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Tesina d’esame per Storia del Jazz, delle musiche improvvisate e audiotattili

(CODM/06)

M° Luigi Bubbico

Elaborato di Martina Balloriani

Biennio I- Canto jazz

LADY DAY: UNA VOCE CHE RACCONTA


Introduzione

Spesso, in ambito accademico, ci viene chiesto di indicare l’artista al quale noi “piccole cantanti” ci
ispiriamo. Scrivo piccole cantanti perché di fronte alla vastità di talenti jazz che abbiamo ascoltato
non possiamo far altro che ritenerci tali. Personalmente, ho sempre trovato molto difficile indicare un
artista al quale io faccia riferimento; probabilmente non ho ancora trovato la mia vera musa ispiratrice.
Temo sia dovuto al fatto che da quando sono nata, fino ad oggi, ho sempre ascoltato vari generi
musicali senza farne mai alcuna distinzione. Posso affermare sicuramente di sentirmi molto più
vicina al Blues e a tutto ciò che ne deriva. Oggi mi è stato chiesto di elaborare un lavoro che tratti di
un cantante al quale vorrei somigliare, musicalmente parlando. Sappiamo tutti che ogni voce si
differenzia da un’altra e vi sono molti fattori che ne influenzano il suono, il timbro, l’intensità; quello
che ho sempre amato dello strumento voce è che ogni timbro è influenzato dal vissuto di ognuno,
dalle abitudini, dai vizi. Ogni voce racconta qualcosa: un bel ricordo, un trauma, storie di vita
dolorosamente tristi. Ogni persona ha un proprio timbro che rispecchia perfettamente il modo di
essere. La voce come uno specchio che riflette la nostra anima, il nostro vissuto, la nostra storia, ogni
singola parte di noi. Billie Holiday è stata una delle prime donne che mi hanno fatto avvicinare alla
musica jazz e mi ha fatto scoprire la bellezza del canto come mezzo di comunicazione ed espressione
del proprio universo personale. Mi sembra doveroso iniziare questo breve lavoro partendo dal mio
primo “incontro” con Billie Holiday. Ho ascoltato la sua voce in un indimenticabile giorno dei miei
17 anni tra i solchi di un vecchio disco trovato per caso nella collezione di un mio zio appassionato
di musica blues. Ovviamente non avevo la minima idea di chi fosse questa donna che cantava un
brano altrettanto sconosciuto per me.

Ho “conosciuto” meglio Billie Holiday anni dopo raccogliendo notizie da internet e leggendo la
traduzione italiana per Feltrinelli di Lady Sings The Blues. Si tratta di un’autobiografia che mi ha
folgorata dal primo momento che l’ho letta. Di fatto c’è da dire che di Jazz conoscevo ben poco. Ciò
che poi sono riuscita a cogliere nel corso degli anni, studiando e arricchendo il mio desiderio di
conoscenza, è che la Holiday inventò un modo di cantare il jazz rivoluzionando tutto. Ma all’epoca
ero troppo giovane per cogliere la più intima essenza della sua voce. Si può ascoltare Billie Holiday
e percepirne la grandezza, arrivare anche ad amarla, a qualunque età, ma per capirla in maniera
profonda è necessario in ogni caso che la vita ti consumi un po'. Occorre aver avuto i propri blues,
solo allora sarà possibile comprendere i suoi. Proprio per questo motivo ho amato quest’artista fin dal
primo istante in cui l’ho sentita cantare. Alcune voci ci trasportano in un luogo intimo e toccano un
punto sensibile della nostra anima, ci fanno innamorare. In questi casi, si ascolta un timbro che ci
chiama, che ci tiene sospesi in una domanda articolata intorno a un punto di verità che ci riguarda e
che illumina qualche cosa che si sa ma che si ignorava di sapere. Potremmo definire la sua voce
come“timbro blu”, molto marcato, soprattutto nel suo ultimo disco Lady In Satin ( inciso nel 1959,
qualche settimana prima di morire) quello che lei stessa ha dichiarato di amare maggiormente.
Chiunque si senta chiamato, interpellato intimamente dal timbro che prese la voce di Billie Holiday
in quel particolare momento della sua vita, ha un suo proprio motivo: ogni persona riconosce e si
riconosce in quel timbro, a modo proprio.

