Esame Igiene

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CAPITOLO 1 :

I GIENE E SALUTE

IGIENE :

Il termine “Igiene” deriva da una parola greca che significa “buona salute”.

Nella mitologia greca Igea era la dea della salute, cui si rivolgevano i sani per mantenere la loro condizione
di benessere. La definizione completa di Igiene può essere : “la disciplina appartenente alle scienze bio-sa-
nitarie che, attraverso il potenziamento dei fattori utili alla salute e l’allontanamento o la correzione dei fat-
tori responsabili delle malattie, tende a conseguire uno stato di completo benessere fisico, mentale e so-
ciale dei singoli e delle collettività” (Meloni).

Nei confronti delle altre discipline cliniche l’Igiene presenta tre particolari caratteristiche:

- la prima riguarda l’oggetto del proprio interesse, che non è l’uomo malato bensì quello sano;

- la seonda riguarda l’ambito di intervento che risulta essere non limitato soltanto all’individuo singolo bensì
esteso anche all’intera collettività;

- la terza caratteristica riguarda la tipologia degli interventi non limitati solo all’uomo bensì estesi anche
all’ambiente fisico, biologico e sociale nel quale esso si trova inserito.

LA SALUTE:

Nel linguaggio comune il termine salute è utilizzato per indicare l’assenza di malattia, o piuttosto il sogetto
malato è il soggetto che non è più in salute.

Nel 1948 (dopo la fine della 2 guerra mondiale finita nel 45), l’Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS), agenzia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), ha inserito nel preambolo del suo atto di
fondazione la definizione, universalmente accattata, di salute intesa come “uno stato di completo benessere
fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di difetti”.

Un’altra definizione può essere che : “La salute è una condizione di armonico equilibrio funzionale, fisico e
psichico, dell’individuo dinamicamente integrato nel suo ambiente naturale e sociale”.

La salute è pertanto un bene dinamico da conquistare, da difendere e da ricomporre senza sosta durante il
corso della propria vita. Investe sia l’idea di interazione dinamica tra l’individuo e il suo ambiente, sia l’idea
di sviluppo pieno delle potenzialità fisiche, mentali e sociali dell’individuo.

Se l’input di stimoli è maggiore o minore rispetto alle possibilità di adattamento del singolo organismo, allo-
ra l’eccesso o la mancanza di stimoli può essere considerto come stress. La salute, che è un equilibrio organi-
co, può essere modificato dallo stress con il risultato di uno squilibrio che può essere temporaneo e reversibi-
le, o può progredire sino a una patologia funzionale o strutturale.

La salute è un fondamentale diritto umano ma anche un importante investimento sociale. La finalità princi-
pale di una sana politica per la salute è pertanto creare un ambiente che favorisca la possibilità di vivere in un
mondo sano o fare si che, per i cittadini, fare delle scelte di vita “sane” sia possibile e coincida con le scelte
più facili.

Parlando di salute fisica, psichica e sociale, non si può non parlare anche di salute sessuale.
La salute sessuale è definita come: “l’integrazione degli aspetti somatici, emozionali, intellettuali e sociali
dell’essere umano sessuato, compiuta con modalità tali da essere emotivamnete arricchenti e da esaltare la
personalità umana, la comunicazione e l’amore”.

I DETERMINANTI DELLA SALUTE :

I determinanti della salute in una popolazione sono riconducibili a quattro categorie:

- l’impronta genetica che determina un numero molto alto di patologie molto rare. Grosso modo si potrebbe
stimare che questi meccanismi sono in grado di spiegare una quota della prevalenza delle patologie umane
intorno al 5%;

- i comportamenti personali legati alla salute sono in grado di spiegare una quota consistente di morbosità.
Usando il caso delle malattie cardiovascolari, si può constatare che il 60% della mortalità per queste patolo-
gie sarebbe evitabile riducendo la concentrazione dei fattori di rischio individuali (come il fumo, la dieta ric-
ca di grassi e povera di fibre, etc..);

- l’assistenza sanitaria interviene in una fase della malattia nella quale essa può avere solo modesti effetti
sulla prevalenza e sulla mortalità delle malattie stesse. Che la medicina non possa giocare un ruolo decisivo
nel determinare i caratteri fondamentali del profilo epidemologico di una popolazione, come la speranza di
vita, non significa che la medicina debba essere trascurata. Infatti la sua capacità di agire sulla qualità della
vita può essere molto alta;

- l’ultima categoria di determinanti della salute è rappresentata dalle circostanze socio-ambientali, quelle
che in tutta la storia della civiltà umana hanno segnato in forme diverse il profilo di salute delle popolazioni.

Le influenze sociali intorno al nucleo della salute dell’individuo si possono descrivere come tre anelli con-
centrici:

- nel primo anello si esercitano le influenze dell’ambiente immediatamente circostante la persona: rete fami-
liare e amicale, casa, quartiere e vicinato, norme di comportamento del gruppo;

- nel seondo anello trovano collocazione le influenze della comunità o dell’area residenziale, come la scuola,
la chiesa il luogo di lavoro, l’economia locale e la disponibilità di lavoro, la bontà dell’amministrazione loca-
le e dei suoi servizi e il sentimento di appartenenza alla comunità locale;

- il terzo anello raggruppa le influenze macrosociali, quelle del sistema economico e politico, le priorità na-
zionali, gli investimenti nelle infrastrutture, il senso di sicurezza, giustizia nella società l’eugualianza nella
distribuzione delle risorse e delle opportunità.

CAPITOLO 2:

STORIA NATURALE DELLE MALATTIE:

FATTORI DI SALUTE:

Esistono numerosi fattori che hanno una valenza positiva nei confronti della sulute e sono considerati fattori
positivi o utili per il mantenimento o il ripristino del benessere.

Ne possiamo elencare diversi, alcuni in relazione alla persona, altri in relazione all’ambiente di vita o siste-
ma socio-culturale o al comportamento:
SISTEMA : CARATTERISTICHE NECESSARIE ALLA CONDIZIONE DI SALUTE :

PERSONA :

SISTEMA BIOLOGICO Buono stato nutrizionale; sufficiente protezione immunitaria.

SISTEMA COGNITIVO Identità affermata; atteggiamenti positivi; adeguata informazione sanitaria.

INTERA PERSONA Stabilità emotiva; benessere fisico; situazione affettiva soddisfacente.

COMPORTAMENTO:

ABITUDINI Abitudini personali corrette.

LAVORO Lavoro appagante e non stressante.

RICREAZIONE Sonno e svago sufficienti.

AMBIENTE DI VITA :

RISORSE FISICHE Apporto di cibo in quantità adeguata e qualitativamente sicuro.

MICRO-AMIBIENTE Abitazioni e comunicazioni adeguate; acqua e aria non contaminate; trasporti sicuri;
razionale smaltimento dei rifiuti.

MACRO-AMBIENTE Clima confortevole; tutela del patrimonio naturale.

Questi fattori alzano il livello di salute.

LA MALATTIA :

Così come numerosi fattori “positivi” concorrono a potenziare le condizioni di benessere, altrettanti numero-
si fattori “negativi” tendono a ridurre il grado di salute conducendo alla malattia.

La malattia può essere definita genericamente come una anormale condizione dell’organismo causata da al-
terazioni organiche o funzionali. In altre parole la malattia consiste in qualsiasi alterazione o interruzione del-
la normale struttura o funzione di una parte, di un organo o di un sistema (o di una combinazione di essi) del
corpo, che si accompagna ad un caratteristico gruppo di segni e sintomi, non sempre ben manifesti, e la cui
eziologia,patologia o prognosi possono essere note o sconosciute

I fattori negativi si dividono in 2 gruppi:

-FATTORI DI RISCHIO: un fattore di rischio è quel fattore la cui presenza è associata ad una maggiore
probabilità (o rischio) di insorgenza di una malattia. Cioè se il fattore è prsente ed attivo aumenta la probabi-
lità che l’effetto, cioè la malattia, si verifichi.

I fattori di rischio possono essere suddivisi in:

- predisponenti, che creano le condizioni di suscettibilità dell’individuo per una malattia;

- precipitanti, che facilitano il manifestarsi della malattia;


- rinforzanti, che tendono a perpetuare o aggravare la presenza della malattia.

- FATTORI CASUALI: per fattore casuale si intende invece un fattore o una condizione direttamente impli-
cati nel determinismo della malattia e capaci di partecipare direttamente alla sua formazione.

La casualità di un fattore può essere ipotizzata, con crescente grado di probabilità, tramite la verifica, con
studi epidemologici, dei seguenti requisiti:

- la plausibilità biologica, cioè la compatibilità biologica, secondo le conoscenze scientifiche in possesso,


degli effetti sull’organismo umano, attribuiti al fattore stesso (AIDS);

- il gradiente biologico degli effetti, cioè la corrispondenza dose/risposta (all’aumentare della dose deve cor-
rispondere un aumento degli effetti);

- la forza dell’associazione, espressa dal valore del Rischio Relativo;

- la specificità dell’associazione, espressa dal valore di Rischio Attribuibile.

Un fattore casuale è definito:

- sufficiente, quando produce inevitabilmente un particolare effetto, cioè, se il fattore (causa) è presente, l’ef-
fetto (malattia) si verifica sempre ( ciò che accade, ad esempio nelle malattie generiche);

- necessario, (COVID-19) quando un determinato effetto deve essere sempre preceduto da una particolare
causa, cioè se il fattore (causa) è assente, l’effetto (malattia) non può verificarsi ( ad esempio, nelle patologie
infettive).

INDICATORI DI RISCHIO:

Con questo termine vengono per lo più definite condizioni associate, non in modo casuale diretto, alla insor-
genza di una patologia, quali l’età, il sesso, la razza, ecc..

Tali condizioni, caratterizzano le categorie di soggetti entro le quali dovrebbe essere effettuata la ricerca
dell’esposizione ai fattori di rischio ambientali e comportamentali.

STORIA NATURALE DELLE MALATTIE :

La presenza di uno o più fattori di rischio o casuali in un sogetto può determinare una modificazione progres-
siva delle sue condizioni di benessere, fino ad arrivare all’insorgenza della malattia.

Esistono numerosi fattori e numerose malattie, ma il modello eziologico, cioè il modello che spieghi l’insor-
genza della maggior parte delle patologie può essere ricondotto ad uno solo: il modello pluricasuale, nel
senso che non è quasi mai un unico fattore a poter determinare l’insorgenza di una malattia senza che non ci
sia il concorso con altri fattori, più o meno decisivi, più o meno noti.

Nel caso di patologie cronico-degenerative sono implicati certamente numerosi fattori, che non possiedono
tutti la stessa forza di azione, ma alcuni di essi hanno una intensità maggiore rispetto a quella degli altri. Cioè
è ancora più vero nel caso delle malattie infettive, nelle quali il microrganismo assume un ruolo casuale pre-
minente da apparire quasi esclusivo, sebbene anche in questo caso il modello è comunque pluricasuale.
Nel soggetto sano, l’azione dei fattori negativi, determina il costituirsi di una condizione di rischio che può
avere tre diverse evoluzioni:

- con l’eliminazione dei fattori negativi, si può avere la regressione del rischio, con il ripristino della condi-
zione di salute;

- con la permanenza dei fattori negativi, si può evere la persistenza della condizione di rischio;

- in alcuni casi, la persistenza dell’azione negativa può sfociare nella insorgenza della malattia.

FATTORI DI MALATTIA
REMISSIONE
DEL RISCHIO
ORGANISMO CONDIZIONE PERSISTENZA IN-
SANO DI RISCHIO DETERMINATA DEL
RISCHIO

MALATTIA

Le malattie possono essere distinte in base ad alcune caratteristiche della loro storia naturale.

La prima riguarda la durata del periodo di latenza e/o di incubazione. Questo periodo può essere breve
(giorni o settimane) o lungo (anni o decenni). Si utilizza di preferenza il termine incubazione parlando di pa-
tologie infettive, mentre nel caso di patologie non infettive il termine più utilizzato è latenza.

La seconda caratteristica riguarda l’esordio clinico della malattia, che può essere clamoroso e drammatico,
tale da richiamare l’attenzione del paziente, oppure subdolo e graduale, tale da passare inosservato al pazien-
te stesso.

La terza caratteristica riguarda il decoroso che può essere più rapido (giorni o settimane) o lento (anni o de-
cenni), in altre parole il decorso può essere acuto o cronico.

