La Tecnica Del Peso

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La tecnica del peso: la rivoluzione del pianismo

Nel 1885 Ludwig Deppe (1828-1890), compositore, pianista e didatta tedesco, pubblica
l’articolo Armleiden des Klavierspielers (Dolori del braccio dei pianisti), nel quale, accennando
per la prima volta alle proprie nuove teorie basate sull’esperienza su se stesso e
nell’insegnamento, evidenzia le conseguenze e le patologie che potevano essere provocate
dall’irrigidimento del braccio e della mano tipico della tecnica tradizionale prettamente
concentrata sull’aspetto digitale, derivata dalla tecnica clavicembalistica. Il clavicembalo era
infatti uno strumento che non richiedeva, data la sua struttura e la leggerezza dei tasti e delle
corde, l’utilizzo del peso. La letteratura di studio della prima metà dell’Ottocento è colma di
esempi che testimoniano l’idea di una tecnica basata unicamente sull’articolazione, ridotta
quindi al meccanismo, all’azione delle dita, che abbia come obiettivo quello di renderle agili,
indipendenti, uguali nella forza. Molto spesso tutto questo tipo di lavoro era riservato alla mano
destra, e alla sinistra era lasciato un ruolo di accompagnamento e sostegno armonico. Gli
innumerevoli studi di Carl Czerny (1791-1857, pianista, allievo prediletto di Beethoven e
instancabile insegnante e compositore), benché validissimi per gli aspiranti pianisti sotto molti
aspetti, sono un chiaro esempio di tutto questo, poiché pensati per il fine di raggiungere l’abilità
digitale, primo oggetto di attenzione del didatta.
Un baluardo della tecnica digitale tradizionale era costituito dal Metodo per pianoforte di
Sigmund Lebert (1821-1884) e Ludwig Stark (1831-1884), professori del Conservatorio di
Stoccarda, fondato dallo stesso Lebert. Il Metodo fu pubblicato nel 1858 a Stoccarda sotto il
nome di Grosse theoretisch-praktische Klavierschule (Grande scuola teorico-pratica per il
Pianoforte) ed escludeva totalmente dall’azione tecnica il peso del braccio e dell’avambraccio,
men che meno quello delle spalle e della schiena.
La grande Clara Schumann (1819-1896), titolare della cattedra di pianoforte all’Hochschule für
Musik di Francoforte sul Meno tra il 1878 e il 1893, era di ben altro avviso: reputando
totalmente inadeguati i metodi del Conservatorio di Stoccarda, non mancava di rifiutare
aspiranti allievi provenienti da questa scuola pianistica. Soltanto Olga von Radecki (1858-1833)
e Mary Wurm (1860-1938), che provenivano da Stoccarda, riuscirono a superare la sua severa
selezione, ma dovettero impegnarsi a rivoluzionare in maniera radicale il proprio approccio
tecnico al pianoforte.
Nella scuola pianistica di Clara Schumann, il braccio doveva essere completamente libero, il
polso doveva essere elastico e rilassato, così come le articolazioni delle dita. Nulla doveva essere
sottoposto a sforzo e la potenza del suono veniva generata dal peso di schiena e spalle. Le dita,
da parte loro, dovevano raggiungere un’estrema sensibilità nelle punte per controllare al
meglio il tocco, sempre espressivo. Certamente la padronanza delle dita non era trascurata, ma
sarebbe stata inutile senza una consapevolezza del gesto, votato alla pressione più che alla
percussione. Il gesto era sempre collegato al pensiero musicale: fondamentale era mettere a
fuoco la qualità emotiva e spirituale dell’idea musicale. Per raggiungere questi obiettivi, la
tecnica non era sufficiente. Necessario era lo spirito autocritico e l’ascolto: l’ascolto di grandi
interpreti, l’ascolto dell’insegnante, degli altri compagni, della volontà del compositore, sempre
tenuta in massimo conto (non erano ammessi esibizionismo, vezzi o cambiamenti) e di se stessi,
in una continua auto-analisi del tocco e del suono prodotto. Citare fonte
Ascoltando Natalie Janotha, grande allieva di Clara Schumann, Mary Wurm (come scrive nelle
sua memoria nel numero 23 del 1919 della rivista “Neue Musik-Zeitung”, che celebra il
centenario della nascita di Clara Schumann) si era resa conto che le mancava proprio questo: di
preparazione tecnica, che a Stoccarda presso il professor Lebert contava più di tutto, non era
sprovvista, ma “mi mancava qualcosa che non riuscivo a definire. Con la Janotha tutto era Musica,
con me tutto sembrava solo un esercizio per le dita”.
