Cenni Di Prosodia e Metrica

Scarica in formato pdf o txt
Scarica in formato pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 6

NOZIONI DI PROSODIA E METRICA

DIFFERENZA TRA IL VERSO ITALIANO E IL VERSO LATINO


In poesia il verso italiano ha un ritmo accentuativo, che consiste in un'armonica successione di
sillabe accentate (sillabe toniche di singole parole) e di sillabe non accentate; il verso latino,
invece, si fonda su un ritmo quantitativo, basato su una determinata successione di sillabe
distinte per quantità (sillabe brevi o lunghe).
Inoltre in latino versi di uguale struttura metrica possono avere un numero variabile di sillabe.
Infine la poesia latina utilizza in molti casi la strofa, ma non la rima. Per esempio, Giosue
Carducci (1835-1907), quando in una sua raccolta poetica riprese forme metriche e ritmi
classici, come gli alcaici, i saffici, i giambici, i distici elegiaci, la intitolò significativamente Odi
barbare chiarendone il senso così: «Le intitolai "barbare" perché tali sonerebbero agli orecchi e
al giudizio dei Greci e dei Romani, se bene volute comporre nelle forme metriche della loro
lirica». Infatti, mentre la metrica classica era quantitativa, quella moderna è accentuativa.

La metrica italiana è accentuativa, basata sul ritmo; infatti:

1. si basa sull'alternanza di sillabe accentate (toniche) e sillabe prive di accento (àtone);


2. è isosillabica, ossia prevede un numero fisso di sillabe per ogni tipo di verso (10 per il
decasillabo, 11 per l'endecasillabo, etc.);
3. assegna una posizione costante agli accenti ritmici (ad es., nell'endecasillabo essi
possono trovarsi sulla 4°, 8° e 10° sillaba, oppure sulla 4°, 7° e 10° sillaba, oppure
sulla 6° e 10° sillaba);
4. non altera la pronuncia naturale delle parole (ad es. non potremo mai pronunciare
tavòlo invece di tàvolo);
5. impiega spesso la rima.

La metrica latina e greca, invece, è quantitativa; essa cioè:

1. si basa sul principio musicale della successione di sillabe lunghe e brevi (le prime
vengono "tenute" un tempo doppio delle seconde);
2. non prevede un numero fisso di sillabe (ad es. l'esametro può averne da 12 a 17);
3. non assegna una posizione fissa agli accenti ritmici (detti ictus metrici);
4. può alterare la pronuncia naturale delle parole;
5. non impiega la rima.

E' dunque di fondamentale importanza, per la metrica latina e greca, saper distinguere la
quantità delle sillabe: di questo si occupa la prosodìa.

PROSODIA
Poiché, come s'è visto, il verso latino era fondato sulla quantità, la metrica, ossia la disciplina
che studia la composizione e la struttura dei versi, trova una necessaria premessa nella
prosodia, che costituisce una parte della fonetica e studia la quantità delle sillabe. Come
dottrina sistematica della quantità delle sillabe, la prosodia presenterebbe una notevole
complessità, ma un numero limitato di regole empiriche è sufficiente a metterci in grado di
affrontare la lettura metrica dei versi latini senza un ricorso troppo frequente al vocabolario,
che registra la quantità di tutte le sillabe, eccettuate quelle finali. Ai fini della lettura metrica ci
interessa saper riconoscere la quantità di tutte le sillabe di una parola, mentre nella fonologia
per la collocazione dell'accento l'attenzione era posta solo sulla quantità della penultima sillaba
delle parole trisillabiche o polisillabiche.
La quantità delle sillabe è stabilita secondo le seguenti norme fondamentali:

le sillabe chiuse, cioè terminanti in consonante, sono tutte lunghe, anche se contengono una
vocale breve;

le sillabe aperte, cioè terminanti in vocale, sono lunghe o brevi a seconda che sia lunga o
breve la loro vocale.

Si dice prosodìa il complesso delle regole dell'accentazione e della quantità sillabica delle
parole.

In generale:  

- una sillaba è breve se contiene una vocale breve: si riconosce da quel segno caratteristico,
simile ad una piccola mezzaluna, tracciato sopra di essa nei vocabolari e nelle grammatiche
(ĕ);

- una sillaba è lunga se contiene una vocale lunga o un dittongo: una vocale lunga si
riconosce da quel segno caratteristico, simile ad un trattino, tracciato sopra di essa nei
vocabolari e nelle grammatiche (ē);

- una sillaba si dice ancìpite se la sua quantità è indifferente.