La quarta concerne l’esito della malattia, che in alcuni casi può essere rappresentato da una rapida guarigio-
ne, o dalla morte del paziente in tempi stretti, in altri casi si può avere la stabilizzazione per lungo tempo, op-
pure un progressivo peggioramento, e la morte a distanza di anni o decenni.

Tra le quattro caratteristiche, è il tipo di decorso che ci permette di distinguere le patologie cosidette acute da
quelle croniche. In senso generale molte delle patologie infettive,non tutte, possiedono le caratteristiche del
primo gruppo, mentre le patologie cronico-degenerative possiedono, di solito, le caratteristiche del secondo.

CARATTERISTICHE MALATTIE ACUTE MALATTIE CRONICHE


durata periodo di latenza per lo più breve (giorni-settimane) per lo più lungo (anni- decenni)
esordio per lo più clamoroso spesso subdolo e lento
decoroso rapido (giorni-settimane) lento (anni- decenni)
esito per lo più guarigione stabilizzazione peggioramento morte

CAPITOLO 3 :

EPIDEMIOLOGIA:

Il termine epidemiologia deriva dal grego: epi (su), demos (popolazione) e logos (studio) e indica lo studio
di fenomeni riguardanti una popolazione.

Una prima definizione di Epidemiologia è : “Studio, nelle popolazioni,dei diversi fattori (genetici, ambienta-
li e comportamentali) che condizionanao la presenza e la diffusione delle malattie”.
La definizione più completa di epidemiologia è: “disciplina delle scienze mediche che ha per oggetto lo stu-
dio delle condizioni di salute e di malattia di popolazioni umane in relazione con i fattori genetici, ambientali
e comportamentali. Con il fine di individuare i fattori positivi di benessere e quelli causali delle malattie; le
loro modalità di intervento e le condizioni che ne favoriscono od ostacolano l’azione” (Meloni).

Si può fare una distinzione tra:

-l’epimiologia classica, che si occupa dei problemi di salute nella comunità studiando i fattori di rischio che
possono essere implicati nell’insorgenza delle malattie allo scopo di prevenirle o di ritardarne la comparsa;

- l’epimiologia clinica, che invece studia solitamente persone malate allo scopo di migliorare la diagnosi, la
terapia e la prognosi di varie malattie, in altre parole migliorare le decisioni in campo medico.

L’epidemiologia può essere suddivisa anche in epidemiologia delle malattie infettive e in epidemiologia delle
malattie non infettive cronico-degenerative.

Infatti, all’inzio del secolo scorso le patologie più frequenti nei paesi sviluppati erano quelle infettive e da al-
lora la mortalità dovuta a queste cause cominciò a diminuire grazie a complessi interventi socio-sanitari (bo-
nifica degli ambienti, controllo delle acque e degli ambienti,ecc..) diretti alla comunità e dopo il 1950 dimi-
nuì ulteriolmente per l’attuazione di interventi diretti al singolo individuo (vaccinoprofilassi,introduzione in
terapia di sulfamidici ed antibiotico)

Al contrario la mortalità per le malattie non infettive cronico-degenerative cominciò ad aumentare, in par-
ticolare per malattie cardiovascolari e per tumori, rispettivamente prima e seconda causa di morte in Italia a
partire dagli anni 50. Pertanto queste malattie sono diventate oggetto di studio dell’epidemologia, classica e
clinica. Gli ultimi decenni vedendo il diffondersi di patologie di tipo infettivo ma a decorso cronico e patoge-
nesi degenerativa (AIDS, epatiti) rende la distinzione dell’epidemologia delle malattie infettive e di quelle
non infettive solo formale e non sostanziale perchè le metodologie e le tecniche di studio utilizzate sono fon-
damentalmente coincidenti.

Per la clinica l’unità di studio è l’individuo, per l’epidemiologia l’unità di studio è la popolazione o il grup-
po di soggetti che la rappresentano. Infatti l’indagine epidemiologica può essere condotta su tutti i soggetti
che interessano oppure, su una parte di essi che costituiscono un campione statistico.

Requisito fondamentale di un campione è quello di essere rappresentativo della popolazione dal quale pro-
viene, e per questo deve essere: omogeneo, sufficientemente numeroso e scelto assolutamente a caso.

Omogeneità: le unità statistiche del campione devono essere il più possibile simile alle unità che compongo-
no la popolazione (per sesso, per età, per razza, per tipo di lavoro e per tipo di vita ecc...).

Numerosità: più è alto il grado di visibilità della popolazione più numeroso dovrà essere il campione.

Scelta a caso: ogni unità della popolazione deve avere la stessa probabilità di far parte del campione estratto;
questa operazione, detta di randomizzazione, può essere eseguita utilizzando le tavole dei numeri casuali.

Le fasi di uno studio epidemiologico, che dovrebbero sempre essere descritte in un protocollo dello studio,
possono essere:

- definizione degli obiettivi;

- valutazione del modello di studio;

- identificazione della popolazione e campionamento;

- definizione delle variabili da studiare e scelta dei metodi di rilevazione;


- determinazioni delle risorse occorrenti;

- esecuzione dell’indagine e analisi e valutazione dei risultati.

CLASSIFICAZIONE STUDI EPIDEMIOLOGICI:

In tutta la ricerca scientifica per verificare delle ipotesi si ricorre o all’osservazione o alla sperimentazione,
pertanto anche nell’epidemiologia una distinzione fondamentale è quella che distingue gli studi osservazio-
nali da quelli sperimentali.

Negli studi sperimentali è richesto l’intervento diretto del ricercatore sulla realtà (gli studi sperimentali si
possono suddividere in : sperimentazioni cliniche e interventi preventivi).

Osservazionali, in cui il ricercatore si limita ad osservare l’andamento dei fenomeni per trarre le sue conclu-
sioni. Tra gli studi osservazionali si distinguono gli studi descrittivi e gli studi analitici.

Gli studi descrittivi (definiti attualmente anche studi enologici) si basano sull’utilizzo di dati già esistenti, le
statistiche correnti che provengono dalle fonti ufficiali di dati , e di solito prendono in considerazione popola-
zioni intere.

Gli studi analitici invece si avvalgono generalmente di dati ricavati da anamnesi, esami di laboratorio, que-
stionari e pur non agendo direttamente a livello di terapie o di fattori di rischio o casuali , permettono comun-
que una valutazione del loro ruolo nella etiopatogenesi della patologia indagata.

CAPITOLO 4 :

FONTI DI DATI :

Un’importante esigenza di ogni società è quella di poter disporre di informazioni accurate sui fenomeni che
accadono nella popolazione. Quete informazioni possono essere, infatti, la base conoscitiva indispensabile
per la programmazione, l’organizzazione, il monitoraggio e la verifica di diversi tipi di attività, in tutti i cam-
pi e quindi anche in quello sanitario.

Limitandoci al campo sanitario, le fonti di dati epidemiologici oggi esistenti in Italia possono essere, innanzi
tutto, suddivise in fonti ufficiali e fonti non ufficiali.

FONTI UFFICIALI DI DATI :

Le fonti ufficiali di dati (o sistemi informativi correnti, statistiche demografiche correnti) sono rappresenta-
te dalle rilevazioni che vengono eseguite in genere da enti pubblici, su precise disposizioni di legge o norme
a mministrative.

Possono essere classificate in base a 3 caratteristiche: le finalità, il livello e le modalità di rilevazione.

Per quanto riguarda le finalità, si distinguono rivelazioni socio-demografiche e rilevazioni del sistema sanita-
rio.

Per quanto riguarda il livello, si distinguono rilevazioni nazionali, regionali e locali.

Per quanto riguarda le modalità, si distinguono rilevazioni:


- universali e continue, ad esmpio la rilevazione delle cause di morte;

- universali e sporadiche, ad esempio il censimento della popolazione;

- campionarie e continue, ad esmpio i registri di patologia;

- campionarie e specifiche, ad esempio ricerche mirateorganizzate dall’Istituto Centrale di Statistica (ISTAT).


Rientrano in questo gruppo anche la maggior parte delle indagini di epidemiologia investigativa e sperimen-
tale che rientrano nelle fonti non ufficiali di dati.

RILEVAZIONI SOCIO-DEMOGRAFICHE :

Le rilevazioni relative alla “struttura della popolazione” sono rappresentate dai Censimenti. I Censimenti
permettono di presentare lo stato della popolazione in un dato momento e danno informazioni sulla composi-
zione della popolazione per quanto riguarda i caratteri biologici (età, sesso, razza) e sociali (stato civile, livel-
lo di istituzione, professione, condizione socio-economica, ecc..). In Italia, il primo censimento è stato effet-
tuato nel 1861, e dal 1951 i censimenti hanno avuto decorrenza decennale; l’ultimo è stato effettuato nel
2011 e il prossimo dovrebbe aver luogo nel 2021.

Popolazione residente per sesso ai censimenti dal 1861 al 2011 (in migliaia).

CENSIMENTI POPOLAZIONE RESIDENTE


MASCHI FEMMINE TOTALE
31 dicembre 1861 13.399 12.929 26.328
ecc
ecc
ecc
1 dicembre 1921 18.814 19.042 37.856
ecc
ecc

dopo la 1° guerra mondiale non sono di più gli uomini, ma un 2 milioni in più le donne.

nonostante nascono più maschi, sono proprio loro a morire prima.

noi siamo circa 60 milioni (domanda esame).

Altre “rilevazioni di stato” sono costituite dall’Anagrafe, o Registro di popolazione. Nell’Anagrafe vengono
riportate alcune fondamentali informazioni sui cittadini residenti in un dato comune. Alcune delle informa-
zioni presenti all’anagrafe sono estremamente affidabili, come ad esempio la data ed il luogo di nascita o la
struttura familiare, altre invece sono di qualità assai inferiore, come ad esempio la professione o il titolo di
studio che non danno generalmente garanzie di un tempestivo aggiornamento. Le anagrafi comunali possono
fornire informazioni sull’entità e sulla struttura della popolazione nei periodi intercensuari.

Le rilevazioni relative al “movimento della popolazione”o “rilevazioni di flusso” sono rappresentate invece
dal Registro di Stato Civile. Nel Registro di Stato Civile vengono riportati i fenomeni demografici che av-
vengono in un determinato comune. Queste rilevazioni si propongono di seguire nel tempo le manifestazioni
dei fenomeni, quali nascite, morti, migrazioni, che determinano la continua evoluzione della struttura della
popolazione. Nel “bilancio demografico” la differenza tra nascite e morti costituisce il cosidetto “movimento
naturale” della popolazione; immigrazioni ed emigrazioni costituiscono il cosidetto “movimento migratorio”.

I dati demografici di maggiore interesse epidemiologico che provengono da queste Fonti ufficiali sono: la nu-
merosità della popolazione residente, le cause di morte e la notifica di malattie infettive.
I dati relativi alla numerosità della popolazione residente , complessiva e/o suddivisa per sesso e per classi
di età, che provengono dai Censimenti o dalle Anagrafi, vengono usati come denominatori nel calcolo di vari
tassi (di natalità, di mortalità, di morbosità, ecc..) e di altri parametri di interesse demografico.

La rilevazione delle cause di morte costituise uno dei più importanti flussi informativi sanitari. Attualmente,
il medico che accerta un decesso ha l’obbligo di denunciare al sindaco le cause di morte, compilando l’appo-
sita scheda di morte, stabilita dal Ministero della Salute in accordo con l’ISTAT.

Esistono quattro modelli di scheda, distinti a seconda del sesso e a seconda che la morte sia avvenuta prima o
dopo il primo anno di vita. Ogni scheda è composta di due parti. Nella prima il medico certificatore riporta i
dati sanitari relativi alla modalità della morte, se naturale o accidentale, e alla sequenza delle cause che han-
no portato al decesso (causa iniziale, causa intermedia e causa terminale). La seconda parte, che è compilata
dall’Ufficiale di Stato Civile, contiene notizie anagrafiche.

ITALIA. Morti per gradni gruppi di cause (dati assoluti) dal 1998 al 2008.

Cause di morte 1998 2000 2002 2006 2008

Malattie infettive e
parassitarie
Tumori
Malattie sistema
nervoso
Malattie sistema
circolatorio
Malattie apparato
respiratorio
Malattie apparato
digerente
Altre malattie
Cause esterne Trau-
matismi
Totale 574.231 560.121 560.390 558.614 581.443

In Italia muoiono circa 500 mila persone (domanda esame).

RILEVAZIONE DEL SISTEMA SANITARIO:

Comprendono le casistiche ospedaliere, i Registri di Patologia e il Sistema Informativo Sanitario.

