1 Articolo Musica e Cinema

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«Non esiste un genere ‘musica da film’»

Roberto Calabretto

«Non esiste un genere ‘musica da film’» ha affermato Nicola Piovani nel corso di un’intervista.
Ogni pellicola, infatti, richiede una specifica componente sonora che rende impossibile definire
cosa sia ‘la’ musica cinematografica, nei cui confronti la stessa idea di stile risulta essere
incompatibile, come Eisler e Adorno già avevano affermato nel loro celebre testo.1 Un regista,
pertanto, potrà utilizzare alcune pagine del sinfonismo di Mahler, le marcette circensi di Nino Rota,
gli archi di Bernard Hermann oppure le sonorità di Miles Davis: tutto può essere fatto confluire
all’interno di una colonna sonora, «ma a una sola condizione: – continua Piovani – musica e
immagini devono amarsi, anche se il loro amore talvolta può esprimersi per contrasto».2
Proprio sulla base di questa consapevolezza, in queste brevi pagine abbiamo cercato di delineare
alcuni percorsi ipotizzabili all’interno dell’universo della musica cinematografica, facendo
riferimento a qualche film.

La musica che ‘accompagna’ le immagini

Le complesse vicende della musica da film durante l’età del muto rendono la sua identità
molto sfuggente, o perlomeno, non perfettamente definibile. Non a caso, tutte le testimonianze del
tempo, musicali ma anche letterario-filosofiche, riflettono una situazione estremamente cangiante,
che vede i diversi compositori alle prese con la colonna sonora secondo molteplici e contraddittori
atteggiamenti. Valga per tutte una testimonianza di Ernst Bloch che, in un suo breve scritto dedicato
alla funzione dell’accompagnamento sonoro cinematografico, poi raccolto nella Filosofia della
Musica, scrive:

Si sa che bisogna suonare l’armonium in tremolo quando il figlio di casa si è suicidato o quando Messina
sprofonda nel terremoto. Si è anche imparato a distinguere tra veloce e lento, tra chiaro e scuro, ma la cosa
essenziale è che la maniera con cui i bravi maestri di paese, dopo le fatiche giornaliere, possono fantasticare sul
loro pianoforte, è stata nel cinema elevata a forma d’arte.3

Non solo il mondo della filosofia, delle arti e della cultura in genere, guarda con scetticismo,
se non con disprezzo, alle funzioni e alla qualità della musica nel cinema, ma anche gli stessi
compositori manifestano le medesime opinioni. È così che Manisia Šostakovič, parlando del fratello
Dmitrij, ricorda questo aneddoto:

Il nostro più grande dolore è che Mitja andrà a suonare in un cinematografo. Questa è per noi una vera
tragedia considerando la sua salute e la pesantezza del lavoro. […] Il piccolo cinema era vecchio, pieno di correnti
d’aria e puzzolente... Tre volte al giorno una nuova folla si stipava nella saletta […]. In fondo, sotto lo schermo,
sedeva Mitja, la schiena bagnata di sudore, gli occhi miopi dietro gli occhiali cerchiati di corno volti in alto per
seguire la vicenda, mentre pestava le dita sul rauco pianoforte verticale. A notte fonda si trascinava faticosamente
a casa […]. Fu in questo periodo che Mitja cominciò a comporre la sua Prima Sinfonia.4

‘Accompagnare’ un film, è ancora improprio dire ‘scrivere’ musica per un film sottintendendo
la funzione di commento, in definitiva non si addice ad un compositore che considera quest’attività
come un ripiego, oppure un passatempo, utile semmai per i proventi che può recare. Confrontarsi
con le immagini in movimento è mortificante e nega qualsiasi gesto compositivo poetico. La
musica, pertanto, deve solo seguire emotivamente la pellicola, ripercorrendo alcuni schemi ben
1
THEODOR WIESEGRUND ADORNO HANNS EISLER, La musica per film, Roma, Newton Compton, 1975, p. 81.
2
NICOLA PIOVANI, Concerto fotogramma, Milano, BUR, 2005, p. 19.
3
ERNST BLOCH, Über Melodie im Kino, Die Argonauten, ora in Zur Philosophie der Musik, Frankfurt/Main,
Suhrkamp Verlag, 1974, pp. 185-186.
4
In SERGIO MICELI, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Milano, Sansoni, 2000, p. 58.

1
definiti e facilmente prevedibili. L’avvento dei film a soggetto se, da un lato, attira nel mondo del
cinema illustri presenze, dall’altro non comporta lo sviluppo di specifiche tecniche
d’accompagnamento, relegando la tipologia della musica nell’alveo dei generi illustri appartenenti
alla tradizione, da cui essa deve saper mutuare le forme, cosicché queste colonne sonore rivelano
delle affinità fortissime con il poema sinfonico o con le tradizionali musiche di scena.5
I problemi che si presentano per chi si accinga a studiare e tentare di definire i tratti di
un’ipotetica estetica della musica da film nell’età del muto sono quindi molti. Nel tentativo di
adottare alcune categorie, o meglio dei punti di riferimento, utilizzeremo delle tipologie che
Giovanni Morelli ha definito in un suo articolo apparso negli «Acta Musicologica». Seguendo
alcune sue indicazioni, avremo allora tre generi di musica cinematografica:

a) ‘Musica colta’, ossia l’espressione di un’esigenza creativa pura, non vincolata da finalità
predefinite. Nel nostro caso la musica scritta appositamente per un film e che, molto probabilmente,
veniva eseguita soltanto alla sua prima proiezione, e in pochi altre occasioni.
b) ‘Musica volgare’, che invece appartiene alla sfera del consumo. È la cosiddetta ‘musica
leggera’ che poco si presta ad un’analisi testuale. In ambito cinematografico è quella che non viene
scritta appositamente per un dato film ma che invece si presta ad essere utilizzata in vario modo e in
diversi contesti.
c) ‘Musica volgarizzata’, un fenomeno intermedio, che vede negli arrangiamenti pianistici
salottieri dei repertori operistici un suo esempio eloquente. È la musica che non è nata
appositamente per il cinema, ma che spesso viene utilizzata secondo molteplici modalità.6
d) A questi tre livelli, solo per quanto riguarda l’universo della musica da film, potrebbe
essere aggiunto un quarto, per comodità assimilabile al precedente, per cui musiche di repertorio
vengono unite, collegate, a quelle volgari, dando così vita ad un fenomeno di contaminazione al
quadrato. È il caso di tante colonne sonore del tempo (basti pensare a quella di Giuseppe Becce per
il noto film dedicato a Richard Wagner, il cui accompagnamento musicale è «arrangiert und
teilweise komponiert» dall’autore), dove la composizione e la compilazione si danno
reciprocamente la mano, seguendo una prassi che viene messa in risalto dallo Handbuch dello
stesso musicista.7
Proprio questa prassi ci porta a contatto con un fenomeno musicale-cinematografico molto
diffuso negli anni ’20. Allora, infatti, iniziò a fiorire una serie di manuali, allestiti sulla base di
compilazioni delle cosiddette ‘musiche d’atmosfera’ che venivano utilizzate per l’allestimento del
commento sonoro dei diversi film. Solo per citare i più importanti, basti pensare alla Biblioteca
Cinema di casa Ricordi, alle collane Pantheon e Walhalla della Bote & Bock, oppure a quella della
Universal. Le sceneggiature musicali nascevano, quindi, sulla base di queste compilazioni che