In esso c’è qualcosa di conosciuto ma allo stesso tempo di misterioso, di familiare e perturbante, di
intimo che però sfugge di continuo, qualcosa che, come il blu, riguarda il giorno ma anche la notte; è
un timbro che ci appartiene e ci riguarda, parla a noi e parla di noi.

Molte sono le parole che potrebbero essere utilizzate per descrivere Billie: bella, complessa,
volubile, vulnerabile, unica, sola, felice, triste, inquieta. Tutto questo era lei, o forse anche di più; è
stata la cantante di jazz più ammirata e imitata dei suoi tempi. Aveva sia sostenitori entusiasti tra il
pubblico ma anche non pochi detrattori. Difficilmente si poteva rimanere indifferenti al suono della
sua voce. La sua vita fin dall’inizio fu una serie di alti e bassi, di trionfi seguiti da disastri. Era una
donna che si riprendeva sempre dai guai, senza mai riuscire però a riottenere lo stesso successo, finchè
non le restò più la forza per lottare. Sia i momenti migliori che quelli peggiori della sua vita furono
sempre ben pubblicizzati dalla stampa. La sua autobiografia Lady sings The Blues, pubblicata nel
1956, accese i riflettori su una vita piena di tormenti e una carriera continuamente spezzata. Lady D,
più di ogni altro artista jazz, ha messo a nudo la sua anima nelle sue parole e in modo ancora più
emozionante nella sua voce.
1. Cenni Biografici

