Educare Oggi e Domani

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SERVIZIO NAZIONALE PER L’INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA

PER L’INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA

Convegno Nazionale
dei direttori e responsabili diocesani e regionali per l’IRC
“A 30 dall’Intesa:
L’IRC nel cammino della Chiesa italiana”

“Educare oggi e domani.


A 50 anni dalla Gravissimum educationis”

S.E. Mons. Angelo Vincenzo ZANI

Rimini, 13-15 aprile 2015


Eccellenza reverendissima, cari Direttori e Responsabili diocesani e regionali
dell’IRC, ho accettato volentieri l’invito rivoltomi da don Daniele Saottini, responsabile
del “Servizio Nazionale per l’Insegnamento della religione cattolica”, a portare il mio
contributo ai lavori di questo vostro importante Convegno, promosso a 30 anni
dall’Intesa.
Porgo anzitutto il cordiale saluto, a titolo personale ed anche a nome della
Congregazione per l’Educazione Cattolica, a Sua Eccellenza Mons. Francesco Lambiasi,
Vescovo di Rimini, ai tanti amici qui presenti, con i quali abbiamo avuto modo di
collaborare a diversi livelli negli anni trascorsi, e a tutti gli incaricati dell’IRC.
Preparare le riflessioni che ora propongo è stato come rivivere gli anni del mio
servizio pastorale, trascorsi tutti nell’ambito della educazione, ma in particolare il tempo
che ho vissuto nella mia diocesi di Brescia, proprio in occasione della Revisione del
Concordato tra Santa Sede e Repubblica Italiana, della firma dell’Intesa e delle
successive tappe; sono stati anni segnati da intenso lavoro, che richiedevano uno sguardo
prospettico e il coraggio di investire con lungimiranza su nuove linee formative e
pastorali.
Anche il periodo trascorso alla CEI, come Direttore dell’Ufficio per l’Educazione,
la scuola e l’università, e quello che sto vivendo ora presso il Dicastero della Santa Sede
sono indirettamente collegati alle tematiche che ci interessano e che hanno come
denominatore comune l’educazione cattolica, intesa come una delle vie per attuare la
nuova evangelizzazione.
Il titolo del mio intervento esprime esattamente lo stretto legame che sussiste tra
l’impegno globale della Chiesa nel campo dell’educazione e il servizio specifico che
all’interno di tale ambito offre l’IRC.
Vorrei partire da una premessa che ci aiuta ad avere più chiaro il quadro di
riferimento nel quale ci muoviamo. Con la Costituzione Apostolica Regimini Ecclesiae
universae del 1967, con la quale Paolo VI attuò la riforma della Curia Romana, il nostro
Dicastero cambiò denominazione: da Congregazione per i Seminari a Congregazione per
l’Educazione Cattolica. Insieme alla competenza dei Seminari e degli studi accademici
ecclesiastici le venne affidata anche la competenza delle scuole cattoliche e più in
generale dell’educazione cattolica. E’ in questo contesto generale che si colloca
l’attenzione per l’insegnamento della religione cattolica, mentre la competenza circa
l’approvazione dei testi per l’insegnamento della religione cattolica è stata affidata,
insieme a quella riguardante la catechesi, alla Congregazione per il Clero. Ma da quando
Benedetto XVI ha creato il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, questa
competenza è stata trasferita dal Clero al nuovo organismo della Curia Romana.
Vedremo se queste competenze rimarranno così distribuite dopo la riforma della Curia,
tuttora in corso, oppure se subiranno nuovi trasferimenti. Le questioni giuridico-
normative più specifiche dell’IRC sono sotto la responsabilità delle Conferenze
Episcopali locali.
Fatta questa premessa, vorrei proporre le mie considerazione su tre punti:
ricordare l’importanza della Dichiarazione Gravissimum educationis, a 50 dal Concilio;
soffermarmi ad illustrare brevemente le diverse modalità con cui si attua l’insegnamento
della religione cattolica, in particolare in Europa; indicare le sfide con le quali si deve
confrontare l’educazione nella prospettiva futura.

1. La Dichiarazione conciliare «Gravissimum educationis»


Lo svolgimento del Concilio (1962-1965) rappresentò un passaggio importante
anche nel campo dell’educazione cristiana. Questo straordinario evento di Chiesa,
proprio in quanto tale, manifestò un intrinseco potenziale educativo racchiuso non solo

2
nei documenti espressamente dedicati alle questioni educative, ma, più ampiamente, nel
corpo globale del Concilio e cioè nell’insieme del suo insegnamento e dello spirito che lo
animò1. Nel discorso di apertura dell’11 ottobre 1962, papa Giovanni XXIII aveva
assegnato ai padri conciliari il compito di compiere un “balzo in avanti verso
l’approfondimento dottrinale e la formazione delle coscienze” in stretta relazione con le
forme del pensiero moderno. Non si trattava, in altre parole, di “rinnovare condanne”, ma
di mostrare a tutti gli uomini la validità dell’annuncio del Cristo. Questo nuovo stile
dialogico con il quale la Chiesa, sempre fedele alla sua Tradizione, porge il messaggio
cristiano al mondo contemporaneo, alla sua cultura e alle sue istituzioni, pervade tutti gli
insegnamenti conciliari.
Il 28 ottobre 1965 veniva votata al Concilio la Dichiarazione sulla educazione
cristiana, più nota con il titolo Gravissimum educationis. Nell’introduzione subito veniva
evidenziato l’intento che essa si prefiggeva, quello cioè di dichiarare alcuni principi
fondamentali intorno all’educazione cristiana, soprattutto nelle scuole.
La Gravissimum educationis (GE) può essere meglio compresa nella sua
peculiarità se messa a confronto con l’Enciclica Divini illius Magistri (DIM) di Pio XI
sulla “Cristiana educazione della gioventù”, pubblicata il 31 dicembre 1929, lo stesso
anno in cui era stato siglato il Concordato tra la Chiesa e l’Italia; si tratta, infatti, dei due
documenti fondamentali del Magistero della Chiesa che, sia pure nella diversità della loro
autorevolezza teologica (Enciclica papale l’uno, documento conciliare l’altro)
costituiscono le fondamenta di ogni progetto educativo cristiano proposto al mondo
contemporaneo. Tra di essi sussiste un rapporto di continuità, ma anche di sviluppo e di
crescita; le risposte che essi offrono ai concreti problemi educativi posti dal loro tempo
sono da leggersi nella prospettiva storica e culturale che ne specifica il significato preciso
e la portata.
L’Enciclica di Pio XI rappresenta il primo documento ufficiale dell’autorità
ecclesiastica sul problema dell’educazione cristiana della gioventù, vista nei suoi principi
di fondo, nei suoi contenuti, nelle sue articolazioni, nei diversi ambiti di competenza:
famiglia, Chiesa, Stato. Essa non è un trattato pedagogico o filosofico sull’educazione in
quanto tale; la sua prospettiva fondamentale è l’educazione cristiana dei giovani in un
contesto storico – siamo appunto all’inizio degli anni Trenta – in cui una delle grandi e
tradizionali istituzioni preposte all’educazione, lo Stato, aveva assunto in taluni paesi,
Italia compresa, forme gravemente prevaricatrici in senso autoritario, assolutista e
antireligioso, contro cui occorreva alzare la voce con coraggio e con forza.
In quello scenario storico e socio-culturale non solo giungeva a conclusione un
lungo processo che aveva gradualmente sottratto alla guida della Chiesa l’istituzione
scuola per affidarla quasi completamente alle mani dello ‘Stato laico’, ma già si profilava
con grande chiarezza la tendenza di taluni Stati a monopolizzare tutta l’educazione della
gioventù. La posizione essenzialmente ‘difensiva’ e di sospetto assunta dall’Enciclica nei
confronti degli Stati monopolizzatori è giustificata dal fatto che, soprattutto in Europa,
essa aveva di fronte non degli Stati democratici, ma Stati totalitari, illiberali, prevaricatori
in senso laicista e antireligioso.
Il passaggio dalla DIM di Pio XI alla Dichiarazione GE del Concilio Vaticano II è
veramente notevole. Vi si respira un’aria nuova. Lo scenario mondiale, in cui il
documento si colloca, è profondamente mutato. Dopo la tragedia della seconda guerra
mondiale, la nuova situazione storica pone, almeno in parte, problemi nuovi e diversi, ed

