore in quello stesso spazio. La
parte della corteccia che controlla i movimenti del capo, risponde, infatti, agli stimoli
tattili applicati al viso e agli stimoli visivi e uditivi all’interno dello spazio peri-
personale che circonda il volto. La percezione degli oggetti fornisce un altro esempio
di dominio dell’azione. È stato dimostrato che l’osservazione di un oggetto
manipolabile, recluta selettivamente gli stessi circuiti motori tipicamente attivi
durante la pianificazione e esecuzione di azioni dirette allo stesso oggetto. Mentre
guardiamo un bicchiere, anche se non vogliamo afferrarlo, nel nostro cervello si
attivano parte degli stessi neuroni che solitamente ci permettono di farlo; l’azione
viene solo simulata.
4. Dalla vita allo schermo
La gran parte degli studi che hanno fino ad oggi indagato la risposta del cervello
umano alle immagini, statiche o in movimento, sono stati ottenuti registrando
l’attività cerebrale mediante le tecniche di brain imaging, durante l’osservazione di
immagini proiettate sullo schermo bi-dimensionale di un computer. Altri studi nel
modello animale hanno confrontato in modo sistematico la risposta dei singoli
neuroni a immagini della vita reale e a immagini proiettate su di uno schermo,
rivelando come la maggior parte dei neuroni risponda ad entrambi i tipi di immagine.
Questi ed altri risultati ottenuti nell’uomo, ci suggeriscono come la linea che separa la
realtà dalla sua rappresentazione sia molto meno netta di quanto ci si potrebbe
attendere. Un ulteriore argomento a favore della porosità del confine tra le immagini
del mondo reale e quelle che si muovono sullo schermo cinematografico ci è
suggerita dall’accezione di schermo come “protezione e/o difesa”. Lo schermo
cinematografico è opportunamente collocato ad una distanza di sicurezza dallo
spettatore, non molto dissimile alla distanza che separava il pubblico seduto sulle
gradinate degli anfiteatri dell’età classica.
5. Lo “schermo-pelle” e la duplicità tattile della visione
L’evoluzione tecnologica della riproduzione delle immagini digitali ha reso possibile
la miniaturizzazione degli schermi. Per la prima volta nella storia dell’umanità, le
immagini sono potenzialmente sempre a portata di mano. Le immagini, da remote
che erano, sono entrate prepotentemente dentro il nostro spazio peri-personale,
rimanendovi per molte ore al giorno. Lo schermo diviene una tecno-protesi corporea,
poiché è il corpo che costituisce il motore di innesco e di arresto della riproduzione
digitale delle immagini, grazie al contatto con le dita della nostra mano. La forma di
contatto con le immagini si realizza in una situazione di fortissima vicinanza allo
schermo, posizionato a poche decine di centimetri dal nostro corpo, spesso tenuto tra
le mani, richiedendo un intervento motorio e tattile da parte dello spettatore. Il corpo
dello spettatore diviene così il controllore diretto delle immagini e del loro fluire,
attraverso il contatto con lo schermo; ore lo spettatore “possiede” l’immagine. Lo
schermo assume dunque le sembianze di un involucro, una pelle trasparente
costantemente sfiorata tattilmente dalle dita dello spettatore: diviene “schermo-pelle”.
6. Conclusioni temporanee per un futuro già arrivato
Lo schermo-pelle prodotto dalla nuova mediazione digitale suscita una serie di nuovi
interrogativi teorici. Il dibattito ha fino ad ora prevalentemente riguardato le
dimensioni dello schermo digitale e il conseguente impatto del suo rimpicciolimento
sulla presenza dell’immagine. Secondo alcuni “bigger is better”, mentre altre ricerche
di tipo comportamentale hanno sostenuto che il piccolo schermo di un iPod sembra
indure un’immersione maggiore nello spettatore rispetto a schermi televisivi di taglia
più grande.
Lo schermo portatile assolutizza anche la singolarità dell’esperienza di visione;
l’esperienza cinematografica in sala si caratterizza non solo per le maggiori
dimensioni dello schermo e per l’univocità delle immagini proiettate, ma anche per la
condivisione dell’esperienza scopica con una moltitudine di spettatori sconosciuti. La
fruizione di un film dallo schermo portatile è invece tipicamente solipsistica.
Scusate, avete detto schermi? Fra specchio e velo, il velo prismatico
Lo sguardo che gettiamo ad ogni istante sul mondo, il mondo puntualmente lo
restituisce. Lacan e Merleau-Ponty furono attenti lettori dei reciproci scritti, nonché
interlocutori diretti. Diedero luogo a prospettive sulla visione e sullo sguardo per
molti versi complementari. Le loro teorie costituiscono oggi un punto di riferimento
irrinunciabile per gli studi di cultura visuale. Lacan nel saggio “Lo stadio dello
specchio come formatore della funzione dell’Io” parla dello specchio, il quale
figurava come superficie sulla quale, nel confronto con l’immagine riflessa, si
costituiscono primariamente la coscienza immaginaria dell’Io, l’affermazione
simbolica del soggetto nell’orizzonte sociale, e l’emergere del Reale nella guisa di
uno sguardo parziale e alieno, esternato dall’Io e restituito da quell’altro che son pur
sempre Io. In tal senso si possono interpretare le parole che merleau-Ponty consegna
all’incompiuto “Il visibile e l’invisibile”, laddove il filosofo osserva che “l’altro
nasce dalla mia parte”. La possibilità dell’identificazione con l’immagine speculare
procede dello spossamento del soggetto, dalla peculiare proprietà dello specchio di
trascinare fuori dalla propria carne, sicchè in esso si sperimenta a un tempo la
massima prossimità e la massima distanza rispetto al soggetto, in quanto lo specchio
coincide con la superficie di separazione fra me e l’altro che è anche il luogo della
nostra unione. L’immagine speculare coglie quello che il filosofo francese chiama il
mio “esser-ne”, ossia il mio fare tutt’uno con il mondo in quanto parte del suo tessuto
sensibile. Da un lato, io sono nel mondo, ma sono anche del mondo; dall’altro, io
sono coscienza del mondo, ma lo sono facendone parte, ne sono coscienza.
L’occhio stesso è già una forma di specchio: ne è immagine emblematica un celebre
dipinto di Magritte raffigurante un grande occhio, il cui proprietario sta
verosimilmente osservando il cielo, la sua iride azzurra essendo attraversata da
candide nuvolette, in un riflesso speculare del mondo esterno. Fuori e dentro
appaiono l’uno come il rovescio dell’altro. Anziché consentire di vedere l’interiorità
del personaggio, la sua anima, lo specchio riflette il mondo che lo circonda. Di fronte
allo specchio, allora il mio occhio, come un secondo specchio, riflette. Risulta
interessante osservare come anche un altro filosofo celebre si sia servito
dell’immagine degli specchi: Gilles Deleuze, che fu immortalato proprio in posa tra
due specchi. “Non esiste virtuale che non diventi attuale in rapporto all’attuale,
poiché l’attuale diventa virtuale all’interno di questo stesso rapporto”. Si diano due
specchi l’uno di fronte all’altro. Più lo specchio moltiplica le sue faccette, più
l’immagine virtuale diviene attuale: ovvero, cattura l’immagine attuale, al punto che
quest’ultima diviene virtuale.
Lo stesso accade alla trama carnale del visibile secondo la prospettiva di Merlau-
Ponty, dove la carne non è solo “fenomeno di specchio”, ma anche fenomeno di velo.
Le figure estetiche tradizionali del velo e dello specchio sembrano condividere una
medesima essenza. Tuttavia, se inteso in questo senso, il velo non vela. Al contrario,
esso mostra. Il paradosso è rintracciabile anche nel modo di rendere visibile tipico
dello specchio, che mostra senza mostrarsi. Osserviamo un’immagine riflessa in uno
specchio perfettamente pulito: ci accorgeremo di non vedere lo specchio sul quale
essa si riflette. Lasciamo ora con le dita delle impronte sullo specchio e
concentriamoci su di esse. Le macchie, disturbando la profondità dell’immagine
riflessa, ci riportano alla superficialità dello specchio. Ora che vediamo lo specchio
nella sua superficie, non vediamo più l’immagine nella sua profondità. La carne
merleau-pontiana sembra configurarsi piuttosto secondo l’immagine di un tessuto
differenziale, monocromo e multicolore; un tessuto-prisma. La carne del mondo
potrebbe essere allora caratterizzata quale “velo prismatico”. Una scena tratta da un
famoso film sembra render conto in maniera assai appropriata di questa inedita figura
del velo prismatico. La pellicola in questione è Matrix, la scena è quella nella quale il
protagonista del film, Neo, si trova alle prese con un singolare specchio, liquido come
l’acqua ed elastico come il tessuto che, una volta toccato, letteralmente avviluppa e
invade il suo corpo dalla superficie alle viscere stesse, trascinandolo fuori dalla sua
carne, come un ordito fluido che aderisce ad ogni piega del corpo, sicché questi ne
diviene, rovesciandosi a sua volta in specchio, rendendosi piega di quella medesima
stoffa prismatica.
Lo statuto di velo dello schermo è palese già negli schermi cinematografici, che altro
non sono se non teli sui quali l’immagine sorge e prende vita. Ma lo schermo è stato a
lungo inteso anche come un particolare tipo di specchio. Carbone sostiene che lo
statuto di specchio dello schermo sia più che mai all’opera negli odierni displays
elettronici interattivi. Il termine “schermo” perde l’ambiguità prima rilevata tra
“nascondere” e “mostrare”, per risultare sempre più spesso accostato al vocabolo
display che significa univocamente “esibizione, esposizione, ostentazione”. Basti
pensare all’esperienza dello specchiarsi tramite una qualsiasi app dello smartphone o
del tablet che preveda l’attivazione della fotocamera, direttamente nella ricostruzione
digitale della nostra immagine sullo schermo. Schermo che resta display anche da
spento, riflettendo la nostra immagine sulla sua superficie oscura che, oltre il nero, si
fa specchio, come la pupilla di un occhio.
La realtà virtuale è parte dell’orizzonte esplorato dalle cosiddette wearable
technologies, tecnologie indossabili, nelle quali l’evoluzione degli schermi risulta
particolarmente interessante. Uno degli esempi più noti resta il Google Glass; si tratta
di un computer indossabile per la realtà aumentata che si inforca come un paio di
occhiali e, come scrive Montani, mette chi li indossa in una condizione di effettuare
una serie di operazioni attivando un’interfaccia sensibile ai comandi vocali, agli
spostamenti della testa e al tocco dell’asticella destra degli occhiali sulla quale è
posizionato il touchpad. Le informazioni richieste vengono visualizzate su un piccolo
schermo trasparente collocato nell’angolo superiore destro degli occhiali. Questo non
funziona come un normale display e nemmeno propriamente come uno schermo. Non
fa sorgere l’immagine come accade con un display elettronico, né la accoglie alla
maniera di uno schermo tradizionale, ma l’immagine è proiettata e, anziché
raccogliere sulla sua superficie l’immagine, il cristallo mette in opera la propria
qualità rifrangente per ridirigere il fascio di luce verso il nostro occhio, trovando
direttamente sulla nostra retina lo schermo del quale abbisogna. Lo schermo di Glass
non è dunque il prisma: è il nostro occhio stesso. Non a caso questa tecnologia è
chiamata anche schermo a proiezione retinica. Ed è proprio perché il nostro occhio è
lo schermo che possiamo mettere a fuoco le informazioni che Glass ci fornisce come
se fossero parte integrante della realtà.
Una diversa e ormai ben nota wearable technology è l’Oculus Rift, dispositivo
originariamente concepito per una visualizzazione il più possibile realistico-
immersiva dei videogiochi in tre dimensioni e a 360 gradi. Strutturato come una
maschera, gioca sulla binocularità dei suoi schermi e su un sistema di sensori abbinati
ad un giroscopio per calcolare i movimenti della testa. Coprendo completamente il
campo visivo e sostituendovi le immagini trasmesse da due schermi posti all’altezza
degli occhi, esso concretizza un paesaggio immaginario che viene letteralmente a
circondare il fruitore. La prospettiva nella quale ci immerge il doppio schermo di
Oculus Rift si riavvicina all’esperienza corporea, avvolgendoci come un velo
prismatico, sicché lo spettatore arriva a trovarsi, in una reversibilità non
completamente realizzata, visivamente dentro e fisicamente fuori dall’immagine.
Immagini, schermi e forme della razionalità
Da un secolo e mezzo le immagini che abbiamo a nostra disposizione sono aumentate
esponenzialmente, tanto da invadere tutti gli ambiti della nostra vita individuale e
sociale. Grazie alla trasformazione digitale, le visibilità artificiali hanno ancora più
occupato i nostri ambienti vitali, accompagnandoci ovunque. La situazione che
stiamo vivendo ha qualcosa di paradossale: da un lato aumenta la produzione e la
fruizione delle immagini, dall’altro sembra crescere almeno altrettanto il sospetto nei
loro confronti.
