B. Gramsci
B. Gramsci
B. Gramsci
GRAMSCI (1892-1937)
Gramsci è di origine sarda, viene da una famiglia della piccola borghesia, e vive durante il ventennio del fascismo (’22- 25 luglio ’43).
Morì a Roma molto giovane per gravi problemi di salute dovuti al periodo che passò in carcere, anche se è sempre stato
cagionevole.
In quanto sardo, Gramsci ha un rapporto privilegiato con il Piemonte per via della propaggine del regno sabaudo (nato in Piemonte)
- Savoia – in Sardegna, la quale faceva parte del regno.
Era dunque inevitabile che Gramsci, in quanto emigrante sardo, si trasferisse a Torino.
A Torino Gramsci studiò alla facoltà di lettere, in particolare glottologia e linguistica.
In un secondo momento abbandona l’università per dedicarsi all’attività politica e pubblicistica, collaborando con “Avanti!” e “Grido
del popolo”.
Nel 1921 fonda, insieme ad Amedeo Bordiga, il partito comunista italiano. Questo partito nasce come un primo gesto di secessione
da parte del partito socialista – fondato invece questo decenni prima (1892). Dopo una trentina d’anni di vita il partito socialista
subisce una prima divisione interna e, da allora fino ad oggi, la storia della sinistra è sempre stata una storia di mutamento e
divisioni interne.
Nel 1917 Gramsci diventa segretario della sezione torinese del partito socialista.
Nel 1924 viene nominato segretario del partito. Ci troviamo negli anni di ascesa di Mussolini il quale, subito dopo essersi assunto
pubblicamente la responsabilità per il delitto Matteotti, individua Gramsci come pericoloso leader anti-fascista e decide di farlo
incarcerare – per mettere a tacere la voce più acuta dell’anti-fascismo-.
Gramsci influì molto nella storia novecentesca per due motivi fondamentali:
1. la fondazione del partito comunista (1921)
2. La fondazione del quotidiano, “L’unità” (1924-2017). “L’unità” – la comunicazione giornalistica aveva grande importanza nella
visione di Gramsci – è stato tra i più importanti quotidiani per l’Italia insieme a “la repubblica”, “il corriere della sera” e “La stampa”.
Torino risulta essere importante non solo per i suoi studi ma anche perché nel 1899 viene lì fondata la FIAT – acronimo per Fabbrica
Automobili Italiana Torino -. Nei primi anni del ‘900, il termine “fabbrica” significava, per un sardo come Gramsci, entrare in contatto
con un mondo nuovo che ben si leggeva dalla visione marxista.
Proprio l’incontro con la grande fabbrica lo fa avvicinare al movimento socialista.
Gramsci diventa socialista, studia i testi di Marx, metabolizzando e trasformando un po’ il pensiero marxista.
Durante il suo periodo di incarcerazione Gramsci non smette mai di studiare e scrivere – di fare l’intellettuale-. Ciò che oggi leggiamo
noi è proprio ciò che ha scritto in quel periodo.
Preso dall’entusiasmo, per Gramsci diventa possibile attraverso l’iniziativa politica (= fattore sovrastrutturale), anticipare i tempi
della rivoluzione socialista.
Al contrario per Marx = 1. modo di produzione antico 2. modo di produzione feudale 3. modo di produzione capitalistico e 4. modo
di produzione socialista e fine della lotta dell’uomo contro l’uomo.
Nella personale rielaborazione di Gramsci sulla rivoluzione, un ruolo di eccezionale importanza è l’iniziativa politica degli uomini di
cultura.
Secondo Gramsci = la rivoluzione va preparata attivamente non come ha fatto Lenin – prendendo il potere con un manipolo di
uomini assaltando il palazzo d’inverno -. Lo stesso Marx infondo pensava ci fosse un’avanguardia politica, appoggiata degli operai e
instaurasse una dittatura del proletariato. Lenin, riprendendo Marx, si immaginava una fase in cui la classe borghese dovesse venire
obbligata con la forza a subire la rivoluzione proprio perché, in quanto classe dominante, non la voleva. Una fase di conflitto era
dunque inevitabile sia dal punto di vista del marxismo che del leninismo.