1
Le questioni educative emerse durante i lavori preparatori e lo svolgimento dei Concilio devono, infatti,
essere lette non solo a partire dalla GE, ma considerando l’interi corpo dei documenti conciliari nei quali
assai numerosi sono gli appelli all’educazione (cf. a questo proposito il prezioso studio di: SINISTRERO V.,
Il Vaticano II e l’educazione, Elle Di Ci, Torino Leumann 1970).
3
esige risposte nuove e diverse. E questo non solo in riferimento alla mutata concezione
dello Stato avvenuta nel frattempo (e cioè il crollo degli Stati totalitari con il passaggio
generalizzato – almeno in occidente – verso forme di Stato democratico), ma anche per
profondi e rapidi mutamenti culturali intervenuti nella società e nelle sue istituzioni. La
Dichiarazione conciliare prende atto della nuova situazione e, superando un
atteggiamento, come ho detto, prevalentemente difensivo quale era sostanzialmente
quello della DIM, assume una posizione meno rigida e intransigente per farsi più
propositiva, di apertura e di dialogo. Questo tratto si fa particolarmente visibile nella
parte della Dichiarazione riguardante l’educazione scolastica2.
La GE considera la DIM come la “Magna Charta” dell’educazione cristiana (basti
pensare che nei 12 brevi paragrafi di cui si compone il documento conciliare, ben 12
sono i richiami alla DIM), ne assume i principi di fondo, applicandoli tuttavia al nuovo
contesto socio-culturale nello spirito che ha animato tutto il Concilio e che ha trovato la
sua espressione più eloquente e significativa nella costituzione pastorale Gaudium et spes
e nella dichiarazione Dignitatis humane.
Anche la GE tratta dell’“educazione cristiana”, e tuttavia lo fa all’interno e in
funzione di una concezione educativa che appartiene a tutti gli uomini e si configura
come un diritto e dovere dell’uomo in quanto tale. Non è senza significato, infatti, che il
primitivo schema preparatorio intitolato ‘De scholis catholicis’ sia stato ben presto
modificato in quello ‘De christiana educatione’, dal respiro più largo; che il documento
sia stato qualificato come ‘dichiarazione’3, testo, quindi, rivolto non solo all’interno della
Chiesa, ma anche al di fuori di essa, a tutti gli uomini di buona volontà; che tutta
l’introduzione del testo sia dedicata alla presa d’atto della “estrema importanza
dell’educazione nella vita dell’uomo”, della sua “incidenza sempre più grande nel
progresso sociale contemporaneo”, del crescente sviluppo nel mondo delle attività, delle
istituzioni, e dei metodi educativi; per concludere con il dovere della Chiesa di
interessarsi del problema educativo, indicando il suo “compito specifico in ordine al
progresso e allo sviluppo della educazione”.
E’ ancora particolarmente significativo che tutto il primo paragrafo sia dedicato
alla solenne affermazione del “diritto inalienabile” di tutti gli uomini, “in forza della loro
dignità di persona”4, ad una educazione che risponda al proprio fine, sviluppi
“armonicamente le loro capacità fisiche, morali ed intellettuali”, e li aiuti a valutare con
retta coscienza i valori morali e religiosi. Solo nel secondo paragrafo il cerchio si
restringe per individuare, nel contesto generale dell’educazione, le specifiche esigenze
della “educazione cristiana”.
Ma anche sull’educazione cristiana, una prima significativa mutazione d’accento
è già dato riscontrare nell’individuazione delle istituzioni a cui spetta il diritto-dovere
educativo.