Le immagini non solo sono componenti fondamentali della conoscenza e della
comunicazione, ma sono dotate di volontà, coscienza e desiderio. Pensiamo agli
schermi che riempiono la nostra vita quotidiana: essi non sono “belle apparenze”, ma
dispositivi con una potenza ostensiva che si presentano come parti del mondo e che
istituiscono relazioni.
1. La razionalizzazione matura e il “ritorno delle immagini”
L’immagine viene destituita del suo valore di senso e relegata a una dimensione
sensibile, caratterizzata come una forma inferiore di conoscenza. È significativo che
per connotare il protagonismo delle immagini ci sia chi ha usato l’espressione
“ritorno delle immagini” come se nella furia visiva attuale riapparisse qualcosa che
era stato messo da parte. Appare paradossale che in una società tecnologicamente
avanzata riemergano elementi che si era soliti considerare come esterni a questo
processo, se non addirittura come irrazionali. Tra questi elementi ci sono anche le
immagini che hanno dentro di sé una misura irriducibile al solo concetto. In altri
termini, il carattere altamente logicizzato della società odierna sembra incompatibile
con l’apparente risvegliarsi di aspetti che la modernità aveva relegato nell’oscurità
dell’esperienza sensibile e della vita irrazionale. Nelle immagini coabitano la
dimensione produttiva che genera realtà e la dimensione dell’inganno e
dell’apparenza che sembra invece negarla.
Bruno Latour ha colto questo aspetto ne “Il culto moderno dei fatticci”, testo che
comincia con un dialogo immaginario tra i colonizzatori portoghesi e gli abituanti
della Guinea adoratori di “feticci”, dove i primi accusano i secondi di idolatria perché
si sottomettono a idoli prodotti dalle loro stesse mani. In realtà entrambi hanno a che
fare con oggetti fatti da mano umana a cui attribuiscono una forza superiore, cioè con
finzioni che considerano reali. Semplicemente i portoghesi pretendono che il loro sia
un sapere, mentre quello degli africani sia un’illusione. Questo racconto di Latour
mostra la fatica che ha fatto l’Occidente a saldare la frattura tra immagine e realtà, tra
le raffigurazioni prodotte dall’uomo e il mondo che si presume oggettivo. Allo stesso
tempo però ci pone di fronte al fatto che la pretesa di una ragione finalmente
consapevole di sé, è essa stessa una finzione.
Con l’effetto immersivo prodotto dalle immagini digitali la distinzione tra realtà e
illusione appare poi un’arma spuntata. Le interfacce visuali si trasformano in
ambienti all’interno dei quali l’uomo si colloca in forma sempre più naturalizzata.
Grazie a smartphone e tablet tutti ci troviamo a portata di mano una quantità
pressoché infinita di prodotti visivi. Anche la nostra attitudine nei loro confronti
cambia radicalmente: non solo guardiamo le immagini, ma le possiamo toccare e con
un semplice movimento delle nostre dita possiamo modificarle a nostro piacimento. Il
nostro rapporto con le immagini non può più essere ridotto all’approccio “colto” e
logicizzato proprio dell’atteggiamento moderno che ci aveva abituati a guardare alle
immagni come spettatori razionali, cioè come soggetti che stanno “di fronte” a una
rappresentazione.

2. Il regime scopico moderno e le sue schermature


Charles Taylor osserva che la concezione dell’immagine naturalistica, ha concorso
all’emergere di un “umanesimo esclusivo”, latore di un profondo processo di
disincantamento del mondo. In questo periodo si sviluppa uno specifico modo di
organizzare l’esperienza che permette di rapportarsi alla realtà come a qualcosa di
puramente naturale, cioè di distaccato da forze trascendentali. La scoperta della
prospettiva centrale ha in tutto ciò un ruolo importante. Creando un impianto spaziale
coerente e matematicizzato la prospettiva concorre a trasformare la ragione moderna
in senso strumentale, ma più ancora, introduce una nuova grammatica visiva che
aiuta a definire, rappresentandolo, ciò che è puramente naturale. Ecco perché lo
sviluppo dell’arte naturalistica contribuisce a creare quello che Taylor definisce il “sé
schermato”, cioè a generare l’idea di un soggetto come agente razionale che è
distaccato dalla realtà e non ne subisce più le influenze, ma la abita a distanza. Si
potrebbe dire quindi che il naturalismo artistico è una potente arma di
secolarizzazione, non solo perché i soggetti e i temi delle raffigurazioni da religiosi
diventano profani, ma perché muta l’attitudine stessa nei confronti dell’immagine.
Non si cerca più la trascendenza invisibile, ma la visibilità di una natura che sta di
fronte all’uomo come un oggetto a disposizione. Lo spettatore dell’immagine artistica
prospettica è un soggetto che non teme più l’influenza di ciò che vede, perché ne sta a
distanza e contempla una pura apparenza.
3. La svolta digitale e il fallimento delle strategie immunitarie
Come l’esperienza religiosa, anche l’esperienza contemporanea delle immagini non si
lascia comprendere in un impianto di separazione tra un dominio della razionalità
pura, in cui sarebbe in gioco il sapere, e un dominio di presunta irrazionalità, dove
andrebbero relegate le credenze, i miti e le meditazioni immaginali di ogni genere.
Nel momento in cui gli schermi invadono l’esistenza quotidiana e diventano
l’ambiente in cui viviamo lo sguardo che indirizziamo loro non ha più nulla a che
vedere con una contemplazione distaccata. Essi diventano piuttosto delle soglie
percettive in cui istallarci e agire.
Le immagini non hai mai perso il loro carattere seduttivo, coinvolgente, a tratti
mistificatorio o esaltante. Piuttosto, con le immagini digitali l’ampio potere di
coinvolgimento emotivo delle tecnologie visuali diventa qualcosa che non è più
possibile razionalizzare ricorrendo semplicemente alla netta distinzione tra sensibilità
e ragione, o individuando una sfera “estetica” separata dal mondo della vita.
PROFONDITA’ DEGLI SCHERMI
Profondità della superficie. Al di là dello schermo nelle culture visuali del
paleolitico
1. Schermi del Paleolitico
In un recente saggio sulle genealogie dello schermo Francesco Casetti ci ha messo in
guardia rispetto alle analogie con il passato: “Il pre- è una conseguenza di ciò che
viene dopo: il pre-cinema o il pre-digitale non esiste senza l’avvento del cinema e del
digitale. Gli storici dei media devono tenere presente questo principio se vogliono
sfuggire alle trappole dell’archeologia dei media. […] una ricostruzione storica non
può essere fondata sull’idea di un passato semplice, ma su quella di un futuro
anteriore: “qualcosa è stato” perché “qualcosa sarà”. Infatti è grazie al trionfo delle
macchine ottiche che noi possiamo individuare la complicità tra le pratiche dello
schermo e i processi di visualizzazione.”
Mauro Carbone crede in una genealogia senza fondamenti, a una schermologia senza
inizi che noi siamo in grado di ricostruire attraverso le varianti storiche di ciò che
chiamiamo schermi. Carbone nel suo “Filosofia-schemi. Dal cinema alla rivoluzione
digitale” parla di “superfici” per la tipologia delle superfici paleolitiche (le pareti
rupestri e non solo).
Già W.J.T. Mitchell ha fatto un esplicito richiamo a una paleontologia della cultura
visuale, applicando la sua peculiare paleontologia non solo alle immagini, ma anche
ai dispositivi ottici. Nel saggio “Screening Nature” egli traccia una sorta di
“ontologia” dello schermo studiando questo apparato tecnico come un “dispositivo” e
una “metafora” in un modo che subito ci riconduce alla schermologia contemporanea.
Persino le versioni pop dell’indagine sulla pittura rupestre e l’arte delle caverne
possono tornare utili per comprendere le pratiche legate agli “schermi”, ovvero le
superfici rupestri dei nostri antenati paleolitici.
2. Emersione versus immersione
Le pareti rupestri sono sempre “pareti speculari”, esse ispirano, guidano e
condizionano l’immaginazione dei pittori del Paleolitico. Talvolta gli artisti
paleolitici hanno giocato palesemente con le superfici concave e convesse, come nel
caso dell’uccello di Altxerri in cui l’illuminazione è cruciale; i nostri antenati
sapevano come utilizzare le ambiguità della percezione umana. In altri casi le
contrazioni corporee della roccia facevano la differenza e talvolta le immagini
rupestri venivano letteralmente incontro allo spettatore come nel caso del cavallo di
Cueva de la Pineta che sembra scaturire dalla roccia. Non solo le superfici intere
ispirano figure e composizioni, anche singoli elementi possono dare adito ad
un’immagine come il fallo che emerge da una parete di Le Portel. In ogni caso si
tratta di immagini che invadono lo spazio dello spettatore, producendo un continuum
tra ciò che si vede e ciò che è nella testa dello spettatore. L’emersione delle superfici
è solo una parte della storia. I nostri antenati hanno sperimentato anche la direzione
opposta: l’immersione nelle superfici rocciose, come oggi noi stiamo cercando di
ricreare le condizioni, questa volta digitali, di una full immersion. Alcune
fessure/fratture della roccia, spesso circondate da convessità, producono una naturale
associazione con la vulva femminile, come nel famoso pannello delle Veneri di Le
Roc-aux Sorciers. Questi buchi sono un invito esplicito alla penetrazione o, almeno,
ad andare oltre la parete, ad esplorare le profondità della roccia. Qualche volta una
maturale fessura nella parete rocciosa media l’idea di un mondo oltre la parete con il
quale si può entrare in contatto. Questa tendenza ad andare oltre la parete di roccia
non è solo ottica; il fenomeno della penetrazione delle superfici rocciose non oggetti
diversi, frammenti di osso, pietre, lame e punte dimostra un’interazione tattile tra
l’artista/devoto e le superfici. Questi oggetti conficcati dimostrano che vi era uno
scambio materiale, una comunicazione con un altrove magico. La parete non è
dunque semplicemente uno schermo, ma un passaggio, o meglio, è un passaggio
perché è uno schermo, un “velo” che dissimula l’Altrove ma che può essere
facilmente attraversato a prescindere dalla durezza della parete stessa.
3. Touch screens, superfici di proiezione e cadrage
I nostri antenati paleolitici hanno sempre cercato di entrare in contatto diretto con le
superfici. La relazione sembra essere stata prima “tattile” e poi “ottica”, se
consideriamo che tra i primi segni sono stati realizzati con le dita (fluting) e con le
mani. Questi fluting possono essere nella forma di meandri e serpentine di varia
foggia, spesso realizzati da bambini e da donne, e possono essere interpretati come il
prodotto di un comportamento simbolico o comunque provvisto di significato.
Impronte di dita e di mani rappresentano il passo successivo: sono insieme un
contatto con la terra e un’espressione di individualità e una forma di dominio sul
mondo esterno. Bisogna sottolineare l’ambiguità di questo contatto tattile che non
esclude l’andare oltre, il pensare attraverso il “velo” di roccia. Le pareti rupestri sono
inoltre le superfici naturali su cui proiettare delle ombre, se solo si considera il fatto
che l’esplorazione delle grotte implica l’uso delle torce, lampade, fuochi. Si
potrebbero distinguere due tipi di “proiezione”:
a) Quella della grotta di El Castillo in Spagna, dove uno spuntone di roccia a
forma di bisonte opportunamente illuminato proietta la sua ombra sulla parete
retrostante facendo apparire una sorta di uomo-bisonte
b) L’emersione di un equino (o di un umanoide) nella grotta del Bisonte dove un
piccolo foro preesistente sulla parete è stato allargato per simulare un occhio
dell’animale che, illuminato si proietta sulla parete retrostante.
Cenere suavest. Un’altra (segreta) archeologia dello schermo
“Schermo” (screen, écran) verrebbe dal longobardo (skirmjan), dall’alto tedesco
antico (Skirm, Skerm), così ci viene insistentemente ripetuto negli studi scermologici,
che a conferma di ciò riportano le voci dei maggiori dizionari storici. E gli stessi studi
riferiscono poi che l’uso del termine “schermo” per designare superfici adibite alla
presentazione di immagini risalirebbe solo al Diciannovesimo secolo, e
accompagnerebbe il successo ottocentesco dei dispositivi ottici precinematografici
basati sulla proiezione. Prima “schermo” avrebbe avuto unicamente un senso quasi
opposto rispetto a quello visivo, legato al significato di nascondimento, separazione e
protezione.