Per riconoscere la quantità delle sillabe esistono alcune regole (ma è di fondamentale
importanza consultare il vocabolario in caso di dubbio):

- legge della penultima (vedi sotto);


- i dittonghi (ae, au, ei, eu, oe, ui) sono lunghi: aequalis, proelium, aurum.
- una vocale breve, quando è seguita da due o più consonanti, viene considerata lunga (si dice
"lunga per posizione"). Questo vale anche per le consonanti "doppie", come la x (che si
pronuncia cs e quindi conta per due) e anche se le due consonanti fanno parte della parola
successiva; Una vocale seguita da un nesso consonantico, eccetto muta(b, c, d, g, p, ph, t, th)
o f + liquida (l, r), o da una consonante composta forma, sempre sillaba lunga (deléctus,
laudabánt). Inoltre, in poesia, la norma ha una maggiore estensione: la sillaba è lunga anche
quando in fine di parola una consonante fa parte della sillaba stessa e la seconda consonante
fa parte della parola successiva: insignem virtute; levat castra.
- Una vocale seguita dal nesso muta+liquida conserva la propria quantità: tenébrae, mátris,
delubrum. Ricorda comunque che in poesia la breve può essere sostituita dalla lunga e si può
pertanto avere sia tenēbrae sia tenĕbrae, sia Mătris sia mātris (sillaba ancipite). Infatti una
vocale seguita da due o più consonanti o dalle consonanti doppie x, z o da i consonantica,
anche se è breve per natura, risulta lunga per posizione: montis, maior, bellum. Tuttavia le
consonanti mute (p, b, ph, t, d, th, c, g, ch) e f, se sono seguite da una liquida (l, r) formano
la cosiddetta posizione debole, ovvero una posizione non sempre sufficiente ad allungare la
vocale breve che eventualmente precede. Questa vocale, che in prosa risulterebbe breve, in
poesia è ancipite ( U ), cioè lunga o breve secondo le esigenze metriche.

- una vocale seguita da un'altra vocale con cui non formi dittongo è considerata breve (vocalis
ante vocalem corripitur); meus, tuus, suus, timeo, sentio.
- positio debilis: la vocale che precede due consonanti delle quali la prima è una muta (b, c, d,
g, p, ph, t, th) o f + una liquida (l, r) è in posizione debole, cioè può essere sia lunga sia
breve;
- unius, istius, ipsius, ullius, totius hanno la I di -IUS lunga;
- I finale è lunga (fanno eccezione nisi, quasi; è ancipite in mihi, tibi, sibi, ubi, ibi);
- O finale è lunga (fanno eccezione ego, duo, modo);
- U finale è lunga;
- as, -os, -es finali sono lunghe;
- is finale è generalmente breve;
- us finale è generalmente breve;
- una parola non monosillaba, che termini in consonante diversa da s, ha l'ultima sillaba
generalmente breve;
- i monosillabi che escono in vocale sono generalmente lunghi
- i monosillabi uscenti in consonante sono generalmente brevi (fanno eccezione i monosillabi
sostantivi o aggettivi come ver, pes etc., che sono lunghi);
- Per quanto riguarda la quantità delle sillabe finali delle parole non monosillabiche, è facile
ricordare che ogni sillaba terminante in consonante, eccetto la s, è breve: orat, timet, rumor,
ancillam, nomen, dicit, dixit. Le sillabe finali uscenti invece in s sono più spesso lunghe quando
hanno le terminazioni -as, -es, -os; più spesso brevi in -is, -us.

- le sillabe che terminano in -c sono lunghe (fa eccezione donec, che ha la -e- breve);
- sono brevi le enclitiche -que, -ve, -ne.
- Una vocale che risulta da contrazione di due precedenti suoni vocalici è lunga: nil da nihil;
cogo da co-ago; nolo da ne-(v)olo.

Le regole per la pronuncia del latino sono tre:

1) "legge della baritonèsi": in latino l'accento non cade mai sull'ultima sillaba: non
esistono quindi parole tronche, tipo "città". C'è qualche eccezione, ma solo apparente:
adhùc, illìc, illùc e parole del genere; ma in realtà si tratta di parole apocopate,
ovvero mutile dell'ultima sillaba (in origine erano adhùce, illìce, illùce);

2) "legge del trisillabismo": in latino l'accento non può mai cadere oltre la terzultima
sillaba: quindi può esserci al massimo una parola sdrucciola, tipo "tàvolo" (ad es.
ìncipit), ma assolutamente non una parola bisdrucciola, tipo "telèfonami";