2
Cf. ROVEA G., «Dalla ‘Divini illius Magistri’ alla ‘Gravissimum educationis’», in Pastorale scolastica –
Notiziario dell’Ufficio Nazionale di Pastorale Scolastica della CEI XV (1990) 119-126.
3
«… l’oggetto della Dichiarazione fu limitato a proporre alcuni principi fondamentali sull’educazione
cristiana, soprattutto nelle scuole, sicché essa non è un testo quale sarebbe una Costituzione, ma soltanto
l’espressione della concezione dei Padri sul gravissimo problema dell’educazione nei suoi più alti
lineamenti; e ciò tanto più perché (…) all’educazione già si riferirono altri testi conciliari specie LG-chiesa,
SC-liturgia, IM-comunicazioni sociali, UR-ecumenismo, AA-apostolato laici, DH-libertà religiosa, GS-
chiesa e mondo» (SINISTRERO V., Il Vaticano II e l’educazione, op. cit., 79).
4
Con forza di persuasione etica e giuridica i Padri conciliari hanno voluto fondare nei bisogni-diritti
dell’uomo fanciullo e giovane il fine e i compiti dell’educazione, sopra e prima di qualsiasi dottrina o
ideologia. La proclamazione dei diritti educativi, con la quale si apre il primo paragrafo della GE,
corrisponde a una costante della Chiesa in materia, riespressa anche dai Papi più prossimi al Concilio e
ampiamente citati nei documenti conciliari: Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII (cf. ivi, 176-177).
4
Nella DIM l’enfasi era data soprattutto alla Chiesa, per un diritto positivo e
soprannaturale; seguiva la famiglia, per diritto naturale di procreazione, ed infine lo
Stato, in ordine al bene comune, sulla base del principio di sussidiarietà.
Nella GE, pur nella stessa prospettiva di diritti-doveri, l’ordine cambia: prima,
viene la famiglia, per il diritto-dovere naturale, primario ed inalienabile della
procreazione; poi, quale aiuto della famiglia, «ci sono determinati diritti e doveri che
spettano alla società civile»; «infine, ad un titolo tutto speciale, il diritto di educare spetta
alla Chiesa», sia «come società umana capace d’impartire l’educazione», sia «soprattutto
perché essa ha il compito di annunciare a tutti gli uomini la via della salvezza» (n. 3).
Per quanto riguarda, invece, il compito dello Stato non si riscontrano, come
formulazione di principio, significative differenze dalla DIM. Suo compito è quello di
favorire l’educazione della gioventù, difendere i diritti e i doveri dei genitori e di quanti
svolgono attività educative, aiutandoli sulla base del principio di sussidiarietà; ma anche
(e questa è una novità) «fondare, ove lo richiede il bene comune, scuole e istituti propri«
(n. 3).
Là dove la GE rompe decisamente gli argini di difesa propri della DIM, è sul
problema della scuola. La Chiesa del Concilio prende atto non solo della enorme
espansione della scuola in tutti i paesi, come istituzione promossa dal potere civile per
garantire a tutti i benefici dell’istruzione, nel quadro di una nuova cultura e di un nuovo
umanesimo (in linea con quanto affermato dalla Gaudium et spes ai nn. 54 e 55); ma
riconosce che la scuola rientra tra «quei mezzi che appartengono al patrimonio comune
degli uomini, e sono particolarmente adatti al perfezionamento morale ed alla formazione
umana» (n. 4); che essa è, dunque, propriamente parlando, una istituzione civile che la
Chiesa è chiamata a “penetrare del suo spirito e ad elevare” e non tanto a gestire
direttamente e in modo quasi esclusivo. E questo riconoscimento avviene con semplicità
ed umiltà, senza rimpianti per un passato glorioso ma ormai tramontato (basti pensare
alla presenza della Chiesa, soprattutto attraverso le Congregazioni religiose, nella scuola
a partire dalla nascita degli Stati moderni); dunque, non si tratta di una rinunzia a
qualcosa di proprio ma di un progresso e di una conquista civile sulla via di un
umanesimo che ha pur sempre le sue radici nel messaggio cristiano.
Va qui sottolineato che questo atteggiamento nei confronti dell’istruzione
pubblica non è casuale, ma si colloca nella linea delle scelte di fondo operate dal
Concilio, che hanno la loro espressione più vistosa ed appariscente nella costituzione
pastorale Gaudium et spes su «la Chiesa nel mondo contemporaneo», nella dichiarazione
Dignitatis humanae su «la libertà religiosa» e nella Nostra aetate su «i rapporti della
Chiesa con le religioni non cristiane».
E’ nella prospettiva della intima solidarietà con l’uomo e la sua storia, e della
centralità della persona umana come fonte di diritti e doveri che si inscrive anche la
concezione più aperta, serena e positiva della GE nei confronti della scuola in quanto
tale, e non solo della scuola cattolica.
La stessa definizione (o descrizione) di scuola, che il testo della GE dà in nome
della ‘sua missione’, cioè della sua intrinseca natura di scuola, è illuminante e
significativa: «Tra gli strumenti educativi un’importanza particolare riveste la scuola, che
in forza della sua missione, mentre con cura costante matura le facoltà intellettuali,
sviluppa la capacità di giudizio, mette a contatto del patrimonio culturale acquistato dalle
passate generazioni, promuove il senso dei valori, prepara la vita professionale, genera
anche un rapporto di amicizia tra alunni di indole e condizione diversa, disponendo e
favorendo la comprensione reciproca. Essa inoltre costituisce come un centro, alla cui
attività, ed al cui progresso devono insieme partecipare le famiglie, gli insegnanti, i vari
tipi di associazioni a finalità culturali, civiche e religiose, la società civile e tutta la

5
comunità umana» (GE n. 5)5. In questa definizione è presente non solo l’idea di
formazione al senso critico accanto al processo di socializzazione, ma anche quella
concezione ‘comunitaria’ della scuola destinata ad anticipare la nuova sensibilità del
nostro tempo.
Non solo, dunque, i docenti cattolici possono prestare la loro azione didattica
anche nella scuola di tutti, apprestata dallo Stato, ma il loro servizio va considerato una
«meravigliosa e davvero importante vocazione» (GE n. 5). Ed è in questa concezione di
scuola che si colloca l’IRC.
Questa mutata prospettiva nei confronti della scuola ‘pubblica’, promossa per tutti
dallo Stato, non esime la Chiesa dal rivendicare il diritto a promuovere ‘scuole
cattoliche’, in cui oltre a «le finalità culturali proprie della scuola, e alla formazione
umana dei giovani», sia possibile «coordinare l’insieme della cultura umana con il
messaggio della salvezza, sicché la conoscenza del mondo, della vita, dell’uomo, che gli
alunni via via acquistano, sia illuminata dalla fede» (GE n. 8).
Sotto questo profilo la GE non teme di affermare senza mezzi termini che la
scuola cattolica «conserva la sua somma importanza anche nelle circostanze presenti» e
di ricordare ai genitori cattolici «l’obbligo di affidare i loro figli alle scuole cattoliche»,
sia pur mitigandolo con il significativo incisivo «secondo le circostanza di tempo e di
luogo».
Analoga sottolineatura viene fatta dalla GE circa le università cattoliche e le
facoltà teologiche, chiamate a promuovere la cultura superiore e a formare gli studenti
affinché essi «diventino uomini veramente insigni per sapere, pronti a svolgere compiti
impegnativi nella società e a testimoniare la loro fede di fronte al mondo» (n. 10)6. Il
richiamo al livello di eccellenza che deve essere garantito dalle istituzioni di studi
superiori riguarda anche gli ISSR che preparano gli insegnanti di religione.
La Congregazione per l’Educazione Cattolica più volte è intervenuta nel periodo
post-conciliare con propri documenti per dare esecuzione alla dichiarazione del Concilio.
Sui problemi della scuola cattolica, vanno ricordati, in particolare: «La Scuola Cattolica»
(1977); «Il laico cattolico testimone della fede nella scuola» (1982); “Orientamenti
educativi sull’amore umano. Lineamenti di educazione sessuale” (1983); «Dimensione
religiosa dell’educazione nella scuola cattolica» (1987); «La scuola cattolica alle soglie
del terzo millennio» (1997); «Le persone consacrate e la loro missione nella scuola»
(2002); “Educare al dialogo interculturale nella scuola cattolica” (2013). Sulle
università sono stati pubblicati due documenti fondamentali: per le università e le facoltà
ecclesiastiche la Costituzione Apostolica «Sapientia christiana» (1979) e per le
università cattoliche la Costituzione Apostolica «Ex corde Ecclesiae» (1990).
Concludendo questo primo punto della riflessione, constatiamo che la GE si
inserisce nel processo di una profonda evoluzione nella concezione della scuola in
generale e di quella cattolica. Tale cambiamento è continuato negli anni fino ai nostri
giorni, a questo tempo caratterizzato da nuove sfide globali e inedite. Pensiamo, ad
esempio, a cosa sta accadendo nel mondo islamico, alla guerra dei fondamentalisti contro
la cultura occidentale e soprattutto contro l’educazione cristiana e contro le minoranze
religiose.