La riscoperta della corretta etimologia del termine “schermo” è rilevante perché in
effetti non rimanda tanto all’oggetto fisico, quanto piuttosto a un insieme di pratiche
e a una specifica forma di relazione spettacolare col mondo, una configurazione
materiale, spaziale, o ideale. Dante usa più volte quella parola anche nella
Commedia, ma in particolare nel capitolo V della Vita Nova, dove racconta di come
abbia nascosto per lungo tempo il proprio amore per Beatrice agli occhi dei
concittadini usando un’altra donna come schermo, fingendo (“mostrando”) un giorno,
in chiesa, che il proprio amore fosse diretto a quest’ultima. La Vita Nova è un’“opera
visiva”, e in effetti il poeta usa spesso il vocabolario dell’ottica geometrica. Tra i
termini ottici che Dante adopera per definire la finzione della donna schermo c’è
“simulacra nostra”. Sono le “nostre false immagini”, che il poeta, su consiglio di
Amore, dovrebbe finalmente mettere da parte, interrompendo la simulazione e
rinunciando allo schermo. Lo schermo dantesco è quindi già uno schermo di
immagini. Simulacru, è uno dei tanti sinonimi di species che ricorrono nelle varie
formulazioni medievali della teoria della moltiplicazione delle specie. Nell’uso
dantesco i simulacra non sono invece legati all’agente, a ciò per cui starebbero,
perché sono semmai immagini prodotte e manipolate da Dante stesso. Lo schermo
dantesco è sì un dispositivo di protezione e separazione, che permette di nascondere il
vero oggetto dell’amore, ma è anche già al contempo uno strumento di
rappresentazione illusoria e ingannatrice; un dispositivo che serve a nascondere e a
mostrare e a proiettare immagini in un contesto pubblico.
La parola talvolta è servita a descrivere particolari disposizioni architettoniche, degli
assetti spesso informati da rapporti di potere. Screens, nei castelli medievali e nelle
antiche mansions inglesi, era ad esempio definita quell’area che separava il lato corto
della grande hall delle cucine. E degli schermi hanno avuto un ruolo fondamentale
nell’architettura religiosa per centinaia di anni. Le chiese, nel medioevo,
presentavano partizioni in legno che servivano a separare la navata dal coro. Queste
strutture sono poi state distrutte o rimosse perché si è giunti a ritenere che limitassero
la partecipazione dei fedeli, cioè sia il movimento che la vista. In realtà avevano una
funzione precisa teologica, cioè erano soglie permeabili il cui scopo era costruire la
sacralità di uno spazio separato, l’area intorno all’altare, e al contempo costruire un
pubblico disciplinandone l’attenzione, regolando lo sguardo dei fedeli verso lo
schermo stesso e verso quell’altro spazio materialmente distinto, tuttavia accessibile
attraverso delle aperture. Gli schermi delle chiese gotiche servivano allora sì a
separare, ma erano anche “monumentali focalizzatori della visione” che acuivano lo
sguardo e lo dotavano di senso e di sacralità.
Negli stessi secoli la parola screen si riferiva pure a un pezzo di mobilio
fondamentale per l’amministrazione delle istituzioni pubbliche, religiose e
commerciali medievali e moderne. Era usata infatti come sinonimo di scrinium, che
era lo scrigno destinato alla conservazione delle ricevute dei pagamenti e delle tasse e
dei documenti più importanti. Anche se i dizionari storici contemporanei tendono a
distinguere nettamente tra i significati di screen e ad esempio quelli di shine/scrine,
nel Settecento e nell’Ottocento c’era chi la pensava diversamente, e riconduceva a
cernere entrambe le parole. Se veramente “schermo” viene da cernere,
improvvisamente finisce per ritrovarsi all’interno di un’affascinante famiglia
allargata di termini apparentati, accomunati dal fatto di presidiare tutti il campo
semantico del concetto di distinzione. Se poi consideriamo che il latino cernere per
volti versi corrisponde al greco krino (scegliere, distinguere) il campo dei termini
affini a “schermo” si affolla ulteriormente.
Cernere vuol dire anche “vedere”; si riferisce alla separazione concreta e materiale di
qualcosa da qualcos’altro, oppure dalla facoltà astratta di distinguere operata dalla
ragione o dallo spirito, ma anche dall’atto di distinguere grazie al senso della vista. Il
verbo cernere è usato circa cento volte nel De rerum natura di Lucrezio proprio in
questa accezione visuale; il poeta usa diversi verbi di visione: spectare, videre, tueri,
despicere e naturalmente cernere.
Scene primarie
Più le trasformazioni del paesaggio mediatico si fanno radicali, più gli studiosi
sentono il bisogno di guardare al passato cercando di dar conto non solo della storia
di un medium, ma anche del suo complesso albero genealogico. Esattamente come
nelle più recenti archeologie dei media, gli studiosi di cinema fanno riferimento a un
principio di somiglianza e al principio di casualità per costruire degli antecedenti
all’avvento del cinema. La presenza di un “mito delle origini” conferisce un certo
prestigio a ciò che appare come nuovo. Tuttavia se prendiamo per buona l’idea di
archeologia elaborata da Foucault, pensare ad una prefigurazione è per molti versi
privo di senso. Provenienza non è sinonimo di continuità, ma, al contrario, è qualcosa
di profondamente intaccato dalla discontinuità, dalla singolarità, dalla divergenza.
Però lo statuto paradossale della prefigurazione può essere una risorsa. Prendiamo il
campo dei media. In primo luogo, una prefigurazione mette in luce ciò che noi
percepiamo come cruciale in un nuovo dispositivo e in questo senso, una
prefigurazione rende concreti e percettibili i nostri interessi e le nostre preoccupazioni
riguardo un medium e ne mette a nudo le connotazioni sociali spesso implicite. In
secondo luogo, una prefigurazione rappresenta a sua volta una emergenza; è qualcosa
che è accaduto attraverso la messa in gioco di una serie di elementi, è una singolarità.
Il fatto che noi la assumiamo come una pre-figurazione, porta la singolarità a non
essere più unicità. L’emergenza si apre alla ricorrenza: un evento può ripetersi, senza
perdere la sua peculiarità di evento, ma acquistando la possibilità di trovare degli
echi.
1. Lo scudo di Atena
Il mito di Perseo ha indubbiamente goduto di vasta popolarità nel mondo classico e
trova la sua più completa versione nelle Metamorfosi di Ovidio. La storia è la
seguente. Inviato dal re Polidette, Perseo va in cerca di Medusa, una delle tre
Gorgoni, la cui capigliatura è fatta di serpenti e il suo sguardo pietrifica chi la guarda
negli occhi. Perseo deve uccidere Medusa e decapitarla. Lungo la strada, evita la
minaccia delle tre Graie, rubando loro l’unico occhio che si scambiano l’un l’altra.
Incontra invece le Ninfe, dalle quali riceve dei sandali alati, la cappa di Ade che lo
renderà invisibile e una sacca magica per nascondere la testa di Medusa. Perseo
aggiunge a questi oggetti uno scudo dalla superficie ben levigata che gli ha prestato
Atena e un falcetto ben affilato che gli ha dato Ermes. Così il viaggio lo porta da
Medusa, che egli raggiunge mentre questa dorme. Perseo non la guarda direttamente,
ma guarda il suo riflesso sulla superficie dello scudo ed evita così di essere
pietrificato; può piombare addosso a Medusa e la può decapitare con il falcetto di
Ermes. Il capo mozzato comunque mantiene i suoi poteri mortali: di ritorno alla corte
di Polidete, quando Perseo lo estrae dal sacco, il capo pietrifica il re e i suoi
cortigiani. Perseo decide alla fine di donare la testa mozzata proprio ad Atena, come
ringraziamento per il prestito dello scudo. Il capo di Medusa diventa allora un
ornamento sulla corazza della dea, come segno di potere e come ammonimento. La
maggior parte delle interpretazioni del mito di Perseo ruotano attorno allo sguardo di
Medusa, ma Sigfried Kracauer sposta l’attenzione dal volto della Medusa allo scudo
di Atena: la morale del mito è che noi non vediamo le cose veramente orride, perché
la paura ci paralizza e ci rende ciechi; potremo sapere l’aspetto che hanno soltanto
guardando immagini che ne riproducono fedelmente l’aspetto. Lo schermo
cinematografico è il lucido scudo di Atena.
Innanzitutto lo scudo non sta da solo: è parte di un insieme di oggetti che Perseo
converte in strumenti funzionali al nuovo scopo. Lo scudo diventa uno specchio, il
falcetto diventa un’arma e il sacco diventa un nascondiglio. Essi convergono e si
integrano a vicenda formando un “dispositivo”. Lo scudo è tipicamente una barriera
dietro la quale un soldato cerca riparo. Qui esso muta la sua funzione in quanto non
deve più intercettare frecce, ma deve aprirsi sul nemico e fornire uno sguardo
indiretto ma essenziale su di lui; non nasconde più, mostra. Da adesso in poi la
possibilità di Perseo di vincere dipende da ciò che i suoi occhi sono capaci di vedere
più che da fin dove la sua mano è capace di arrivare. La possibile assonanza tra lo
scudo di Atena e il moderno schermo sta nel fatto che entrambi offrono la
testimonianza di una conversione da uno stato a un altro: entrambi smettono d’essere
qualcosa e diventano qualcos’altro. Lo sguardo che viene offerto dallo scudo non è
solo uno sguardo indiretto, ma anche frammentario. Per quanto la superficie convessa
dello scudo possa restituire una visione amplificata, Perseo difficilmente ha un
quadro completo del terreno su cui si muove; deve esplorare ciò che lo circonda,
focalizzarsi sui diversi elementi e poi connettere il tutto in un’immagine mentale. Il
mito non termina con la vittoria di Perseo, ma la testa di Medusa diventa un trofeo
sulla corazza di Atena: non più riflessa in uno scuso, ma ornamento permanente
appuntato su un altro supporto.
Nessun elemento, neppure un simil schermo è dato come tale: esso diventa quel che è
attraverso un processo che implica la conversione di un oggetto in uno specifico
strumento. Il processo di diventar-qualcosa ha sempre luogo nel quadro di un
assemblaggio di elementi. Una volta consolidati, questi assemblaggi funzionano
come veri e propri dispositivi che consentono sia di affrontare una situazione che
riconoscerne i tratti salienti.
2. Il muro di Butade
Il vasaio Butade scoprì per primo l’arte di modellare i ritratti in argilla. Egli dovette
la sua invenzione alla figlia, innamorata di un giovane. Poiché quest’ultimo doveva
partire per l’estero, essa tratteggiò con una linea l’ombra del suo volto proiettata sul
muro dal lume di una lanterna; su quelle linee il padre impresse l’argilla
riproducendone il volto. I primi elementi che si impongono all’attenzione sono la
lampada che emana la luce, il volto dell’amante che intercetta i raggi della lampada e
il muro su cui si stampa la silhouette dell’amante. L’ombra esiste perché ci sono
questi tre elementi in azione. Se si vuole produrre un’ombra bisogna che la lampada,
il volto e il muro non solo coesistano in uno spazio, ma anche che siano allineati sullo
stesso asse. Qui l’assemblaggio degli elementi assume una dimensione spaziale.
Dentro questa struttura spaziale, possiamo riconoscere una serie di azioni che
lavorano in coppia. Innanzitutto abbiamo un gettare: la lampada getta una luce,
mentre la faccia getta un’ombra; la lampada può essere sostituita da altre fonti
luminose, ma il volto dell’amante è unico. Di contro al gettare, c’è poi un intercettare:
il volto dell’amante intercetta la luce, mentre il muro intercetta l’ombra. possiamo
dire che la faccia fa da schermo nel senso che ostruisce, mentre il muro fa da schermo
nel senso che rimanda; la scena funziona solo perché un’ostruzione coesiste e
interagisce con una esibizione. Qui le immagini non sono più riflesse, ma proiettate;
un riflesso richiede solo una superficie che rispecchi qualcosa che già esiste, una
proiezione richiede una superficie che possa essere raggiunta dall’immagine e,
contemporaneamente un’immagine che sia diretta verso quella superficie.
La figlia di Butade guarda l’ombra sul muro, poi il suo amante, poi ancora l’ombra e
decide di intervenire, seguendo l’ombra traccia sul muro il contorno del viso di lui.
Questo tentativo di trattenere l’oggetto d’amore implica il passaggio ad un nuovo tipo
di azione: non c’è più solo un’ombra che si stampa sul muro, ma ci sono delle tracce
che attestano che l’amante è stato in quella stanza. L’ombra diventa segno e
l’iscrizione diventa notazione, che serve a trattenere, a catturare un istante. È questo il
momento in cui entra in scena Butade; egli prende l’argilla e seguendo le linee sul
muro modella una forma umana. Dà a questa forma dettagli più precisi, poi la stacca
dal muro e la porta a cottura. La sua azione è profondamente ambigua. In quanto
padre, egli completa il lavoro della figlia, prendendone lo schizzo e trasformandolo in
un ritratto, ma facendo così, tradisce sua figlia: usando il profilo dell’uomo per la sua
opera, trasforma l’amante in un modello, ponendo idealmente fine alla storia d’amore
di lei. Egli crea un oggetto che non è più legato ad una situazione unica e personale,
ma che può circolare liberamente come merca da vendere e acquistare. Il muro
adesso è vuoto; ha cessato di ospitare o un’ombra o delle linee. Senza più tracce non
è più un supporto, ma torna ad essere un semplice muro. Ancora una volta, seguiamo
il diventar-qualcosa di un elemento: un muro è convertito in un supporto per delle
immagini. Questo diventar qualcosa ha luogo all’interno di, e grazie a, un insieme di
elementi disparati che comprendono anche una fonte di luce e un volto che
intercettandola crea un’ombra; è questo assemblaggio che fa si che il muro diventi un
supporto.