Le casistiche ospedaliere, sopratutto i dati delle schede di accettazione-dimissione ospedaliera (SDO), rap-
presentano una modalità universale e contiua per ottenere dati epidemiologici sui ricoveri ospedalieri. Nelle
SDO (schede di accettazione-dimissione ospedaliera) sono riportati i dati anagrafici completi del paziente,
dati relativi al ricovero ed ai trasferimenti e dati nosografici (diagnosi all’ammissione, alla dimissione, even-
tuali interventi chirurgici). Ogni tre mesi le schede di accettazione-dimissione ospedaliera vengono inviate
dalla regione di appartenenza al Servizio Centrale della Programmazione del Ministero della Salute che prov-
vederà alla raccolta, alla elaborazione e alla pubblicazione dei dati.

I Registri di Patologia sono sistemi di registrazione speciale per alcune malattie (tumori maligni, diabete
mellito insulino-dipendente, malattie cardiovascolari, malformazioni congenite, patologie a componente ge-
netica) per le quali non sono disponibili i dati dalle fonti demografiche. Per tali fonti di dati manca tuttavia
una distribuzione omogenea sul territorio nazionale.
I Registri Tumori sono l’esempio più caratteristico e storico di registri di patologia; sono stati attivati con
successo solo in alcune province italiane tra cui Torino, Pordenone, Ragusa, Latina e Varese mentre in altri
paesi (ad esempio la Danimarca) si estendono a tutto il territorio nazionale. L’importanza del registro tumori
sta nel fatto di poter ricavare dati attendibili sull’incidenza delle neoplasie, divenuti oggi più importanti dei
tassi di mortalità nella valutazione dell’andamento delle neoplasie per il miglioramento delle terapie mediche
e chirurgiche che rallentano e talora arrestano l’evoluzione di alcuni tumori maligni (mammella,cervice uteri-
na, colon-retto, leucemie).

Altri registri di patologia che si sono diffusi sempre più negli anni, dapprima in alcuni stati degli USA e nelle
nazioni del Nord Europa quindi anche in Italia, sono i Registri di Incidenza per il diabete mellito di tipo 1,
insulino-dipendente (IDDM). Uno dei primi ad essere stato organizzato in Italia è quello della provincia di
Pavia, al quale ne sono seguiti diversi, come quello della Sardegna, del Lazio,della Liguria, della città di To-
rino, delle Marche ed altri ancora.

Con la legge 833/78 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) era stata pianificata anche l’istituzio-
ne di un Sistema Informativo Sanitario (SIS).

Il Sistema Informativo Sanitario (SIS) potrebbe essere definito come il complesso delle procedure di rac-
colta ed elaborazione delle informazioni, identificabile in una serie di sottosistemi, integrati però in un mo-
dello unitario e globale con precise finalità conoscitive.

Il SIS dovrebbe attivare flussi iformativi:

- a livello locale nella Azienda Sanitaria Locale (ASL) dove ci dovrebbe essere una prima stazione di raccol-
ta delle informazioni che arrivano da più fonti (anagrafi, medici, ospedali, servizi sociali e sanitari territoriali,
distretti di base, ecc..);

- a livello regionale, dove i dati raccolti presso le singole ASL, dovrebbero confluire in una struttura identifi-
cabile con l’Osservatorio Epidemiologico Regionale (OER);

- a livello centrale, da tutte le regioni l’informazione dovrebbe raggiungere un’unica stazione del SIS collo-
cata presso il Ministero della Salute o presso l’Istituto Superiore di Sanità (ISS).

Per quanto concerne l’Osservatorio Epidemiologico Regionale (OER), questa struttura dovrebbe essere in
grado di assicurare le seguenti funzioni:

- programmazione e standardizzazione dei flussi informativi, in pratica la riorganizzazione dei vari sottosiste-
mi già esistenti;

- valutazione delle condizioni saniatrie della popolazione. Anche se già a livello delle ASL si ha una prima
elaborazione delle informazioni, data la suddivisione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) italiano a livel-
lo regionale, una valutazione a questo livello sarebbe auspicabile;

- rilevazione dei fenomeni particolari e degli indicatori di criticità, fra i quali assumono particolare interesse i
cosidetti “eventi sentinella”: sono gli eventi la cui comparsa sono sufficienti a determinare una situazione di
allarme ( ad esmpio colera, mortalità post-partum, ecc..).

A questo proposito devono essere considerati tre aspetti:

- la completezza, cioè la capacità del sitema di raccogliere tutti i dati. Alcuni sono facilmente ottenibili (dati
di mortalità), altri lo sono meno (denuce di malattie infettive non gravi);

- l’attendibilità, cioè la corrispondenza fra quanto viene rilevato e quanto effettivamnete è avvenuto (preci-
sione della diagnosi);
- la confrontabilità, che dipende dalla omogeneità di rilevamento dei dati (standardizzazione).

FONTI NON UFFICIALI DI DATI :

Poichè le fonti ufficiali non danno informazioni per conoscere la diffusione di alcune malattie è necessario
intrapendere indagini specifiche “ad hoc” (cioè: adatte, appropriate a particolari casi o circostanze), che pos-
sono essere catalogate, come dicevamo prima, tra le rilevazioni campionarie e sporiadiche.

I motivi principali per condurre queste indagini consistono nel fatto che: le rilevazioni demografiche non
danno informazioni sulle malattie croniche non infettive (cardiopatie ischemiche, tumori, diabete, ecc..); i da-
ti relativi alle malattie infettive spesso sono sottostimati; le casistiche ospedaliere non danno informazioni
sulla reale diffusione delle malattie nella popolazione poichè i pazienti ospedalizzati non sono un campione
rappresentativo. Inoltre molte variabili associate alle malattie, come ad esmpio alcune abitudini comporta-
mentali (abitudine al fumo, tipo di alimentazione) o variabili organiche (valori della pressione arteriosa, della
colesterolemia, ecc..), non sono ottenibili dalle fonti ufficiali. Per ottenere queste informazioni è pertanto ne-
cessario rincorrere ad appositi studi progettati allo scopo.

CAPITOLO 5 :

MISURE IN EPIDEMIOLOGIA :

PRINCIPALI MISURE IN EPIDEMIOLOGIA : I TASSI

La formula generale di un tasso è data dal seguente rapporto:

TASSO = Numeratore / Denominatore x Costante di moltiplicazione k

Per tasso si intende “il rapporto esistente, in un tempo definito, fra il numero di casi o eventi osservati (N) e
la popolazione che li ha generati (P) moltiplicando per una costante k, multiplo di 10”.

Tasso = N / P x k

Esistono tassi grezzi, tassi specifici e tassi standardizzati.

Il tasso grezzo esprime la misura di tutti gli eventi di un certo tipo (morti, malattie, ecc..) occorsi in un deter-
minato periodo di tempo in una intera popolazione.

Il tasso specifico è quello riferito ad eventi particolari, quali singole malattie o cause di morte, o a gruppi di-
stinti all’interno della popolazione in base all’età, al sesso o a qualunque altra variabile.

I tassi standardizzati si detrminano facendo una correzione dei tassi grezzi o specifici allo scopo di eliminare
l’influenza di una o più variabili (l’età, la classe sociale, ecc..).

I tassi si dividono in :

MISURE DI MORTALITA’ :
I dati di mortalità sono le misure più tradizionali e semplici studiate in epidemiologia.

Tasso di mortalità generale o tasso grezzo di mortalità : è il rapporto fra il numero totale di morti in un de-
terminato periodo (generalmente un anno) e l’intera popolazione, riferito a 1.000 o 10.000 o 100.000 abitan-
ti.

Esempio: Tasso di mortalità in Italia nel 2012.

N° morti 612.883 / Popolazione 59.685.227 = 0,0103 = 1,03 per 100 abitanti

10,3 per 1000 abitanti

103 per 10.000 abitanti

Un importante tasso di mortalità specifico per età è il tasso di mortalità infantile che si calcola mettendo in
rapporto il numero di bambini morti nel primo anno di vita e il numero di nati vivi nello stesso periodo.

Mortalità infantile = N° di bambini morti, di età < 1 anno / N° di nati vivi in quell’anno solare x 1000

(prima di compiere 1 anno di età) (in quell’anno, in quei 365 giorni)

MISURE DI MORBOSITA’ :

La Prevalenza è la frequenza relativa, cioè la proporzione, dei casi di malati in atto in un dato momento del-
la popolazione studiata.

La formula per calcolare la prevalenza è:

N° di casi esistenti di malattia al tempo t0 / Ammontare della popolazione totale al tempo t0 x k

Si definisce Incidenza invece il numero di nuovi casi di malattia insorti in una popolazione in un determina-
to periodo di tempo (tl - t0), generalmente un anno:

N° di nuovi casi di malattia nel periodo (tl-t0) / Popolazione a rischio all’inizio del periodo x k

(tl-t0 è il periodo che viene considerato il periodo iniziale meno il periodo finale)

Altre due misure sono:

Per Letalità si intende il rapporto percentuale fra il numero di morti per una determinata malattia e il numero
di malati della stessa malattia, secondo la formula:

N° di morti (per una specifica malattia) / N° di malati ( di quella stessa malattia) x 100

La Durata della malattia è definita come il periodo intercorrente dall’inizio della malattia fino alla guarigio-
ne o alla morte del paziente.

Esiste una relazione tra Prevalenza, Incidenza e Durata della malattia, infatti:

Prevalenza = Incidenza x Durata


CAPITOLO 6:

INDICATORI SANITARI:

Le definizioni di indicatore sanitario sono innumerevoli, anche perchè sono applicati in diversi campi e a
seconda dei punti di vista assumono significati differenti.

Si può definire indicatore sanitario : “Un dato statistico, ottenuto attraverso opportune rilevazioni ed elabora-
zioni, dotato di valore informativo ai fini della descrizione e dell’interpretazione del fenomeno che si vuole
considerare”.

In sintesi, si può subito precisare che molti di questi dati statistici altro non sono che dei Tassi, cioè misure,
numeri, elementi quantitativi derivati da una quantificazione, e spesso sono basati sulle Fonti di dati correnti.

Per svolgere la loro funzione devono avere alcuni requisiti che riguardano la rilevazione:

- accuratezza: la rilevazione deve essere priva di errori sistematici;

- completezza: la rilevazione deve riguardare tutti gli eventi oggetto di indagine;

- riproducibilità: la rilevazione può essere ripetuta senza presentare variazioni;

- validità: quando i tre requisiti precedenti coesistono.

Altri requisiti riguardano la qualità dell’indicatore da un punto di vista concettuale, che pertanto deve essere:

- pertinente: è in grando di misurare realmente il fenomeno che interessa;

- specifico: è in grado di misurare solo il fenomeno che interessa

- sensibile: è in grado di misurare differenze nell’intensità del fenomeno;

- essenziale: è in grado di misurare i tratti essenziali del fenomeno;

- discriminante: è in grado di misurare la differenza tra fenomeni.

Naturalmente il giudizio sulle condizioni sanitarie di una popolazione non possono derivare dallo studio di
un solo indicatore, ma occorre esaminare la situazione da diversi punti di vista, in altre parole occorre avere
a disposizione più indicatori, da studiare unitariamente.
Gli indicatori delle condizioni sanitarie della popolazione consentono di formulare un giudizio complessivo
sulle condizioni sanitarie di una popolazione.

Lo studio delle condizioni di benessere o malattia rappresenta lo stumento fondamentale per individuare i bi-
sogni reali di una popolazione e per la programmazione delle risorse da destinare al soddisfacimento dei bi-
sogni emersi.

Gli indicatori possono essere suddivisi in positivi e negativi; possono essere anche divisi in diretti e indiretti.
Avremo pertanto quattro categorie di indicatori , in relazione alle quattro possibili combinazioni.

Diretti: sono rappresentati da variabili presenti nei singoli soggetti o che comunque misurano fattori o eventi
insiti nella popolazione.

Indiretti: sono costituiti da variabili che esprimono il rischio potenziale della popolazione connesso all’espo-
sizione a fattori nocivi di tipo ambientale, socio-economico, culturale e comportamentale.

Positivi: sono quelli con una tendenza prevalente verso le condizioni di benessere.

Negativi: attengono a condizioni di disagio e malessere o di malattia ( o anche di morte)

Abbiamo quindi diretti positivi e negativi e indiretti positivi e negativi.