5
Una simile concezione di scuola acquista risalto e viene completata nel confronto con l’indirizzo
internazionale più moderno sui fini, compiti, mezzi organizzativi della scuola, quale emerge dalla
documentazione in materia, e specie dai lavori dell’UNESCO, del BIE, del Conseil de la Coopération
Culturelle del Consiglio d’Europa di quegli anni.
6
I cattolici della Chiesa del Vaticano II, nella comprensione di questi passaggi della GE relativi alla
missione universitaria nel mondo odierno, trovano qui uno dei campi più qualificati in cui immettere la loro
collaborazione allo sforzo, nazionale e internazionale, per la cultura, la tecnologia e il progresso, quali
strumenti per una più genuina giustizia nei popoli, e per una pace più sicura nel mondo (cf. ivi, 749).
6
Le terribili immagini dei bambini uccisi nella scuola di Beslan in Ossezia nel
2004 non sono rimaste purtroppo un caso isolato. Boko Haram, in Africa, che significa
“l’istruzione occidentale è vietata”, continua ad attaccare chiese e scuole e a rapire
studenti. Il tragico massacro della settimana scorsa, al College universitario di Garissa in
Kenya, è l’ultimo episodio di una violenta offensiva che ha di mira scuole e università.
Dinanzi a questi scenari è sempre più urgente investire le migliori energie
nell’educazione per cambiare la società. E, in questo orizzonte, non può mancare
l’informazione e l’educazione religiosa, non tanto intesa come approccio alle varie
religioni, ma soprattutto come conoscenza della religione che caratterizza la propria
storia e cultura di appartenenza con cui potersi identificare e da lì imparare a dialogare
con le altre identità religiose.

2. Le modalità di presenza dei cattolici nel campo dell’educazione e in particolare


dell’educazione religiosa nella scuola, soprattutto in Europa
E’ noto come le chiese cristiane in Europa non abbiano la stessa visione della
scuola pubblica e dell’educazione e adottino strategie educative connotate dalle
particolarità contingenti delle storie nazionali e dei sistemi educativi locali7. Basti
pensare alle chiese protestanti nei paesi del Centro e Nord Europa o agli ortodossi nei
paesi centro-orientali e balcanici o alle richieste da più parti avanzate dagli islamici di
avere un’educazione coranica per i propri figli nella scuola8. Non vogliamo trattare, qui,
delle problematiche di carattere ecumenico (esiste, peraltro, una Charta oecumenica –
firmata a Strasburgo nell’aprile 2001 – che invita i cristiani di ogni confessione a
rinunciare a occupare spazi pubblici come quello della scuola con intenti proselitistici) o
delle questioni riguardanti il dialogo interreligioso. Questi temi si devono, comunque,
confrontare con un contesto nel quale i sistemi formativi europei mostrano sempre più
l’urgenza di un preliminare comune approccio conoscitivo e critico al fatto e alla
dimensione religiosa.
Ci limitiamo a segnalare sinteticamente le diverse modalità con le quali i cattolici
attuano il loro impegno nel promuovere l’educazione religiosa in ambito educativo.
Il rapporto tra scuola e religione è in rapida evoluzione in tutto il continente
europeo. In particolare, va detto che, contrariamente a quanto può supporre un’opinione
pubblica talvolta non bene informata, la cultura religiosa in genere non viene estromessa
dai programmi scolastici, ma assume connotati diversi. Ed anche su questa tematica si
riflettono i cambiamenti sociali e culturali che mutano in continuazione. Cambia la
scuola, sollecitata a formare cittadini di una società europea che ama definirsi
‘conoscitiva’, ‘postcristiana’ e che in ogni caso è diventata multi-culturale. Cambia lo
scenario socio-religioso, sia per il riposizionarsi delle tradizionali confessioni cristiane
nei loro rapporti reciproci e nei rapporti con i rispettivi apparati statali e ora anche con le
strutture dell’Unione europea, sia per l’emergere di nuovi soggetti religiosi a forte
identità sociale, sia per l'espandersi silenzioso della massa dei cosiddetti 'senza-
7
Cf. DAVIE G. – HERVIEU-LEGER D. (edd.), Identités religieuses en Europe, La Découverte, Paris 1996.
8
Mentre nei paesi a maggioranza cattolica si cerca di resistere alla progressiva deconfessionalizzazione del
corso di religione, accettando di offrire un’educazione cattolica come un ‘servizio culturale aperto a tutti’,
le chiese protestanti si adeguano ai valori della laicità secolare e del pluralismo; diverso è l’atteggiamento
delle chiese ortodosse del Centro-Est europeo, che, eredi di una storica tradizione di collateralismo con i
poteri politici dei rispettivi stati, rivendicano in genere dalla scuola un’istruzione religiosa che educhi
insieme il cittadino e il credente. In sostanziale sintonia con questa ultima posizione si troverebbero anche
le organizzazioni islamiche, che da anni premono presso i governi locali occidentali per ottenere un
accesso paritario alle aule scolastiche e assicurare un insegnamento coranico ai propri alunni. Cf. PAJER F.,
«L’istruzione religiosa nei sistemi scolastici europei: verso una funzione etica della religione nella scuola
pubblica», in Seminarium 2 (2002) 401-447.
7
religione’9. In altri termini, stanno sgretolandosi alcuni capisaldi, soprattutto sociali e
giuridici, su cui fino ad oggi si fondava in Europa l’alleanza tra scuola e religione10 ed
emergono esigenze nuove che domandano, comunque, una informazione di carattere
religioso, valoriale e spirituale. Infatti, come si può evincere da alcune ricerche
sociologiche, pure tra enormi differenze nei diversi paesi europei, i giovani si interessano
alla religione, sono avidi di credere, anche se esitanti a vivere una appartenenza religiosa
impegnata11.
In tale contesto, le riforme scolastiche attivate nel corso degli anni recenti in vari
paesi, in ordine al rapporto tra scuola e insegnamento della religione, hanno adottato
sostanzialmente due tipi di soluzione: o l’‘integrazione’ dello studio obbligatorio della
religione nell’organico delle discipline curricolari, in particolare in quei paesi di più
consolidata tradizione democratica, dove la religione accetta di essere trattata alla stregua
degli altri saperi, in coerenza quindi con le finalità e le metodologie proprie
dell’educazione pubblica pluralista; o, invece, l’‘emarginazione’ progressiva della
religione dalle attività scolastiche, o quanto meno il suo declassamento a corso opzionale
o facoltativo.
Nella generalità dei paesi europei, l’istruzione religiosa è una costante quasi
immancabile dei programmi scolastici pubblici e mantiene un suo posto nell’organico
delle attività didattiche delle scuole primarie e secondarie. Dando uno sguardo
all’insieme dei paesi europei si può rilevare una vasta gamma di profili circa
l’insegnamento della religione che, semplificando, si possono accorpare in tre tipologie
di modelli.
Un primo modello è quello dei corsi curricolari sul fatto religioso. Resiste questo
modello di corsi obbligatori o offerti in regime di opzionalità obbligatoria, attuato in
Germania, in Belgio, nel Regno Unito e nei cinque paesi scandinavi; esso ha dalla sua
parte la forza della base legale (cioè la costituzione e/o la legislazione scolastica
unilaterale) e soprattutto il valore di una disciplina culturale integrata tra le altre normali
materie scolastiche12.
Un secondo modello è quello relativo ai corsi confessionali, ma facoltativi, di
religione. Nei paesi a maggioranza cattolica, vige per lo più un insegnamento della
religione garantito da una ‘legislazione concordataria’, sia essa ereditata dal passato (ed è
il caso di Austria, Italia, Malta, Portogallo, Spagna e dei tre dipartimenti francesi
dell’Alto e Basso Reno e della Mosella, ex Alsazia-Lorena), oppure introdotta di recente
come nel caso di vari paesi dell’Europa centro-orientale (Croazia, Lettonia, Lituania,