3. La finestra di Alberti
Leon Battista Alberti descrive il sistema della prospettiva nel duo De Pictura. Egli
raccomanda di tracciare nel rettangolo una serie di linee che si sviluppano
trasversalmente, longitudinalmente e perpendicolarmente, tutte connesse ad un punto
centrale. In questo modo, la finestra diventa una griglia che può coerentemente
mappare la scena che il pittore intende dipingere. Suggerisce anche la possibilità di
simulare la presenza di una vera finestra usando un velo da attaccare a una cornice da
interporre tra il pittore e la scena da ritrarre. Il velo sarà anch’esso marcato da una
griglia, questa volta fatta da linee parallele verticali e orizzontali che si intersecano. Il
pittore, guardando attraverso la cornice, con l’aiuto del velo sarà in grado di
localizzare stabilmente i singoli oggetti nel suo campo visivo. Dopodichè potrà
riportare la scena sulla sua tela, anch’essa marcata da una griglia. Un buon pittore,
con un buon occhio, può anche rinunciare al velo: può semplicemente immaginarselo
guardando la scena che vuole dipingere, usando una griglia mentale. Le tre possibilità
che Alberti offre sono tutte mirati a rafforzare il processo di notazione. Si tratta di
strumenti funzionali: sono dei dispositivi che rispondono ad un preciso compito in
maniera univoca e coerente; essi sono anche interscambiabili, dove il pittore può
utilizzare ora l’uno, ora l’altro, a seconda della situazione e persino combinarli. Sono
facilmente reperibili e persino migliorabili.
4. Diventar-schermo
Queste storie ci insegnano che non possiamo individuare uno schermo come tale,
come se fosse un oggetto autonomo e autosufficiente. Uno schermo è sempre parte di
un dispositivo; diventa uno schermo nel quadro di un assemblaggio di strumenti,
bisogni, pratiche, individui e circostanze. In questo processo di diventar-schermo, ci
sono dei passi ricorrenti. Primo, uno schermo si costituisce come tale a seguito di una
conversione: oggetti che acquistano una nuova funzionalità. In secondo luogo, il
consolidarsi dell’assemblaggio mette in luce la presenza di una complessa ecologia di
operazioni che investe simultaneamente degli strumenti tecnologici, dei
comportamenti umani, degli elementi ambientali, degli oggetti: nel mito di Perseo, le
operazioni riguardano i dispositivi e le tattiche di un guerriero: nella leggenda di
Butade, involvono primariamente i desideri e gli stratagemmi di un’amata; in Alberti,
investono le abilità e le prestazioni di un pittore. Queste operazioni delineano il
territorio fisico entro cui un assemblaggio opera: una landa ostile per Perseo, una
stanza per la figlia di Butade, qualunque luogo in cui l’idea di finestra può funzionare
per Alberti. Queste operazioni possono anche rivelare la presenza di conflitti interni o
di mancati allineamenti. Ad esempio, nello scontro con Medusa, Perseo non usa tutti
gli oggetti che ha trovato durante il suo viaggio.
I nostri tre esempi sottolineano che la connotazione ottica dello schermo non è
qualcosa che c’è fin da subito e che possiamo dare per scontato. È qualcosa che
“interviene” a un certo punto, sulla base della situazione e di certe tendenze del
momento. La visualità continua tuttavia ad avere agganci con le primitive funzioni
degli oggetti diventati schermo. Lo scudo di Atena protegge Perseo anche quando si
trasforma in uno specchio. Il muro su cui si taglia il profilo dell’amante continua a
offrire un rifugio agli amati. Il velo di Alberti filtra l’accesso del pittore alla scena
anche quando diviene un dispositivo pittorico. È utile sottolineare poi come lo
schermo ottico continua a ricoprire le funzioni spaziali: lo scudo di Atena, diventa
specchio, guida i passi di Perseo verso il suo obiettivo. Il muro di Butade, per poter
riflettere l’ombra, richiede un allineamento della fonte di luce e del volto dell’amante.
La finestra di Alberti fissa letteralmente il punto in ci l’osservatore si deve collocare.
Nel rendere qualcosa visibile, gli schermi in quanto oggetti fisici ancorano sempre il
visibile alla posizione dell’osservatore. Essi trasformano inevitabilmente il paesaggio
in cui si collocano in un paesaggio-schermo, in cui la loro presenza modella il “dove”
delle cose e delle azioni.
DELIMITARE COME POTERE PERFORMATIVO
DAL FUORI CORNICE AL FUORI SCHERMO. LA SFIDA DEGLI AMBIENTI
IMMERSIVI E L’AN-ICONOLOGIA
La cornice del quadro ha assunto lo statuto di oggetto teorico, nel momento in cui
l’avanguardia si apprestava a metterlo in discussione, allo scopo di constatarlo,
deformarlo per poi rigettarlo del tutto. ruolo della cornice nell’esperienza
dell’immagine pittorica è stato discusso già da PAUSSIN che si raccomanda di dotare
il suo dipinto di una cornice affinché lo sguardo dello spettatore sia invitato a
concentrarsi sull’immagine e non a disperdersi nella contemplazione di quel che la
circonda. Con il saggio di SIMMEL il dispositivo fa il suo ingresso nella categoria
degli oggetti degni di considerazione estetica. La cornice viene vista come soglia e il
saggista conferma la sua inclinazione ad esplorare una funzione dialettica, infatti, è
strettamente collegata alla separazione e alla connessione. Quindi la cornice sembra
oggettivare la capacità umana di separare e connettere. La cornice svolge il compito
di assicurare l’isolamento dell’opera nei confronti di tutto ciò che le è estraneo. Essa
difende l’immagine, ka separa dal mondo concentrando e riunificando gli elementi
interni ad essa, la connette al proprio interno. L’immagine incorniciata può rinserrarsi
nel suo ESSERE PER SÉ e in virtù di ciò può divenire ESSERE PER NOI. Secondo
SIMMEL la cornice è davvero cornice quando si dispone a prestare i propri servigi in
maniera discreta, cioè come elemento funzionale all’isolamento dell’immagine
artistica dallo spazio reale che lo circonda e chela minaccia. Nel momento in cui la
cornice tenta di assumere un valore estetico autonomo essa entra in competizione con
l’opera d’arte che contiene. Mala cornice deve impedire che l’opera d’arte entri nel
mondo e che questo entri nell’opera. Quindi deve impedire questo doppio movimento
per salvaguardare l’idea di arte come mondo di valori a sé. A partire dal saggio di
Simmel è nata una linea di riflessione che indaga su tutte le variazioni del tema
cornice fino a quella più radicale, la sua SOPPRESSIONE. Un destino analogo tocca
agli schermi, dispositivi ambivalenti che insieme nascondono ed espongono. La
cultura appartenente all’ambito degli screen studies ha permesso di sviluppare
un’indagine della storia di questo dispositivo nel momento i cui gli ambienti virtuali
volevano negarlo. Una sorte HEGELIANA accompagna la teoria degli schermi e più
in generale dei media, ma la filosofia arriva troppo tardi e concettualizza un problema
che ormai è passato. I contorni di un dispositivo risultano tracciati con la massima
chiarezza solo se li si considera a partire da una posizione ulteriore cioè dal punto di
vista di dispositivo o medium che li supera e li espone al contempo nella solo
essenza. BENJAMIN scrive che la storia dell’arte è storia di profezie, il dadaismo
sogna in pittura e in letteratura, effetti che solo il cinema poteva realizzare.
Invertendo questa riflessione si può dire che grazie al cinema si possono comprendere
la letteratura e la pittura dadaista. Allo stesso modo avviene per gli schermi che si
capiscono solo nel momento in cui vengono visti con i caschi della realtà virtuale che
si impegnano a negarli. Ma un casco è pur sempre uno schermo e quindi si può
valutare la qualità della visione offerta da un tipo piuttosto che da un altro.
L’esperienza fenomenologica di questo tipo di schermo tende a cancellarlo,
annullandone la presenza. Davanti ad un dipinto incorniciato o davanti ad uno
schermo si può essere assorbiti dall’immagine che presentano dimenticandosi del
supporto, ma si ha la possibilità di orientare a piacer lo sguardo all’esterno
dell’immagine. Si può anche tematizzare il supporto materiale. Quindi ci si può
focalizzare sia sulla COSA-IMMAGINE che sull’OGGETTO-IMMAGINE. Con il
casco questo non può succedere perché si viene immersi in un ambiente a 360 gradi
nel quale si possono vedere solo immagini. Si parla, infatti, di IMMERSIONE che
produce nell’utente una sensazione potente di esserci favorita da un sistema audio
SURROUND che rafforza l’impressione volumetrica. Se però tutto diventa
immagine, viene meno la possibilità di distinguere immagine e non immagine, spazio
e tempo del mondo iconico e quelli del mondo reale. Il ruolo della cornice o dello
schermo si sposta su altri piani, perché il momento in cui si decide di mettere il casco
e quello di quando lo si toglie inquadrano l’esperienza virtuale. I dispositivi virtuali
diventa strumenti che ci portano dentro di noi e non strumenti che portiamo su di noi.
Già con BENJAMIN si poteva parlare di TOUCH SCREEN nel momento in cui
profetizza la progressiva tattilizzazione dell’esperienza dell’immagine, allora si può
parlare anche di nativi immersivi. Il tempo trascorso davanti allo schermo sarà
sempre di più sostituito dal tempo che si passerà dentro un ambiente immersivo. La
fase che oggi passano gli ambienti immersivi corrisponde a quella dell’immagine
come rappresentazione della realtà, quindi che diventa ambiente da abitare più che
oggetto da guardare. Tale fase è collegata ai primordi delle illusioni del TROMPE-
L’OEIL realizzata nella Grecia antica. Questa consiste nella produzione di
un’immagine che si istalla nello spazio proponendo una continuità ambientale con
esso, offrendosi come luogo abitabile nel quale il soggetto può eseguire delle azioni.
Una condizione dettata dalle dimensioni multi-sensoriali. A questo vanno collegati
anche esempio della dialettica IN E OUT secondo cui, per un momento gli elementi
del mondo iconico fuoriescono dall’immagine per ambientarsi nella realtà; per l’altro
gli elementi della realtà penetrano nell’immagine. La storia del cinema ha esplorato
questo VA E VIENI che oltrepassa la soglia-schermo che dovrebbe separare il mondo
iconico dal mondo reale. Il cinema e la pittura aprono le porte al tema di MEDIUM
SPECIFICITY. Per B. le pratiche immersive toccano atteggiamenti individuali e
collettivi e inaugurano delle inedite soggettività politiche. È il caso dell’AVATAR,
procuratore virtuale attraverso il quale il soggetto reale può entrare nell’ambiente
virtuale e interagire con oggetti artificiali o altri avatar. Si opera nel mondo digitale,
ma gli avatar possono scaturire i loro effetti sulla vita reale. Nel campo politico
vengono usati molti avatar. Quest’uso sottolinea la presentazione autentica del SÉ, in
quanto gli avatar possono essere usati per dissimulare la nostra identità diventano
vere e proprie maschere. Quindi DISSIMULAZIONE e SIMULAZIONE
determinano due estremi dello spettro dell’avatar. Tutti questi paradigmi vedono
l’immagine come IMMAGINE DI e quindi come icona che rinvia ad un referente che
è altro all’immagine. Quindi le immagini sembrano volersi negare e piuttosto che
icone diventano AN-ICONE. Dunque ci si avvicina ad un’AN-ICONOLOGIA che
permette di rispondere ad un tipo di immagine che diventa lo standard della nostra
esperienza iconica e che promette di trasformare la nostra esperienza.