Gramsci non la pensa così pur raccogliendo da Marx l’idea che la società debba diventare più giusta, che le ricchezze debbano essere
distribuite in modo più equo. Gramsci prende da Lenin anche l’idea di fare la rivoluzione subito senza aspettare i tempi previsti da
Marx.
Gramsci vuole dunque fare una rivoluzione non attraverso le armi, bensì attraverso una lotta democratica, tesa a costruire un blocco
sociale coeso = convincere molte persone e costruire un’alleanza socio-politica non solo con il proletariato ma anche con altre due
classi emarginate da Marx e Lenin: i contadini (troppo distanti dalla rivoluzione perché attaccati alle tradizioni e subordinati) e la
piccola borghesia (classe media).
Il convincimento della piccola borghesia era un po’ più difficile. In fondo Bourdieu diceva che il piccolo borghese è un proprietario
che si fa piccolo per diventare borghese – l’ideologia del piccolo borghese è arrivista: arrivare ad essere borghese per entrare a far
parte degli agenti sociali della classe dominante. Gramsci voleva far capire alla piccola borghesia che il loro arrivismo altro non era
che una forma di schiavitù, il loro lavorare così tanto li portava solo ad essere i maggiori schiavi proprio perché non lo chiamavano
sfruttamento ma possibilità di arrivare. Gramsci voleva dunque fare un’opera mentale: arrivismo è forma coperta e autoindotta di
schiavitù.
La lotta politica democratica, di convincimento di questa parte del popolo.
Quando si sarà raggiunta la maggioranza dei consensi all’interno del Paese allora senza alcuna forzatura e dolore si potrà giungere
democraticamente al socialismo.
Socialismo = si costruisce con il consenso.
La posizione di Gramsci sotto-intendeva che la società come conosciuta fino ad ora è sempre stata ingiusta: c’è sempre stata la
violenza e lo sfruttamento del più forte sul più debole.
Nel corso dell’800 molti di noi hanno capito che questo tipo di convivenza è sbagliata. Si può vivere in maniera più equamente felice.
Un altro principio di Marx viene ripreso da Gramsci = tutti gli uomini sono potenzialmente degli intellettuali.
Gramsci muove dunque dal presupposto di Marx che tutti siano portatori di un’ideologia. Se tutti hanno un’ideologia per il fatto di
essere nati in una certa società, tutti hanno delle idee sul mondo, tutti hanno una visione del mondo e allora tutti sono
potenzialmente degli intellettuali.
In termini marxiani Gramsci chiede agli intellettuali di aiutare dunque il popolo a fare la critica dell’ideologia – criticare e distruggere
-, di fare in modo che il popolo si renda conto che la classe dominante gli ha imposto una certa ideologia, costumi, principi solo per
mantenere il suo status quo.
Devono questi dunque spiegare al popolo che esiste un’altra possibilità di vita che non prevede sfruttamenti.
Marx vs Gramsci
Marx = rivoluzione sulla base dell’inevitabile evoluzione della struttura economica. Oggi il capitalismo è in grande difficoltà e può
sembrare sul punto di esplodere – dunque Marx ancora non ha avuto torto.
Gramsci = non lasciare l’iniziativa alla vita economica ma forzare i suoi tempi per approdare alla società giusta – socialista o
comunista –. L’accelerazione va fatta attraverso il convincimento del 50+1% dei voti dalle masse che da questo hanno solo da
guadagnarci e a quel punto inizia la transizione verso il socialismo che, con il senno di poi, non fu mai raggiunto.