E tale è la rivoluzione che compirà, guidata da Clara Schumann, nella propria tecnica pianistica,
che sarà molto colpita dall’opera di Elisabeth Caland, allieva di Ludwig Deppe, autrice del
Metodo Deppe-Caland, al punto da dedicarle lo Studio n. 3 op. 51 per la mano sinistra e da
pubblicare gli Esercizi preparatori al metodo Deppe-Caland. Lo Studio, facente parte della
raccolta di Studi per sola mano sinistra op. 51, pubblicata per la prima volta a Lipsia nel 1911,
reca il titolo di Idylle ed è un Andantino dolce ed espressivo che richiede senza dubbio, dato la
presenza di doppie note e data la necessità di timbrare la melodia in maniera quanto più
espressiva, un’ottima padronanza dell’uso del braccio e del peso; in mancanza di essa, se il peso
non sarà sostenuto e condotto nel modo giusto, il suono risulterà disuguale e duro.

L’obiettivo di Mary Wurm nel momento in cui scrive gli Esercizi preparatori al Metodo Deppe-
Caland, opera pubblicata nel 1914, è quello di offrire una vera e propria introduzione al metodo,
in quanto ritiene che esso sia rivolto ad aspiranti pianisti di livello medio. Colma quindi questo
vuoto partendo dalle basi, dedicando gli Esercizi agli allievi più piccoli ma anche ai principianti
adulti. Nella prefazione, non manca di ribadire che è assolutamente necessario affiancare alla
tecnica lo studio dei brani di letteratura pianistica, perché fondamentale è sviluppare sin dal
principio il gusto e il buon orecchio musicale. Nell’insegnamento di Caland non può esistere
vera musica se non accompagnato da un bel gesto: non esistono duri lanci e colpi, ma si cerca
un suono caldo, pieno di sentimento. Wurm mette in evidenza che la tecnica di Caland può
permettere a tutti, nonostante le differenze fisiche, di ottenere un suono fine e delicato o al
contrario potente.
Dopo la prefazione dell’autrice, sono riportate una serie di attestazioni cliniche scritte da medici
di tutto il mondo, che testimoniano la validità scientifica e l’importanza della nuova tecnica. Di
seguito, ne sono riportate due in traduzione:
“Avendo avuto il privilegio di una dimostrazione del Metodo Caland grazie a Miss Mary Wurm
che mi ha gentilmente concesso di esaminare l’azione muscolare mentre era al pianoforte,
posso pienamente apprezzare le parole del Prof. R. Du Bois Reymond (aggiungere una nota?)
“il movimento di abbassare le scapole provoca un particolare controllo sulla coordinazione dei
gruppi di muscoli usati, che è nuovo e stupefacente per i fisiologi. Spero che questo nuovo
metodo scientifico venga introdotto in America e elimini i pericoli di suonare il pianoforte per
i bambini più piccoli”.
Philadelphia, (Pennsylvania) 29 luglio 1912.
Clara Marshall, Preside del Woman’s Medical College della Pensylvania.
“Mi reca grande piacere aggiungere la mia testimonianza a favore del Metodo Caland. Ho
esaminato Miss Mary Wurm mentre era al pianoforte e ho trovato che si richiede la
partecipazione dei muscoli della schiena in un modo utile per prevenire la scoliosi durante
l’infanzia, quando i bambini sono così inclini a dipendere dalla forza delle braccia e a pendere
da un lato all’altro. Sarei lieta di avere questo sistema introdotto nel mio paese”.
Los Angeles, California, 18 luglio 1912.
Elizabeth Kearney, M. D. Arztin.