SULLA PERFORMATIVA DISCRETA DEGLI SCHERMI
La teoria del cinema delle origini ha portato riportato l’attenzione sull’ ATTIVITÀ
FORMATIVA connessa con la duplice azione di inquadrare qualcosa e di prevederne
un altro inquadramento con la proiezione sullo schermo. Il concetto di proiezione
viene descritto con il termine ISCRIZIONE. EJZENSTEJN in due dei suoi scritti
parlerà di questo tema dicendo che la relazione tra MATERIA/FORMA e
IMMAGINE assume il suo significato solo nella condizione in cui non la si riferisce
all’azione del modellare ma a quella del sagomare o ritagliare. Ricorre ad un’attività
che comporta il processo di iscrizione, infatti il primo significato della parola
immagine in russo è forma e questa parola è data dall’azione del ritaglio e dello
svelamento. Quindi la forma come ritaglio e svelamento si formula come l’attività
dell’iscrivere. Nel pensare il lavoro della forma come ritagliare, intende la tecnica
come un modo eminente dello svelamento e il suo campo di manifestazione
principale viene posto nell’arte. Nel paradigma che vede la forma come modellaggio,
la materia è concepita come inerte o informe e EJZENSTEJN prevede che in essa ci
siano già delle linee di forza che suggeriscono come e dove profilare. Questo
ragionamento si può mettere in relazione con il paradigma di ARCHISCHERMO di
MARIO CARBONE collegato con quello di ARCHISCRITTURA. In merito a ciò
può essere collegato anche il concetto KANTIANO dello SCHEMATISMO
DELL’IMMAGINAZIONE e in particolare all’attività concepita da Kant nella prima
Critica, come una sintesi provvisoria compiuta dall’immaginazione ai fini
dell’unificazione logia compiuta dall’intelletto. Nella terza, invece, viene vista come
uno SCHEMATIZZARE SENZA CONCETTO cioè come ricognizione del materiale
percettivo durante la quale l’immaginazione procede per le attività di ritaglio e
svelamento evidenziando le linee di forza dell’esistente iscrivendole nell’esistente
stesso. Il concetto IMMAGINE- FORMA viene collegato a quello dell’iscrizione
schermica, atto abilitato a partecipare ad una drammaturgia della forma
cinematografica. Il ruolo drammaturgico dello schermo cinematografico non ha
sollecitato la teoria del cinema in modo tematico, ma ci sono classiche eccezioni
come le forme dell’eccedenza dell’immagine rispetto allo schermo come accade con
il 3D. ci si trova dinanzi ad un fenomeno di RI-MEDIAZIONE, ma anche di
AMBIENTALITÀ DEL MEDIUM-SCHERMO. Questo ci porta alla norma della
discrezione secondo cui lo schermo viene presentato come MEDIUM
AMBIENTALE e lo spazio in cui è collocato come AMBIENTE MEDIALE. i casi di
uso diretto non riescono a spiegare la possibilità dello schermo di farsi carico di una
performativa drammaturgica. Nel film MOMMY di DOLAN il protagonista è
mostrato nell’atto di allargare lo schermo con un gesto visibile delle braccia
accompagnato dall’espressione di chi ne sta ricavando piacere fisico. Il lavoro
drammaturgico è fatto completamente dallo schermo dal quale non si può uscire ma
che permette di essere manipolato come spazio elastico. Quindi lo schermo conferma
la funzione di ritaglio e svelamento attribuito all’immagine-forma. si può dire che se
la tendenza delle immagini ad uscire dallo schermo denunciava il loro desiderio di
eccedere il lavoro d’inquadratura, qui lo schermo prende parte al gioco
drammaturgico ma in modo tale esso accenni ad un movimento di de-
schematizzazione ma che non riesce a condurre a compimento. DOLAN richiama una
sorta di ribellione dello schermo nei confronti della sua natura di iscrizione come
resistenza giocata sul piano senso-motorio. Altri due film permetto di approfondire il
concetto di schermo. Il primo è lo schermo nero utilizzato da MOORE nel momento
dell’impatto degli aerei contro le torri gemelle. Lo schermo si sottrae alla sua
funzione di mostrare e si rovescia su quella del sottrare alla vista, ma ciò non succede
con il sonoro che richiama l’attenzione dello spettatore. L’effetto drammaturgico sta
nel ritornare a quelle immagini per rigenerare la potenza emozionale del
rappresentato scaricandolo da sonoro. Quindi polarizzando sul suono il lavoro
multimodale della nostra immaginazione. Lo schermo così facendo dichiara di poter
assumere tra le sue figure anche l’elemento non-iconico del lavoro.
La performativa degli schermi opera su due piani: il primo è la conferma del carattere
schermico della forma-immagine, il secondo è la valorizzazione della natura
multimodale dell’immagine secondo cui ci sono schermi senza immagine anche se la
forma-immagine non è solo ottica. Oltre lo stato d’eccezione si può aprire uno spazio
allo svincolamento dell’immagine dal dispositivo schermico. Questo processo si sta
verificando nell’apertura di nuovi spazi tecnologi destinati all’immersività ambientale
dell’immagine stessa. Questa apertura è spiegabile secondo due paradigmi: quello
della RELTÀ AUMENTATA e quello della REALTÀ VIRTUALE. IL PRIMO
esprime il concetto di ambiente e il secondo come FUNZIONE-SCHERMO. La RA
non è in contrasto con la funzione schermo e quini l’RV. Aiuta a spiegare ciò l’APP
DI POKEMON GO che si dimostra essere un sussidio per i bambini autistici ad
allargare i loro spazi vitali. Lo schermo, inoltre, viene rivisto come protezione perché
come per il ritaglio e lo disvelamento, così l’ambiente reale in cui il ragazzo mostra
di sapersi muovere senza paure, resta reale in quanto è selezionato da un sistema che
promette l’iscrizione o lo svelamento di qualcosa per la sui manifestazione i sistemi
vengono già allertati, quindi non vengono colti alla sprovvista, ma possono andare
alla ricerca della sorpresa. Di risposta l’RV fa entrare nella condizione di simulazione
ambientale completa facendo fare esperienza di ciò che succederebbe al nostro
rapporto con le immagini prodotte tecnicamente nel momento in cui queste non
vengono mediate da uno schermo. Quindi la condizione non è realmente opposta a
quella di RA perché, per prima cosa la simulazione è solo tendenzialmente completa;
la seconda è che nella simulazione in RV le immagini prodotte tecnicamente vengono
sottratte alla funzione schermo nel senso del ritaglio, ma non alla funzione schermo
nel senso protettivo dove non si ha una superficie di iscrizione ma il casco che si
indossa. Ciò significa che nell’RV lo schermo rinunzia alla funzione di ritaglio e
d’iscrizione. Giusto far riferimento allo schermo display secondo cui i display dei
nostri telefoni sono diventati superficie di iscrizione di una forma di scrittura che
integra i testi di diversa complicità con elementi grafici ed iconici. A ciò si
aggiungono gli emoji che annunzino la versione più elementare di scrittura estesa per
poi raggiungere la complessità con immagini e scritture complesse. È il caso delle
INSTAGRAM STORIES che consente lo sviluppo di testi di notevole estensione che
vengono percepiti secondo modalità scritturali e discorsive prima che iconiche e
illustrative. Ma l’uso più appropriato è una FORMAZIONE IBRIDA che iscrive
insieme immagine e parola. Grazie agli schermi-display l’aspetto iconico viene
percepito in modo immediato e irriflesso come estensione dell’aspetto scritturale. Ciò
dà maggiore competenza allo statuto multimodale dell’immaginazione. La forma
display dello schermo diventa la forma più adatta ad attivare una rivoluzione analoga
a quella della stampa, perché la grammatica della scrittura estesa può essere
interiorizzata dai suoi utenti secondo modalità flessibili e creative.
LO SCHERMO CINEMATOGRAFICO COME IPNOTISTA. NASCITA
DELL’ECONOMIA POLITICA DELLA LUCE
Il dispositivo dell’ipnosi e del cinema si sovrappongono in un processo in cui, da un
lato, lo schermo cinematografico rappresenta lo strumento di induzione e
mantenimento dello stato ipnotico; dall’altro diviene il luogo di deposito e
oggettivazione delle immagini interiori dello spettatore ipnotizzato. Lo schermo
cinematografico emerge come sostituto di un ipnotizzatore smaterializzato. In merito
a ciò VUILLERMO individua nel raggio luminoso rilesso dallo schermo un sostituto
dell’occhio dell’ipnotista. EPSTEIN avanza l’idea che lo schermo sia lo snodo
essenziale del gioco di intensità che riprende e lancia in termini moderni la
circolazione dei flussi magnetici. In altri casi la narrativa esprime l’identificazione
del dispositivo del cinema con quello dell’ipnosi. Mentre alcuni riferimenti alla
situazione cinematografica sovrapponibile al setting ipnotico grazie alla presenza
dello schermo sono evidenti in alcuni film. Un esempio è quello di TRILBY dove
l’azione dell’ipnosi viene agita attraverso una superficie visuale, lo specchio che
diventa sostituto metaforico dello schermo. Anche in THE STOLEN VOICE DI
CRANE vediamo una cosa del genere. Ma a differenza del primo il soggetto è un
uomo e non una donna, la voce viene sottratta e non donata, la forza ipnotica dello
schermo si esercita non sul soggetto vittima dell’ipnosi ma sull’ipnotista e soprattutto
lo schermo cinematografico non è camuffato metaforicamente attraverso la figura
dello specchio, ma viene offerto nella sua letteralità e nella sua intrinseca potenza. La
sovrapposizione tra ipnosi e cinema è dettata dall’avvento dell’elettricità perché in
entrambi i casi c’è un fluire di flussi elettrici e perché questi flussi sono regolati e
regolabile nelle loro dislocazioni e nelle loro trasformazioni. Il passaggio da fonti
energetiche biologiche a fonti minerali implica la costruzione di infrastrutture non
solo di estrazione, ma anche di trasporto e trasformazione di flussi energetici. Segnale
evidente di ciò è la elettrificazione dei territori e delle città con la conseguente
ridefinizione delle condizioni di illuminazione. Il controllo della luce per mezzo
dell’energia elettrica si esprime anche nella costruzione di siti di oscurità artificiale
all’interno dei quali è possibile plasmare i flussi luminosi grazie a sistemi di sorgenti.
Si produce una circolazione di energia elettrica che si trasforma nei luoghi in energia
luminosa che viene immessa in flussi di circolazione regolati portando alla nascita di
una economia politica della luce. La presenza di questa permette di trovare delle
analogie tra ipnosi e cinema. In primo luogo il loro essere siti delimitati di
spostamento e trasformazione regolati da flussi di energia elettrica, infatti essi
vengono visti come dispositivi in cui e attraverso i quali si realizza una pura attività
di governo senza alcun fondamento. Entrambi riescono ad articolare il flusso
macroeconomico e ciò porta ad un’altra analogia perché al loro interno i flussi
energetici entrano in relazione con un secondo tipo di economia che è quella
dell’ATTENZIONE dello spettatore. Quindi il dispositivo del cinema gestisce
un’economia della luce facendole effettuare una duplice commutazione: verso
un’economia dell’attenzione e verso quella del visibile che solo il cinema è in grado
di realizzare. Nel primo caso lo schermo diventa luogo di riflessione del raggio del
proiettore, nell’altro luogo di manifestazione e sedimentazione dell’immagine in
movimento. Ciò porta in primo luogo al fatto che il dispositivo ottico diventa modo di
vedere e in secondo luogo al fatto che le trasformazioni dei dispositivi portano a
nuovi equilibri economici di fondo in quanto l’economia politica dei dati sostituisce
quella della luce, il visuale si distacca dal visibile e i modi di vedere cambiano
radicalmente.
IL POTER DIVINATORIO DEGLI SCHERMI. PREVISIONI, FEED-FORWARD,
PREMEDIAZIONE
Con l’espressione CIGNO NERO si intende un evento imprevisto di grande portata il
cui impatto sul corso degli eventi è tale da sconvolgere gli equilibri globali. Secondo
TALEB il manifestarsi di un simile evento nella storia rivela la fragilità della
conoscenza umana e mostra come gli individui e la collettività sono incapaci di
includere l’inaspettato nel loro approccio del mondo. L’intromettersi del caos mostra
come le azioni umane sono vincolate da un meccanismo di previsione e come si
tenda, però, a denegare la natura delle leggi su cui questa si fonda. Gli esseri umani
hanno sempre cercato di conoscere il loro avvenire e di predirlo. La FUTUROLOGIA
è una scienza antica e spiega la capacità di scorgere eventi futuri prima del loro
manifestarsi. Ciò viene ripreso anche da BENJIAMIN che afferma che leggere ciò
che non è mai stato scritto è la più antica forma di lettura. In particolare ciò è
evidente nella cultura latina dove il concetto di DIVINAZONE è visto come tecnica
in grado di scorgere gli eventi futuri prima del loro manifestarsi. Ciò trova
collocazione nella macchina politica romana. In particolare la cultura romana dà
spazio alla divinazione artificiale ovvero la pratica divinatoria in grado di far
assumere un senso soprannaturale ad eventi che di per sé non eccedono il normale
ordine delle cose. Questo tipo di divinazione si oppone a quella ispirata caratteristica
del presagio e dell’oracolo. La tecnica divinatoria per eccellenza implica il gesto di
disegnare uno spazio delimitato che avrebbe dato vita al TEMPLUM, cioè la ragione
di spazio entro cui diviene possibile osservare i segni della volontà divina. Lo spazio
ricavato dal templum diviene immagine dell’ordine della totalità del cosmo ed
espressione della volontà divina. Entro i confini di questo spazio si manifesta
qualcosa di diverso dal reale, si inaugura, quindi, una dimensione virtuale all’interno
dello spazio reale. Il contorno del templum è l’origine dello spazio condiviso e
sociale. Ciò che si CONTEMPLA all’interno di questo spazio è il TEMPO STESSO.