INDICATORI DIRETTI NEGATIVI:

La mortalità:

I dati di mortalità sono i più utilizzati perchè risultano tra i più disponibili e facilmente rilevabili.

L’uso dei tassi grezzi di mortalità risulta utile per verificare il trend temporale e spaziale della mortalità. Ai
fini di un confronto della situazione in tempi diversi sono utili anche i tassi propozionali di mortalità per
grandi gruppi di cause.

Tra i tassi di mortalità in particolari periodi di vita quello feto-infantile è di gran lunga uno dei più studiati.
Due indicatori relativi a questo periodo frequentemente utilizzati sono il tasso di mortalità infantile e quello
di mortalità perinatale.

La mortalità infantile, essendo sostenuta da cause esogene (alimentazione indadeguata, cattive condizioni
igeniche) è ritenuta un indice abbastanza fedele delle condizioni socio-economiche e igenico-sanitarie di una
popolazione.

La mortalità perinatale, dipendendo da fattori causali che agiscono durante la gestazione o il parto, assume
il ruolo di indicatore di adeguatezza dei servizi di assistenza alla madre durante la gravidanza e della qualità
delle cure mediche praticate durante il parto.

Per quanto riguarda il periodo feto-infantile, il primo anno di vita può essere suddiviso in diversi periodi ai
quali corrispondono altrettanti tassi di mortalità specifici, avremo pertanto:

i tassi di natimortalità: cioè il rapporto tra il numero di nati morti, successivi alla 28° settimana, e il to-
tale dei nati;

di mortalità perinatale: nati morti + morti nella prima settimana di vita sul totale dei nati;

di mortalità neonatale: suddivisa a sua volta in neonatale precoce, cioè, i morti nella prima settimana
di vita sul totale dei nati;
e post- neonatale: morti nel periodo compreso tra 2° mese e 12° mese di vita sul totale dei nati.

Nello schema sull’andamento della mortalità infantile in Italia dal 1901 al 2009, possiamo ricavare che su
1000 bambini che nascono adesso ne muoino 3.

Dalle tavole di mortalità derivano due indicatori:

- uno a tendenza negativa: Curva di Lexis;

- uno a tendenza positiva: Vita media o Speranza di vita.

Con i dati di mortalità è possibile costruire quella che viene chiamata la curva di Lexis (dal nome del suo
ideatore), che consiste nella rappresentazione grafica della distribuzione della mortalità in funzione dell’età.
Su un sistema di assi cartesiani, con l’ascissa (-) uguale all’età e l’ordinata (|)uguale al numero dei morti per
le varie età, è possibile tracciare questa curva, che ha un particolare significato sanitario. Infatti se noi ipotiz-
ziamo che la mortalità biologica si distribuisca in modo “normale ”, cioè seguendo un andamento di tipo co-
sidetto “gaussiano”, possiamo considerare le morti che non rientrano in quest’area come “fuori dalla norma-
lità” , ovvero morti precoci, dovute spesso a fatti accidentali (incidenti automobilistici, domestici,ecc) e quin-
di come tali prevenibili ed eliminabili.

non sono normali

si dice che sono normali

La morbosità:

I dati di morbosità sarebbero indicatori più validi per misurare le condizioni sanitarie, purtroppo però la loro
disponibilità è molto limitata. Infatti esistono solo per le malattie infettive e soggette a denuncia obbligatoria.
Nonostante queste limitazioni, i dati di morbosità disponibili possono comunque essere utili per studiare ad
esempio le modificazioni temporali della incidenza delle patologie.

Tassi di vecchiai e di dipendenza:

Il Tasso di vecchiaia = N° soggetti maggiori o uguali ai 65 anni / N° soggetti minori o uguali ai 14 anni x
100

T. di dipendenza = N° di soggetti minori o uguali ai 14 anni + N° soggetti maggiori o uguali ai 65 / N° sog-


getti di età 15-64 x 100 (il numeratore dipende dal denominatore, ecco il perchè di questo nome)

Il tasso di dipendenza è un tasso a valenza ambigua in quanto da un lato evidenzia un fattore positivo, infatti
se aumentano gli anziani ciò significa che si vive più a lungo, dall’altro questo aumento di soggetti anziani
implica una maggiore domanda ti tipo sanitario e quindi maggiori richieste di tipo economico e sociale. In
pratica il tasso di dipendenza aumenta, perchè i soggetti con minor reddito gravano in numero e in qualità sui
soggetti apportatori di reddito.

INDICATORI NEGATIVI INDIRETTI:

Indicatori del degrato e della contaminazione ambientale.

Alcune matrici ambientali, come l’acqua e l’aria ad esempio, sono indispensabili alla vita dell’uomo, pertan-
to una modificazione in negativo della loro qualità ha necessariamente riflessi sulla salute degli individui.
Quindi il livello di inquinamento di queste matrici, che è possibile misurare, fornisce indirettamente informa-
zioni sulle condizioni sanitarie della popolazione.

Indicatori di stile di vita scorretto.

Se consideriamo l’importanza di alcuni comportamenti come fattori di rischio o casuali di alcune patologie,
si pensi ad esempio all’abitudine al fumo, all’abuso di alcool, all’uso di droghe, ad una alimentazione quanti-
tativamente eccessiva e qualitativamente sbilanciata, i dati che riguardano la produzione e la vendita, cioè il
mercato di queste sostanze o di questi prodotti, ci possono dare informazioni importanti e utili sulle condizio-
ni sanitarie della popolazione.

Indicatori di utilizzo delle strutture sanitarie.

Un interessante contributo per studiare le condizioni sanitarie di una popolazione sono gli indicatori di utiliz-
zo delle strutture sanitarie. Più che il tasso grezzo di ospedalizzazione, importanti sono i tassi specifici relati-
vi all’età, al sesso e alle cause di ricovero. La raccolta continua di queste informazioni ci permette di studiare
i trend temporali, e quindi elaborare delle previsioni sulla evoluzione e sulla domanda di prestazioni.

INDICATORI POSITIVI DIRETTI:

Natalità:

In contrapposizione agli indicatori diretti negativi come la mortalità, tra gli indicatori diretti positivi possia-
mo collocare ad esempio la natalità. Il tasso di natalità si calcola con la formula:

Tasso di natalità: N° dei nati vivi (in un anno) / N° della popolazione x 1000

Un tempo questo tasso è sempre stato considerato un indicatore di buone condizioni sanitarie della popola-
zione, ma attualmente possiamo osservare, grazie ad altri tipi di indicatori, che un alto tasso di natalità si ve-
rifica sopratutto nelle società più disagiate da un punto di vista economico e quindi sanitario, in altre parole
nelle società cosidette in via di sviluppo. Mentre nei Paesi con un più alto sviluppo tecnologico ed economi-
co il tasso di natalità si è ridotto negli ultii decenni fino a determinare quella situazione definita “popolazione
a crescita zero”.

Tasso di fecondità:

Confrontando i tassi di natalità con quelli di mortalità possiamo avere informazioni riguardo il bialancio de-
mografico di una popolazione, sapere se il numero di persone aumenta o diminuisce. Un’altra misura ci con-
sente di avere ulteriori informazioni sull’andamento demografico di una popolazione, questa misura è il tasso
di fecondità generale, che si calcola ponendo al denominatore tutte le donne in età fertile.

Tasso di fecondità: N° annuale di nati vivi / Popolazione femminile 15-49 anni (fertili) x k
Piramide dell’età:

La piramide dell’età è la rappresentazione grafica della distribuzione di una popolazione per sesso o per età.
Questo grafico è costituito da due istogrammi appaiati, uno per i maschi l’altro per le femmine, che riportano
in percentuale la distribuzione della popolazione suddivisa per classi di età, che hanno un intervallo di 5 o 10
anni.

E’ un tipico indicatore statistico, però permette un confronto sia temporale sia spaziale.

La configurazione tipica “a piramide” attualmente si verifica se si prendono in considerazione le popolazioni


dei Paesi in via di sviluppo, dove ad una elevata natalità corrisponde una base ampia del grafico, e ad una
elevata mortalità in tutte le fasce di età corrisponde un progressivo ed evidente restringimento dell’apice del
grafico.

Nei Paesi del mondo economicamente avanzato, ad una bassa natalità corrisponde una base stretta, e ad una
bassa mortalità corrisponde un mancato restringimento della piramide, ciò fa assumere al grafico una confor-
mazione irregolarmente poligonale.

Ad esempio la piramide dell’età costruita per la popolazione italiana per l’anno 2000 mostra una forma carat-
teristica dei Paesi industrializzati, con una base ristretta indicativa di bassa natalità. In questa piramide si pos-
sono “leggere” gli effetti delle fluttuazioni della natalità avvenuta nel corso del tempo. La base si restringe
sempre più per una riduzione delle nascite avvenuta negli anni Ottanta e inizio Novanta. Le età più rappre-
sentative sono quelle intorno a 30-40 anni, cioè le generazioni nate nel boom di nascite verificatosi negli anni
Sessanta, periodo in cui vi è stat una elevata fecondità (il cosidetto “bady-boom”, boom delle nascite) conse-
guente alla percezione di sicurezza e fiducia nel futuro indotte dallo sviluppo economico di quegli anni
(nell’anno 1964 c’è stato il massimo delle nascite del dopoguerra) .

Durata media della vita o speranza di vita:

Questi indicatori sono delle misure dinamiche delle sopravvivenza. Il più diffuso è dato dalla vita media,
cioè dalla speranza di vita alla nascita, in altre parole il numero medio di anni che un nuovo nato potrebbe vi-
vere se la durata complessiva di vita dell’intera popolazione fosse distribuita uniformemente ad ogni sogget-
to.
La durata media della vita della popolazione italiana è tra le più alte del mondo, in concorrenza con la popo-
lazione giapponese.

Indicatori antropometrici:

E’ da sempre conosciuta la relazione tra buone condizioni nutrizionali di un bambino e la sua crescita. La mi-
surazione della statura media di diverse popolazioni, degli USA e dell’Europa, nell’ultimo secolo ha permes-
so di rilevare un suo progressivo aumento, e poichè in queste popolazioni il livello delle condizioni sanitarie
è migliorato notevolmente, questo dato viene utilizzato come indicatore positivo diretto.

INDICATORI POSITIVI INDIRETTI:

Sono numerosi gli indicatori di tipo sociale e sopratutto economico che possono essere utilizzati per valutare
le condizioni sanitarie di una popolazione. Per citarne alcuni, basti pensare al prodotto interno lordo (PIL) di
un Paese, il reddito individuale, la spesa sanitaria, ecc..
CAPITOLO 7:

TOSSICODIPENDENZA:

Definizione farmacologica di droga:

Per droga si può intendere: “una sostanza chimica, naturale o artificiale, che modifica la psicologia o l’atti-
vità mentale degli esseri umani e che può indurre uno stato di dipendenza.

Nel corso dei secoli tutte le civiltà, in varia misura, sono state caratterizzate dall’uso di sostanze psicoattive,
ed è solo nell’ultimo secolo che la diffusione delle numerose sostanze e le conseguenze derivanti costituisco-
no un grave problema sociale.

Le origini dell’odierna epidemia vanno ricercate dunque nei mutamenti socio-culturali dell’ultimo secolo.

PSICOBIOLOGIA DELLE TOSSICODIPENDENZE:

Lo studio adeguato della tossicodipendenza richiede un approccio multidisciplinare, che spazi dalla biologia
molecolare e cellulare per arrivare sino alla psichiatria ed alla sociologia.

Una caratteristica comune alle tossicodipendenze è il fatto che le sostanze che le inducono possiedono spic-
cate proprietà motivazionali nel senso che l’esperienza dei loro effetti oggettivi è per il tossicodipendente un
fine primario dell’esistenza al pari di stimoli naturali come il cibo, l’acqua, il sesso, ecc.. Tale proprietà moti-
vazionale fa si che stimoli condizionati da tali sostanze, per essere stati ripetutamente associati ai loro effetti,
diventano capaci di scatenare un intenso desiderio di riprovarne gli effetti, questa bramosia intensa viene co-
munemente definita “craving” . Il “craving” può essere pertanto considerato l’aspetto patognomico della tos-
sicodipendenza indipendentemente da variabili individuali, sociali o farmacologiche.

La tossicodipendenza:

- non è solo un problema medico ma anche sociale e legale;

- è un male che colpisce l’individuo ma anche la famiglia e la società;

- è una malattia cronica, indotta da motivi psiologici di origine sociale ed economica, ma anche dagli effetti
biologici della droga.