L’opera di Mary Wurm inizia, dopo le nozioni preliminari di teoria musicali e di posizione della
mano e al pianoforte, con la caduta libera (freier fall), punto di partenza della nuova tecnica,
fondamentale per poter acquisire consapevolezza del peso, imparare a rilassare le braccia,
abbassare le scapole e sostenere il peso. Inizialmente, tutto viene fatto a mani separate, poi si
passa ad esercizi a mani unite in cui però si utilizzano le stesse dita per entrambe le mani. Di
seguito, si inizia subito con piccoli pezzi: melodie popolari, composizioni dell’autrice, e brani
tratti da altri autori, soprattutto della tradizione tedesca; non mancano Bach, Haydn, Mozart,
Beethoven, Czerny, Hummel e, ovviamente, Schumann, di cui la Wurm riporta alcuni brani
dell’Album per la gioventù op. 68, Soldatemarsch, Knecht Ruprecht e Kleine Studie. Colpisce il
fatto che quasi tutti i brani rechino un titolo specifico (relativo a una situazione, a un’immagine
o al genere del pezzo) e colpisce la ricchezza di segni di espressione: legature di portamento,
accenti, dinamica sin da subito presente, indicazioni scritte a parole. L’allievo viene abituato fin
dal principio a tradurre il segno in gesto al servizio della musica. Mary Wurm, ponendosi quindi
contro le tendenze predominanti di un pianismo finalizzato alla bravura, allo sfoggio, al
virtuosismo fine a se stesso, focalizza la necessità di una idea di tecnica che abbia come unico
obiettivo la musica, affermando che i pianisti del suo tempo sono capaci di raggiungere velocità
vertiginose ma non sono in grado di eseguire un legato degno di essere chiamato tale.
Finalità, queste, che corrispondono fortemente agli ideali di Elisabeth Caland che nel 1897
aveva pubblicato a Stoccarda Die Deppe'sche Lehre des Klavierspiels (L’insegnamento di Deppe
sul Pianoforte). Di seguito viene riportata in traduzione italiana la prefazione dell’opera
suddetta, chiaro manifesto della nuova tecnica.
“Suonare buona musica e allo stesso tempo studiare il pianoforte molto male, questo è il
destino della maggior parte dei pianisti.” Così scrisse Frederick Wieck, pedagogo del
pianoforte, nel suo piccolo volume intitolato “Piano e Canto”; e la sua sagace
osservazione ha perso poco della sua verità o forza col passare degli anni. Che abbia il
suo peso anche adesso non può essere contraddetto, alla luce del troppo prevalente
virtuosismo, che, ponendo la tecnica come oggetto principale, rimuove effettivamente
da essa il suo vero scopo di essere al servizio dell’arte. La maggioranza dei pianisti
moderni concentra la propria attenzione in larga misura sui mezzi esteriori
dell’esecuzione, da cui il risultato è che la rapidità, la bravura, la brillantezza e lo sfoggio
sono stati sviluppati ed elaborati fino a un grado straordinario. D’altra parte, la
coltivazione di uno stile accorto, sincero, riflessivo - essenziale se uno vuole rendere le
immortali opere degli antichi maestri nella loro originale integrità e purezza – ha
sofferto per la conseguente trascuratezza. Questo stato di cose porta alla mente un
motto di Hans von Bulow, citato da Pfeiffer: “Mozart è così difficile; verrà un tempo –
forse molto presto – in cui una sonata di Mozart avrà più favore in concerto del Rigoletto
di Liszt”. E quindi è accaduto che molti pianisti, che possono fare sfoggio dei più difficili
pezzi da concerto con facilità, sono ancora privi dell’abilità di ottenere dai tasti un
semplice e perfetto legato. Questo fatto ha un’ulteriore importanza quando allo stesso
tempo viene tenuto a mente il fatto che il pianoforte, per ragione del suo presento stato
di perfezione in quanto a calibro e caratteristiche, può giustamente reclamare dal
pianista le più fini gradazioni di tocco, e la massima delicatezza di manipolazione
concepibile. Quest’opinione è anche avanzata da Klose, nella sua breve opera,
“L’insegnamento di Deppe”.
Ma riguardo la vera materia della produzione del suono, non esiste, strano a dirsi,
nessuna unità di metodo. Prova di ciò, se serve una prova, è ampiamente offerta da uno
sguardo alle teorie, molto divergenti, portate avanti da diversi conservatori e scuole di
musica, una diversità che chiaramente dimostra che, riguardo quest’importante fattore
dello studio del pianoforte, “la discordia regna sovrana”. Una spiegazione di questa
circostanza può, forse, essere trovata nella fondamentale differenza nella costruzione
che separa il pianoforte da archi e fiati, come anche dalla voce umana. Un cantante, o un
musicista sulla maggior parte degli strumenti dell’orchestra, non trova i suoni già pronti
per lui, ma deve imparare come trovarli e come produrli da sé. Ma quando si passa al
pianoforte, ci sono i tasti già pronti per la mano, e un suono di qualche sorta si può avere,
con fallace facilità, attraverso la mera spinta di un tasto. E questa caratteristica unica del
pianoforte è stata precisamente ciò che l’acuto musicista di esperienza, Deppe, aveva in
mente quando affermò: “Per suonare il pianoforte rimane sempre qualcosa in più che
deve essere fatto”. Ed è la stessa caratteristica che, in un certo senso, rende il pianoforte,
più adatto di qualsiasi altro strumento allo scopo di formare un artista.