5
Per questo genere di problemi, si veda ENNIO SIMEON, Modelli della musica per il cinema, in Id., Per un pugno di
note, Milano, Rugginenti, 1995, pp. 22-33. In queste pagine l’autore ripercorre i delicati momenti in cui le prime
colonne sonore cinematografiche, ancora prive di uno statuto autonomo, hanno desunto tipologie e modelli da altri
ambiti della produzione musicale.
6
Già Canudo, in riferimento alla prassi d’accompagnamento del cinema muto, osservava non senza ironia: «Senza
alcuna transizione, e senza pensare di far male, durante il susseguirsi delle scene sullo schermo, la Marcia funebre di
Chopin viene interrotta dal Valzer C’est un homme e si sospende il Preludio del Parsifal per far posto all’ultimo Tango.
E infine - posso garantire io stesso l’autenticità del fatto che non è avvenuto tra gli ultimi Pellerossa ma nel pieno
fulgore della civiltà dei boulevards - si può incollare a freddo l’Eroica di Beethoven a una qualsiasi ignominiosa
avventura a episodi» (RICCIOTTO CANUDO, L’officina delle immagini, Roma, Edizioni Bianco e Nero, 1966, p. 66).
7
Le colonne sonore che si ispirano a queste tipologie sono numerosissime. Tra le tante, e per citare un esempio molto
noto, basti citare quella scritta da Carl Breil per La nascita di una nazione. Qui troviamo un seguito di situazioni
musicali appartenenti alla tradizione classico-romantica e a quella operistica. Ecco allora le citazioni wagneriane, con
l’immancabile Cavalcata delle Walkirie, accanto a quelle del Freischütz di Weber, nelle lunghe sequenze finali che ben
s’accordano con il montaggio del film. Una dettagliatissima analisi di questa colonna sonora si trova in MARTIN M.
MARKS, Breil’s Score for The Birth of a Nation, in Id, Music and the Silent Film, New York, Oxford University Press,
1997, pp. 109-166.

2
allora godevano di molta fama, seguendo una prassi definibile come collage di temi desunti da
queste raccolte.8
I manuali di Giuseppe Becce, in questo contesto, sono forse i più importanti tra quelli
compilati nei primi decenni del secolo. Già nel quinto capitolo dello Allgemein Handbuch (1927),
Giuseppe Becce scrive:

Una composizione musicale, intesa nel vero e proprio senso della parola, per il cinema attualmente
non esiste. Al momento non è neppure pensabile ipotizzare una ‘tecnica compositiva’ della musica da
film in senso artistico. È per questo che il nostro fine è di offrire un seguito di composizioni, utilizzabili
nel giro di poco tempo per chi voglia scrivere della musica da film. Composizioni che sarebbe
maggiormente corretto definire ‘illustrazioni di autore’.9

Queste parole, rilasciate da uno dei primi compositori di musica da film, nella loro categoricità,
mettono in risalto due cose. Da un lato, viene sottolineato come, fino agli anni ’20, una vera e
propria musica da film ancora non esisteva nella coscienza musicale europea («per ‘comporre’ -
afferma Becce - si intende un lavoro liberamente creativo che sia limitato al rispetto della parola e
della scena; il film non offre temporaneamente questa possibilità»); 10 dall’altro si sostiene come la
stessa nozione di ‘musica da film’ sia piuttosto aleatoria e, non a caso, il compositore italiano
preferisce utilizzare quella di ‘illustrazione d’autore’. Ciò sottintende una musica che, priva di una
precisa autonomia estetica, ha il compito di «adattarsi ad altre arti secondo quanto succede nel
melodramma e nelle musiche di scena».11 Non esiste, pertanto, un legame fra musica e immagine
ma piuttosto un fenomeno di riadattabilità continua. Lo ‘stile cinema’, per quanto riguarda
l’accompagnamento musicale, è pertanto definibile come una ‘maniera’.

«…segretamente credo che il film non abbia bisogno di musica…»

Proprio le funzioni che la musica aveva assunto durante l’età del muto, dal semplice
accompagnamento alle prime modalità di commento delle immagini, in seguito sono state spesso
messe in discussione e negate da molti registi che hanno cercato di definire la tipologia della
colonna sonora, e i compiti a cui essa è chiamata ad assolvere, perseguendo strategie differenti. In
un celebre paragrafo de Il tempo scolpito, Andreij Tarkovskij ha così espresso un rifiuto, per quanto
apparente, nei confronti della musica da film. Nelle prime righe di queste brevi, ma densissime,
8
Nella ricca letteratura relativa alla pratica dei cue sheet e alle compilazioni musicali, si veda l’interessante articolo di
GILLIAN ANDERSON, La presentazione dei film muti, ovvero la musica come anestesia, «Griffithiana», 32-33,
settembre 1988, pp. 160-189. «Fra il 1910 e il 1912 - scrive la Anderson -, le società cinematografiche, gli editori
musicali e la stampa specializzata cominciarono a produrre e a distribuire cue sheet per film. Questi ‘fogli di indicazioni
musicali’ elencavano nell’ordine di apparizione scene e didascalie del film. […] Per venire incontro alle necessità dei
musicisti di sala vennero pubblicati ampi repertori di ‘incidental music’, musica di fondo cronometrata e suddivisa in
base alle situazioni e al tempo (Agitato molto drammatico, Agitato furioso, ecc.). I compilatori di cue sheet si rifacevano
abbondantemente a questi repertori. […] Degli inconvenienti c’erano senza dubbio. Se un esecutore non disponeva del
pezzo citato dal cue sheets, doveva procedere alla sua sostituzione. Era quindi necessario poter contare su un enorme
repertorio di musica di fondo. […] Talvolta il cue sheets era incompleto, e talvolta il gusto del compilatore differiva da
quello dell’esecutore» (ivi, pp.174-175). L’uso dei Cue Shets comportava, quindi, dei problemi: era necessario avere a
disposizione ampi repertori musicali e non tutte le sale avevano questa possibilità. Ecco allora le raccolte con grandi
compilazioni dove i direttori ed i musicisti potevano trovare moltissimi esempi, tra cui scegliere la colonna sonora da
allestire per un dato spettacolo.
9
In WOLFGANG THIEL, Skizzen zur Geschichte der Stummfilmmusik in Berlin, in MICELI (a cura di), Atti del
Convegno Internazionale di Studi. Musica & Cinema, Firenze, Olschki, 1992, pp. 47-48.
10
HANS ERDMANN GIUSEPPE BECCE, Allgemeines Hanbuch der Film-Musik, in SIMEON, La nascita di una
drammaturgia della musica per il film: il ruolo di Giuseppe Becce, «Musica/Realtà», VIII/24, dicembre 1984, p. 106.
11
Il concetto di ‘illustrazione’, così come viene indicato da Becce, non appare però scontato e poco chiara risulta essere
la fonte di questi momenti musicali, la cui identità non sempre è definibile. Certo è che le singole illustrazioni musicali
venivano manomesse-riadattate a seconda delle esigenze particolari a cui erano finalizzate e, di conseguenza, si
prestavano a tutte le situazioni simili in film diversi.