Quindi guardare entro le superfici delimitate significa guardare attraverso il tempo e
prevedere il futuro. Si può trovare un’analogia tra il gesto dell’indagare con lo
sguardo questo spazio delimitato dal templum e il gesto di interrogare gli schermi
attorno a noi attraverso i quali si fa esperienza del mondo che ci circonda. Arriviamo
a consultare i nostri schermi in ogni momento, per ogni cosa come oralo e li
CONTEMPLIAMO come superfici di DIVINAZIONE. Questo potere divinatorio
degli schermi è una componente del fascino che questi hanno su di noi,
dell’attrazione che ci lega a questi dispositivi che sono diventati delle protesi della
sensibilità umana. Allo stesso tempo gli schermi stessi tendono a predire il nostro
comportamento attraverso la raccolta di dati derivanti dalla nostra condotta e dalle
tracce che lasciamo con i nostri movimenti virtuali o fisici che siano. Da un lato i
nostri atteggiamenti si compenetrano con quelli delle macchine e dall’altro il codice
dell’intelligenza artificiale si sviluppa in una direzione organica nella ricerca di
algoritmi genetici in grado di raggrupparsi secondo un modello evolutivo. Ed è infatti
una logica predittiva che informa il funzionamento delle grandi piattaforme virtuali e
dell’intelligenza artificiale finalizzata a prevedere l’andamento dell’ambiente e
controllarlo. PREVISIONE E FEED-FORWARD: predire il futuro è la forma più
avanzata di conoscenza. Dal punto di vista logico-scientifico l’ambito del calcolo
delle probabilità ha come obiettivo quello di anticipare eventi futuri e di definire le
variabili aleatorie e la loro distribuzione. Secondo RIVOLTELLA la previsione è alla
base del nostro modo di apprendere. Quindi la previsione si può definire come il
tentativo di attuare delle strategie per fa fronte ad un ambiente di un elevato grado di
incertezza. Ma senza esperienze pregresse non potremmo mai fare previsioni in
quanto il meccanismo è alla base dell’agire umano. Ciò può essere spiegato anche
grazie ai NEURONI SPECCHIO che mostrano in maniera articolata l’attività del
nostro corpo-cervello che favorisce la costruzione di scenari di azione in cui noi
siamo collocati rispetto gli oggetti e allo spaio in cui le nostre relazioni con esse si
possono disporre. Il cervello umano si è adattato a vivere in un ambiente a ritorno
immediato e a simili segnali immediati corrispondono azioni e soluzioni immediate.
Le società post-neolitiche, invece, si caratterizzano per un ambiente che si può
definire a ritorno ritardato. Gli essere umani sono portati a compiere sforzi in vista di
risultati che si realizzano in un lasso temporale più lungo. Quindi non vengono
ricompensati subito, ma in un tempo differito. La capacità del farsi guidare dalle
prospettive future invece che dagli effetti immediati è una delle caratteristiche
principali dell’essere umano. Tuttavia a partire dallo sviluppo più recente delle
intelligenze artificiali, l’apprendimento delle macchine si fonda sulla loro capacità di
registrazione e di calcolo ma anche sulla possibilità di raccogliere ed elaborare le
esperienze prodotte dagli esseri umani sotto forma di dati. Le macchine digitali non si
limitano a registrare i dati, ma entrano in connessione con altre macchine al fine di
creare una rete di interfacce complicate. I dati vengono utilizzati dalle macchine per
aggiustare in tempo reale il proprio funzionamento, ma anche per sollecitare il
comportamento degli utenti. Cercano non solo di influenzare il comportamento
dell’utente, ma anche di anticiparlo costantemente. La connessione tra le diverse
interfacce porta la produzione di un EFFETTO RETROATTIVO sull’operatività
delle stesse macchine che effettuano la registrazione dei dati al fine di migliorare le
prestazioni e il comportamento. Quindi l’efficacia di un’azione o di un evento si
proietta nel futuro e così facendo influenza il presente in cui si genera. L’effetto
retroattivo caratterizza la forma di previsione del FEED-FORWARD che definisce il
modo in cui una sensibilità generi delle intrusioni temporali che modificano il nostro
rapporto all’ambiente e influiscono fino a quando la coscienza esprime la propria
operatività. Con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale si osserva il passaggio da una
forma di registrazione rivolta al passato ad una forma di anticipazione del futuro
basata sulla raccolta dei dati. Il concetto di FEED-FORWARD si contrappone a
quello di FEED-BACK perché il primo non si cura del mantenimento o del
funzionamento interno del sistema, ma è finalizzato ad espandere il proprio accesso e
il proprio raggio d’azione su elementi materiale del suo ambiente. Da ciò deriva
un’esperienza ibrida, frutto dell’interazione tra la nostra sensibilità e quella delle
macchine. Elemento decisivo di questa interazione è L’ASPETTO TEMPORALE del
processo a doppio senso che lega esseri umani e le macchine del XXI secolo. Infatti i
nostri corpi funzionano come protesi dei media che a loro volta mediano la nostra
esperienza del mondo e degli altri. Questo rapporto da forma alla relazione tra noi e
gli schermi. PRECESSIONE E PREMEDIAZIONE: la caratteristica principale dei
media è un’AFFETTIVITÀ DI ANTICIPAZIONE rivolta ad una costante
prevenzione nei confronti del futuro quanto del presente. L’atteggiamento dei media
del XX secolo era dettato dalla ricerca di un’immediatezza da trasmettere in diretta e
quindi da un’ossessione per un presente da cogliere e trasmettere in tempo reale.
L’evento che ha dato inizio a ciò è quello dell’11 settembre 2001 che ha reso gli
abitanti del mondo spettatori simultanei dell’attacco terroristico, soddisfacendo
l’aspettativa di immediatezza ma causando un’esperienza traumatica. Per questo
shock i media hanno smesso di cercare un contatto diretto con il reale ed hanno,
invece, messo in campo delle strategie volte ad impedire che l’immediatezza della
catastrofe possa riprodursi senza che il pubblico non sia preparato all’evento. Quindi
quanto accaduto l’11 settembre si presenta come spartiacque in quanto da questo
momento i media hanno iniziato a prevenire l’accadere di ogni evento, invece di
mediare hanno iniziato a pre-mediarli. Questo meccanismo fa dell’avvenire un luogo
conosciuto perché possa sembrare accettabile in maniera tale che il futuro non si
presenti mai. Così facendo i media hanno messo in atto una TRAINING
SENSORIALE. E secondo BENJAMIN questo training ricalca la funzione protettrice
esercitata dal cinema in gradi di operare una cura per le masse e di preparare la
sensibilità umana agli shock della vita moderna. Tuttavia è giusto distinguere la
premediazione dalla previsione perché ciò che specifica il carattere dei media non è
tanto il pronosticare l’avvenire ma l’anticipare tutti gli scenari possibili che
potrebbero realizzarsi. I media questi tendono a prevenire e renderci familiari con una
molteplicità di futuri virtuali in maniera da prepararci alle possibili catastrofi. Questo
atteggiamento dei media è stato evidente durante l’epidemia del Covid-19, infatti in
dal primo giorno di chiusura, grazie ai media ci siamo ritrovati nel post di u evento
mondiale catastrofico prima ancora che i suoi effetti reali potessero iniziare a
manifestarsi. Paradossalmente il futuro sembra indietreggiare e proiettarci in ritardo
rispetto ad ogni evento, il passato non è mai veramente passato perché ci sorpassa
prima ancora di potersi verificare. La premediazione definisce il meccanismo di
anticipazione per cui in un modo di variabili complesse, non è più la causa bensì il
sistema di attese relativo ad un certo effetto a produrre degli effetti reali. I media del
XXI secolo realizzano un movimento di sconfinamento reciproco tra le estasi
temporali, quindi del futuro sul presente, del virtuale sull’attuale, dell’immaginazione
sul reale e viceversa. La nuova forma di divinazione delle macchine si riformula
nell’effetto retrospettivo e ricorsivo del presente sullo spettro dei futuri virtuali e del
futuro sull’attuale descrivendo un rapporto che Mario Carbone definisce
PRECESSIONE RECIPROCA secondo cui ciò che è si riflette su ciò che viene
mostrato e ciò che viene mostrato su ciò che è. Quindi il rapporto con i media
contemporanei ci insegna che il futuro non è soltanto davanti a noi e che possiamo
predire o prevenire in attesa di raggiungerlo, ma penetra nel presente anticipandolo e
riconfigurandolo come sistema di attese e destini figurabili, i cui effetti modificano
l’attuale rendendolo passato. L’immagine di COGNETTI ‘LE OTTO MONTAGNE’
spiega meglio questo concetto dicendo che siamo abituati a pensare che il futuro
come lo spazio dinnanzi a noi e il passato come ciò che ci lasciamo indietro, ma
bisogna invertire i due poli.
RENDERE VISIBILE E RENDERE DESIDERABILE
IN ALLRTA. ECONOMIA DELL’ATTENZIONE, EMOZIONI ENATTIVE E
SOGGETTIVITÀ MEDIALE
Già negli anni Novanta FRANCK parlava di economia dell’attenzione riferendosi
alla logica secondo cui i media offrono informazione e intrattenimento in cambio di
attenzione. Fenomeno che ha le sue radici nell’invenzione della retorica ma che si è
sviluppato grazie alla diffusione di internet. Si è diffusa l’attitudine ad indagare con
maggiore sospetto le strategie secondo cui le compagnie del web lavorano per
concentrare il pubblico online. L’attenzione individuale e collettiva appare come un
bene da attrarre e accumulare e sempre più le strategie di attrazione assumono la
forma di una sistematica distrazione. L’attenzione è orientata da società di servizi,
motori di ricerca o piattaforme social. Questo permette al soggetto dell’esperienza
mediale ad attivare il proprio smartphone per verificare un’informazione e si ritrova a
scorrere la pagina web passando rapidamente da una all’altra; interrompe l’attività
che sta svolgendo perché segue il richiamo di una notifica come se fosse un ordine
ecc. Tutti comportamenti che rendono visibile una sua vulnerabilità e mettono in
questione la sua autonomia e responsabilità. Le menti umane appaiono inadeguate e
inconsapevoli della propria natura e del proprio funzionamento. Questo fenomeno
diventa un processo di frammentazione percettiva e di riduzione dell’attenzione.
CITTON ha individuato una prevalenza del regime che definisce ALLERTA, cioè
una forma involontaria dell’attenzione che ci rende sensibili agli aspetti improvvisi
del mondo, intensificando l’attitudine alla vigilanza continua e all’attesa della novità.
L’allerta costituisce il regime prevalente e l’attenzione il più importante mediatore
cognitivo della relazione soggetto e ambiente. Ma crediamo che la comprensione del
livello individuale dell’esperienza conti per lo meno quanto quello delle dinamiche
sociali collettive e le scienze cognitiva sono in grado di spiegare il funzionamento dei
meccanismi neuropsicologici e di offrire modelli di soggettività in grado di
inquadrare i comportamenti connessi al paradigma di allerta. Le indagini sui
meccanismi psicologici dell’attenzione suggeriscono le ragioni di alcuni
comportamenti paradossali. Il cervello umano elabora una minima parte degli stimoli
ambientali e si focalizza difficilmente su più di un’attività alla volta passando
rapidamente da una all’altra e che nell’esperienza mediale contemporanea sono
sollecitati solo alcuni aspetti dell’attenzione a discapito di quelli basati sulle capacità
di selezione degli stimoli e di rimanere focalizzati. Quindi i nuovi sistemi si
organizzano attorno a simili caratteristiche della cognizione per gestire l’attenzione
dei fruitori. Il regime di allerta si comprende solo prendendo in considerazione le
spinte affettive che orientano l’attenzione, cioè il processo di attenzione motivata.