Ludwig Deppe nacque il 7 novembre 1828 ad Alverdissen Lippe-Detmold, Germania.
Cresciuto in povertà, fu costretto a formare la propria carriera artistica con fatica e
dolori. Che i suoi sforzi non furono lasciati senza successo, è sufficientemente indicato
dal fatto che le sue composizioni (Sinfonia in fa maggiore, Ouverture a Zriny, Overture a
Don Carlos) furono accolti con molta approvazione in varie città. La città di Amburgo
vide l’inizio della sua carriera artistica e fu lì che diede le sue prime lezioni di musica.
Nel 1862 fondò la Vocal Academy, che gestì fino al 1866. Come musicista distinto e
maestro d’orchestra, diresse il Silesian Musical Festivals magistralmente.
Successivamente, trasferitosi a Berlino, continuò a elaborare il sistema di tecnica
pianistica che aveva formulato e si impegnò con tutta l’intensità del suo carattere a
diffonderlo.
Nel 1887 venne il suo impiego come Royal Capellmeister, e diresse la Royal Opera nei
due anni seguenti. Accettò questa posizione per “aiutare il Conte Hochberg nel
raggiungere i suoi voleri personali e progetti artistici”. Ciononostante, benché le varie e
onerose richieste di tempo e di energia, la sua “passione” nell’impartire vere istruzioni
su come suonare il pianoforte non conobbe nemmeno la più leggera diminuzione. I suoi
allievi, permeati dagli alti ideali del loro maestro, e animati da un desiderio di aiutarlo
nella realizzazione di essi, seguirono i suoi insegnamenti con la più onesta fedeltà.
Il 5 settembre 1890 Deppe morì. La sua dipartita relativamente precoce fu un duro colpo
per i suoi allievi, che avevano accarezzato la speranza di ricevere, attraverso i lunghi
anni a venire, gli insegnamenti di grande ispirazione di un uomo che aveva rivelato a
loro le altezze e le profondità della scienza musicale, delle quali nemmeno
immaginavano.
Un breve articolo, relativo alla teoria di Deppe sulla produzione del suono, fu pubblicato
nel 1885, sotto il titolo Affezioni del braccio nei pianisti. L’autore qui annuncia la sua
intenzione di pubblicare i suoi studi sul pianoforte in una più grande opera; e aggiunge,
“a parte qualche esercizio per le dita, spero di aver dato vari movimenti per rafforzare
la spalla e i muscoli del braccio, i cui movimenti devono avere uno speciale riferimento
all’anatomia della parte superiore del corpo.” È probabile che le descrizioni dettagliate
e più chiare spiegazioni così indispensabili in un trattato stampato – ma non richieste
nello stesso grado nelle istruzioni orali - possano essere sembrate un incarico troppo
arido e tedioso. Ad ogni modo, il progetto non fu mai compiuto, ma lui stesso mi mostrò
i materiali pronti per esso.
Quando si ascoltano suonare grandi artisti, siamo rapiti dai loro unici e meravigliosi
talenti mentre allo stesso tempo, riceviamo piacere dalla naturale grazia e semplicità con
cui essi eseguono i più difficili passaggi. Da queste premesse Deppe affermò che, se certe
leggi sostanti questa bellezza dell’esecuzione potessero essere scoperte e sistematizzate,
allora i musicisti meno favoriti, con ordinari, normali talenti, avrebbero potuto almeno
sperare di ottenere la produzione di un suono bellissimo, e di una interpretazione
artistica di una composizione – anche se i risultati così raggiunti, naturalmente, non
raggiungono quelli che arrivano dall’intuizione del genio.