3
pagine, dopo aver ricordato come la musica sia un’arte che ha sempre accompagnato il cinema sin
dalle sue origini, egli constata come il suo uso attuale non differisca molto da quel tempo lontano,
quando l’accompagnamento pianistico aveva semplicemente lo scopo di rafforzare le immagini,
sovrapponendosi ad esse in modo abbastanza meccanico, al fine di intensificare l’emotività nel
pubblico che assisteva alle proiezioni.
Scrive Tarkovskij:

Si trattava di una sovrapposizione abbastanza meccanica, casuale o primitiva, in senso illustrativo, della
musica all’immagine, che aveva lo scopo di rafforzare l’impressione prodotta da questo o da quell’episodio. Per
quanto ciò possa apparire strano, il principio di utilizzazione della musica nel cinema il più delle volte è ancor
oggi lo stesso. Gli episodi vengono, per così dire, rinforzati con un accompagnamento musicale destinato a
illustrare ancora una volta il tema principale, a intensificare la sua risonanza emotiva e, qualche volta,
semplicemente a salvare una scena non riuscita.12

La riflessione di Tarkovskij si colloca nel ristretto novero di quei registi che, negli anni
Sessanta-Settanta,13 hanno pensato l’accompagnamento musicale su delle basi completamente
nuove e diverse, non solo, da quelle del cinema hollywoodiano, comune bersaglio polemico della
riflessione di quegli anni, ma del cinema in genere, che alle funzioni della musica fino allora aveva
continuato a fare riferimento in maniera molto convenzionale, ereditando tipologie e funzioni dalla
prassi vigente durante l’età del muto.
Nelle Notes sur le cinématographe, anche Robert Bresson mette pesantemente sotto accusa
questo modo di concepire la presenza del commento sonoro nel cinema con queste parole: «Quanti
film rappezzati dalla musica! Si inonda di musica un film. Si impedisce di vedere che in quelle
immagini non c’è niente».14 Il netto e categorico rifiuto nei confronti del tradizionale
accompagnamento viene poi ulteriormente dichiarato nell’aforisma in cui il regista francese
asserisce a chiare lettere: «Nessuna musica di accompagnamento, di sostegno o di rinforzo. Niente
musica».15 Bresson, poi, chiarisce anche il perché di questo suo atteggiamento e dice: «La musica
prende tutto il posto e non accresce il valore dell’immagine alla quale si aggiunge». 16 Definisce
pertanto il linguaggio sonoro come un’«esaltazione che impedisce le altre esaltazioni» 17 o come «un
potente modificatore e persino distruttore del reale, come l’alcol e la droga».18
La comune presa di distanza dalle funzioni normalmente attribuite alla musica, da un lato, porta
a definire i limiti delle tradizionali colonne sonore d’impianto narrativo, dall’altro invita il cinema a
pensare degli scenari diversi, dove la musica è affiancata da altre presenze all’interno della trama
audiovisiva.

Colonne sonore tematiche

Per lunghi anni, e tuttora parzialmente, molte colonne sonore sono state composte sulla base
di modelli che prevedevano un’articolazione tematica ben definita. Modelli, com’è noto, messi
pesantemente sotto accusa da Adorno ed Eisler che, nel loro noto manuale, hanno espressamente
dedicato un capitolo ai Pregiudizi e cattive abitudini del cinema, parlando in primissima battuta
dell’uso del Leitmotiv come una delle tipiche procedure hollywoodiane, fortemente anacronistiche
per il cinema pensato in termini di montaggio che non necessita di questo universo simbolico.
Emblematiche, da questo punto di vista e tra le tante, le scelte di Pier Paolo Pasolini che, nei suoi
primi film, organizza le colonne sonore attorno a determinati temi appartenenti ad alcune opere
conosciutissime della tradizione classica.
12
ANDREIJ TARKOVSKIJ, Scolpire il tempo, Milano, Ubulibri, 1988, p. 145.
13
Basti pensare, fra i tanti, a Buñuel, Rohmer e Antonioni,a cui faremo riferimento.
14
ROBERT BRESSON, Note sul cinematografo,Marsilio, Venezia, 1992, p. 121.
15
Ivi, p. 31. Il corsivo è presente nel testo originale.
16
Ivi, p. 46.
17
Ivi, p. 47.
18
Ivi, p. 81.

4
Parlando di Mamma Roma, egli ha così detto:

Per quanto riguarda la musica ho scelto alcuni motivi conduttori per i personaggi e i loro problemi: un
motivo che accompagna sempre l’amore sensuale, delicato e nello stesso tempo perverso, tra Ettore e Bruna, ed è
il Concerto in Re minore; un altro è il ‘motivo del destino’, che torna sempre nei momenti in cui torna il destino,
cioè Carmine, ed è il Concerto in Do maggiore; e poi il ‘motivo della morte’, che accompagna la morte di Ettore.
Ho quindi cercato di usare lo stesso procedimento impiegato per Accattone; forse la musica in Mamma Roma è
meno appariscente perché in un certo senso la si potrebbe dire più logica... 19

Altri registi, che pure si sono serviti della tecnica leitmotivica, hanno utilizzato questo
espediente compositivo con efficaci procedimenti di variazione. Per I pugni in tasca di Marco
Bellocchio, Ennio Morricone ha composto una colonna sonora tematica, monotematica potremmo
dire, la cui melodia contiene velate assonanze con la Sequenza del Dies Irae. Egli dà poi vita ad una
serie di variazioni che accompagnano le diverse fasi del racconto, sin dai primi momenti quando la
famiglia di Ale si trova nella sala da pranzo.
La musica, nel commentare queste sequenze, adotta procedimenti di dilatazione della linea
melodica del tema; oppure propone degli accompagnamenti arpeggiati, talvolta disegna anche
atmosfere vagamente aleatorie. Il compositore interviene, in particolar modo, sulla strumentazione
ponendo, di volta in volta, il tema in situazioni diverse e seguendo una prassi che ben si addice al
racconto cinematografico. Detto in altri termini, Morricone evita raffinati procedimenti di
variazione, che in un film risulterebbero scarsamente efficaci, in quanto difficilmente riconoscibili
da parte del pubblico, e affida il tema a dei cambiamenti evidenti che portano alla scomposizione e
ricomposizione del pensiero musicale, spostandone il codice emotivo.
Nel corso di un’intervista, dove il compositore aveva manifestato la sua distanza dai consueti
procedimenti tematici, Morricone aveva esclamato:

Direi che oggi il tema non ha più l’importanza che aveva nell’Ottocento o nel primo Novecento. Il fatto
tematico è diventato anche nel cinema una cosa talmente ovvia e scontata che deve essere sempre riscattata
dall’orchestrazione. La cosa importantissima è il meccanismo all’interno del quale risuona il tema; il
funzionamento di questo meccanismo caratterizza il tema stesso e gli dà importanza. […] Dunque la possibilità è
quella di compensare la mancanza di novità assoluta in un tema tonale mediante l’orchestrazione. 20

Si tratta di una tecnica efficacissima che Sergio Miceli, a proposito di un’altra colonna sonora
morriconiana, Il deserto dei Tartari di Valerio Zurlini, ha descritto in questi termini:

Torna così quel concetto già ricordato di ‘immobilità dinamica’ presente in molte altre partiture, anche per
concerto, e torna - altra faccia della stessa medaglia - quella spazialità orizzontale/verticale che è forse la cifra
più interessante di questo stile compositivo. Ne deriva un accordo con le immagini che in questo film ha il dono
davvero raro dell’introspezione vertiginosa, della profondità metafisica. 21

Nel cinema di Fellini, la presenza della musica, pur sempre pensabile all’interno di queste
coordinate, si pone ad un livello di maggior complessità. Questo grazie anche alla straordinaria
collaborazione di Nino Rota, l’«amico magico» del regista che ha lavorato al suo fianco per
moltissimi anni. I percorsi musicali nel cinema di Fellini sono particolari perché i temi si caricano
di funzioni molto particolari, sicuramente sconosciute a quelle normalmente attribuite alla musica
da film. Proprio in riferimento a queste funzioni, Sergio Miceli, profondo esegeta della poetica
musicale felliniana, ha parlato di ‘musica personaggio’, a sottolineare la singolare valenza narrativa
del commento sonoro in questo cinema.