9
Cf., Ivi, 401.
10
«I sistemi scolastici si stanno mostrando sempre più restii ad appaltare spazi educativi alle
organizzazioni religiose: non tanto per laicismo preconcetto, anche se qua o là esso sopravvive ancora in
forme residuali, quanto per l’obiettiva urgenza pedagogica – proprio del nuovo contesto sociale diventato
diffusamente multietnico nel volgere di una generazione – di tornare a garantire a tutti gli alunni una stessa
base di valori comuni e di comuni conoscenze, incluse quelle relative al fenomeno religioso, condizione
previa per una convivenza democratica e tollerante tra identità diverse. E’ quella che, nel gergo della
letteratura legislativa e pedagogica corrente, non immune da qualche irenismo di maniera, viene detta
educazione alla nuova cittadinanza europea» (Ivi, 402).
11
Cf. JANSEN J., «La religiosità dei giovani d’oggi», in Docete /Quaderni Fidae 20, Roma 2002, 117-130.
12
«Ma neppure questo modello pienamente curricolare è esente oggi da problemi: in alcuni contesti (vedi i
casi del Belgio e della Germania), si sono aperti contenziosi e si sono sperimentate varianti che
destabilizzano gli assetti esistenti. Nell’area scandinava l’insegnamento della religione è stato e continua ad
essere una materia curricolare per la riconosciuta rilevanza della tradizione luterana nella storia e nella
cultura di quei paesi : si sa che la stessa chiesa evangelica-luterana è stata a lungo istituzionalmente legata
allo stato in qualità di ‘confessione ufficiale’ o di ‘chiesa di stato’ (…). Tuttavia l’insegnamento della
religione, che un tempo aveva un carattere marcatamente nazional-confessionale, si è trasformato
progressivamente in un corso aconfessionale di studio del fatto e del pensiero religioso…» (Ivi, 407-408).
8
Polonia, Slovacchia, Ungheria…). Le situazioni nei due gruppi di paesi citati non sono
ovviamente omologabili e vanno lette distintamente13.
Il terzo modello fa riferimento alle forme di catechesi scolastica extra-
curricolare. L’insegnamento della religione, ristabilito nel corso dell’ultimo decennio in
gran parte dei paesi ex-comunisti dell’Est, costituisce per ora un sostanziale ritorno della
‘catechesi confessionale’ (sia cattolica, che protestante o ortodossa) nel quadro orario
della scuola pubblica. Si tratta in genere di corsi facoltativi, affidati a sacerdoti o pastori
o catechisti laici mandati dalle rispettive chiese, che svolgono programmi di dottrina e
morale confessionale, a servizio di bambini e adolescenti che apprendono così le basi
della fede cristiana, e che si preparano ai sacramenti14.
In questa gamma di tipologie – e tenendo conto anche di analisi più dettagliate di
ciascun paese dell’Unione europea e dell’intero continente europeo – si possono
riscontrare chiaramente alcune tendenze comuni e convergenze di punti di vista e di
scelte strategiche. Finché l’Unione europea non giungerà a darsi una fisionomia
politicamente e culturalmente più definita (ma abbiamo costatato come è finita la
questione riguardante “le radici cristiane d’Europa” legata alla stesura di una
Costituzione europea), è inevitabile che i singoli Stati e, al loro interno, le singole Chiese,
continuino a regolare il rapporto scuola-religione in base a priorità che nascono dalla
propria storia nazionale e da esigenze educative riscontrate localmente.
Al di là dei problemi relativi agli aspetti didattici o contenutistici
dell’insegnamento della religione, e anche degli elementi che riguardano piuttosto il
profilo epistemologico della disciplina e i curricoli di formazione degli insegnanti, resta il
fatto che «la prospettiva di una nuova paideia del cittadino europeo impone ormai ai
responsabili pubblici della politica educativa, e contestualmente anche alle autorità
religiose, di non lasciare che la religione imperversi solo come oggetto di spettacolo
consolatorio nei media o giaccia come patrimonio muto nei mille musei del continente: è
necessario che la religione diventi informazione, e che questa diventi sapere, e sapere
confrontabile con gli altri saperi disciplinari e con la tavola dei valori comuni che
forgiano l’ethos della società, e che sollevano nell’alunno d’oggi quegli stessi
interrogativi radicali che interpellano ogni esistenza umana e ai quali, appunto, tutta la
storia dell’uomo religioso ha tentato di dare risposta»15.
Su questo compito ‘culturale’ dell’insegnamento della religione ha richiamato
l’attenzione Giovanni Paolo II, il 15 aprile 1991, nel suo saluto al Simposio del Consiglio
delle Conferenze Episcopali d’Europa, delineando chiaramente il suo profilo. Egli ha
visto, infatti, tale insegnamento nella scuola pubblica come un fattore di grande
rilevanza, collegato all’appello alla nuova evangelizzazione nel processo di unificazione