L’allerta che caratterizza il regime contemporaneo è caratterizzata da un’interazione
con le tecnologie. Quello che si registra è un bisogno di natura affettiva il cui
appagamento è più importante di qualunque altro compito che la tecnologia ci aiuti a
svolgere. Un caso esemplare è il comportamento di CONTINUA ATTENZIONE
PARZIALE e cioè la tendenza a dividere la propria attenzione tra attività diverse nel
tentativo di rimanere connessi col mondo per non perdere opportunità o contatti. Ma
questo comportamento è un’attitudine affettiva che non si controlla né si sceglie e
tende a rimanere opaca nelle sue ragione anche se è palpabile nelle sue
manifestazioni. L’impatto delle nuove tecnologie ha portato alla creazione di un
modello di comportamento secondo cui i soggetti tendono a spostare la propria
attenzione verso fonti d’informazioni prima ancora di aver esaurito la fonte che
stanno sfruttando. Il cervello umano considera le fonti mediali come dei luoghi le cui
risorse si consumano rapidamente e che quindi devono essere visitati alla ricerca di
altre risorse. Questa esplorazione è complicata da altri fattori come la consapevolezza
dell’enorme disponibilità di risorse, la noia crescente, infatti a causa delle tante
opportunità ci si annoia facilmente e si desidera passare velocemente ad altro
diventando più vulnerabile rispetto a comportamenti compulsivi o disordini
dell’attenzione. A questo si aggiunge la consapevolezza dell’accessibilità dei sistemi
che interferiscono con le nostre occupazioni. Ciò non è ottimale, ma il cervello ha
questa attitudine spontanea nel ricercare risorse, ciò favorisce l’ottimizzazione del
tempo, ma finisce per contrastare le capacità d’attenzione del soggetto. I dispositivi
dell’attenzione devono sollecitare la vita affettiva e le spinte motivazionali che
alimentano la nostra attenzione. Per comprendere ciò bisogna considerare le capacitò
ENATTIVE delle emozioni intese come tendenze spontanee del nostro organismo a
produrre senso nell’interazione con l’ambiente. L’esperienza emotiva si genera già
nel momento in cui si attivano i sistemi neurale, all’attivazione di questi corrisponde
una consapevolezza implicita che è fondamento affettivo non cosciente della
coscienza umana. Le sensazioni emotive sono regolate da dei sistemi che le
influenzano e ne sono influenzate. Tra questi c’è quello della RICERCA che spinge a
cercare nell’ambiente risorse per la sopravvivenza. Si attiva involontariamente dal
controllo volontario generando sensazioni di interesse. Il sistema genera impulsi
CONATIVI rapidi e orientati all’attenzione. L’esperienza che corrisponde a questo
impulso genera un piacere euforico che è appetitivo e non consumatorio. Questo
piacere anticipatorio intenso, ma primo di oggetto è al cuore dell’esperienza
d’ALLERTA come attesa o ricerca euforica di qualcosa. Un sistema come quello di
ricerca diventa una fonte di vulnerabilità inconsapevole, difficile da gestire anche a
causa del piacere intenso che provoca. La cultura mediale contemporanea è una
cultura della ricerca e quindi dell’allerta e l’economia dell’attenzione è da considerare
come un’economia della motivazione e della vita affettiva. Tutto questo è d’impatto
per la forma della soggettività che i nuovi dispositivi creano. Lo schermo si
identifica come una superficie che nasconde una porzione di mondo affinché
qualcos’altro possa apparire, quindi è la più importante componente materiale
dei nuovi dispositivi dell’attenzione la cui funzione di esibizione/di nascondere
non si confonde con l’immagine o l’informazione che vi appare né con la cornice.
Dei nuovi schermi CASETTI evidenzia alcuni aspetti cruciali, prima di tutto sono
monitor più che finestre, possiedono cioè nuove funzioni rispetto agli schermi del
passato e il termine per definirli è DISPLAY cioè superfici di transito che hanno il
compito di intercettare e rendere accessibili immagini e informazioni che scorrono,
essi sono luoghi dove le informazioni sono in continuo movimento e si scaricano e
ricaricano per proseguire le loro traiettorie. Inoltre si occupano di definire il rapporto
tra ambiente e soggetto e favoriscono la creazione di uno spazio personale per
l’utente anche nel pieno di un contesto pubblico. I display tendono ad assorbirci
portando in secondo piano ogni altra forma d’interesse in quanto richiedono una
particolare intimità andando a creare una bolla esistenziale. I nuovi ambienti
contribuiscono al funzionamento dei nuovi dispositivi, perché da un lato producono
soggetti dinamici e relazionali, dall’altro conferiscono all’esperienza mediale i tratti
della navigazione interattiva e una modalità costruttiva del coinvolgimento che
contribuisce a mettere in discussione la distinzione tra il fare e il guardare. Quindi
l’evoluzione degli SCREEN MEDIA viene intesa come un indebolimento dei
processi attentivi focalizzati. Ciò avviene a causa della quantità delle attività
simultanee disponibili e grazie ad uno sviluppo tecnologico che mette immagini e
informazioni a portata di mano secondo le modalità individuate da BENJAMIN che
favoriscono forme di fruizione distratta. I soggetti dell’esperienza mediale sono
inconsapevoli dei propri comportamenti paradossali e delle loro conseguenze. Gli
schermi- display sono protesi che realizzano una rivoluzione percettiva e cognitiva le
cui dinamiche rappresentano una posta in gioco fondamentale. Il regime ci impone di
intendere la soggettività in termini mediali e relazionali ovvero secondo processi di
DIVIDUAZIONE. Il nuovo regime mette in crisi l’integrità del soggetto perché si
estende la frattura tra esperienza vivente e vissuta. Quindi i dispositivi favoriscono
una sorta autonomia della vita affettiva spiegata da una prospettiva ENATTIVA, cioè
il relazionale il soggetto con l’ambiente naturale che lo circonda. Questo permette di
comprendere il nesso tra natura-cultura nell’ambito dell’ecologia dei media. Questa
esperienza sottolinea che le interazioni con l’ambiente sono affettive e prive di
contenuti e che la nostra vita affettiva è il medium corporeo per l’ambiente. La
complessità degli ambienti individuali umani deve fare i conti con quelli pre-
individuali infatti da un lato i nuovi dispositivi modellano la propria funzionalità sulla
nostra esperienza, dall’altro sfruttano le nostre disposizioni affettive e motivazionali.
DI SILFIE I SELFIE. LO SPAZIO CONFESSIONALE DEL SÈ NARRABILE
Nel marzo 2016 vengono fatte due mostre a Lione e a Londra incentrate sui SELFIE.
Entrambe le mostre sono coordinate, perché la prima presenta il Selfie come
corrispettivo fotografico del genere pittorico dell’autoritratto e la seconda perché
racconta la storia degli effetti e degli usi. Entrambe sottolineano che il SELFIE
costituisce la PRATICA AUTOBIOGRAFICA più caratteristica dei nostri giorni. Il
SELFIE diventa l’attestazione visiva più accessibile e diffusa di chi siamo, dove ci
troviamo e quello che stiamo facendo. Entrambe le mostre assimilando il SELFIE alla
tradizione pittorica dell’autoritratto lasciano indisturbato il modo accademico che
governa l’organizzazione delle arti visive in cui domina la pittura generando altri
generi come l’autoritratto. La fotografia così, riarticola lo sguardo pittorico. In merito
a ciò GRUSIN E BOLTER parlano di rapporti di mediazione per mostrare come
l’assimilazione museale dei selfie sia insufficiente. Per loro la MEDIAZIONE è
TRASFORMAZIONE TECNOLOGIA DI PRIMO LIVELLO, la RIMEDIAZIONE
è una TRASFORMAZINE di secondo livello della prima da parte di un mezzo
d’espressione diverso. Secondo la tesi delle due mostre sui SELFIE, i pittori che
hanno per primi esplorato il concetto di autoritratto sono gli autori della prima
mediazione dell’auto-rappresentazione visuale del sé. Il SELFIE quindi diventa una
RIMEDIAZIONE dell’AUTORAPPRESENTAZIONE VISUALE DEL SÉ. Le due
mostre vanno in contrasto con la tesi di GRUSIN E BOLTER che vedono mediazione
e rimediazione come fasi dello stesso movimento di produzione del contenuto
mediatico. Quanto trattato nelle due mostre sui SELFIE diventa la base per una
letteratura dei SELFIE che li vede come simbolo di un malanno culturale e un
approccio di pura qualificazione che studia li studia a partire da delle caratteristiche
formali delle immagini per combinarli in insiemi di BID DATA visuali. CARBONE
vede i SELFIE come pratiche sociali complesse e come modalità di produzione della
soggettività in tutti i suoi aspetti. Vedere i SELFIE come pratica sociale porta alla
definizione di due linee d’indagine che vedono i SELFIE come INTERPELLAZIONI
PROIETTIVE quindi degli schermi nei quali il soggetto di vede e non si vede allo
stesso tempo, perché si immagina attraverso la lente di una platea di altri. Quindi i
SELFIE vengono considerati come RAPPRESENTAZIONI DELLO SPETTACOLO
DELL’AUTO-RAPPRESENTAZIONE, una pratica confessionale che ci impone a
dire chi siamo realmente, cosa facciamo ecc. La confessione è alla base del SÉ
NARRABILE, cioè una soggettività che si piega dal gioco degli specchi prodotto
dalla fotocamera frontale.
SELFIE COME SINTOMO: L’APPROCCIO PATOLOGICO
Le scienze sociali hanno condannato i SELFIE come espressione di una sensibilità
condizionata dalle tendenze narcisistiche di cui vengono accusati i millenial.
L’approccio patologico dice che la telecamera è espressione nativa delle generazioni
più giovani che fanno uso dei SELFIE per celebrare fatti e momenti personali della
vita. I SELFIE sono visti come prodotto di una dinamica sociale governata dal
desiderio di apparire come oggetto di ispezione altrui. Questo sfocia in un grado
patologico di coinvolgimento, per questo i SELFIE vengono analizzati come sintomo
di una traduzione e riduzione della complessità delle relazioni umane con un
attaccamento alla visibilità e al riconoscimento. La cultura del SELFIE è associata
all’essere speciali e quindi il vedere sé stessi attraverso le lenti delle CELEBRITY
CULTURE, infatti questa ha colonizzato l’incontro con la soggettività in una
pluralità di spazi. Il SELFIE diventa pratica sociale e politica e questa pratica
funziona come schermo su cui giocano sia la proiezione che la protezione del
candidato nella sua relazione con l’elettorato. Gli artisti si sono distaccati
dall’interpretazione sociologica dei SELFIE e l’hanno esplorata come pratica
mediatica. Su questa strada l’ARTISTA CINESE AI WEI-WEI è riuscito a trovare
l’intreccio tra politica e spettacolo. Ha fatto posizionare, in maniera provocatoria, le
celebrità avvolte nelle coperte termiche mentre si fanno i SELFIE mostrando così il
velo politico che lega i SELFIE con le CELEBRITY CULTURE e la REALITY TV.
Leggere i SELFIE come pratica sociale comporta vedere il legame che c’è tra
immagine così come viene riprodotta, il suo contesto simbolico, politico, estetico e
sociale, quindi l’approccio patologico dei SELFIE che prende il sé come fatto
compiuto che poi si immagina trasportato direttamente nella fotografia. Questo
approccio patologico rafforza la stessa reificazione del sé che imputa ai selfie. Due
sociologi hanno compiuto uno studio quantitativo sui SELFIE analizzandone tanti.
Risultato di questa ricerca è stato quello di trasformare i SELFIE in BIG DATA
VISUALI. Sulla base di questi i due sociologi hanno definito un SELFIE
FOTOPRINT cioè l’impronta con cui ogni comunità si autorappresentano tramite il
click della fotocamera frontale. I risultati del progetto sono stati divisi in tre
categorie: LA DEMOGRAFIA DELLE PERSONE CHE SCATTANO I SELFIE, LE
POSE E L’ESPRESSIONI; LE IMAGESPLOT OTTENUTE DAGLI
ASSEMBLAGGI DI NUMEROSE FOTO; GLI ESSAYS CHE DISCUTONO I
SELFIE ALL’INTERNO DELLA LORO STORIA FOTOGRAFICA, LA
FUNZIONE DELL’IMMAGINE NEI SOCIAL MEDIA. Lo studio dei sociologi
conferma che ciascuna città esprime uno stile di autorappresentazione. Sulla scorta
dello studio ci si è chiesti se gli archivi del SELFIECITY potrebbero diventare
l’impronta per delineare specifiche popolazioni all’interno della cornice
metropolitana. Nel settore privato le aziende estraggono dati dalla qualificazione
visuale dei selfie come strumenti per la privacy e della sicurezza. Questo settore
raccoglie informazioni basandosi su ogni movimento fatto dalla su internet e i motori
di ricerca rendendoli dati estraibili e vendibili. I selfie sono merce preziosa per questo
nuovo tipo di economia, infatti tutti quelli che si accumulano sui telefoni sono
essenziali per questa pratica di auto-sorveglianza che documentano la nostra esistenza
mantenendola in sintonia con le proprietà politiche degli stati e le strategie di
marketing.
I SÉ NARRABILI
I selfie come rappresentazione non tengono conto che questi istaurano un rapporto
con una platea di spettatori creando un rapporto dinamico e performativo che
determina il modo in cui la soggettività e quindi l’esperienza di sé appare in ogni
SELFIE. I SELFIE nella lettura di CARBONE sono lo spettacolo
dell’autorappresentazione in cui il sé genera l’esperienza visuale di sé stesso. Questa
concettualizzazione della soggettività generata dai selfie si ritrova nel quarto capitolo
della Fenomenologia dello Spirito di HEGEL dove l’autocoscienza è la
consapevolezza della consapevolezza di sé da parte di un altro. Infatti, per HEGEL si
diventa consapevole di sé stessi passando attraverso gli occhi degli altri. Quindi i
SELFIE diventano schermi che rendono visibile e allo stesso tempo invisibile la
soggettività. La soggettività in formato SELFIE è già oggetto di altre soggettività:
l’altro dell’altro. Quindi il sé non è mai riprodotto nel campo visivo di un SELFIE,
ma prodotto al suo interno. I selfie dichiarano la visibilità dei soggetti affermando la
loro lotta per il riconoscimento sociale. Quindi i SELFIE SONO FORMAZIONI
CHE CONTINUANO A DEFORMARSI E RIFORMARMARSI NELLA LORO
CIRCOLAZIONE IN RETE. Sono formazioni che formano l’identità attraverso il
loro impatto visivo. Ciò è rinforzato da raccolte narrative dove le immagini si
adattano ad un modello lineare del racconto di sé. I social diventano piattaforme in
cui la soggettività di dipana nel racconto di una storia, un racconto che porta in sé la
traccia di un’altra storia in cui un altro sé espone la propria ricerca di riconoscimento.