PROPRIETA’ GRAFICANTI DELLE SOSTANZE D’ABUSO:

Una proprietà intrinseca, comune a tutte le sostanze d’abuso e che può verificarsi fin dalla prima sommini-
strazione, è quella di provocare effetti gratificanti nei mammiferi, incluso l’uomo. Infatti, tutte le sostanze
d’abuso, dall’alcool all’eroina, dalla cocaina all’amfetamina, dalla nicotina ai barbiturici1, sono in grado di
provocare sensazioni piacevoli o di ridurre quelle spiacevoli, di alleviare la tensione e l’ansia, di migliorare
l’interazione sociale ed il tono dell’uomore; le sensazioni piacevoli possono essere non più forti di una legge-
ra euforia o essere molto intense oppure consistere in una condizione di “magico” distacco dalla realtà.

I meccanismi cerebrali che le sostanze d’abuso utilizzano per produrre questi effetti si trovano nelle aree lim-
biche del Sistema Nervoso Centrale (SNC) e si sono sviluppati nel corso della evoluzione allo scopo di forni-
re una motivazione al compimento di funzioni essenziali alla vita del singolo e della specie.

1
sono farmaci liposolubili derivati dall’acido barbiturico, che agiscono sul sistema nervoso centrale e deter-
minano effetti come la sedazione o l’anestesia.
Non è un caso infatti, che i meccanismi della gratificazione siano strettamente connessi a comportamenti pri-
mordiali come quello alimentare, sessuale e materno. Il cibo, l’acqua, il parthner sessuale, la madre per il
neonato, il neonato per la madre, sono l’origine di altrettanti stimoli gratificanti.

Questo meccanismo fornisce una spiegazione dell’attrativa e della capacità di coinvolgimento delle sostanze
di abuso e della loro proprietà di sostituirsi ad altri stimoli gratificanti, siano oggetto d’abuso da parte
dell’uomo; così, una sostanza non diventa “droga” per pura scelta individuale. Non si conoscono casi di abu-
so di neurolettici, di antidepressivi, di antistaminici, semplicemente perchè questi farmaci non sono in grado
di produrre gratificazione.

MODELLI SPERIMENTALI DI ADDICTION:

Le proprietà di rinforzo di una droga possono essere misurate agevolmente negli animali. Generalmente, ani-
mali come i ratti e le scimmie, nei quali sia stato opportunamente inserito un catedere venoso connesso con
una pompa regolabile da una leva (esperimenti chiamati di “self-administration”, autosomministrazione),
imparano rapidamente a lavorare per ottenere iniezioni di droga.

Al momento attuale i criteri di inclusione fra le sostanze di abuso sono fondamentalmente due:

- la volontaria auto-somministrazione da parte di mammiferi non umani;

- l’acuta stimolazione del sistema limbico.

DISTURBO DEL COMPORTAMENTO:

- USO: consumare una sostanza psicoattiva per scopi non medicinali.

- USO RICREAZIONALE: uso di droghe limitato a occasioni sociali e durante il tempo libero.

- ABUSO: uso anomalo e protatto di droga (quantità e frequenza) tale da comportare problemi per l’indivi-
duo (medico-clinici e sociali).

CARATTERISTICHE DELLE SOSTANZE D’ABUSO:

Il termine “abuso” si riferisce, in ogni caso, all’autosomministrazione di una sostanza secondo modalità che
si discostano dalle norme mediche e sociali condivise.

Il potenziale tossicomanigeno di un farmaco viene, tradizionalmente, messo in ralazione alla capacità di de-
terminare: tolleranza acquisista; dipendenza fisica; dipendenza psicologica.

La tolleranza acquisita: si manifesta quando dosi progressivamente maggiori di un farmaco devono essere
somministrate per ottenere gli effetti farmacologici desiderati. Essa tuttavia, deve essere considerata un feno-
meno generale non limitato alle “droghe”, riguardando anche altri farmaci che certamente non provocano au-
to-somministrazione. Viceversa, sostanze di abuso come cocaina ed amfetamine non determinano tolleranza
e mantengono le proprietà eccitanti per prolungati periodi di somministrazione, senza richiedere apprezzabili
incrementi di dosaggio.

(Tolleranza: la sostanza perde di efficacia e bisogna aumentare la dose per ottenere lo stesso effetto)

La dipendenza fisica: la dipendenza è caratterizzata da un insieme di sintomi che indicano chiaramente co-
me l’individuo continui a fare uso di una sostanza, nonostante i problemi correlati all’uso della stessa. La di-
pendenza fisica si instaura, usualmente, quando un farmaco è assunto per un congruo periodo di tempo con
concentrazioni ematiche mantenute relativamente costanti per giorni, settimane o mesi. La sua manifestazio-
ne sintomatica è la sindrome d’astinenza, che compare quando l’assunzione cronica è sospesa improvvisa-
mente oppure in seguto alla somministrazione di specifico anatagonista. Si ritiene
che l’astinenza sia da considerare come uno stato motivazionale analogo ad una deprivazione biologica (fa-
me, sete, astinenza sessuale ecc..). Dipendenza fisica e tolleranza acquisita sono espressione della cpacità di
un farmaco di provocare reazioni adattive da parte dell’organismo, ma non costituiscono il requisito minimo
che una sostanza deve possedere per mantenere il “drug seeking behaviour” (comportamento di compulsiva
ricerca).

(Sindrome d’astinenza: è l’insieme dei disturbi fisici e psichici derivanti dalla brusca sospensione dell’assun-
zione).

(Dipendenza: può essere fisica e psicologica, si manifesta con il desiderio incontrollabile di continuare ad as-
sumere la sostanza e di procurarsela con ogni mezzo).

La dipendenza psicologica: sebbene la dipendenza psichica talvolta non si accompagni a delle manifestazio-
ni fisiche chiaramente qualificabili, si può ragionevolmente assummere che delle modificazioni si verifichi-
no, invece nel cervello, a livello molecolare e recettoriale. Concetto fondamentale nella definizione della di-
pendenza psichica è il “craving”, termine inglese che esprime il desiderio incontrollabile, la bramosia irre-
frenabile, che porta il tossicodipendente ad assumere la droga in maniera continuativa. Esistono due compo-
nenti di questo fenomeno: una è rappresentata dalla disforia, legata all’impossibilità di ottenere la sostanza
desiderata, mentre l’altra, è rappresentata da quello stato di “piacere” anticipatorio che precede l’ottenimento
della sostanza. Le ricadute sono riconosciute essere la vera malattia del tossicodipendente e la dipendenza
psicologica, risulta l’elemento costitutivo fondamentale della tossicodipendenza. E’ la dipendenza psicologi-
ca, dunque, la vera dipendenza, di cui tolleranza e dipendenza fisica sono corollario. Per quanto riguarda la
variabile “sostanza”, dobbiamo dire che le droghe si differenziano anche per la capacità di indurre sensazioni
piacevoli immediate negli individui. Sono queste sostanze che inducono un “rinforzo positivo”. Il termine
rinforzo viene utilizzato per definire la particolare proprietà alle droghe di produrre degli effetti capaci di in-
durre nel soggetto il desiderio i riprovarli. Maggiore è il rinforzo, maggiore è la probabilità che la sostanza
venga abusata.

STORIA NATURALE DELLA TOSSICODIPENDENZA:

E’ possibile distinguere varie fasi e stadi nel rapporto tra soggetto e sostanza d’abuso che conduce alla tossi-
codipendenza. Come ogni comportamento motivato la tossicodipendenza comporta tre fasi: acquisizione,
mantenimento,estinzione. La fase di acquisizione si attua attraverso vari meccanismi. Inizialmente il sogget-
to deve imparare a distinguere tra gli effetti piacevoli e quelli spiacevoli della sostanza d’abuso. Infatti tutte
le sostanze d’abuso hanno sia proprietà gratificanti che avversive che possono coesistere in una stessa dose.
In una seconda fase il soggetto acquisisce stimoli incentivi (appredimento incentivo) la cui percezione genera
“craving” più o meno spiccato. In questo stadio il consumo può essere ancora saltuario. Nel periodo mante-
nimento si consolidano i comportamenti acquisiti ed il soggetto diventa incapace di controllare il “craving”.
La terza fase della tossicodipendenza è quella dell’estinzione del comportamento d’abuso. Per alcuni sogget-
ti questa fase rientra nella storia personale spesso grazie anche ad un tempestivo ed efficace intervento terau-
petico. Per altri invece la fase di estinzione non fa in tempo ad instaurarsi.

DATI EPIDEMIOLOGICI:

I dati, che emergono dalle indagini campionarie riferibili agli anni 2012 e 2013, elaborati dall’Osservatorio
Italiano delle Droghe del Dipartimento Politiche Antidroga, evidenziano che il 95,04% della popolazione, tra
i 15 e 64 anni, non ha assunto alcuna sostanza stupefacente negli ultimi 12 mesi.

La cocaina dopo un tendenziale aumento che caratterizza il primo periodo sino al 2007, segna una costante e
continua contrazione della prevalenza di consumatori sino al 2012, stabilizzandosi nel 2013. Per l’eroina si
osserva una costante e continuo calo del consumo sin dal 2004, anno in cui si è osservata la prevalenza di
consumo più elevata nel periodo di riferimento.
L’indagine 2013 sui soggetti tra i 15 e 19 anni ha invece sottolineato un lieve aumento di consumatori di can-
nabis che hanno dichiarato di aver usato la droga almeno una volta negli ultimi dodici mesi. I consumatori di
sostanze stimolanti, invece, seguono l’andamento, in lieve calo, della cocaina fino al 2011.

Per quanto riguarda i soggetti tossicodipendenti con bisogno di trattamento risultano essere circa 400.000 tra
i 15 e 64 anni. Di questi circa 200.000 non risultano essere in trattamento presso i Servizi di assistenza.

Di particolare interesse nell’ambito del fenomeno dei consumi di sostanze stupefacenti è il consumo di più
sostanze psicoattive, legali ed illegali, connotato in letteratura con il termine “policonsumo”. I dati mostrano
che la combinazione alcool, tabacco e cannabis è la più diffusa, e rappresenta il 64% dei policonsumatori.

CRITERI DI CLASSIFICAZIONE DELLE DROGHE D’ABUSO:

Le sostanze di abuso possono essere classificate secondo criteri :

I criteri giuridi risentono delle legislazoni dei singoli Stati. Ogni società accetta alcune sostanze come lecite
e ne condanna altre come illecite. In Italia, negli USA e nella gran parte dei Paesi dell’Europa Occidentale,
alcool etilico e nicotina sono considerate vere “droghe nazionali, si distinguono in:

- giuridici: legali: tabacco e alcool

illegali: eroina e cocaina

Il criterio di pericolosità distingue sostanze d’abuso in rapporto alla loro pericolosità individuale e sociale.

- di pericolosità: leggere: marijuana

pesanti: cocaina pesante

Questa classificazione si presenta a molte critiche. In realtà l’aggettivo pesante o leggero connota più ade-
guatamente i consumatori pittosto che le sostanze d’abuso perche se io mi faccio 10 spinelli al giorno non ri-
sulta più leggera, se mi faccio solo 1 tiro di cocaina non risulta più pesante).

Il criterio di preparazione. Indipendentemente dall’origine, le droghe d’abuso sono sostanze che, per essere
tali, interferiscono pesantemente con delicate strutture del SNC. I principi attivi semisintetici e sintetici non
sempre sono più tossici rispetto a quelli naturali, dei quali, in generale, sono “imitazioni”:

- di preparazione: naturali: cocaina estratta da una pianta

sintetiche (e semisintetiche) : lavorate chimicamente

- farmacologici: in base a caratteristiche farmacodinamiche e strutturali. La classificazione delle sostanze di


abuso secondo i criteri farmacologici è nella sua semplicità, la più utile ed accettata. Non risente di differen-
ze legislative o di giudizio sociale.
Distinguiamo: oppiodi, psicostimolanti, deprimenti del SNC, acool etilico, nicotina e tabacco, cannabinoidi,
allucinogeni,inalanti, designer-drugs.

CAPITOLO 8:
IL FUMO DI TABACCO:

La pianta di tabacco, originaria delle Americhe, è stata introdotta in Europa alla fine del quindicesimo seco-
lo. Dapprima il tabacco fu utilizzato o masticando le foglie o fiutandone la polvere, quindi per fumarlo si pas-
sò all’uso di pipe e al confezionamento di sigari. Solo verso la metà del 1800 si cominciò a fabbricare le siga-
rette, e in molti Stati, dati i notevoli guadagni, si adottò il regime di monopolio per la produzione e il com-
mercio, situazione che era ancora vigente recentemente in diversi Paesi, Italia compresa.