13
«La Chiesa (…) ha dovuto attenuare le sue pretese confessionali e accettare restrizioni organizzative
talora penalizzanti sul piano della didattica o dello stesso ruolo del docente. Ne è comunque risultata una
figura di insegnamento della religione rifondata non più in base ai diritti pastorali dei credenti (come
veniva sancito nei concordati della prima generazione), bensì sulla base del riconoscimento civile del
diritto alla libertà religiosa della famiglia (Spagna), del valore integrativo della cultura religiosa
nell’ambito delle prestazioni scolastiche (Italia), dell’importanza dell’istruzione religiosa nel processo
educativo globale della persona (Malta), e in considerazione che i principi del cattolicesimo, in ciascuno di
questi paesi, fanno parte del patrimonio storico, culturale ed etico dei rispettivi popoli» (Ivi, 409).
14
«Corsi facoltativi confessionali sono regolarmente attivati in Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca,
Lettonia, Ungheria. Corsi confessionali ma offerti in opzione obbligatoria con il corso di etica non
confessionale funzionano in Croazia (nella scuola secondaria), in Slovacchia, in Lituania, in Romania
(nella secondaria). In Ucraina non c’è insegnamento religioso, ma un corso obbligatorio di etica non
confessionale per tutti gli alunni. In Slovenia, cattolica al 72%, né corsi di religione né di etica sono attivati
nella scuola, ma la catechesi prosegue unicamente nelle parrocchie (raggiungendo mediamente il 60% dei
bambini della primaria ma poi solo il 5% degli adolescenti della secondaria» (Ivi, 411-412).
15
Ivi, 443.
9
europea: un contributo primario per costruire un’Europa fondata sui valori spirituali ed
etici, sul patrimonio di cultura cristiana16.
E in questa cornice, Papa Wojtyla ha voluto sottolineare alcune esigenze ed
istanze principali, a partire dal fatto che al centro di tale insegnamento sta la persona
umana da promuovere. In questo orizzonte egli suggeriva di aiutare il ragazzo e il
giovane a riconoscere la componente religiosa come fattore insostituibile per la sua
crescita in umanità e libertà; il processo didattico proprio della scuola di religione dovrà
essere caratterizzato da una chiara valenza educativa, volta a formare personalità
giovanili ricche di interiorità, dotate di forza morale e aperte ai valori della giustizia,
della solidarietà e della pace; gli insegnanti di religione non devono sminuire il carattere
formativo del loro insegnamento; la formazione integrale dell’uomo, meta di ogni
insegnamento della religione cattolica, va realizzata secondo le finalità proprie della
scuola, facendo acquisire agli alunni una motivata e sempre più ampia cultura religiosa;
tale insegnamento deve avere un rapporto distinto e insieme complementare con la
catechesi della comunità cristiana, deve far conoscere in maniera documentata e con
spirito aperto al dialogo il patrimonio oggettivo del cristianesimo, secondo
l’interpretazione autentica ed integrale, ecc.17.
Queste caratteristiche dovrebbero garantire all’insegnamento della religione sia la
scientificità del processo didattico proprio della scuola, sia il rispetto delle coscienze
degli alunni che hanno il diritto di apprendere con verità e certezza la religione di
appartenenza18.
In sintesi, si può dire che l’insegnamento della religione – in quanto servizio
all’uomo e contributo specifico al progetto educativo della scuola e in quanto disciplina
che supera il quadro scolastico avendo come riferimento la famiglia, la comunità
cristiana, la società e il mondo della cultura – ha pieno diritto di essere collocato
all’interno dei percorsi formativi e scolastici per tre ragioni fondamentali19.
In primo luogo perché la scuola, nell’attuale contesto pluralistico e multireligioso,
ricopre un insostituibile ‘ruolo sociale’: essa deve aiutare l’alunno a situarsi di fronte a se
stesso e ai sistemi di valore presenti nell’ambito culturale, dotandolo di adeguati
strumenti critico-conoscitivi20. L’insegnamento della religione fa proprie le finalità della