Cercare queste leggi, quindi, fu il compito che Deppe si diede. Osservando da vicino i
grandi pianisti del suo tempo, arrivò alla seguente conclusione: i suoni prodotti in
accordo con certe esatte leggi della bellezza devono essere necessariamente essi stessi
belli. Disse: “i mortali dotati suonano per grazia di Dio; nondimeno, chiunque può, grazie
al mio sistema, acquisire una maestria della tecnica”.
Deppe fu molto insistente nel desiderio che rendessi permanente il suo sistema,
scrivendo riguardo questo. Fu mio desiderio, ordinare e completare i suoi appunti e
annotazioni immediatamente dopo la sua morte; la pressione delle circostanze,
comunque, ha ritardato la realizzazione dei miei intenti finora, circa sette anni dopo. E
se, in virtù della venerazione che custodisco per il maestro, la mia penna priva di
esperienza riesca almeno a suggerire l’ideale di Deppe, il mio scopo sarà pienamente
raggiunto.
Prima di concludere questa introduzione, desidero riconoscere il mio debito verso due
allievi di Deppe: Anna Clark Steinger e suo marito Frederick Clark, che in una serie di
dodici lezioni preparatorie, mi hanno dato una chiara idea dei principi di Deppe.
Nel Metodo di Deppe sul suonare il pianoforte sono comprese le idee di un grande
artista, un uomo che ha dedicato la sua intera vita allo scopo di raggiungere la
realizzazione dei suoi ideali. Sereno verso l’ostile criticismo, instancabile nella sua
guerra incessante verso l’incredulità, non cessò mai la sua battaglia, essendo sempre
sostenuto dalla sua ferma convinzione che la verità e la giustizia devono prima o poi
avere la meglio. Nelle parole di Joh. Von Mueller, “sebbene ci siano tempi in cui il vero e
il buono si incontrano senza risposta, sempre ciò che è eterno troverà il suo tempo”.
Elisabeth Caland
Wiesbaden, Maggio 1897
Uno dei motti di Deppe era “Se appare aggraziato, allora è giusto”. Questa massima esprime uno
dei principi basilari della sua tecnica: è necessario eliminare tutti i movimenti inutili, che
rendono l’atto del suonare disarmonico, hanno un’influenza disgregante sull’intera
composizione e che costituiscono un dispendio inutile di energie. La bellezza del suono è
collegata strettamente alla bellezza del gesto. Il movimento è sempre semplice, economico,
continuo e rotondo, deve disegnare degli archi, non deve essere mai arzigogolato o spezzato,
nemmeno nelle pause. Per questo scopo, la mano deve essere libera, condotta dall’azione della
spalla e del braccio che la supportano. La leggerezza della mano era una delle caratteristiche
degli artisti più ammirati, i quali però a volte non ne avevano coscienza, essendo dotati di un
talento innato.
L’esercizio proposto per acquisire coscienza dell’azione coordinata di schiena, spalla e braccio
e della leggerezza della mano è il seguente: lentamente si alza il braccio senza sollevare la spalla.
Lentamente si incomincia a scendere fino ad arrivare con la punta delle dita sui tasti, senza però
abbassarli. L’attenzione sui muscoli di schiena e spalle deve essere estrema.
Anche l’altezza dello sgabello è un fattore importantissimo: se il livello dei tasti bianchi è
leggermente più alto rispetto al livello del gomito, la cooperazione dei muscoli della parte
superiore del corpo è sicuramente meglio controllata. La sinergia muscolare è requisito
indispensabile per evitare la fatica e ottenere un suono caldo e nobile, che non ferisca mai
l’orecchio come quello prodotto dalla percussione di un dito.
Con la mano sulla tastiera, si comincia poi a far cadere un dito per volta sul tasto in maniera più
libera possibile, di seguito si passa a esercitarsi nel legare due note consecutive. La pratica
attenta consentirà inoltre di raggiungere una sempre maggiore sensibilità nelle punte delle dita,
come avviene per chi suona strumenti ad arco: la connessione con lo strumento sarà quindi più
profonda e i suoni sembreranno tirati fuori dallo strumento attraverso le punte delle dita
dell’interprete.
Deppe parla di “caduta libera controllata”: questo paradosso è finalizzato a evocare la
spontaneità dei movimenti: la discesa della mano o del dito, deve essere così diretta e senza
esitazioni da sembrare una naturale conseguenza della musica, non qualcosa di forzato o
estraneo.

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