Quest’opera di riconoscimento di Gramsci può suonare come una colonizzazione della mente del popolo? Certamente, anche se il
senso di Gramsci non era quello di trascinare il popolo dalla sua parte, come fanno i politici oggi, ma di liberarlo dalle incrostazioni e
dai convincimenti che lo assediavano.
L’obiettivo primo di Gramsci era una campagna di scolarizzazione di massa.
Gramsci distingueva due tipi di intellettuali che potevano portare a termine l’opera di pedagogia delle masse:
1. intellettuale tradizionale
Sono quelli più diffusi e da sempre dominanti la cultura italiana. Costoro non producono opere che comunichino con le classi meno
colte. Sono tutti intellettuali ripiegati su sè stessi. Creano opere dedicate ad una sola classe sociale e per questo Gramsci li chiama
tradizionali e cosmopoliti (da cosmos e poleis, cosmopoliti = abitanti del mondo). I cosmopoliti sono coloro che costituiscono una
casta elitaria i cui componenti ancora all’inizio del 900 dialogano molto di più fra loro a livello internazionale piuttosto che all’interno
del proprio paese.
Gramsci condanna dunque gli intellettuali che vivono nella loro torre d’avorio e consumano il loro privilegio condannando il popolo
all’ignoranza.
Gramsci aveva dunque scarsa simpatia per la letteratura prodotta da questi intellettuali poiché scarsamente comunicativa e
tendente ad affermare l’isolamento del letterato italiano – già molto presente nel nostro paese-.
Essi si riconoscevano dunque nell’esigenza della classe popolare e rispondevano alle loro esigenze culturali e anche di
intrattenimento con romanzi (piacevoli + istruzione); partecipavano anche alla lotta dell’ideologia.
Un esempio di intellettuale organico oggi può essere Piero Angela. I docenti utilizzano loro programmi per rendere comprensibile
agli studenti un pezzo della storia.
Possiamo intendere Pasolini come un personaggio che ha provato diventare nazionalpopolare ma non c’è riuscito: è diventato un
personaggio ma le sue opere non sono affatto famose e nemmeno nazional-popolari.
Forse anche Socrate nell’atto di comunicare solo oralmente e non lasciare nulla di scritto.
Gramsci stesso è un intellettuale organico – avendo fondato un giornale si rivolgeva al popolo avendo anche tutto un bagaglio di
conoscenze che gli deriva dall’istruzione borghese-.
I docenti universitari possono essere intesi come intellettuale tradizionali in quanto scrivono articoli iper-specialisti volti solo ad altri
specialisti – la loro produzione scientifica avrebbe una sua utilità ma non costituirebbe una patente per poter diventare nazional-
popolare-.
Così facendo Gramsci intendeva costruire una cultura nazional-popolare. Questo sintagma, coniato da Gramsci, indicava una cultura
per il popolo della nazione italiana e che doveva dunque avere caratteristiche specificatamente italiane che portavano ad un
accrescimento delle conoscenze culturali, ideologiche-politiche del popolo stesso.
Il concetto di nazional-popolare, elaborato in positivo da Gramsci, vede gli intellettuali organici assumere una funzione di educazione
nazionale evitando le generalità del cosmopolitismo.
Marx diceva che il proletariato non ha niente da perdere se non le sue catene, questo perché l’uomo non è così razionale e siccome
il criterio di comportamento degli uomini sta su un piano imprevedibile.
Sul piano sociale ed economico ci costa tanto abbandonare ciò che abbiamo e ciò che siamo e dunque non ci muoviamo di 1 cm e
continuiamo a commettere gli stessi errori su ogni sfera del nostro essere.
Per i motivi detti la LETTERATURA occupa del discorso di Gramsci un posto molto importante, più importante – e si distingue -
rispetto ad altre arti.
La letteratura doveva avere il ruolo sociale della pedagogia delle masse perché utilizza la lingua naturale – quella che la gente usa
tutti i giorni ed ha dunque un carattere sociale e affonda le altre arti con il proprio linguaggio nella vita quotidiana.