19
In ANTONIO BERTINI, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 61-62.
20
ENNIO MORRICONE, Quello che la musica ancora non può svelare, in LUCA BANDIRALI, Musica per
immagine, Frosinone, Net Art Company, 2003, p. 33. L’ostilità morriconiana nei confronti del tematismo in sede
cinematografica traspare quasi ovunque nelle tante interviste rilasciate dal compositore.
21
MICELI, Morricone, la musica, il cinema, Milano, Mucchi Ricordi, 1994, p. 262.

5
Tra le tante scene a cui potremmo far riferimento, pensiamo a quella famosissima del veglione
carnevalesco ne I vitelloni. Qui troviamo un’orchestra che sta suonando a tutto volume un
clownesco can-can, tipicamente rotiano, per accompagnare le danze della festa. Fino a questo punto
la musica compare a livello interno 22 e sottolinea efficacemente il clima festoso e di evasione che
accompagna questi momenti. Alberto, uno dei vitelloni, sta ballando al centro della pista reggendo
una bottiglia di spumante. Quando la festa sta giungendo al suo termine, sfinito e ubriaco, egli esce
dalla sala; ora si sente solo il suono sgangherato di una tromba che ripete in maniera deforme il
motivetto del can-can. A questo punto egli inizia un delirante monologo: in un momento di lucidità,
egli si rende conto dei propri fallimenti e della propria condizione di emarginato. È a questo punto
che la musica esce allo scoperto manifestando lo stato psico-fisico del protagonista. Il suono della
tromba disarticolato, non più brioso e clownesco qual’era nell’ostinato iniziale della festa, rivela la
sua triste e sgangherata condizione esistenziale che ora Alberto sembra voler rifiutare: all’uscita
della sala con un gesto scomposto tenta infatti di zittire il trombettista, divenuto suo alter ego, con
un gesto irato e scomposto.
Queste situazioni si trovano ovunque nel cinema di Fellini. Basti pensare ad alcune sequenze ne
La dolce vita; a Le notti di Cabiria, la cui struttura trova un sorprendente riscontro nella sua colonna
sonora; a La strada, dove gli interventi musicali segnano una vera e propria svolta alle vicende 23
(soprattutto il tema di Gelsomina scuoterà Zampanò dalla propria esistenza brutale); e a certi
momenti di Otto e mezzo, dove la componente musicale contribuisce a focalizzare la struttura in
abisso del film.24 In questi luoghi la funzione che viene richiesta alla musica non è banalmente
contestualizzante; non è neppure semplicemente espressiva e comunicativa; l’uso della musica
giunge piuttosto ad essere metaforico nell’accezione più elevata della parola.

Nuovi universi

Il commento sonoro, fino a questo punto, è definibile come un racconto che, dotato di una
propria autonomia, allo stesso tempo procede in simbiosi con lo scorrimento delle immagini,
agendo in maniera più o meno profonda e significativa. Non è questo, però, l’unico modo di
concepire le funzioni e lo statuto della musica da film. In una sua celebre intervista, Michelangelo
Antonioni, un altro regista che appartiene alla schiera di coloro che hanno espresso dei ‘no’ nei
confronti della musica cinematografica, ha detto:

22
Sarà utile richiamare brevemente il significato di quest’accezione usata da Miceli nelle sue analisi che è risultata
particolarmente efficace in quelle dedicate alle colonne sonore felliniane di Nino Rota. Livello interno e livello esterno
corrispondono alla coppia oppositiva livello diegetico e livello extradiegetico usata nella linguistica. A questa coppia
Miceli, e in questo risiede la peculiarità del proprio codice, parla anche di livello mediato per indicare «la sostituzione
del linguaggio verbale con quello musicale [...] Si potrebbe parlare, perciò, di un duplice potenziamento: quello che è
proprio del linguaggio musicale, capace di agire sull’ascoltatore prescindendo dalle contingenze logiche del narrato;
quello nascente dall’interazione, capace di mettere in comunicazione lo spettatore con la dimensione interiore dei
personaggi, divenuti essi stessi una sorta di strumenti musicali» (MICELI, Musica e cinema: un approccio
metodologico, «Musica Domani», 92, 1994, p. 9). In questa funzione risiede il massimo del potenziale interattivo di una
colonna sonora con l’immagine filmica. Per un approfondimento sulla teoria dei livelli si veda ancora MICELI,
Analizzare la musica per film Una riproposta della teoria dei livelli, «Rivista Musicale Italiana», XXIX/2, 1994, pp.
517-544.
23
Ancora Miceli, parlando dell’incontro di Gelsomina con i tre musicisti, dopo essere fuggita da Zampanò, afferma che
«la musica-personaggio assume il peso di un evento epifanico: apparsa come per incanto e, come nella favola del
pifferaio magico, dotata di forza trainante, essa s'incarica d’imprimere alla narrazione una svolta decisiva. Infatti, per
Gelsomina seguire i tre suonatori vuol dire giungere in paese e giungervi significa conoscere il Matto, un incontro che
risulterà determinante per tutta la sua esistenza» (Ivi, p. 270).
24
Così l’ha definita Christian Metz in un suo saggio. A tal fine si veda, CHRISTIAN METZ, La costruzione in
“abisso” in “Otto e mezzo” di Fellini, in Id, Semiologia del cinema, Milano, Garzanti, 1989, pp. 296-303. La colonna
sonora di questo film è stata efficacemente analizzata da MICELI Musica e film: la colonna sonora ha cinquant’anni. È
possibile un bilancio?, «Rivista Musicale Italiana», II, 1977, pp. 285-296.

6
Sono sempre stato contrario al commento musicale convenzionale, alla funzione soporifera che solitamente
gli si assegna. È l’idea di ‘musicare’ delle immagini che non mi piace, come se si trattasse di un libretto d’opera.
È un bisogno che respingo, questo di non lasciare spazio al silenzio, di riempire dei vuoti supposti tali. È una
necessità nata con il cinema muto quando il pianoforte serviva a coprire il rumore del proiettore, a creare
un’atmosfera. Tutto sommato da allora abbiamo progredito ben poco. Credo che i pochi esempi illustri di
aderenza quasi perfetta tra musica e immagine – Aleksandr Nevskij per esempio – non bastino a contraddire
questa mia affermazione. L’unico modo perché la musica diventi accettabile in un film è che scompaia come
espressione autonoma per diventare elemento di un’unica impressione sensoria. 25

Il regista qui ipotizza dei percorsi che anticipano quelli teorizzati dalla teoria
dell’audiovisione, per cui la colonna sonora e le immagini divengono componenti della stessa
trama, rinunciando alla loro autonomia per fondersi in un unico linguaggio. In questo modo operano
alcuni registi che hanno affidato alla colonna sonora funzioni di primissimo piano nella loro poetica
cinematografica. Tra questi, va sicuramente annoverato Marco Bellocchio, in particolar modo nei
film di cui si è servito della collaborazione di Carlo Crivelli e di Riccardo Giagni. In una lunga, e
interessante, lettera ad Anita Nicastro, nel febbraio del 1992, proprio Crivelli ha chiarito i motivi
che hanno agito alla base della composizione di queste colonne sonore e che possono essere assunti
come un manifesto della poetica musicale di Bellocchio.
Parlando della musica per Diavolo in corpo, Crivelli ha detto:

Questo intento comporta un capovolgimento del consueto utilizzo del tema musicale: la musica diviene in
qualche modo la ‘psiche’ del personaggio, e chi la compone risponde alla domanda: che musica dovrebbe
accompagnare il ‘personaggio X’ per aiutarlo a compiere determinati gesti? (anche se in effetti la musica dopo,
dovrebbe dare l’impressione di essere stata scritta prima che la scena sia girata). Ovvero, l’interpretazione della
scena detta la musica. Esempio pratico: nella scena dei tetti, in Diavolo in corpo, il ragazzo sale sull’impalcatura
di una casa e raggiunge l’attico della ragazza: occorreva una musica volta non tanto a descrivere la scena, quanto
a rappresentare lo stato d’animo di un uomo che compiva quel gesto e che poteva anche essere respinto dalla
donna. Ispiratore della musica ‘giusta’, era in questo caso il ‘gesto’ che univa lo spostamento fisico al senso del
rischio, nel comportamento di un uomo che, cosciente di poter anche perdere, decide di compiere ugualmente
quel gesto. Lo stato d’animo di quell’uomo viveva probabilmente una situazione conflittuale, e l’amore vinceva
sul rischio di essere respinto: tutto ciò doveva essere espresso da una musica adatta e specifica. La musica
realizzata per questa scena non doveva risultare descrittiva: poco importava, infatti, l’ambientazione dell’azione
(se si svolgesse in città, o in campagna…), ma contava solo il significato dell’azione stessa, il suo senso
profondo, le motivazioni, la conflittualità, il sentimento... […] Quando affermo che ho apprezzato Diavolo in
corpo solo tramite le immagini, non intendo che in quel film come negli altri di Marco Bellocchio, la musica non
sia importante, (anche perché può darsi che nei suoi film la musica sia più importante che in quelli di altri autori),
ma voglio dire che in quei film non si pone il problema di una ‘musica di supporto’, una musica che in qualche
modo ‘mettesse una pezza’, (come si è fatto in molti lavori) ad eventuali carenze nelle immagini. Secondo il mio
modo di vedere, quel film, (come del resto gli altri di Marco Bellocchio) non aveva il ‘bisogno’ di colonna
sonora, perché sarebbe emozionante anche senza parole, e allo stesso tempo non voglio misconoscere l’apporto
musicale che pure, anche in Diavolo in corpo, non è stato irrilevante ma ha avuto la sua giusta collocazione ed è
servito a meglio sottolineare il pathos delle scene.26

Analoghe situazioni si trovano ne Il principe di Homburg. Già nella prima scena del film la
musica crea lo stato sonnambulico delle sequenze, con situazioni aleatorie e delicati impasti sonori,
e con la melodia che procede su basi molto instabili. Anche in questo caso sembra voler interpretare
la psiche di Homburg. La terza scena, nella sala del castello, ha un climax musicale molto
particolare: echi mozartiani s’impongono sin dalle primissime battute, accompagnando un’ideale
levata del sipario, mentre poi si susseguono dei frammenti di poche battute che, da un lato,
scandiscono aritmicamente la scena stessa mentre, dall’altro, si fanno interpreti dello stato d’animo
del principe. In tutte queste situazioni, non è più lecito parlare di temi o di racconti sonori. La

25
In PIERRE BILLARD, L’idea mi viene attraverso le immagini, «Cinéma», 100, novembre 1965, ora in
MICHELANGELO ANTONIONI, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, Venezia, Marsilio. 1994, p. 134.
26
ANITA NICASTRO (a cura di), Marco Bellocchio. Per un cinema d’autore, Firenze, Ferdinando Brancato Editore,
1992, pp. 44-45.

7
musica si unisce alle immagini, rinunciando ad una propria autonomia, per creare «un’unica
impressione sensoria», citando ancora Antonioni.
Come dirà lo stesso Bellocchio:

Nel mio lavoro ci sono stati dei film in cui, per quanto riguardava la musica, ho pensato solo
successivamente. In questo caso [Il Principe di Homburg], invece, ne ho sentito l’esigenza fin dall’ideazione,
senza sapere che musica avere. Allora ne ho parlato con Carlo Crivelli, perché sentivo proprio la necessità che
diventasse, per così dire, la terza immagine: esiste l’immagine visiva, quella acustica e l’immagine della musica,
che deve integrarsi il più profondamente possibile con le altre due. Anche se sicuramente in passato ho utilizzato
della musica come commento, perché alcune volte la si usa per rafforzare qualcosa che manca, qui, invece, l’idea
era proprio che diventasse come l’eco, oppure stravolgesse le parole, in qualche modo operasse una fusione in
cui diventasse un elemento assolutamente necessario, indispensabile. Come hai notato, la musica interviene per
contrasto oppure come un’eco delle parole del principe. La musica dei film dovrebbe essere questa.27

«La vera musica cinematografica»

Le parole di Crivelli e Bellocchio invitano a pensare la musica in termini differenti da quelli del
tradizionale commento o accompagnamento, invitando a concepire la sua presenza nei termini di
un’eco sonora delle immagini. Perseguendo simili finalità, Andreij Tarkovskij ha così sostenuto
come la musica elettronica sia la vera musica da film. Commentando il lavoro con Artemev a
proposito di Stalker, il regista ha detto:

Volevamo che il suono si avvicinasse a un’eco poeticizzata, a dei fruscii, a dei sussurri. Questi avrebbero
dovuto esprimere una realtà convenzionale e, nello stesso tempo, avrebbero dovuto riprodurre esattamente
determinati stati d’animo, il suono della vita interiore. La musica elettronica muore nel momento in cui sentiamo
che essa è appunto elettronica, ossia quando comprendiamo come essa è costruita. Artemev riuscì a ottenere la
giusta risonanza attraverso procedimenti assai complessi. La musica elettronica doveva venir depurata dalla sua
origine chimica perché fosse possibile percepirla, e venisse percepita, come l’organico risuonare del mondo. 28

La musica elettronica, stando a questa importantissima dichiarazione, sembra essere l’unico


linguaggio musicale in grado di entrare in perfetta simbiosi con le immagini. È quindi la vera musica
cinematografica: «IL MONDO DEI SUONI organizzato nel film in maniera vera», 29 come asserisce
categoricamente il regista. Al di là della musica strumentale, che è un’arte così autonoma da rendere
difficile un suo totale dissolvimento nelle immagini, per cui efficaci divengono i suoi rapporti
verticali con le stesse, Tarkovskij è giustamente consapevole delle infinite risorse insite nella musica
elettronica. Sebbene non rinunci all’impiego degli amati temi bachiani o di altre pagine di repertorio,
ora egli affida ad Artemev, e ad altri musicisti-ingegneri del suono, la quasi totalità
dell’accompagnamento sonoro. Un accompagnamento in grado di «nascondersi dietro i rumori e
risuonare come l’indefinita voce della natura».30
La musica elettronica, nell’essere l’indefinita voce della natura, comporta quindi, come
conseguenza, un’utilizzazione musicale del rumore, ulteriore componente di grande rilevanza
nell’allestimento di una colonna sonora.