Un’infanzia poco vissuta, quella di Billie Holiday, frutto di una notte d’amore tra il sedicenne
suonatore di banjo, Clarence Holiday, e la tredicenne ballerina di fila, Sarah Julia Fagan. Una vita
che definire travagliata è poco, scandita da lutti, storie d’amore sbagliate, droga e problemi finanziari.
Forse sono state proprio queste due cose a donare alla ragazza di Philadelphia quella voce unica.
Avevano cominciato a chiamarla Lady le ragazze che lavoravano con lei in un locale di Harlem, allora
all'inizio della sua carriera di cantante e ancora adolescente: Lady perchè si dava tante arie da rifiutare
di raccogliere le mance come si usava lì, e cioè alzando le sottane ed afferrando tra le cosce le
banconote che il cliente aveva messo sul bordo del tavolo. Anni dopo
Lester Young, che aveva un talento particolare per escogitare
soprannomi da affibbiare agli amici, e che era affettuosamente legato a
lei, ci aggiunse Day, per fare Lady Day, che somigliava a Holiday, e il
nomignolo le rimase addosso. Ma Billie era cresciuta come una piccola
selvaggia nelle strade del quartiere nero di Baltimora. Sua madre, che
l'aveva messa al mondo a tredici anni, e che le aveva imposto il nome di
Eleonora da aggiungere al suo cognome, Fagan, non era certo in grado
di impartirle un'educazione qualsiasi: era un'umile donna di servizio che
visse quasi sempre da sola perché il padre, musicista di jazz, che l'aveva sposata tre anni dopo la
nascita della loro bambina, l'aveva lasciata presto ed il suo secondo marito la lasciò vedova dopo
pochi anni. La piccola Nora dovette subito industriarsi per guadagnare qualche centesimo: lavorava
come donna delle pulizie lavando gli scalini davanti alle porte delle abitazioni dei bianchi e svolgeva
piccole commissioni. Per queste pretendeva sempre un pagamento, ad eccezione di Alice Dean, che
gestiva un bordello a pochi passi da casa: la ragazzina chiedeva di poter passare alcuni minuti in
salotto ad ascoltare i dischi di Bessie Smith e Louis Armstrong (questi ascolti saranno determinanti
per lo sviluppo del suo stile). Un giorno, avendo disperatamente bisogno di denaro, non trovò di
meglio che offrirsi come ballerina al gestore di un locale di Harlem, il Pod's & Jerry; bocciata come
ballerina, fu successivamente invitata a cantare e ovviamente venne ingaggiata. Lì Billie Holiday (il
nome d'arte se l'era trovato da sè aggiungendo al cognome del padre il nome della sua attrice favorita,
Billie Dove) si conquistò una discreta popolarità presso la gente ricca di Park Avenue, e potè anche
essere ascoltata dalle persone che più contavano nel piccolo mondo del jazz: John Hammond, Benny
Goodman e Joe Glaser. Quest'ultimo le offrì i suoi servigi come manager e Hammond e Goodman le
fecero incidere il primo disco.
I primi dischi felicemente riusciti furono registrati nel 1935 con l'accompagnamento di un
complessino riunito da Teddy Wilson, che sarebbe stato il suo ineguagliabile partner per alcuni
anni. Molti di quei dischi ebbero molto successo e contribuirono a far riempire i locali di Harlem e
della 52a strada in cui la cantante si esibiva normalmente in quel periodo. Nel 1938 Billie ebbe una
lunga esperienza con una grande orchestra, quella di Artie Shaw, in quel periodo sulla cresta
dell'onda. Ma era un'orchestra bianca, e lei era nera, e il pubblico, a certe convivenze, non aveva
ancora fatto l'abitudine. Nonostante l'appoggio e l'incoraggiamento di Shaw lasciò la formazione,
esasperata dalle misure discriminatorie a cui era continuamente sottoposta. A complicare la sua
esistenza, inoltre, c'era, sempre più esigente e tiranna, l'eroina, di cui era succube da qualche anno.
"Non tardai molto a diventare una schiava tra le meglio pagate" ha scritto Billie parlando del suo
sciagurato vizio "Prendevo anche mille dollari a settimana, ma quanto a libertà non ne avevo più di
quanto ne potesse avere il più pidocchioso bracciante della Virginia, cento anni fa". A
Philadelphia, nel 1947, fu arrestata e condannata ad un anno di reclusione, uscì nel 1948. Subito
dopo il suo ritorno a New York, gli amici organizzarono per lei un concerto alla Carnegie Hall che
ebbe un grande successo; nessuno però potè procurarle delle scritture nei locali cittadini in quanto la
polizia le aveva ritirato la 'cabaret card', indispensabile per potersi esibire nei locali in cui fossero
venduti alcolici. Per alcuni anni dovette quindi limitarsi ad esibirsi in teatro, in televisione ed alla
radio o nei locali notturni di altre città, e ad incidere dischi. Dopo un'altra, grave, disavventura
giudiziaria nel 1949 l'aiutò a risalire la china, più di ogni altro, Norman Granz, che le fece incidere
numerosi dischi per la sua etichetta. All'inizio del 1954 anche Leonard Feather le diede una grossa
mano organizzando per lei una tournèe europea che fu un seguito di grossi successi. Un nuovo giro
di concerti in Europa, nel 1958, non fu fortunato come il primo: la sua voce aveva perso il timbro di
un tempo e una prestazione mediocre era sempre possibile, per le sue precarie condizioni di salute.
A Milano, dove avrebbe dovuto esibirsi per alcuni giorni, fu protestata nel corso della sua prima,
infelice, performance; che potesse ancora dimostrarsi all'altezza della sua fama si vide solo qualche
giorno dopo, quando alcuni appassionati milanesi organizzarono per lei un recital riparatorio al
Gerolamo. Come donna, però, Billie Holiday aveva i mesi contati e nessuno si meravigliò quando i
giornali di tutto il mondo riportarono la notizia della sua morte, avvenuta a New York il 17 luglio
1959 a causa di un’insufficienza cardiaca dovuta ad un edema polmonare. Tutte le riviste
specializzate pubblicarono allora lunghi articoli su di lei: fù rievocata la sua vicenda umana ma
soprattutto si parlò della sua arte, delle sue incisioni, del suo inimitabile modo di cantare, di una
delle "grandi" del canto jazz, forse la più grande dopo Bessie Smith. Tra le canzoni più famose del
repertorio di Billie Holiday vanno ricordate God Bless the Child (composta da lei stessa), Lover
Man del 1945 premiata Grammy Hall of Fame Award 1989, I Loves You Porgy e The Man I Love di
George Gershwin, Billie's Blues, Fine and Mellow, Stormy Weather, Strange Fruit. Quest'ultima
canzone fu negli anni quaranta l'inno della protesta per i diritti civili:

2. Strange Fruit

Strange Fruit, scritta da Abel Meeropol, un insegnante di scuola, ebreo comunista, è considerata la
prima, significativa denuncia musicale contro i linciaggi razziali nel Sud degli Stati Uniti. La canzone
raggiunse il successo grazie all’intensa interpretazione di Billie, accompagnata da forti polemiche. Il
testo narra di “uno strano frutto” che pende da un albero seminando macchie di sangue: quel frutto
altro non è che un uomo di colore ucciso dai bianchi, solo per la sua diversa pigmentazione. Grazie a
lei, Strange Fruit non è stata mai dimenticata e ha continuato a influenzare musicisti, artisti e
intellettuali. Ne sono state fatte diverse versioni, da Nina Simone, Tori Amos, Sting e Cassandra
Wilson, tutte importanti e coinvolgenti, ma nessuna suggestiva e coraggiosa come quella eseguita da
Lady Day.

Gli alberi del Sud producono uno strano frutto, / sangue sulle foglie e sangue alle radici, / un corpo
nero che ondeggia nella brezza del Sud, / uno strano frutto che pende dai pioppi. / Una scena
pastorale nel valoroso Sud, / gli occhi sporgenti e la bocca storta, / profumo di magnolia dolce e
fresco, / e d’improvviso l’odore della carne che brucia. / Qui c’è un frutto che i corvi possono
beccare, / che la pioggia inzuppa, che il vento sfianca, / che il sole marcisce, che l’albero lascia
cadere, / qui c’è uno strano e amaro raccolto.

Era la stessa Billie Holiday ad affermare, dopo ogni performance, che non esisteva niente altro che
potesse venire dopo questa canzone. Fu un testo che ebbe un impatto incredibile: era un’America che
faceva i sit-in contro la guerra e si mobilitava in concerti e poesia. Nasceva il grande movimento per
i diritti civili. Per la prima volta cambiò il codice di comunicazione e il jazz compì un salto di qualità
in questo senso: da un linguaggio metaforico e talvolta allusivo di protesta, passò all’esplicita
denuncia e rivendicazione. Leonard Feather definì Strange Fruit, interpretata da Billie, la prima
invocazione gridata contro il razzismo.
3. Stile vocale