Dunque per CARBONE, I SELFIE non sono rappresentazioni di chi siamo, ma essi ci
costituiscono in un movimento dinamico e performativo. Questo movimento si
alimenta nella funzione di NARRABILITÀ che è il risultato delle mediazioni e delle
rimediazioni delle piattaforme che governano la nostra vita sociale. I SELFIE sono
schermi in cui si proietta e si protegge lo spettacolo dell’autorappresentazione, che è
la messa in scena delle ricerche di un significatp della vita a partire dalle storie che
gli altri potrebbero raccontare di noi (ESEMPIO: Ulisse, prende consapevolezza della
sua storia e ne rimane affascinato solo quando la raccontano). I SELFIE sono schermi
che hanno un modo di guardarci che ci chiede di guardare come loro ci guardano.
DERRIDA riprende il pensiero di BENJAMIN secondo cui ci sono due sensi della
sopravvivenza: una SOPRAVVIVENZA ALLA MORTE e un SOPRAVVIVERE
NEL SENSO DI CONTINUARE A VIVERE. Il concetto della traccia rientra in
questo secondo senso di B., continuare a vivere dopo che è già sempre anticipato, un
futuro che viene dal passato perché è già passato. Questo porta alla definizione di
SELFIE COME RAPPRESENTAZIONI DELLO SPETTACOLO
DELL’AUTORAPPRESENTAZIONE, la cui posta in gioco è la promessa del
racconto dell’esperienza del sé. La sopravvivenza del sé dipende dall’essere guidato,
seguito e sorvegliato, quindi la fotocamera frontale delimita una nuova condizione
sociale e politica.
LE REPPUBLICHE SENTIMENTALI E L’IN-FORMAZIONE DEL DESIDERIO
Il referendum sulla Brexit e le elezioni di Trump sono due eventi politici e mediatici
che hanno riaffermato e accentuato il declino delle grandi narrazioni nella società
postindustriale e nella cultura postmoderna. Il declino che porta ad una non
legittimazione di un sapere moderno a favore di un sapere legittimabile secondo un
criterio di efficienza. L’incapacità dei media di prevedere l’avverarsi di questi due
eventi sancisce la loro non legittimazione come conseguenza del loro fallimento
performativo. I due eventi presentano le democrazie occidentali come Repubbliche
sentimentali governate dai social e dall’analisi dei big data seguendo quindi le paure e
le necessità degli spettatori e allo stesso tempo di utenti della vita politica. Le
repubbliche sentimentali rispondo al sentimento di delusione che si esprime come
dispiacere e melanconia. Ma nessuno dei due eventi in questione risponde a questi
sentimenti, ma anzi possono essere inseriti all’interno della corsa sfrenata al
godimento che caratterizza, secondo Carbone, la società contemporanea ed a cui
possono essere ricondotte delle tendenze suicide della stessa. Questa modulazione del
sublime mira ad una presentazione diretta del sublime rispondendo ad una logica
dell’immediazione che si vede come presentazione positiva dell’eccedenza,
rimozione di ogni mediazione di ogni possibilità di speranza. La pervasività degli
schermi converge con il sogno di immediazione che politicamente prende le forme di
un esercizio democratico privo di ogni mediazione da realizzare tramite questi
schermi. Questi si impongono come dispositivi di riferimento del nuovo sapere. Molti
dei loro poteri derivano proprio dalla legittimazione di questo sapere che producono.
Per i due eventi analizzati il web diventa un luogo di conflitto tra operazioni
psicologiche e operazioni informative coniugando la raccolta dei dati e il
funzionamento degli algoritmi per influenzare i desideri dei lettori tramite una
manipolazione emotiva. Così gli schermi non sono solo delle nuove armi, ma anche
dei veri dispositivi che rispondono ad una funzione strategica precisa attorno alla
quale si costruisce il dispositivo stesso e che determina le condizioni di possibilità dei
rapporti di potere stessi.
LE CRITICITÀ DELLE NOSTRE RICERCHE
Google anticipa, prevede e quindi informa i nostri desideri suggerendo come
indirizzare le nostre ricerche fino a dirci ciò che ci potrebbe interessare offrendoci
delle risposte immediate alle nostre ricerche. La ricerca con google diventa la ricerca
di una verità che non trova conferma nei fatti o nella qualità delle argomentazioni, ma
nei nostri sentimenti. A questi si accoda una post-verità, una verità che si accoda al
nostro sentire che sembrerebbe essere la risposta a quel desiderio di essere delusi che
caratterizza la condizione post-moderna. La delusione sarebbe la tonalità affettiva di
una verità che ci dà l’impressione di avere sempre ragione. Una tale legittimazione
del sapere degli schermi ne amplifica i poteri. Da un lato ciò ha portato ad un
fallimento del giornalismo e dell’informazione tradizionale a scapito dei post fatti e
della post-verità che compongono le fake news del web. Dall’altro ha portato ad una
configurazione dei social come prototipi di repubbliche sentimentali virtuali, prove
tecniche di attuazione del sogno delle grandi compagnie dell’HI-TECH. Queste
compagnie che controllano gli aspetti della nostra vita, si stanno appropriando delle
funzioni del governo. Questo porta ad una nuova concezione di e-governance
secondo cui non è lo stato che digitalizza il proprio apparato burocratico, ma sono
delle compagnie già esistenti che prendono il posto della mediazione della politica e
dello stato attraverso la loro immediazione. Si cerca di realizzare delle repubbliche
sentimentali che governano attraverso la mediazione invisibile degli schermi. Per
realizzare ciò bisogna anche riuscire anche a prevedere e a generare per gli schermi il
potere della previsione sono d’aiuto i big data e i social network. Quindi google vuole
sapere ciò che vuoi prima che lo sappia tu stesso, per questo ci si può rivelare ciò che
si vuole prima di volerlo.
LA POLITICA È COME LA MODA: DATI SENTENZE E POTERE DI
PREVISIONE
Il potere di previsione degli schermi si basa sull’azione congiunta di altri poteri come
quello di sorveglianza e di individuazione. Per poter prevedere il comportamento
delle persone, bisogna sorvegliarle e prendere nota delle loro abitudini così da
modellare su queste basi i loro comportamenti futuri. La sorveglianza deve essere
congiunta al potere dell’individuazione cioè alla formazione di una soggettività che
riconduca ad una stessa identità la presenza online o offline. Questo è reso possibile
dall’azione congiunta dei big data e dei social network, infatti i primi immagazzinano
informazioni sui nostri comportamenti, i social permettono di ricondurre a questi dati
un utente. Uno gruppo di ricercatori ha condotto uno studio sulla capacità degli
algoritmi di effettuare valutazioni della personalità ricavate dai ‘mi piace’ di
Facebook degli individui. L’obiettivo era quello di rafforzare queste ricerche che
legittimano un nuovo sapere. I ‘mi piace’ sono una base per elaborare una diagnosi di
personalità perché tengono conto delle abitudini, preferenze e attività delle persone.
WILEY in merito a ciò ha detto che la politica è come la moda perché in entrambi i
casi le tendenze influenzano il desiderio e le scelte dei consumatori così come quello
degli elettori. Con la collaborazione con altri due studiosi fondano La celebre
CAMBRIDGE ANALYTICA, una società di analisi dei dati. Questa recupera i ‘mi
piace’ su Facebook così da fare una valutazione della personalità degli utenti e un
possibile orientamento politico degli elettori i quali sono sottoposti ad una campagna
elettorale personalizzata e più in generale a delle informazioni che sulla base delle
loro preferenze ne influenzano i comportamenti futuri. Il dispositivo schermico che
permette questa operazione combina la raccolta dei data ad un processo di
individuazione descrivendo un movimento di ritorno dal dividuale del dato
all’individuale della personalità che approda all’intimità della mini propaganda e del
desiderio. Il dispositivo di questo studio parte dell’ombra per arrivare
all’individuazione di un corpo non solo digitale, ma anche fisico inaugurando l’era
biopolitica.
I POTERI DELL’ARCHI-SCHERMO
L’analitica dei poteri politici che si esercitano nella vita di oggi tramite gli schermi
permette di individuare dei dispositivi schermici tramite cui questi poteri si
articolano. Lo schermi non ha un ruolo terminale e le ragioni che fanno di questi
schermi dei veri dispositivi sono riscontrabili nel loro carattere di ARCHI-
SCHERMO. Il PRIMO POTERE consiste nella capacità di istituire dei regimi di
visibilità e d’enunciazione che modellino la ricerca e l’immaginario. Il SECONDO
POTERE riguarda l’etimologia e alla loro funzione protettiva. Questo potere da un
lato fa sentire l’utente al sicuro, protetto, dall’altro tramite lo stesso gesto e lo stesso
schermo ne espone l’ombra istruendo una nuova superficie per mostrare.
Quest’ombra è il frutto della capacità dello schermo di diffondere luce e di costruire
una barriera protettiva. La medialità contemporanea riunisce questi due schemi
positivi e negativi già nella Caverna di Platone, infatti se prima erano solo dispositivi
oggi fanno parte di un unico oggetto che li fa congiungere. Il modo in cui l’ombra
mette in luce l’utente presenta il TERZO POTERE, quello della presentazione
negativa. Questo potere si esercita sotto forma dell’opacità e con la resistenza di
quest’ultima si fa riferimento all’impatto considerevole sul mondo fisico del processo
di attualizzazione del virtuale, le cui ricadute rimangono invisibili nel virtuale stesso.
L’elezione di Trump e la Brexit si impongono come l’impresentabile, ciò di cui gli
effetti non possono che essere presentati come negativi rispetto al nostro vivere
tramite gli schermi. Il QUARTO POTERE è quello della selezione. La raccolta dei
big data esalta questo potere di selezione che gli schermi sembrano ereditare dalla
definizione etimologica dimenticata. Il QUINTO POTERE che si ritrova nelle
pratiche politiche che implicano gli schermi contemporanei è il privilegio della parete
speculare, il potere di riunione le pulsazioni sparse del dividuo posto di fronte ad una
superficie riflettente in un’immagine unitaria presentata da questa stessa superficie.
L’INCONSCIO E L’IN-FORMAZIONE DEL DESIDERIO
Gli schermi non ti dicono come desiderare, ma direttamente ciò che desideri. Questo
atteggiamento ricorda quello di un personaggio di KIERKEGAARD, l’apostolo. È
colui che riceve la sua destinazione dell’esterno, da una trascendenza divina che
accoglie in sé. Il soggetto individuato tramite gli schermi si configura come un
funzionario burocratico di un desiderio e di una verità anonimi che lo trascendono.
Questa trascendenza è tecnologica e ideologica. Pensare all’inconscio come modello
dell’informazione ci permette di vedere la discontinuità degli schermi che ci dicono
cosa desideriamo sotto forma di parola d’ordine che deriva dall’esterno e dà forma al
desiderio. Tra i caratteri che governano i dispositivi del nostro tempo ci sono: il
PRIMO è il linguaggio digitale, un linguaggio tale per cui il sé consumatore sia
riconoscibile agli altri sé. Il SECONDO è una logica modulare che aziona una
funzione di selezione e discernimento facendo funzionare i dispositivi come un
setaccio in cui le maglie cambiano da un punto all’altro. Il TERZO ELEMENTO
riguarda il processo di soggettivazione che unisce i due estremi individuo/massa
secondo il concetto di cifra, una password che governa l’accesso all’informazione. Il
successo della micro-propaganda è utile per prendere in considerazione un nuovo
modello di inconscio che si plasma secondo l’immagine dell’informazione e del
controllo, il cui modello sono gli schermi contemporanei intesi come dispositivi.
Questi operano un’informazione del desiderio secondo cui gli schermi non ti dicono
come desiderare, ma ciò che desideri. Il desiderio come formazione genera anche
forme di contro-informazione che diventano veri e propri atti di resistenza. Le
resistenze dei poteri degli schermi si vedono nell’opacità della mediazione delle
Repubbliche sentimentali dell’immaginazione. Opacità che diventa impossibilità del
ritorno dal dividuale all’individuale, ma anche nell’imprescindibilità della funzione di
presentazione negativa che permette di individuare un’eccedenza nel regime di
immediazione. Lo scarto di questa eccedenza ci dice che i big data sono dei TOO
BIG DATA, dati troppo grandi e quindi sublimi. Il cittadino che resiste all’interno
delle Repubbliche sentimentali è il protagonista del ‘IL PROCESSO’ di KAFKA per
il quale la legge da cui deve difendersi non è oppressione, ma desiderio. Nel nostro
campo siamo dinanzi ad un cittadino che non si illude di sottrarsi ai poteri degli
schermi, ma si esprime e resiste tramite essi in una processualità illimitata e quindi
sublime.

Potrebbero piacerti anche