«Bisogna che i rumori diventino musica»


Un Tarkovskij muto non sarebbe stato concepibile – ha scritto Michel Chion ne L’audiovisione, - ; e ciò che il
regista russo diceva del cinema, che esso è ‘l’arte di scolpire nel tempo’, non avrebbe potuto dirlo, né soprattutto

27
Da Cechov a Kleist. Una conversazione di Marco Bellocchio a cura di Giovanni Spagnoletti, in Giacomo Martini (a
cura di), Una regione piena di cinema. Marco Bellocchio, Modena, Regione Emilia-Romagna 1997, pp. 38-39.
28
TARKOVSKJI, Scolpire il tempo, op.cit., p. 148.
29
Ivi, p. 146. Il maiuscolo figura nell’originale.
30
Ivi, p. 148.

8
farlo, ai tempi del muto, lui che animava i suoi lunghi piani di fremiti, di scatti e di apparizioni fuggevoli, che si
combinavano con vaste evoluzioni controllate, in una struttura temporale ipersensibile.31

A ragione Chion sottolinea la centralità dei rumori nell’universo cinematografico del regista
russo dove adempiono a diverse funzioni e spesso giungono a realizzare ciò che, invece, la musica è
impossibilitata a fare. Ecco perché, nei film di Tarkovskij, sono onnipresenti e si organizzano come
delle vere e proprie partiture musicali.
Anche Robert Bresson nel proprio cinema ha fatto un largo uso della componente bruitistica e,
nelle sue celebri Note sul cinematografo con la forza tipica che contraddistingue i suoi brevi
aforismi, ha esclamato: «Bisogna che i rumori diventino musica», dichiarando in tal modo la
centralità della loro presenza nel cinema32 e raccogliendo una preziosa intuizione di Eisler e Adorno,
che già avevano sostenuto la necessità dell’uso del rumore in sede cinematografica.

In una pianificazione responsabile - troviamo nel loro manuale -, sarebbero in molti casi da preferire alla
musica ben disposte colonne sonore di rumori. […] La registrazione dei rumori ha neutralizzato la musica a
programma [ossia la musica descrittiva].33

Queste parole - scritte nel 1947, anno in cui il celebre testo venne pubblicato a Londra -
evidenziano una ben precisa situazione esistente nel mondo della musica da film dove i rumori
erano virtualmente esclusi. Per lungo tempo i rumori sono stati i reietti del suono nel cinema. I
motivi di questo rifiuto sono facilmente riassumibili, da un lato, in cause di natura tecnica -
pongono problemi di registrazione, possono disturbare facilmente i dialoghi precludendo la loro
comprensione -; dall’altro culturali - il rumore è un elemento del mondo sensibile totalmente
svalutato sul piano estetico.
Bresson, Tarkovskij, Tati, Antonioni e pochi altri registi sono stati tra i primi a rivalutare la
componente estetico-informativa del rumore in ambito cinematografico. Antonioni, in particolar
modo, ha costantemente ribadito la loro centralità nel suo universo cinematografico. Cercando di
allontanare i malintesi sull’uso della musica nei suoi film, nel corso di molte interviste egli ha
ribadito il suo differente modo di concepire la funzione della colonna sonora nelle sue pellicole.

La colonna sonora ha un’importanza enorme e cerco sempre di dedicarle molta cura. Per colonna sonora
intendo i suoni naturali, i rumori, piuttosto che la musica. Per L’avventura ho fatto registrare una gran
quantità di effetti sonori: ogni tipo di mare possibile, più o meno agitato, le onde che rimbombano
infrangendosi nelle grotte e via dicendo. Avevo a disposizione un centinaio di bobine di nastro magnetico,
solo per gli effetti. Poi ho selezionato quelli che costituiscono la colonna sonora del film. Secondo me è la
musica che meglio si adatta alle immagini.34

Queste parole ricordano tantissimo quelle che Bresson ha rilasciato nel corso di molte interviste
dove, in maniera analoga al regista italiano, ha cercato di chiarire le motivazioni che agiscono alla
base delle sue scelte musicali. Bresson ha il merito, forse, di aver teorizzato l’uso del rumore nella
musica da film con maggior complessità. Questo rende particolarmente interessante la sua
riflessione, premonitrice di consapevolezze maturate molti anni dopo nell’universo cinematografico
e, allo stesso tempo, in straordinaria sintonia con quanto stava accadendo nella vita musicale
europea dove, più o meno in quegli anni, era nata la cosiddetta ‘musica concreta’. La posizione di
Bresson nei confronti del rumore, infatti, è molto vicina a quella di Pierre Schaeffer e dei suoi
collaboratori e andrebbe contestualizzata nel quadro della generale riflessione maturata negli anni
50-60 negli ambiti della musicologia.
La legittimazione del rumore come oggetto sonoro, che Bresson recupera dagli esponenti della
musica concreta parigina, si pone come fatto d’importanza decisiva in tutta la sua poetica
31
MICHEL CHION, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau 1977, p. 22.
32
BRESSON, Note sul cinematografo, op. cit., p. 31.
33
ADORNO EISLER, La musica per film, op. cit., pp. 98-99.
34
ANTONIONI, All’origine del cinema c’è una scelta, «Cahiers du Cinéma», n.112, ottobre 1960. In Id, Fare un film
per me è vivere, op. cit., p. 127.

9
cinematografica. Di grande interesse, poi, sono le modalità con cui il regista si serve dei rumori
stessi. Ancora una volta ritorniamo alle sue Note.

Riorganizzare i rumori organizzati (quel che credi di sentire non è quel che senti) di una via, di una
stazione ferroviaria, di un aeroporto... Riprenderli uno per uno nel silenzio e dosarne il miscuglio.35

Si tratta, come vedremo, di costruire sonorità, organizzarle, manipolarle secondo quelle modalità
che avevano contraddistinto la ricerca dei musicisti francesi. La registrazione sonora, pertanto, non
è semplicemente una copia-riproduzione del reale. Schaeffer notava che proprio trasformando,
anche se in minima parte, i suoni registrati, questi cessavano di evocare la loro causa iniziale,
predisponendosi all’ascolto ridotto. Le possibilità compositive dei suoni separati dalla loro fonte,
grazie alla registrazione, e l’ambizione di creare una musica a partire da questa invenzione
costituiscono pertanto i due punti di partenza della sua ricerca. Non a caso Merleau Ponty, in Senso
e non senso, dirà che «il vero antenato del suono cinematografico non è il fonografo ma il
montaggio radiofonico». Bresson lavora analogamente. Ricorda Humbert Balsam:

Bresson era affascinato dai suoni. Quando ne scopriva di quelli che gli piacevano particolarmente era
straordinario, metteva in rapporto un suono con l’altro come in una partitura musicale. Era sempre
qualcosa d’inatteso, e per questo Bresson stava sempre in ascolto.36

Un atteggiamento, quindi, in sintonia con quello della musica concreta per cui il materiale
sonoro di base, precostituito (suoni e rumori provenienti da qualsiasi contesto) e registrato con il
magnetofono, in un secondo tempo viene elaborato mediante la tecnica del montaggio.37
Nel contesto cinematografico, la fenomenologia del rumore ha senso solo in quanto articolata in
un universo simbolico e narrativo. All’interno di un film, i rumori si prestano a particolari funzioni,
essendo entità che possono organizzarsi linguisticamente prescindendo dalla dimensione temporale.
Non a caso Schaeffer, applicando al suono la riduzione eidetica dei fenomenologi, sognava una
musica sbarazzata dalle impurità aneddotiche e che ben si presta ad essere utilizzata anche nel
cinema. Chion nota, infatti, come il cosiddetto ‘cinema della continuità’ sia fondato su una colonna
sonora d’impianto teatrale e sulla parola come suo evento centrale; contrariamente a quello della
‘discontinuità’ dove i rumori si associano liberamente nel montaggio. Pertanto, se una colonna
sonora basata sui Leitmotive fa riferimento ad un’organizzazione lineare della temporalità, quella
basata sul rumore è data da scansioni ritmiche.
In Un condamné à mort s’est échappé, film che più di tutti forse si presta ad analisi di carattere
audiovisivo, i rumori perdono del tutto la loro derivazione mimetica, non hanno un uso subalterno
all’immagine cosicché la loro incidenza è molto forte.
Scrive Giorgio Tinazzi:

I rumori perdono la derivazione mimetica, sono il sintomo di un reale oggettivo e manipolato, di un


referente annullato o caricato (i silenzi, i sovratoni), di un uso mai subalterno, e perciò depotenziato,
all’immagine; sono restituiti alla loro possibilità di incidenza reale e di evocazione. Sono componenti
strutturali: la drammaticità suggerita dalle scariche di fucile, i gesti colti nella loro fisicità, l’elisione
della scena sentita e non vista (l’uccisione di Orsini); nel finale i rumori intervengono nel montaggio
alternato, sono passi, parole in tedesco, il treno, il cigolio della bicicletta, i rintocchi. Il sonoro interviene

35
BRESSON, Note sul cinematografo, op. cit., p. 50.
36
Ho lavorato con un giovane regista. Conversazione con Humbert Balsam, in AA. VV., Il Caso e la necessità. Il
cinema di Robert Bresson, a cura di Giovanni Spagnoletti e Sergio Toffetti, Torino, Lindau, 1998, p. 132. Philippe
Arnaud, invece, nota come «i suoni [da Bresson fossero] prelevati, ritagliati, come se uno scalpello invisibile li avesse
staccati dalla cacofonia iniziale» (VINCENT OSTRIA, Il reale a pezzi ovvero l’essenza del cinematografo, Ivi, p. 83).
37
La manipolazione del suono vale quindi come invito per ricominciare ad ascoltare partendo dagli elementi più
semplici. È questa un’operazione fenomenologica significativa perché ci riporta a dover riconsiderare elementi che nelle
fruizioni più complesse venivano trascurati. Nel 1930 Jean Cocteau, nel suo giornale di disintossicazione chiamato
«Opium», definiva in questi termini la musica registrate: «Fare dischi che diventino oggetti sonori invece di essere
semplici fotografie per l’orecchio».

10
anche a dare l’impressione soggettiva: come l’oppressione era resa dai custodi che battevano sulle
sbarre, o dai comandi in tedesco, così il senso finale di apertura è dato anche dalla ripresa del rumore del
treno. In tal modo il di fuori, l’esterno che prima avevano sentito, ora lo ritroviamo ampliato dallo spazio
libero, nel campo lungo conclusivo.38

Sempre in riferimento a questo film, commenta Rohmer:

Si conosce la cura che l’autore ripone nella composizione della colonna sonora. Il risultato supera ogni
attesa. Questa melodia di rumori familiari, questo sussurrio del silenzio, questa profondità - amica o
traditrice - degli spazi notturni, eccoli, forse per la prima volta nella storia del cinema, presenti, palpabili,
veri e armoniosi, veri perché armoniosi...39

Molte volte la natura simbolica del rumore è apertamente dichiarata. Nel finale di Lancelot du
lac troviamo i cavalieri in armatura che si abbattono gli uni sugli altri sommergendo con il loro
fracasso il rumore delle armi individuali che, fin a quel punto, facevano risuonare la loro anima
individuale. Nel fracasso delle cadute il suono racconta lo smarrimento dell’uomo e la sua
scomparsa. Niente più corpo, niente più uomo. Rimane la confusione delle apparenze, il caos.
Questi esempi, e se ne potrebbero citare molti altri, dimostrano come il rumore sia una
componente essenziale del cinema di Bresson. Il regista francese, in questo modo, invita a pensare
la colonna sonora ‘oltre la musica’, per citare un noto saggio di Bassetti. 40 L’iperrealismo della
realtà sonora che ci propone il suo cinema, allo stesso tempo, diviene metafora. L’incerto confine
fra realtà e finzione acustica qui viene sopraffatto dalla superiore pregnanza e attendibilità che il
modello sonoro artificiale ha dimostrato di possedere rispetto alla oggettività del reale. Bresson,
come abbiamo visto, lavora costantemente sui suoni, li elabora, li manipola. Egli si serve del
campionario tecnologico per sollecitare la sfera percettiva acustico-visiva dello spettatore. La realtà
sonora appare così più vivace, calligrafica, spettacolare e meglio orchestrata di quella oggettiva. A
ragione Chion asserisce che «quando l’immagine è più brillante della realtà, essa vi si sostituisce,
negando nel contempo se stessa come immagine»; 41 nel cinema, pertanto, il suono viene
riconosciuto come vero non tanto se esso riproduce quello prodotto nella realtà dallo stesso tipo di
situazione o di causa, ma se traduce ed esprime le sensazioni associate a quella causa. Non ultimo,
la capacità di oggettivazione esercitata da un suono combinato con le immagini è tale da dar vita a
situazioni alternative a quelle reali, e rispetto a queste maggiormente persuasive. Non a caso,
sempre Bresson in un altro aforisma dirà: «Più l’astrazione è completa, più l’impressione è forte».42
Da quanto stiamo vedendo, è evidente come le scelte musicali di Bresson costituiscano un
preziosissimo invito a ripensare la colonna sonora. Un invito ad abbracciare l’idea di un sistema
sonoro globale, dove siano bandite le discriminazioni fra suoni nobili e umili, dove le voci
dell’ambiente, gli effetti sonori e la musica possano dar vita a delle architetture polifoniche anche
non conciliate, come spesso accade in molti suoi film. Si tratta allora di ripristinare la pienezza di
significato dei suoni, evitando riferimenti a codici aprioristici e a valutazioni estetiche che si basano
su delle tipologie rigide. L’introduzione dei rumori nel cinema ha sicuramente favorito la nascita di
un cinema ‘sensoriale’, ossia di un cinema che si fonda su un sentimento acuto della realtà materiale
delle cose e degli esseri e dove la parola, e tutti gli altri elementi sonori pre-codificati, non sia più il
fatto centrale ma piuttosto tenda ad esser inserita in questo continuum sensoriale globale che la
ingloba.

Il cinema a partire dalla musica


38
GIORGIO TINAZZI, Il cinema di Robert Bresson, Venezia, Marsilio, 1976, p. 83.
39
ERIC ROHMER, Les miracles des objets, in Luciano De Giusti (a cura di), Il cinematografo di Robert Bresson. La
bellezza e lo sguardo, Pordenone, Cinemazero, 1998, p. 27.
40
SERGIO BASSETTI, Oltre la musica, in Atti del Convegno Internazionale di Studi. Musica e Cinema, op. cit., pp.
337-350
41
CHION, L’audiovisione, op. cit., p. 91.
42
TINAZZI, Il cinema di Robert Bresson, op. cit., p. 26.

11
In una loro celebre dichiarazione di poetica, i fratelli Taviani hanno sottolineato come il loro
cinema nasca a partire da suggestioni di carattere musicale.