In questo senso la letteratura ha sempre un carattere nazionale e ha nella vita collettiva radici molto profonde, più di qualsiasi altra
arte.
Il linguaggio letterario per Gramsci è legato alla moltitudine della vita nazionale (italiana, francese, tedesca …) mentre ad esempio la
musica e le arti figurative non sono così endemicamente legate al contesto in cui nascono per il fatto che non sono scritte in una
lingua nazionale e non conoscono confini – ascoltiamo musica senza doverle tradurre-.
Questo però non è un vantaggio: sì il carattere endemicamente nazionale che deriva dal fatto di utilizzare la lingua nazionale fa della
letteratura lo strumento migliore per dialogare con le masse; ma in quegli anni nessuno parlava italiano: negli anni ’20 e ‘30 il popolo
comunicava in dialetto e l’unico luogo in cui si era obbligati a parlare italiano era la scuola.
Abbiamo dunque l’importanza della scolarizzazione di massa: così si costruisce una nazione che attraverso la costruzione del
consenso approda al socialismo.
È chiaro però che le arti figurative soprattutto quelle in movimento, come il cinema, hanno avuto un’influenza molto maggiore sul
popolo - abbiamo scoperto infatti la letteratura non essere quel canale di pedagogizzazione del popolo.
Però Gramsci riesce a cogliere la differenza fra il giudizio politico e il giudizio estetico.
Il linguaggio non può essere cambiato velocemente, tantomeno da un gruppo politico dirigistico. D’altro canto il linguaggio è un
patrimonio comune ed è proprio in questo senso che secondo Gramsci nessun’ arte come la letteratura può essere in grado di
avvicinare i ceti colti e i ceti popolari.
La forza comunicativa – potenziale – della letteratura è stata definita da Spinazzola come “concezione funzionalistica dei fatti
letterari”. In questa chiave si potrebbe accostare la letteratura anche all’architettura: a tutti servono le parole e tutti contribuiamo a
fabbricarle; ed è per questo che è necessaria una politica culturale che abbia al proprio centro la questione linguistica.
Per Gramsci la letteratura nazional-popolare dovrebbe realizzarsi come espressione di un dominio di classe, capace di raccogliere
intorno a sé consensi.
Dunque, se la letteratura è lo strumento principale che gli intellettuali devono usare per costruire una cultura effettivamente
nazional-popolare essendo l’unica forma d’arte che utilizza la lingua del popolo (o quella che può diventare tale), ecco che Gramsci
in alcuni dei suoi quaderni studia la situazione della letteratura italiana dei tempi.
In particolare studia ciò che nessuno aveva studiato: la letteratura del consumo nota anche come para-letteratura (sta affianco alla
letteratura vera e propria); è dunque questa la letteratura che il popolo fruisce.
Manca un’identità di concezione del mondo tra scrittori e popolo: i sentimenti popolari non sono vissuti come propri dagli scrittori;
né gli scrittori hanno una funzione educatrice nazionale, cioè non si pongono il problema di elaborare i sentimenti dopo averli
rivissuti e fatti propri.
Pur avendo studiato da intellettuale dell’elitè si concentra sui romanzi d’appendice ed è il primo a farlo (i veri studi sui romanzi
d’appendice arriveranno solo trent’anni dopo) – sono un mezzo per diffondersi tra le classi popolari-.
I romanzi d’appendice erano così chiamati perché uscivano a puntate nella pagina inferiore dei giornali, proprio come un’appendice.
Sono molto popolari tra il popolo proprio perché costano meno ed erano molto diffusi perlomeno presso gli alfabetizzati.
Il giornale cercava quel tipo di romanzo che piace certamente al popolo e che dunque gli assicurerà una clientela continuativa.
L’uomo del popolo compra un solo giornale, e spesso la scelta è anche veicolata dalla volontà delle donne che insistono per il
romanzo rosa. Da ciò deriva il fatto che i giornali puramente politici o d’opinione non hanno mai potuto avere una grande diffusione.