Il fumo di sigaretta è costituito da una miscela che comprende una fase gassosa e una fase solida. La fase
gassosa è costituita da gas e vapori non condensati; la fase solida è costituita da un aerosol di milioni di parti-
celle di dimensioni microscopiche, che pertanto possono arrivare fino agli alveoli polmonari.

Nel fumo di tabacco sono contenute più di 4000 sostanze chimiche, molte inerti ma molte dannose per la sa-
lute.

Le sostanze dannose del fumo di tabacco possono essere divise in tre gruppi: le sostanze tossiche, le sostan-
ze irritanti e le sostanze cancerogene.

SOSTANZE TOSSICHE:

Fra le sostanze tossiche presenti nel fumo di tabacco possiamo considerare la nicotina (senza dubbio la più
importante) e l’ossido di carbonio.

La nicotina è un alcoide psicoattivo ed è la sostanza che fa rientrare il tabacco tra le droghe.


La nicotina, una volta assorbita, raggiunge il cervello dove interagisce con particolari recettori e provoca una
serie di azioni fisiologiche che coinvolgono diversi neurotrasmettitori.

La dipendenza di nicotina si manifesta con un intenso desiderio irrefrenabile, ovvero con “craving” intenso
ed è caratterizzata da tolleranza acquisita e da dipendenza fisica.

Per quanto riguarda la dipendenza fisica e la sua manifestazione sintomatologica, che è la sindrome di asti-
nenza, questa si manifesta nel giro di poche ore con sintomi del tipo ansia, irritabilità, difficoltà di concentra-
zione.

Nel mantenimento del “nicotine seeking behaviour” interagiscono rinforzo negativo e positivo che il forte fu-
matore sperimenta quotidianamente.

Come per altre sostanze psicoattive, l’uso del tabacco può essere concettualizzato come un processo che ha
un inizio, uno svolgimento ed un epilogo e che si svolge attraverso tre fasi cruciali:

- fase d’avvicinamento, in cui viene elaborato un orientamento favorevole al consumo e considerata l’even-
tualità di provare un’esperienza in grado di rispondere a bisogni ed aspettative rilevanti;

- fase di contatto, in cui vengono valutati la qualità e l’entità degli effetti sperimentati, la conseguenza con
le aspettative precedenti, i vantaggi e svantaggi implicati;

- fase di stabilizzazione, in cui l’uso viene mantenuto con un determinato stile di consumo.

La precocità della prima sperimentazione del tabacco è riconosciuta come il principale fattore di rischio sia
della continuazione dell’uso, sia dello sviluppo delle abitudini d’uso più pericolose.

L’età della prima sperimentazione del tabacco influenza, infatti, il numero totale di anni dell’abitudine, il nu-
mero di sigarette fumate ogni giorno e la probabilità di smettere. L’età a più elevato rischio per la sperimenta-
zione del tabacco è compresa tra gli 11 ed i 15 anni.

La nicotina è responsabile di numerosi effetti su vari organi e sistemi del corpo umano:

- alterazioni dell’elettroencefalogramma EEG;


- aumenta la memoria a breve termine e la capacità di apprendimento;
- diminuisce l’appetito;
- una diminuzione del tono dei muscoli volontari;
- un aumento a livello ematico del glucosio, della insulina e dei trigliceridi;
- un abbassamento del colesterolo HDL ed un aumento della aggredibilità piastrinica.

E quindi sopratutto sull’apparato cardiovascolare che la nicotina, se consumata in modo continuativo,


esplica i suoi effetti tossici, determinando un aumento della frequenza cardiaca, della gittata sistolica, della
pressione arteriosa sia sistolica che diastolica, della eccitabilità miocardica (favorendo quindi le aritmie) e
della vasocostrizione periferica.

L’ossido di carbonio che si forma nel fumo di sigaretta per combustione incompleta del tabacco, agisce le-
gandosi ad una parte dell’emoglobina.
L’affinità che l’ossido di carbonio ha per l’emoglobina è molto superiore a quella dell’ossigeno, per questo
nei fumatori abituali, per compensare la ridotta potenzialità ossigenante del sangue, si ha un aumento del nu-
mero dei globuli rossi, con conseguente scorrimento difficoltoso del sangue nei piccoli vasi e quindi un au-
mentato rischio trombogenico.

L’effetto ipossigenante dell’ossido di carbonio è anche responsabile, nel caso di donne in gravidanza che fu-
mano, dal minor peso alla nascita e della più elevata mortalità perinatale.

SOSTANZE IRRITANTI:

Alucune di queste sostanze, ad esempio gli ossidi di azoto e l’acetaldeide, sono presenti in notevole concen-
trazione nel fumo di tabacco. L’effetto irritante si manifesta sull’apparato respiratorio, in quanto queste so-
stanze bloccano il movimento ciliare delle cellule dell’epitelio bronchiale che riveste internamente i bronchi.
Le sostnze irritanti presenti nel fumo di tabacco determinano un movimento ciliare delle cellule dell’epitelio,
un aumento della produzione di muco, bronchite cronica ostruttiva.

SOSTANZE CANCEROGENE:

Sono più di 50 le sostanze riconosciute certamente cancerogene. Molte sono dei derivati del catrame, alcune
di esse sono iniziatori tumorali (idrocarburi policiclici aromatici e composti N-nitrosi), altre cancerogeni
completi e altre cocancerogeni.

Sinteticamente:

CATRAME
(benzene, benzatracene, acrilonitrile, 4 Tumori
aminobifenile, polonio 210, ecc.)
AGENTI OSSIDANTI Bronchite cronica ed
(fenoli, ac.organici, aldeidi, NO2 , aceto- enfisema
ne, ecc.)
MONOSSIDO DI CARBONIO Malattie cardiovascolari
NICOTINA Dipendenza

EPIDEMIOLOGIA:

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stima che un terzo circa della popolazione mondiale adulta
sia fumatrice (il 47% dei maschi e il 12% delle femmine) e Paesi sviluppati (rispettivamente 42% e 24%).
In Italia, i dati dell’indagine Multiscopo del 1999 condotta dall’ISTAT su un campione di famiglie distribuite
su tutto il territorio nazionale, rilevano, nelle persone di età uguale o superiore a 14 anni, una percentuale di
fumatori pari al 24,5% (uomini 32,4%, donne 17,1% ); le percentuali per gli ex-fumatori risultano essere ne-
gli uomni 27,2% e nelle donne 12,5%. I dati del 1999 che riguardano le persone che fumano risultano in leg-
gero calo rispetto ai dati dell’indagine del 1996, quando risultava che la percentuale di fumatori era del
34,9% nei maschi e del 17,9% nelle femmine, per un totale di 26,1%.
(Rispetto al 1995, passati dal 25,3% al 26,1% -slide prof)

L’età media di inizio è nell’adolescenza (circa 16 anni), il periodo in cui è più forte il bisogno di sentirsi
accettati ed è più forte l’influenza del gruppo dei paro.
Persone che iniziano dopo i 25 anni sono una rarità.

Ogni anno nel mondo, a causa del fumo di tabacco muoino circa 3,5 milioni di persone.
La quota della mortalità globale per tumori attribuita al fumo di tabacco è pari al 30%.
Se vengono utilizzate le percentuali di responsabilità che vari Autori hanno attribuito al fumo per le diverse
patologie, possiamo stimare che in Italia ogni anno a causa del fumo di tabacco muoino più di 90.000 perso-
ne.

FUMO PASSIVO:

Occore sottolineare come il fumo di tabacco sia dannoso anche in chi non ne fa uso diretto, quindi anche
l’esposizione passiva al fumo di sigaretta costituisce un rilevante fattore di rischio. Inoltre sembra che la dif-
ferenza di danno sia solo quantitativa e non qualitativa.

Recenti studi descrivono quelli che si possono considerare alcuni tra i danni da fumo passivo:

- basso peso alla nascita;


- morte improvvisa del neonato (SIDS o “morte in culla”);
- malattie respiratorie nei bambini;
- tumori polmonari e ele malattie ischemiche del cuore negli adulti.

Il basso peso della nascita è una condizione predisponente per morbosità e mortalità in età infantile, eil fu-
mo della madre in gravidanza è un fattore accertato per questa condizione.

La SIDS, sindrome della morte improvvisa del lattante, colpisce sopratutto tra i due e quattro mesi di vita
bambini apparentemente sani. E’ la terza causa di morte nel primo anno di vita.
I fattori di rischio finora accettati sono:
- la posizione prona durante il sonno;
- bambino troppo coperto;
- fumo della madre durante e dopo la gravidanza.

Sempre nei bambini si ha un aumento delle infezioni delle vie respiratorie se sono esposti al fumo di almeno
un genitore; queste infezioni ricorrenti possono essere a loro volta condizioni predisponenti per l’asma bron-
chiale in età successive.

ADULTI:

Il fumo passivo, sia ad esempio quello del coniuge, ma anche quello subito in ambiente di lavoro, è responsa-
bile di una quota di tumori tra i non fumatori. Sono le donne a subire di più il fumo del coniuge (62% con-
tro il 15% degli uomini).

L’esposizione a fumo passivo, risulta essere un fattore di rischio anche per le patologie cardiovascolari
(ischemia cardiaca in particolare).
Condizione particolarmente frequente nelle età anziane e collegata sopratutto alla esposizione al fumo del co-
niuge, che si prolunga per tutta la vita.
PREVENZIONE:

Gli interventi preventivi nei confronti del tabagismo possono riguardare sia i soggetti già fumatori che i sog-
getti potenzialmente tali, cercando di far smettere i primi ed evitare l’iniziazione alla abitudine nei secondi.
Possono consistere sia in interventi legislativi che in interventi educativi.

Nel Piano Sanitario Nazionale 1998-2000, tra gli obiettivi specifici da perseguire risultavano:

- la prevalenza di fumatori di età superiore ai 14 anni non deve superare il 20% per gli uomini ed il 10% per
le donne;
- deve tendere a zero la frequenza delle donne che fumano durante la gravidanza;
- deve ridursi la prevalenza dei fumatori fra gli adolescenti.
CAPITOLO 9:

ALCOL ETILICO:

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) riconosce come droga una sostanza che possiede queste caratteristi-
che:
- potere psicoattivo (effetti sul sistema nervoso);
- capacità di indurre assuefazione/tolleranza (adattamento alla sostanza: > assunzione < effetti);
- capacità di indurre dipendenza: psichica (desiderio continuo di assumere la sostanza);
fisica (malessere se non la si assume).

L’alcol possiede queste caratteristiche e quindi può essere considerto una droga.
E infatti l’alcol è una sostanza tossica,(molecola volatile) potenzialmente cancerogena e con una capacità di indurre di-
pendenza superiore alle sostanze o droghe illegali più conosciute.

La sua molecola essendo piccola ed idrosolubile per essere assorbita non richiede la digestione, e arriva al sangue per
semplice diffusione. Il 5% viene assorbito già a livello della bocca, il 15% nello stomaco ed il restante 80% nel primo
tratto dell’intestino tenue. Una volta assunto, l’alcol è assorbito dallo stomaco e dall’intestino, giunge nel sangue circo-
lante e viene trasportato in tutto l’organismo. L’alcol quindi giunge con il sangue al cervello.
La concentrazione di alcol nel sangue, ovvero, l’alcolemia, raggiunge il picco dopo circa un’ora dalla ingestione e ritor-
na a zero entro le sei ore. Infatti già alla fine della prima ora dall’introduzione il 90% circa dell’alcol viene assorbito e
si ritrova nel sangue.

La velocità di assorbimento può essere modificata da diversi fattori, ad esempio dalla presenza di cibo nello stomaco,
che ne rallenta l’assorbimento, oppure dalla presenza di anidrite carbonica che, accellerando lo svuotamento gastrico,
ne determina invece un aumento. Quindi la velocità massima di assorbimento si verifica quando una dose di alcol, con-
tenuta in una bevanda gasata in elevata concentrazione, viene ingerita rapidamente da un soggetto che si trova a
digiuno.