16
«Tale insegnamento, per l’estensione, continuità e durata che assume nelle scuole della maggior parte dei
Paesi europei, per la destinazione specifica al mondo dei ragazzi e dei giovani, per i contenuti che esprime
in riferimento alla componente religiosa della vita, specificamente come religione cattolica, per
l’investimento di energie e mezzi da parte della Chiesa e degli Stati, merita d’essere considerato un
contributo primario alla costruzione di una Europa fondata su quel patrimonio di cultura cristiana che è
comune ai popoli dell'Ovest e dell'Est europeo» (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIV [1991/1, 779).
17
Cf. Ivi, 780-781.
18
«Si dovrà particolarmente curare che l’insegnamento religioso conduca alla riscoperta delle origini
cristiane dell’Europa, ponendo in evidenza non soltanto il radicamento della fede cristiana nella storia
passata del continente, ma anche la sua perdurante fecondità, per gli sviluppi di incalcolabile valore – in
campo spirituale ed etico, filosofico e artistico, giuridico e politico – a cui essa dà luogo nel cammino
attuale delle società europee. L’insegnamento della religione non può, infatti, limitarsi a fare l’inventario
dei dati di ieri, e neppure di quelli di oggi, ma deve aprire l’intelligenza e il cuore a cogliere il grande
umanesimo cristiano, immanente alla visione cattolica. Qui siamo veramente alla radice della cultura
religiosa, che nutre la formazione della persona e contribuisce a dare all’Europa dei tempi nuovi un volto
non puramente pragmatico, bensì un’anima capace di verità e di bellezza, di solidarietà verso i poveri, di
originale slancio creativo nel cammino dei popoli» (Ivi, p. 781).
19
Cf. ZANI A.V., «I.R.C.: natura e finalità», in NICOLÌ G.-SACRISTANI M.F.- ZANI A.V., La religione
cattolica nella scuola elementare, La Scuola, Brescia 1993, 13-18.
20
«L’unità scolastica presenta, perciò, un suo volto formativo, caratterizzato dalla sistematicità didattica ed
educativa che si articola in un progetto educativo di scuola, in momenti di valutazione, di aggiornamento e
di innovazione. Accanto a quello formativo si pone necessariamente anche il volto organizzativo. Sono
proprio i molteplici aspetti organizzativi di orari, di tempi, di attività, di servizi a rendere possibile e
garantire la finalità formativa della scuola» (Ivi, 15).
10
scuola – crescita integrale della persona attraverso la cultura – ed è allo stesso tempo
accolto in essa per costituirsi come spazio di conoscenza e di approfondimento dei
contenuti della religione cristiana, aperto a tutti e culturalmente connotato.
In secondo luogo, l’insegnamento della religione non solo non è estraneo ai
compiti della scuola, ma offre un valido contributo per realizzare le finalità stesse di
questa istituzione formativa. In essa si pone come disciplina che esprime una sua
specifica qualità formativa e umanizzante almeno sotto i seguenti punti di vista: aiuta
l’alunno a comprendere la tradizione culturale dell’occidente che, nella sua storia
bimillenaria, è stata profondamente segnata dal cristianesimo; conduce a confrontarsi con
i grandi problemi dell’uomo (i grandi perché dell’esistenza, della vita, del dolore, della
morte), del suo rapporto con Dio, con l’ambiente, con il mondo circostante e di Dio;
contribuisce in modo determinante ad aprire la scuola al contesto sociale più globale e a
recepire i temi riguardanti lo sviluppo, la pace, la solidarietà mondiale e a coglierli come
spazi eminentemente pedagogici.
In terzo luogo questo insegnamento, proprio perché dotato di ampie potenzialità
pedagogiche, mostra come la religione non è solo fonte e occasione di esperienze
emotive ed intuitive relative al Trascendente e al meta-empirico, ma offre straordinarie
possibilità di conoscere e approfondire razionalmente e scientificamente eventi, concetti,
formulazioni, documenti, testimonianze che contribuiscono ad attuare il processo
specificamente scolastico caratterizzato dall’insegnamento-apprendimento.

3. Le sfide educative oggi e domani


Dagli orientamenti prodotti nel corso degli ultimi decenni da parte degli
organismi internazionali, tra i quali assumono una rilevanza particolare i Rapporti
decennali dell’UNESCO, frutto di complesse e lunghe elaborazioni, possiamo ricavare
interessanti suggestioni che si riferiscono ai compiti delle istituzioni formative in
relazione alle trasformazioni che segnano la società attuale.
Tra le molteplici indicazioni che suggeriscono, essi affermano che tutte le
istituzioni educative sono sollecitate a promuovere una nuova cultura dell'educazione e
della ricerca, basandola su tre elementi caratterizzanti, che riporto in sintesi, in quanto
possono costituire tracce portanti anche per l’IRC, accanto alle altre discipline
scolastiche.
La prima indicazione riguarda il passaggio in atto dall’insegnamento
all’apprendimento. Tutte le istituzioni formative devono porre al centro delle loro
strategie il soggetto in formazione, con i suoi bisogni e le sue domande; di una persona
che, in un certo senso, in passato è stata oggetto dell’intervento educativo, occorre
sviluppare ogni capacità perché diventi protagonista principale della propria crescita e
maturazione. Questo cambiamento costituisce uno dei passaggi più difficili per l’azione
educativa21, in quanto riguarda anche un nuovo profilo dell’insegnante e del formatore,
ma soprattutto conferisce più valore all’individuo come autore diretto del proprio
progresso culturale. Per questo, sono raccomandate strategie pedagogiche che, da una
parte, aiutino il soggetto ad «imparare ad apprendere»22 e, dall’altra, incoraggino le
istituzioni a diversificare e rendere più flessibili le proprie strutture educative23.
Un secondo spostamento di prospettiva riguarda l’obiettivo della cité educative,
“città o società educativa”. Il concetto di società educativa intende riferirsi all’idea
dell’educazione, intesa come evento che va oltre la scuola e coinvolge l’intera società. Il
compito educativo non è affidato alla sola scuola o università, ma «all’interno della