Si pensi al “Secolo” e “Lavoro” che pubblicavano anche tre romanzi d’appendice per conquistare una tiratura alta e permanente.
Per molti lettori il «romanzo d’appendice» è come la «letteratura di classe» per le persone colte: conoscere il romanzo che
pubblicava «La stampa» era una specie di dovere mondano di portineria, di cortile e di ballatoio in comune; ogni puntata dava luogo
a conversazioni in cui brillava l’intuizione psicologica, la capacità logica d’intuizione dei [lettori popolari] più distinti, ecc.; si può
affermare che i lettori del romanzo d’appendice s’interessano e si appassionano ai loro autori con molta maggiore sincerità e più
vivo interesse umano di quanto nei salotti così detti colti non s’interessassero ai romanzi di D’Annunzio o non s’interessino alle opere
di Pirandello. (p. 71)
Gramsci capisce che presso il popolo c’è interesse per la lettura ma è necessario fornire del materiale che esalta in loro questa
capacità alla lettura.
C’è bisogno dunque di un popolo istruito, perché la cultura libera la mente permette di diventare completamente se stessi.
Dai suoi studi Gramsci osserva che il popolo italiano era costretto a leggere testi di divulgazione scientifica stranieri, soprattutto
francesi. Questo perché l’Italia non produceva testi di buon livello fruibili anche dal popolo, ed è per lui scandaloso proprio perché
non deve essere la lingua di traduzione a veicolare ma la lingua dell’autore.
Non ci si lasci ingannare dalla vasta diffusione che hanno certi libri cattolici: ciò è dovuto alla vasta e potente organizzazione della
Chiesa.
Oltre al fatto che comunque quasi nessuno pare voler fare un’analisi critica sulla letteratura religiosa, considerata un po’ una
manomorta – senza alcuna importanza o funzione nella vita nazionale.
Chi scrive comunque sia non può non fare riferimento a una prospettiva ideologica – che collega dunque una prospettiva ad un
gruppo sociale e alle sue posizioni politiche nonché alla politica culturale. D’altro canto anche chi legge porta con sé le proprie
prospettive, e dunque può riconoscersi oppure no nelle prospettive che il testo gli propone.
Perché il popolo italiano dunque preferisce leggere gli scrittori stranieri? In un certo senso subisce l’egemonia intellettuale e morale
degli intellettuali stranieri ai quali si sente più legato rispettto agli intellettuali paesani.
La questione deve però essere estesa a tutta la cultura nazionale popolare: lo stesso si dice di teatro, cinema ….
Tutto ciò significa che la classe colta con la sua attività intellettuale si stacca dal popolo-nazione non perché questo non si interessi a
quei lavori ma perché non può comprenderlo.
Ma questa questione non è nata oggi: si è posta fin dalla fondazione dello Stato Italiano ed è documento per spiegare il ritardo della
formazione politica nazionale unitaria
Perché in Italia non esiste un buon livello di letteratura popolare -pur dovendo essere potenzialmente redditizia per l’appunto
perché il popolo voleva leggere-?
È da osservare il fatto che in molte lingue, “nazionale” e “popolare” sono sinonimi o quasi [...]. In Italia, il termine “nazionale” ha
invece significato molto ristretto ideologicamente, e in ogni caso non coincide con “popolare”, perché in Italia gli intellettuali sono
lontani dal popolo, cioè dalla “nazione”, e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte
movimento politico popolare o nazionale dal basso: la tradizione è “libresca” e astratta, e l’intellettuale tipico moderno si sente più
legato ad Annibal Caro (scrittore 500entesco) o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. Il termine corrente
“nazionale” è legato a quella tradizione intellettuale e libresca. (p.71) .
Questa situazione si spiega per il fatto che in Italia la letteratura manca perché esiste una divaricazione troppo vasta tra cultura alta
e cultura bassa (quella effettivamente fruita dal popolo).