3) "legge della penultima": nelle parole di tre o più sillabe, si possono verificare due
casi:

a. - la penultima sillaba è lunga: in tal caso l'accento cade su di essa; es.:


vidēre = vidére;
b. - la penultima sillaba è breve: in tal caso l'accento cade sulla sillaba
precedente; es.: legĕre = lègere.
Quando è noto l'accento delle parole di tre o più sillabe, è sempre possibile desumere la
quantità della penultima sillaba: infatti, se l'accento cade sulla penultima, questa è lunga
(insignis, eludo); se l'accento cade sulla terzultima, la penultima è breve (ínfimus, dominus).
PRINCIPI GENERALI DI METRICA LATINA

Si dice PIEDE l'unità di misura metrica, cioè un gruppo di sillabe brevi e lunghe riunite sotto un
ICTUS (= accento ritmico). Nel piede si distinguono: ARSI (parte forte, "in battere", cioè quella
su cui cade l'ictus) e TESI (parte debole, "in levare"). Tale denominazione è alquanto
discutibile e comunque valida solo in relazione alla metrica latina: infatti in quella greca è vero
l'esatto contrario, come del resto è evidente dall'etimologia dei due termini ("arsi", da àiro =
"alzo", è il tempo debole, e "tesi", da tìthemi = "colloco", è il tempo forte). La lettura metrica
di un verso si chiama SCANSIONE.
I piedi principali sono:
 
 = trochèo

 = dàttilo

 = spondèo (può sostituire un dattilo)

 = giambo

 = trìbraco

 = anapesto

Sono ascendenti i piedi che cominciano con una tesi (tempo debole);
sono discendenti i piedi che cominciano con un'arsi (tempo forte).
Si dicono ACATALETTICI i versi che terminano con un piede intero;
si dicono CATALETTICI i versi che hanno l'ultimo piede mancante di una o più sillabe (ad es.
l'esametro dattilico).

All'interno di un verso esistono delle pause ritmiche di lettura:


- la cesura (da caedo = taglio), che spezza un piede (mai una parola);
- la dièresi (dal greco diairèo = separo), che non spezza mai un piede, ma cade sempre alla
fine di esso.
La cesura è detta maschile se si trova dopo una sillaba in arsi, femminile se si trova dopo una
sillaba in tesi.

FENOMENI PARTICOLARI

SINALEFE (meno propriamente ELISIONE): una sillaba finale in vocale o terminante in -m si


fonde con la sillaba iniziale della parola seguente se questa comincia con vocale o con h.
Es.: conticuere omnes = conticueromnes; cuiquam aut = cuiquaut.
AFERESI: si ha la caduta della sillaba iniziale delle forme verbali es o est se queste sono
precedute da parole terminanti in vocale o in -m. 
Es.: tactus aratro est = tactus aratrost.

IATO: si ha quando, per motivi metrici, tra le due vocali che si incontrano non avviene sinalefe.
Es.: pecuri et (Virgilio), dove -i non si elide.

SINCOPE: caduta di una vocale breve all'interno di una parola. 


Es: caldus per calidus.

APOCOPE: caduta della vocale finale. 


Es: nec per neque.
 
SINIZESI: fenomeno che consiste nel considerare unite in una sola sillaba due vocali che
appartengono a due sillabe diverse.
Es.: di-e-i (trisillabo) = di-ei (bisillabo).
 
DIERESI: è l'opposto del precedente: consiste nel considerare separate due vocali che
appartengono a un dittongo. Di solito è segnalata dal simbolo ¨ sopra la seconda vocale del
dittongo.
Es.: au-rum (bisillabo) = a-ü-rum (trisillabo).

SCHEMA DEI PRINCIPALI VERSI

Esametro dattilico catalettico:

Tìtyre, tù patulaè recubàns sub tègmine fàgi

sìlvestrèm tenuì Musàm meditàris avèna.

Schema delle cesure e delle dièresi:

a = semiternaria (o tritemìmera)

b = semiquinaria (o pentemìmera)
c = trocaica o del terzo trocheo (katà trìton trochàion)

d = semisettenaria (o eftemìmera)

e = dièresi bucolica (o femminile).

Esempio:

Tìtyre, tù patulaè || recubàns sub tègmine fàgi

cesura semiquinaria

sìlvestrèm || tenuì Musàm || meditàris avèna.

cesure semiternaria + semisettenaria.

Distico elegiaco (esametro + pentametro):


 

Dìcebàs quondàm | solùm te nòsse Catùllum,

Lèsbia, nèc prae mè | vèlle tenère Iovèm