21
Cf. E. FAURE, Apprendre à être, UNESCO-Fayard, Paris 1972, 184.
22
Ivi, 236.
23
Cf. Ivi, 210.
11
società, sono tutti i gruppi, le associazioni, sindacati, collettività locali, corpi intermedi a
dover farsi carico, per le loro parti, di una responsabilità educativa (…). [L’ avvento della
cité educative] non può essere concepito se non al termine di un processo di
compenetrazione intima dell’educazione e del tessuto sociale, politico ed economico»24.
Si tratta di una visione basata su un nuovo progetto di educazione formale ed informale,
esteso alla dimensione della società intera25. Anche la comunità cristiana, con le sue
proposte educative, incluso l’IRC, deve tenere in considerazione questo allargamento di
prospettiva a tutta la realtà sociale.
Un terzo tratto caratteristico riguarda la prospettiva dell’educazione continua: un
aspetto oggi strategico per l’intero pensare e fare educazione. I documenti mettono in
evidenza tutta la portata politica e pedagogica di questa prospettiva che viene indicata
come «chiave di volta della società educativa» e «delle politiche educative per gli anni
futuri»26. L’educazione permanente o continua viene presentata come il principio sul
quale fondare l’organizzazione globale di un sistema e l’elaborazione di ciascuna delle
sue parti.
Accanto a questi orientamenti non si possono sottacere le grandi sfide che deve
affrontare l’educazione, quando si propone di mettere al centro il soggetto educante, di
estendere le relazioni educative a quella che viene definita la “società della conoscenza”
e di pensare a percorsi formativi che dovranno accompagnare lungo tutta la vita le
persone. Basti pensare alla crisi dei rapporti tra generazioni, che pone il problema
dell’autorità degli adulti e della libertà applicata anche ai processi di trasmissione del
sapere; basti pensare agli effetti della rivoluzione digitale in costante crescita e
pervasività, che richiede l’educazione a saper scegliere criticamente per evitare gli effetti
della dipendenza, o anche al crescente relativismo, che produce l’appiattimento dei
valori.
La Congregazione per l’Educazione Cattolica ha avviato da tre anni un’ampia
riflessione, attraverso vari seminari di studio, per rileggere la GE e rilanciarla attraverso
una nuova “magna charta” che presenti i principi fondamentali per l’educazione in
generale e l’educazione cattolica nei prossimi decenni. In questa prospettiva si terranno
quest’anno due grandi eventi: un Forum a Parigi all’UNESCO, il 3 giugno prossimo, e un
Convegno mondiale a Roma, dal 18 al 21 novembre; entrambi gli eventi avranno come
tema: “Educare oggi e domani. Una passione che si rinnova”.
Sono numerose le problematiche che emergono dalle riflessioni che abbiamo
avviato, in vista di questa ricorrenza, e che riguardano l’educazione nella sua globalità:
dall’idea di educazione alla comunità scolastica, dalla società dell’apprendimento
all’educazione integrale, dalla multiculturalità e multireligiosità al dialogo, ecc. Connessa
con questi temi si pone anche la sfida della formazione religiosa delle giovani
generazioni.
In alcuni paesi, i corsi di religione cattolica sono minacciati, rischiano di
scomparire dal curricolo di studi, per il diffondersi di una cultura secolarizzata. Poiché
tali corsi sono posti sotto la competenza dei Vescovi, c’è la grande urgenza di ricordare

24
Ivi, 185-186.
25
«In questa utopia (…) c’è in realtà lo spirito di un tempo con la sua speranza; che ne è stato poi di questa
utopia? (…) Sarebbe interessante ripensare a questa utopia dentro a quello che è successo a partire dagli
anni ’80 con l’avvento di una cultura sociale centrata sul mercato; tant’è che Delors negli anni ’90 dovrà
parlare, nel Rapporto della Commissione internazionale sull’educazione per il XXI secolo che presiede,
ancora di utopia, ma di ‘utopia necessaria’. Ci si può chiedere: che cos’è che da una parte fa sì che
‘l’educazione, l’educazione per tutti e sempre, in altre parole la democrazia educativa, sia un tesoro
irrinunciabile’, e nello stesso tempo fa sì che di essa si debba ancora parlare in termini di utopia?» (PAVAN
A., Formazione continua. Dibattiti e politiche internazionali, Armando, Roma 2003, 324).
26
FAURE E., Apprendre à être, op. cit., 205-206.
12
l’importanza di non trascurare questo insegnamento o di adoperarsi per rinnovarlo
nell’approccio e nelle sue modalità didattiche. Il corso di religione presuppone una
conoscenza approfondita delle reali esigenze dei giovani, perché, al di là dei contenuti,
saranno anche queste a rappresentare la base sulla quale costruire la proposta da offrire e
l’annuncio, anche se si deve tenere in considerazione la differenza tra il “sapere” ed il
“credere”.
Un punto strategico da tutti condiviso, come risposta alle diverse problematiche, è
indubbiamente la formazione dei formatori, la preparazione iniziale e continua degli
insegnanti. In generale, ai docenti della scuola, nonostante la loro figura professionale
abbia perso rilevanza sociale, oggi si chiede molto, e questo vale anche per gli insegnanti
di religione cattolica. Si desidera che abbiano la capacità di creare, di inventare e di
gestire ambienti di apprendimento ricchi di opportunità; si vuole che essi siano in grado
di rispettare le diversità delle intelligenze degli studenti e di guidarli ad un
apprendimento significativo e profondo; si richiede che sappiano accompagnare gli
alunni verso obiettivi alti e sfidanti, dimostrare elevate aspettative nei loro confronti,
coinvolgere e connettere gli studenti tra di loro e con il mondo, ecc. Chi insegna deve
saper perseguire contemporaneamente molte finalità diverse, saper affrontare situazioni
problematiche che richiedono una qualificata professionalità e preparazione. Per essere
all’altezza di simili attese è necessario che tali compiti non siano lasciati alla
responsabilità individuale soltanto, ma venga offerto un adeguato sostegno a livello
istituzionale.
Questi, in conclusione, sono i compiti importanti, delicati e decisivi affidati ai
direttori e responsabili diocesani e regionali dell’IRC: la selezione, la formazione,
l’aggiornamento costante e la valutazione degli insegnanti di religione. A questo
proposito, è sempre di grande attualità quanto diceva, circa il compito degli insegnanti, la
Congregazione per l’Educazione Cattolica nel suo documento del 1982: “Il laico
cattolico, testimone della fede nella scuola”, ricordando che l’impegno dell’educatore
non può ridursi soltanto all’aspetto professionale.
Se a tutti i docenti cattolici viene raccomandato di essere testimoni della propria
fede mentre trasmettono verità e conoscenze, e “di instaurare un dialogo aperto tra
cultura e fede – profondamente collegate tra loro – per facilitare la dovuta sintesi
interiore nell’educando: sintesi che l’educatore dovrà aver conseguito in se stesso
antecedentemente” (n. 29), ciò evidentemente ha un significato ancora più pregnante
quando si riferisce all’insegnante di religione.
A proposito di questi, il documento fornisce una chiara indicazione; essi – scrive
– “si asterranno dal turbare l’animo dei fanciulli e dei giovani con teorie peregrine”. A
tale scopo, sono invitati a seguire “con fedeltà le norme degli episcopati locali per ciò che
concerne la propria formazione teologica e pedagogica e la programmazione della
materia”; specialmente dovranno tenere presente “la grande importanza che la
testimonianza della vita e una spiritualità intensamente vissuta hanno in questo campo”
(n. 59).

Auguro a tutti i direttori e responsabili diocesani e regionali dell’IRC che il 50°


anniversario della GE, insieme al 30° dell’Intesa, siano l’occasione per far comprendere
agli insegnanti di religione l’importanza del loro ruolo educativo e la necessità di
svolgere il proprio lavoro non solo come una professione qualificata, ma soprattutto
come gioiosa e convinta vocazione nella prospettiva della nuova evangelizzazione.

13