L’intento di Gramsci era quello di sviluppare una cultura fruibile anche dal popolo.
Non vi erano autori capaci effettivamente di svolgere questa funzione in Italia per 1. i limiti politici italiani e 2. L’italia ancora doveva
attraversare il suo Risorgimento.
Quando parla di Risorgimento in Italia Gramsci parla di “rivoluzione mancata” per via di cause sociali.
Gramsci denunciò il fatto che in Italia nessuno di questi tipi aveva avuto degli scrittori di un certo rilievo. Gli scrittori scrivono la loro
opere e non si cimentano in questi sottogeneri letterari, non si vogliono dunque sporcare le mani scrivendo questi romanzi
d’appendice. Oppure se sono degli scriventi (non degni di essere chiamati scrittori) che producono opere commerciali senza alcun
valore pedagogico e non aiutano in nessun modo il processo di auto consapevolezza che il popolo dovrebbe raggiungere.
Ognuno di questi tipi ha poi diversi aspetti nazionali (in America il giallo va molto) e si può dunque osservare come nella produzione
d’insieme di ogni paese sia implicito un sentimento nazionalistico insinuato nel racconto. Nonostante nessuno di questi romanzi
abbia avuto particolare rilievo in Italia molti di questi hanno come argomento proprio l’Italia.
L’ultimo e più recente tipo di libro popolare è la vita romanzata che rappresenta un tentativo di soddisfare le esigenze culturali di
alcuni strati della popolazione più smaliziati culturalmente.
In generale, non solo in Italia, vi sono scrittori molto popolari di romanzi d’avventura e d’appendice che sono idolatrati e seguiti
ciecamente dalla massa di lettori che decreta le tirature ma che di letteratura non si intende – vuole comunque essere appassionato
e interessato. E gli editori conseguono dalla loro inesauribile attività lauti guadagni.
Per il popolo questi sono i veri scrittori verso i quali esso sente ammirazione e gratitudine.
In Italia non ci sono scrittori ma i lettori sono tantissimi
L’opera d’arte contiene anche degli elementi storicistici oltre al determinato mondo culturale e sentimentale, ed è il linguaggio,
inteso sia come espressione puramente verbale che come un insieme di immagini e di modi esprimersi che non rientrano nella
grammatica. Questi elementi appaiono più chiaramente nelle altre arti. La lingua giapponese appare subito diversa dalla lingua
italiana, non così il linguaggio della pittura, della musica ecc.
Il linguaggio “letterario” è strettamente legato alla vita delle moltitudini nazionali e si sviluppa lentamente e solo molecolarmente.
Ciò non avviene per il linguaggio delle altre arti per i quali si verificano due fenomeni: 1. in essi sono sempre vivi gli elementi
espressivi del passato e 2. in essi si forma rapidamente una nuova forma cosmopolita.
Il popolo partecipa scarsamente alla produzione di questi linguaggi che sono prodotti da un’èlite internazionale, mentre può
abbastanza rapidamente giungere alla loro comprensione.
Un’opera d’arte è tanto più artisticamente popolare quanto più il suo contenuto morale, culturale, sentimentale è aderente alla
moralità, cultura e ai sentimenti nazionali e non si intende come qualcosa di statico.
L’immediata presa di contatto tra lettore e scrittore avviene quando nel lettore l’unità di contenuto e forma ha la premessa di unità
del mondo poetico e sentimentale: altrimenti il lettore deve incominciare a tradurre la “lingua” del contenuto nella sua propria
lingua: la lettura diventa un esercizio scolastico.
Nella letteratura popolare si può in un certo senso parlare anche di superuomo nicciano, dei suoi influssi nella vita reale e nei
costumi (la piccola borghesia e i piccoli intellettuali sono molto influenzati da tali immagini romanzesche che sono un po’ come il
loro oppio).
Potremmo anche parlare di superuomo d’appendice.