L’acol viene eliminato solo per il 10% circa in forma diretta attraverso le urine, mentre il 90% viene metabolizzato nel
fegato, dove viene trasformato ad opera di particolari enzimi, con una velocità di circa 7 grammi per ora
( quindi per smaltire 1/2 litro di vino oppure 5 biccherini di super-alcolici ci mette fino a 7 ore)
(gli enzimi, piccole unità di lavoro presenti nel fegato che metabolizzano l’alcol. Il loro numero è limitato per cui “una
birra in più” non può essere smaltita).

La concentrazione alcolica nel sangue corrisponde a quella presente nel SNC, ed è proporzionale a quella presente
nell’aria espirata. E’ su questa caratteristica che si basa la cosidetta “prova del palloncino”, cioè la possibilità, median-
te opportuni calcoli, di risalire alla concentrazione di etanolo nel sangue, e quindi nel cervello, misurando la quantità di
alcol presente nell’aria polmonare soffiata nell’etilometro, un apposito recipiente chiuso ermeticamente.

L’alcol non è un principio alimentare fondamentale: è un alimento che, al pari di molti altri, non è considerato necessa-
rio per una corretta e sana nutrizione, e non svolge nè funzioni plastiche nè funzioni regolatrici. Svolge invece una di-
screta funzione energetica poichè un grammo di alcol apporta a 7 Kcal.

DOSE GIORNALIERA ACCETTABILE:

Alcune Organizzazioni Internazionali, ad esempio la FAO, considerano accettabile una dose di alcol che corrisponda al
10% del fabbisogno energetico giornaliero. Ancora, ad esempio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha indicato co-
me dose giornaliera massima accettabile la quantità di 30 grammi di alcol.

Poichè le capacità enzimatiche del fegato di metabolizzare l’alcol sono però diverse nei due sessi e diminuiscono con
l’aumentare dell’età, se si prende in considerazione un individuo in buona salute, quindi con normali funzioni metaboli-
che, la dose giornaliera massima accettabile di alcol può variare e risulta essere di circa:

- negli individui di età inferiore a 30 anni, 43 grammi per i maschi e 30 grammi per le femmine;

- negli individui di età superiore a 60 anni, 28 grammi per i maschi e 24 grammi per le femmine.

Poichè le diverse bevande alcoliche hanno concentrazioni diverse di alcol, varia il quantitativo di bevanda che è possibi-
le assumere quotidianamente senza rischi. In modo schematico:

Birra Vino Liquori Super alcolici


Concentrazione alcolica 5 10 20 40
(%)
Quantitativo (ml) di be- 600 300 150 75
vanda che contiene 30
grammi di alcol

DANNI DA ALCOL:

MOTALITA’:

L’uso di alcol è ritenuto in grado di elevare la mortalità per diverse cause, tra le quali per cirrosi epatica, per tumori, non
solo epatici ma anche della bocca, faringe, laringe ed esofago, per omicidi, per suicidi, per incidenti stradali ed infortuni
sul lavoro. In Italia si stima che annualmente il numero di morti dovuti all’alcol siano tra i 30.000 e i 40.000.

MORBOSITA’:

L’abuso di alcolici è associato a molte malattie sia neuropsichiatriche che di altri sistemi, sia acute che croniche.

Alterazioni neuropsichiatriche acute: insorgono per un consumo eccessivo e talvolta anche solo occasionale o saltua-
rio di alcol o per una sindrome d’astinenza da alcol. Generalmente si tratta di stati di alterazione psicomotoria conse-
guente alla intossicazione acuta. Tra le conseguenza di queste alterazioni si possono annoverare gli incidenti stradali, at-
ti criminali e suicidio.

Disturbi neuropsichiatrici cronici: questi hanno origine da deficit nutrizionali, malassorbimento gastrico e disfunzioni
epatiche associate con una assunzione cronica di alcol. Una forma abbastanza frequente è la Sindrome di Wernicke-
Korsakoff (demenza alcolica).

Disturbi sistemici acuti e cronici: i disturbi sistemici comprendono sopratutto disturbi gastrointestinali quali esofagiti,
gastriti, epatici, pancreatiti, cirrosi e sue complicanze (varici, ittero, encefalopatia epatica), tumori gastrointestinali; di-
sturbi amatologici quali anemia, disturbi cardiovascolari quali ipertensione.

ALCOLISMO:

Da qualche anno viene comunemente accettata la definizione proposta dall’OMS di “sindrome da dipendenza alcoli-
ca”, che implica “una condizione psichica e fisica, derivante dall’assunzione di alcol, caratterizzata da comportamenti e
da altre reazioni che includono sempre la compulsione ad assumere alcol in maniera continuativa o periodica, per speri-
mentare gli effetti psicotropi e, alcune volte, per evitare il disagio di rimanere senza alcol”.

STADI DELL’ALCOLISMO:

Sono stati delineati quattro principali stadi nello sveiluppo della dipendenza da alcol:
- la fase pretossicomanica caratterizzata dall’aumento della tolleranza;
- la fase prodromica in cui compaiono le caratteristiche amnesie da alcol;
- la fase cruciale con perdita del controllo sul comportamento potatorio e sull’adattabilità sociale;
- la fase cronica con riduzione della tolleranza per l’alcol. Questa fase è detta anche stadio finale o delle complicanze
mediche.

FATTORI DI RISCHIO PER L’ALCOLISMO:

- fattori genetici: si può affermare che i figli di alcolisti hanno una più alta incidenza di dipendenza da alcol anche
quando vengono allevati da genitori adottivi senza probelimi con l’alcol;

- fattori individuali: la dipendenza alcolica è frequentemenete associata con la depressione, ma la depressione è di soli-
to una conseguenza del bere piuttosto che la causa;

- fattori culturali: influenzano lo sviluppo dell’alcolismo. Nella maggior parte dei casi, infatti, essa avviene durante la
preadolescenza in famiglia, in situazioni di socialità (feste, ricorrenze) o in occasione dei pasti. Queste condizioni han-
no favorito il mantenersi della tipica cultura mediterranea che sostiene la naturalità del consumo di vino, di cui è ap-
prezzato il valore nutritivo-alimentare e socializzante e spesso anche simbolico.

- fattore sociale: in cui le indagini che studiano i rapporti tra tra i giovani e l’alcol mettono in evidenza, ad esempio, le
occasioni del bere (feste con amici, ritrovi, discoteca) e sono risultate molto più frequenti di quelli di tipo “personale”:
tra le situazioni personali che spingono l’adolescente a bere si possono distinguere anche alcune situazioni che esprimo-
no uno stato di disagio (solitudine, malessere, noia).

QUADRI CLINICI:

- intossicazione acuta da alcol: l’alcol ha un’azione deprimente sull’attività del Sistema Nervoso Centrale ;

- astinenza da alcol o sindrome di astinenza: la sindrome di astinenza da alcol insorge dopo un periodo di parziale o
totale astensione dall’alcol;

- delirium tremens (delirio da stinenza): comunemente insorge 1-2 giorni dopo la cessata assunzione di alcolici e rag-
giunge l’acme dopo 72-96 ore.
Effetti dell’alcol:

...dipendono dalla concentrazione di alcol nel sangue (alcolemia)...

- 0,5-1% : EUFORIA... minor concentrazione, movimenti più incerti, maggiore tempo di reazione, instabilità emotiva..

- 1,5% : EBBREZZA (“brillo”)... rossore, aumenta la frequenza del respiro e dei palpiti, loquacità, confusione menta-
le..

- 2% : UBRIACHEZZA...incoerenza, mancanza di autocritica, incooridinazione motoria, insensibilità al dolore...

- 3% : UBRIACHEZZA GRAVE...visione doppia, rallentamento grave dei riflessi, grave incoordinazione motoria,
confusione mentale...

- 4% : COMA...perdita duratura della coscienza, assenza di sensibilità e dei riflessi...

- 5% : PERICOLO DI MORTE...

Attualmente in Italia, come in tutti i Paesi della Comunità Europea, il limite di alcolemia consentito per la guida di auto-
veicoli è di 50mg di etanolo per 100 ml di sangue;

- disturbi neurologici alcol-correlati, associati con i deficit nutrizionali: la sindrome di Wernicke-Korsakoff (demen-
za alcolica) è il più grave quadro clinico causato da un’alterazione nutrizionale alcol correlata.

ASPETTI PREVENTIVI:

La prevenzione rappresenta uno degli strumenti più importanti per combattere le patologie da alcol:

- la prevenzione primaria: consiste nell’intervento sui fattori di rischio della malattia; in particolare comporta una se-
rie di interventi volti a favorire l’informazione e la formazione;

- la prevenzione secondaria: riguarda il riconoscimento, più precoce possibile della patologia alcol-collerata, attraver-
so una diagnosi che individui la malattia nella sua fase iniziale;

- la prevenzione terziaria: si caratterizza per una tipologia di interventi a malattia già conclamata, con l’obiettivo di
impedire la comparsa di complicanze.
CAPITOLO 10 :
DROGHE :

GLI OPPIOIDI:

L’oppio (dal greco opos = succo) è un essudato secco che si ricava dal succo lattiginoso estratto dalle capsule non matu-
re del Papaver Somniferum.
Nel 1830 venne isolato un alcaloide cui venne dato il nome di Morfina, da Morfeo, il dio greco del sonno e dei sogni.
Nel 1873 il chimico Wright, sintetizzò la diacetilmorfina; la sostanza non venne presa in considerazione perchè ritenuta
priva di utilità clinica. Nel 1897 la Bayer sintetizzò nuovamente la stessa molecola, dandole il nome di Eroina.

EROINA: gli effetti a lungo termine sono legati alla via di somministrazione (EV): infezione da HIV, infezioni delle
valvole cardiache, artrite reumatoide.
Gli effetti piacevoli durano molto poco l’esperienza piacevole è solo una chimera.
Il soggetto rimane assopito per molte ore, compare rallentamento psicomotorio e poi agitazione, insensibilità agli stimo-
li del dolore, difficoltà a parlare, offuscamento della mente e depressione respiratoria.
Il problema più rilevante è il comportamento.
Il soggetto si chiude in se stesso, diventa apatico ed è animato da l’unico impulso di procurarsi la droga: è il cosidetto
“craving” che sfocia quasi sempre in comportamenti antisociali.

Aspetto fisico: polvere bianaca o marrone, sostanza gommosa nera (“gomma o catrame nero”).
Nel cervello si trasforma in morfina. Captata dai recettori per gli oppiacei stimola le aree del cervello coinvolte nel mec-
canismo di ricompensa: corteccia, VTA e nucleo accumbens.
In 7-8 sec. induce “rush”: euforia, esperienza affettiva intensa e graficante, il soggetto è indotto a ripetere questa espe-
rienza anche fino a 4 volte al giorno.
Modalità di consumo EV o IM (inalata, fumata, sniffata).
Viene miscelata (tagliata) con altre sostanze spesso sconosciute.
Le cause di overdose sono legate alla concentrazione elevata della dose o alla composizione della dose che spesso è sco-
nosciuta.
(SI : tolleranza, astinenza e dipendenza).

L’eroina prodotta illecitamente si presenta come polvere finissima bianca o rosa, di odore debolmente acetico. La prin-
cipale via di auto-somministrazione è quella intravenosa e gli effetti sono simili, ma più potenti, a quelli della morfina.

GLI PSICOSTIMOLANTI:

Sono sostanze che agiscono a livello del SNC stimolando la neurotrasmissione cerebrale. Fra le droghe d’abuso, gli psi-
costimolanti più importanti sono: la cocaina, le anfetamine e la caffeina.

La cocaina è il principale alcaloide psicoattivo presente nelle foglie della pianta di Coca, arbusto sempre verde tipico
del Sud America. Fra le popolazioni andine la mastificazione delle foglie di Coca è pratica comune ed antichissima. E’
stat isolata in forma pura nel 1884, e veniva utilizzata nell’anestesia e come antiastenico e antidepressivo.
Esistono, sul mercato illecito, due principali differenti forme di cocaina:
- idrocloridrato: polvere bianca solubile in acqua, che si assume sniffandola per via endonasale o, più raramente, per
via endovenosa, talvolta mescolata all’eroina;
- base: particolare preparazione di cocaina in scaglie, chiamata “crack”, fumabile con tipiche pipe ad acqua o sbriciola-
ta in normali sigari di tabacco.
Attualmente rappresenta la sostanza di maggior abuso negli USA dopo l’alcool.
Le lesioni organiche determinate dall’uso della sostanza consistono in perforazione del setto nasale, bronchite cronica,
epatite tossica e alcune lesioni croniche al miocardio.