Per Pasolini il cinema era soprattutto poesia, per Fellini è messa in scena, per Visconti letteratura, per
Ejzenštein montaggio, ma anche forza, meraviglia e gusto di piazzare la macchina da scena. Per noi tutto è
importante, ma l’elemento chiave è il rapporto tra immagine e suono. È il momento in cui si sente maggiormente
la forza, la magia, il mistero e la curiosità del cinema.43

In effetti i loro film, oltre ad essere attraversati continuamente da pagine del repertorio
operistico, da canzoni popolari e da filastrocche, sembrano essere ispirati da vere e proprie strutture
musicali.44 Le loro diverse sceneggiature, non a caso, sono state sovente paragonate a delle partiture
dove il racconto si dispiega «in segmenti a sé stanti che raccolgono, catalizzandole, le idee e i
sentimenti dello sviluppo».45 La metafora musicale, pertanto, è stata spesso utilizzata per descrivere
il loro cinema, per cui Sotto il segno dello scorpione rimanderebbe a Stravinskij, San Michele aveva
un gallo sarebbe un quartetto e Allonsanfan sarebbe contrassegnato dalle cadenze popolari del
melodramma.46
In questo caso la musica, non solo,
Questo genere di considerazioni si può estendere anche ad alti registi. Basti pensare ad Alain
Resnais che, spesso, ha trovato nella forma del tema con variazioni un riferimento alla propria
poetica e, in particolar modo, un modello a cui rapportarsi per organizzare i propri racconti; 47
oppure ad Antonioni che, inconsapevolmente, nel proprio cinema crea delle situazioni parimenti
accostabili a situazioni musicali. La libertà espressiva della sequenza finale de L’eclisse, dove la
libera concatenazione delle situazioni non procede ‘drammaticamente’ ma bensì secondo
giustapposizioni,48 ha così ispirato un significativo paragone a Chiaretti. Egli ha ipotizzato delle
somiglianze fra L’eclisse e la Serenata di Schoenberg, «dove il sovvertimento nasce non solo
dall’uso di una più ampia gamma di segni, ma anche dalla particolare condotta del discorso,
apparentemente illogico e stravagante, eppure dotato di una sua spietata coerenza». 49 Antonioni,
pertanto, sarebbe uno degli artefici della dissoluzione del «tonalismo cinematografico», come lo
stesso Chiaretti precisa, giungendo ad una situazione di evidente crisi di scrittura.
Il regista che più di tutti ha operato in questa direzione è però Luchino Visconti che, in
maniera molto attenta e consapevole, ha utilizzato le strutture del melodramma in molti suoi film e,
in particolar modo, in Senso. Nella prima sequenza di questo capolavoro un’inquadratura frontale
sul palcoscenico del teatro “La Fenice” di Venezia ritrae un momento del Trovatore verdiano. La
43
RICCARDO FERRUCCI, La Sinfonia toscana di Paolo e Vittorio Taviani, in Id. e Patrizia Turini, Paolo e Vittorio
Taviani. La poesia del paesaggio, Roma, Gremese, 1995, p. 11.
44
«La musica nei nostri film ha un peso importantissimo. Noi siamo soliti dire che i nostri film sono più vicini alle
strutture musicali che a quelle di tipo figurativo» (FULVIO ACCIALINI LUCIA COLUCCELLI, Paolo e Vittorio
Taviani, Firenze, La Nuova Italia, 1979, p. 5).
45
Ivi, p. 26. «Le sceneggiature dei Taviani hanno sempre l’andamento di una partitura musicale. L’incompiutezza,
caratteristica di ogni scrittura non finalizzata a se stessa, ma destinata a una resa visiva che trascende la potenza
intrinseca della parola, diventa, nei Taviani, elemento di attesa, profezia di un’immagine a venire. Al pari della partitura
musicale, la sceneggiatura è solo lo stadio iniziale di un processo creativo che troverà completa espressione soltanto
nella fase dell’esecuzione» (IVELISE PERNIOLA, Partiture incompiute. La sceneggiatura, in Vito Zagarrio (a cura
di), Utopisti, esagerati. Il cinema di Paolo e Vittorio Taviani, Venezia, Marsilio, 2004, p. 121).
46
Cfr. MARCO DE POLI, Paolo e Vittorio Taviani, Milano, Mozzi, 1977, p. 66.
47
Come ricorda Fusco, musicista del regista: «Quando Resnais mi parlò per la prima volta di Hiroshima mon amour
(eravamo a Parigi, in una birreria, ed erano le ore piccolissime), mi disse: “Componendo le musiche per questo film,
Maestro, pensi al Diabelli. Questa è l’atmosfera spirituale da raggiungere» (MARINA MAGALDI, La ‘musica per film’
si chiama Giovanni Fusco, «Rivista del cinematografo», 12 dicembre 1964, p. 559).
48
Come ben dirà Aldo Tassone, «le inquadrature [qui] si susseguono secondo cadenze lirico-musicali; “il montaggio
mirabilmente ellittico è di una spregiudicatezza senza precedenti”» (ALDO TASSONE, I film di Michelangelo
Antonioni. Un poeta della visione, Roma, Gremese, 2002, p. 119).
49
TOMMASO CHIARETTI, Osservazioni sullo stile, in TASSONE, I film di Michelangelo Antonioni. Un poeta della
visione cit., p. 121.

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macchina da presa avanza fino al limite della ribalta, dove Manrico intona Di quella pira e, sempre
tenendo in campo il tenore, una panoramica scopre, di volta in volta, gli orchestrali, la platea, i
palchi e il loggione. A quel punto i patrioti, al grido “viva l’Italia” e “fuori lo straniero da
Venezia!”, gettano i loro manifestini e le coccarde tricolori sul pubblico, proprio nel momento in
cui il coro ha ultimato il celebre “All’armi, all’armi!”, raffigurato dall’esercito delle comparse che
simbolicamente sembra sfidare quello degli ufficiali austriaci nelle prime file della platea.
Questo inizio, un vero e proprio capolavoro sul piano della scrittura, condiziona poi lo
svolgimento dell’intero film, quasi fosse il suo proseguimento, fino al tragico epilogo con la
fucilazione di Franz Mahler. L’opera verdiana, non solo influenza il racconto che procede
operisticamente per blocchi staccati, con progressive accumulazioni che rendono molto smagliato il
suo tessuto, ma diviene una ben precisa componente strutturale della regia stessa di Visconti, i cui
modi e le cui forme sembrano essere ispirate musicalmente. Non ultimo, e questo forse è l’aspetto
di maggior interesse, ne diviene un’adeguata chiave di lettura, cosicché in Senso, come dirà il
regista nel corso di una celebre conferenza stampa, «vengono trasferiti i sentimenti espressi dal
Trovatore di Verdi dalla ribalta in una vicenda di guerra e di ribellione» 50, rovesciando quindi il
melodramma sulla realtà e proiettandolo sulla scena della storia.
Qui la musica, non solo, accompagna le diverse sequenze del racconto commentandole con i
temi della Settima Sinfonia di Bruckner, ma diviene piuttosto la chiave interpretativa delle stesse
assumendo delle funzioni di primissimo piano. Raramente il cinema ha assegnato queste funzioni
alla musica e raramente un regista è riuscito a trovare in pagine del repertorio classico-romantico
l’ispirazione per creare un film.

LUCHINO VISCONTI, Dichiarazione resa in una conferenza stampa a Parigi il 26 gennaio 1956, in LUCIANO DE
50

Giusti, I film di Luchino Visconti, Roma, Gremese editore 1990, p.64.

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