La Holiday diceva sempre ai musicisti che si esibivano con lei: “Sappiate che questa mia vecchia
voce non può salire o scendere più di tanto. È una voce irregolare. La mia voce è un casino. Chi suona
con me deve sapere bene quello che fa.” Parte
della difficoltà nel descrivere la voce di Billie è dovuta al fatto che ne aveva più di una. Sul registro
alto aveva un suono nasale ma ben pulito; sul registro medio la voce era nitida; sul registro basso i
toni erano ruvidi, grintosi, a tratti ricordavano un ringhio. La sua voce d’angelo celava in realtà un
diavolo che la divorava da dentro, insieme a tutti i suoi demoni personali. Essa esprimeva
contemporaneamente sia la sofferenza che la voglia di riscatto, per via delle varie prove che la vita le
aveva sottoposto durante il suo cammino fin dall’infanzia e per il suo desiderio di essere davvero
amata in tutta la sua interezza e fragilità. È quasi un luogo comune affermare che Billie Holiday sia
stata la maggior cantante della storia del jazz. Più difficile è spiegare in cosa consiste questo primato.
Benché non abbia mai fatto ricorso allo scat, la logica del suo canto era sempre strettamente
strumentale; gli stessi musicisti la consideravano una di loro, le sue interpretazioni si muovevano
come un assolo fra gli altri. Inoltre la Holiday aveva un innato senso dell’improvvisazione; Il suo
segreto era stato rivelato da lei stessa quando aveva detto: "Io non mi figuro di cantare. Io mi sento
come se suonassi uno strumento a fiato. Cerco di improvvisare come Lester Young, come Louis
Armstrong, o qualcun'altro che ammiro. Quello che esce fuori è ciò che sento. Non mi va di cantare
una canzone così com'è. Devo cambiarla alla mia maniera. È tutto quello che so.". In verità, fra tutte
le cantanti di jazz, la Holiday fu quella che elaborò più profondamente e spesso più audacemente il
materiale musicale che le veniva sottoposto, dimostrando di possedere forza creativa e risorse di
mestiere di un grande solista improvvisatore. Il suo modo di elaborare le frasi, che ha sempre evitato
le soluzioni ovvie per cercare il massimo dell'espressività, ha subito una notevole evoluzione col
passare degli anni, divenendo poco a poco sempre più complesso, talvolta un abbastanza stravagante.
Allo stesso tempo si è progressivamente modificata, in dipendenza della vita disordinata da lei
condotta, la qualità della sua voce, all'inizio metallica, fredda, pungente, ma a suo modo limpida, e
più tardi acre, urtante, a volte miagolante. Nelle incisioni più recenti Billie Holiday cerca di forzare i
ristretti limiti dell'estensione e del volume della sua voce soprattutto nel registro basso, in cui si
arrochisce raggiungendo addirittura effetti di growl. Il suo fraseggio si fa di conseguenza più tortuoso,
espressionistico quasi, non di rado artificioso. Billie Holiday ha inciso copiosamente nella sua
carriera, e ha ripetuto più volte, anche su disco, certi suoi cavalli di battaglia. Si possono citare "What
a little moonlight can do", "Solitude", "A sailboat in the moolight", "God bless the child", "Glommy
sunday", "Am I blue", "All of me", "You go to my head". "Strange fruit". I blues sono rari nel suo
repertorio, fra questi sono "Fine and mellow", "Rocky mountain blues" e"Billie's blues", il più noto
di tutti. Non sono blues che sanno di campagna, (come quelli di Ma’ Rainey) non fanno pensare al
Sud; sono dei blues di città e rivelano la profonda comprensione di Billie Holiday per la più autentica
musica del ghetto nero. Il fatto è che Billie aveva, come tanti neri americani, il blues nel profondo del
cuore. Non per nulla il film che alcuni anni dopo la sua morte fu dedicato alla sua tribolata esistenza
fu intitolato "Lady sings the blues", la signora canta i blues. Bastano in fondo pochi secondi di «The
Man I Love», «Strange Fruit», «All of Me» per sentire, al di là del testo, l’intera esperienza di una
vita (dolore, speranza, coraggio, sfrontatezza, paura, una particolare idea di mondo) passata per il
corpo, e restituita agli uomini attraverso quel prodigioso prodotto intangibile della materia che è la
voce umana.

4. Influenze

La Holiday sfruttò molto l’occasione di poter ascoltare i dischi di Bessie Smith e Louis Armstrong e
apprendere molto da questi. Mentre la gran parte dei cantanti coloriva la voce con un vibrato alquanto
pesante, Billie lo sfruttava in modo molto più economico, per sottolineare le parti più drammatiche
del brano. Solitamente ne faceva un uso parsimonioso, senza mai eccedere, almeno prima di arrivare
agli ultimi anni, quando, a causa dell’abuso di droga, certe sue esecuzioni erano più abbellimento che
sostanza. L’aspetto più significativo dello stile della Holiday era fondamentalmente basato sulla
rielaborazione della melodia, con variazioni tematiche che conteneva sempre in un range vocale
medio-grave, libera da esagerazioni e ornamenti. Lady D. apprese queste tecniche dalla grande
imperatrice del Blues, Bessie Smith per poi assimilarle e rielaborarle in uno stile tutto personale.
Anche la Smith aveva un’estensione abbastanza ridotta ma era una maestra nell’intonare blues interi
in un ambito di quinta senza farli risultare troppo monotoni; riduceva intere frasi a uno o due suoni
bilanciandoli e variandoli con il ritmo e le inflessioni, talvolta arrivando anche a recitarli. Billie
Holiday riprese molto da questo stile semplice, vigoroso ed economico; la differenza la si trova nel
fatto che mentre gli effetti di Bessie risultavano estremamente tragici, lamentosi, gravi e gementi,
quelli di Billie si riscoprivano sorprendentemente agili e per nulla tragici. Bessie era l’imperatrice del
blues, tutto ciò che cantava erano i suoi blues a tempo lento. Billie non era una cantante di Blues,
come già detto solo raramente affrontò questo genere, ma si può affermare che tutto il suo canto
assume una texture di blues. L’altro modello al quale si si ispirò Billie fu Louis Armstrong. Ciò che
sicuramente riprese dal grande trombettista fu l’approccio da strumento a fiato, ovvero, la libertà
dell’improvvisazione e il fraseggio tipico degli strumenti. Proprio questo la rendeva ben accetta da
parte di tutti gli strumentisti e le consentiva di inserirsi tra loro senza creare particolari fratture.
Ovviamente non è da meno l’influenza che ne assorbì dal Louis cantante: lo straordinario senso dello
swing, naturale e rilassato, dato principalmente dall’utilizzo della sincope. Verso la fine degli anni
Venti, infatti, Louis Armstrong aveva dato prova di come si potesse liberare il tempo, il metro e la
scansione in un solo colpo, attraverso l’utilizzo della sincope. Un brano esemplare al quale si potrebbe
fare riferimento è lo standard Between the devil and the deep blue sea. Ascoltando la versione di
Satchmo e soprattutto le inflessioni vocali e l’articolazione del testo ritroveremo tutti gli elementi
dello stile di Billie. Le prime sedici battute, infatti, se trasportate un’ottava sopra per voce femminile
e private di qualche glissando richiamano perfettamente il modello di Ladi Day. Billie Holiday fece
tesoro di tutti questi ascolti e imparò bene la lezione: il senso moderno di swing faceva ormai parte
di lei.
Conclusioni personali

In un mondo che dà importanza solo alla musica commerciale stupisce poco il fatto che sia passato
inosservato il centenario della nascita di Billie Holiday (7 aprile 1915). Una voce straordinaria in una
società che non è più in grado più ascoltare. Una voce che ascoltandola una volta sola, ti entra
dentro per sempre. Per me, la più grande cantante jazz della storia. Ella Fitzgerald era straordinaria,
la regina dello scat che volava su vette inarrivabili, Sarah Vaughan era estremamente versatile, con
una estensione vocale notevole, ma Billie era fantastica, la sua voce raccontava il suo mondo. Perché
per me la parola jazz ha il significato di emozione, amore, angoscia, disperazione e Billie
rappresentava tutto questo. La lettura della sua autobiografia mi ha permesso di avvicinarmi ancor di
più al suo mondo, ma per capire il suo mondo occorre soprattutto ascoltare la sua voce.

Alla base questa riflessione vorrei sottolineare un dato ancora più profondo. Tutto ciò che ascoltiamo
nell’arco della nostra esistenza, dal momento in cui arriva al nostro orecchio fino al nostro cervello,
viene assimilato, immagazzinato e spesso rielaborato per altri fini. Anche Billie ha fatto questo: da
semplici ascolti è stata in grado di trasformare tutto il materiale da cui attingeva nello stile che poi
l’ha resa la grande artista che tutti abbiamo conosciuto. Ha preso il meglio di Bessie e Louis e lo ha
cucito, come un vestito, sulla sua voce blu. Ogni singola nota che l’essere umano ascolta, perciò, è
destinata a diventare parte integrante della vita stessa di esso. Dicendo questo, quando in uno standard
jazz ci viene chiesto di provare a improvvisare, ecco che tutte le note di tutti quei brani ascoltati ci
tornano alla memoria, a volte anche in maniera inconscia. Ogni melodia ascoltata si ripropone nella
nostra mente attraverso la memoria musicale e ci permette di percorrere nuove “strade” su giri
armonici nuovi, mai ascoltati prima e che faranno parte del nostro patrimonio musicale interiore.
La scelta di Billie Holiday come argomento per la mia tesina deriva semplicemente da un fattore
affettivo: è stata una delle prime cantanti jazz alla quale ho affidato le mie orecchie, ma anche il mio
cuore. Durante gli anni ho ascoltato altri artisti, meravigliosi e non da meno, ma sono sempre rimasta
legata alla signora del blues per la sua caratteristica di saper raccontare attraverso la sua voce storie,
pensieri, drammi e amori. Una voce che mi ha sempre lasciata con il fiato sospeso e che come ho
detto, non è mai solo una: la sua voce blu, che come il blu riguarda il giorno, ma anche la notte.

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