L’amfetamina è stata realizzata nel 1887. L’uso medico delle amfetamine come anoressizzanti ha determinato una rile-
vante esposizione al loro consumo: tra gli anni 60° e i primi anni 70°, in America, due terzi degli anoressizzanti pre-
scritti erano amfetamine. Diffuso era anche il loro utilizzo in particolari categorie professionali per migliorare il rendi-
mento lavorativo, ad esempio tra gli artisti e gli sportivi durante le gare.
Le amfetamine hanno oggi un basso costo di produzione, un largo margine di profitto per i disributori, un costo accessi-
bile per i consumatori. E’ prevedibile un ulteriore aumento dell’abuso come psicostimolanti se si considera la competi-
vità delle amfetamine rispetto alla cocaina: l’amfetamina è più facilmente reperibile, ha un costo notevolmente inferiore
e la sua durata d’azione supera le 10 ore, contro i 45 minuti per la cocaina.
Tra le amfetamine la più importante, attualmente è MDMA o Ecstasy.

La caffeina è la sostanza psicoattiva più largamente usata nel mondo. Il consumo giornaliero pro rapite può essere assai
cospicuo, considerando che in una tazzina di caffè sono mediamente contenuti 100 mg di principio attivo. Contraria-
mente a cocaina ed amfetamine, la caffeina non è significativamente auto-somministrata, non produce euforia, e talvolta
procura sintomi di ansietà e nervosismo.

I DEPRIMENTI DEL SNC:

Attualmente i principali deprimenti del SNC sono i barbiturici e le benzodiazepine (BZN):


- i barbiturici sono utilizzati nella pratica clinica per indurre sedazione nell’anestesia, per il trattamento di alcune for-
me di epilessia e per alcune forme gravi di insonnia;
- le BDZ, per maggior sicurezza e maneggevolezza, hanno soppiantato tutti gli altri farmaci di questo gruppo e devono
essere prese in considerazione per il loro potenziamento d’abuso.

I CANNABINOIDI:

Le Cannabis Sativa, già conosciuta in Cina nel 2000 a.C. , è stata introdotta in Occidente solo alla fine del 1800. Questa
pianta, che si adatta a tutti i climi ed a tutte le temperature, sintetizza numerosissimi principi, di cui circa una sessantina
costituiscono la classe farmacologica dei cannabinoidi. Non tutti i cannabinoidi producono effetti psichici e, fra quelli
psicoattivi, il principale è il 9- tetraidroccanabinolo ( 9-THC). Vi sono, per l’uso illecito, tre tipi di “preparazioni” de-
rivate dalla Cannabis Stativa: marijuana, hascish e olio di hascish.

La marijuana è una mistura, secca e pressata, di foglie ed estremità fiorite di Cannabis che, per il suo aspetto, viene
chiamata in gergo “erba”. Il contenuto di principio psicoattivo varia dall’1 al 9% a seconda della qualità e della zona di
produzione. La marijuana, viene fumata, mescolata a tabacco, in semplici pipe oppure rollata con comune carta per siga-
rette (spinello).

L’hascish è pasta resinosa, più o meno dura, color cioccolata dal chiaro allo scuro, ottenuta a partire da foglie e fiori di
Cannabis, il cui contenuto di principio psicoattivo è mediamente intorno al 15-20%, con molta variabilità a seconda del-
la provenienza. L’hascish, opportunamente sbriciolato e mescolato al tabacco, si fuma con le stesse modalità della mari-
juana.

L’olio di hascish è la forma più pura di derivati di cannabis prodotta per uso illecito. Si prepara dall’hascish per estra-
zione mediante solvente, contiene in media circa il 40% di 9-THC. Viene aggiunto in piccole quantità al tabacco e fu-
mato.

L’intensità degli effetti psichici di marijuana, hascish e olio di hascish sono proporzionali al rispettivo contenuto di
principio psicoattivo ma, in senso assoluto, dipendono, dalla entità delle dosi autosomministrate. In altre parole, il con-
sumatore “pesante” di marijuana può essere maggiormente compromesso del consumatore “leggero” di hascish.

GLI ALLUCINOGENI:

Gli allucinogeni propriamente detti sostanze, naturali, semisintetiche o sintetiche, che determinano allucinazioni come
effetto farmacologico peculiare e si distinguono da numerosi altri principi attivi per i quali invece il disturbo allucinato-
rio costituisce una manifestazione di tossicità.
Tra gli allucinogeni il più conosciuto è l’LSD, cioè la dietilamide dell’acido lisergico.
L’LSD è il più specifico e il più potente tra gli allucinogeni finora noti. E’ stata sintetizzata nel 1938.
Negli anni 60° l’uso di LSD si è diffuso tra soggetti interessati ad alterazioni delle esperienze percettive (vista, udito,
gusto, sensibilità).

LE “DESIGNER DRUGS”:

Designer-drugs è un termine usato per descrivere droghe che sono create o commercializzate, qualora già esistessero,
per raggirare le vigenti norme di legge. Generalmente vengono sintetizzate modificando la struttura molecolare di altre
droghe o, meno frequentemente, creando sostanze con strutture chimiche completamente differenti che producono effet-
ti simili a quelli causati dalle droghe illegali.
Preparate clandestinamente da “chimici” dilettanti, conosciuti come “cookers”, queste droghe possono essere iniettate,
fumate, inalate e ingerite.
Le tre maggiori droghe utilizzate come base per le designer-drugs, sono la fenciclidina, le anfetamine/metanfetamine e
il fentanyl.

ECSTASY:

La molecola della MDA (metilendiossimetamfetamina), scoperta nel 1912 in Germania dai ricercatori della Merck e
brevettata nel 1914 . La MDA ha acquistato popolarità come “droga ricreativa” nel 1985 e si è diffusa con vari nomi:
Adam, Ecstasy. Attualmente sono identificabili due tipi di contesto nell’uso dell’ecstatsy: come sostanza ricreativa in
riunioni socili ristrette, e come sostanza ricreativa in ampie riunioni sociali organizzate (raves).

SMART DRUGS:

Con il termine smart-drugs, il cui nome significa letteralmente “droghe furbe”, si intendono tutta una serie di composti
sia di origine naturale (vegetale) che sintetica che contengono vitamine, principi attivi di estratti vegetali, tra cui i più
diffusi sono l’efedrina, la caffeina, la taurina ma anche sostanze con alterazioni psichice.

Le smart-drugs promettono di aumentare le potenzialità cerebrali, la capacità di apprendimento e memoria nonchè di


migliorare le “performance” fisiche di chi le assume ed anche di fornire effetti psichedelici di “visioni sensoriali ed allu-
cinogene” particolari.
( Drighe vegetali, droghe etniche, droghe etnobotaniche, droghe naturali, biodroghe).

I frequentatori abituali degli smart-shops appartengono a varie categorie sociali: studenti, che ricercano in questi negozi
stimolanti cerebrali dal basso profilo tossicologico per la preparazione degli esami, adulti 40-60enni, sopratutto maschi,
che ricercano alcune smart-drugs dalle proprietà simil-viagra, e poi i giovani che usano le smart drugs per i loro presun-
ti effetti psichdelici, o semplicemente per curiosità.

Gli smart shops propongono lo “sballo” con prodotti “naturali”, erboristici, dunque “innocui” rispetto alle droghe più
comunemente utilizzate per “tirarsi su”.
Ma ciò che è naturale, non sempre è innocuo.
Dire che una droga è buona perchè è “bio” è un’ingannevole forma di marketing.
La gente compra senza pensare che anche sostanze quali morfina e cocaina hanno origini vegetali.

Per altri le smart-drugs si confondono molto più con le droghe naturali o droghe etniche, confinando il loro consumo ad
ambienti più alternativi rispetto alla discoteca.
In realtà, sembrerebbe che l’espressione prenda origine dal fatto che le smart drugs sono le “droghe furbe” perchè non
perseguite o perseguibili dalla legge, in quanto non presenti come tali o come principi attivi in esse contenuti nelle Ta-
belle legislative delle corrispondenti leggi che proibiscono l’uso di sostanze stupefacenti e psicotrope.

CAPITOLO 11:
ALIMENTAZIONE:

L’alimentazione ha il compito di fornire all’organismo le sostanze e l’energia necessarie alla costituzione dei tessuti in
accrescimento ed alla sostituzione dei materiali consumatori, eliminati o perduti nel corso delle varie funzioni organi-
che.

Per nutrizione possiamo intendere l’insieme di tutti i processi coinvolti nella assimilazione ed utilizzazione delle so-
stanze nutritive.

Si definisce dieta la quantità abituale di cibi e bevande ingerite giornalmente da una persona,in particolare uno schema
alimentare pianificato per soddisfare le richeste specifiche di un individuo, aggiungendo o escludendo alcuni tipi di ali-
menti secondo necessità.

FABBISOGNO ENERGETICO O CALORICO DI UNA DIETA:

Per metabolismo si intendono tutte le trasformazioni chimiche ed energetiche che avvengono nell’organismo.

I nutrienti sono sei gruppi di sostanze: proteine (o protidi), carboidrati (o glucidi), grassi (o lipidi), sali minerali,
vitamine e acqua (domanda esame).

( i primi 3 : nutrienti calorici e gli ultimi 3: alimenti calorici / acalorici)

L’organismo ossida carboidrati, proteine e grassi, producendo principalmente acqua e anidride carbonica e l’energia ne-
cessita per i processi vitali.

I cosidetti valori termodinamici o calorici, ovvero la quantità di energia (misurata in Kilocalorie) che viene liberata per
ogni grammo di sostanza metabolizzata, sono rispettivamente: per le proteine circa 4 kcal, per i grassi circa 9 kcal e
per i carboidrati circ 4 Kcal.
Il fabbisogno energetico viene definito come la quantità di energia necessaria a mantenere a lungo termine un buon sta-
to di salute, ed un “appropiato” livello di attività fisica.

La proporzione maggiore del dispendio energetico è generalmente rappresentata dal metabolismo basale (MB).
Per metabolismo basale si intende il dispendio energetico necessario per mantenere l’attività delle nostre funzioni vita-
li (attività del cuore, attività dei muscoli respiratori, ecc..).

ACCRESCIMENTO: non è un semplice aumento delle dimensioni corporee. Comporta modificazioni biochimiche e
trasformazioni metaboliche necessarie all’organismo per svolgere e mantenere ogni attività vitale.

I NUTRIENTI O PRINCIPI ALIMENTARI FONDAMENTALI:

Ogni principio alimentare ha una sua funzione fisiologica più specifica rispetto alle altre, pertanto possiamo in generale
considerare fattori ad azione prevalentemente energetica i glucidi e i lipidi; ad azione plastica, sopratutto i protidi, i sa-
li e l’acqua; ad azione regolatrice i processi metabolici, le vitamine e alcuni sali minerali.

CARBOIDRATI O GLUCIDI:

Pur rappresentando solo l’1% del corpo umano costituiscono il più importante principio nutritivo della nostra alimenta-
zione.

Sono elementi fondamentali di ogni dieta. E’ raccomandata un’assunzione giornaliera che corrisponde al 65-70% delle
calorie totali.

I carboidrati alimentari devono essere tutti trasformati in glucosio prima di poter essere usati dall’organismo. Il guglosio
derivato dai glucidi alimentari attraversa la mucosa intestinale ed è convogliato al fegato.

Può essere utilizzato immediatamente ai fini energetici, oppure venire depositato sotto forma di GLICOGENO nel fega-
to, muscoli ed in molti altri tessuti.

I principali carboidrati alimentari sono i monossacaridi (glucosio, fruttosio e galattosio) i disaccaridi (saccarosio, lat-
tosio e maltosio) e i polisaccaridi (amido e fibra alimentare). In realtà con il termine fibra alimentare si comprende ol-
tre la cellulosa, l’emicellulosa, le pectine e una varietà di gomme vegetali, la lignina, che hanno in comune la proprietà
di non essere digerite dagli enzimi presenti nel tratto gastrointestinale.

I monossacaridi e i disaccaridi si troavno nella frutta, nel latte, nelle bevande dolci analcoliche, nelle marmellate, nelle
caramelle e nei dolci. Gli amidi si trovano sopratutto nelle farine, nel pane,nelle paste e altri prodotti a base di cereali,
nei legumi e in poche verdure e ortaggi (patate).

GRASSI O LIPIDI:

I grassi alimentari rappresentano una quota importante della reazione alimentare nell’uomo.

Il loro ruolo, una volta assorbiti nell’organismo, è vario, ma può essere schematicamente così distinto:
- ruolo di deposito di riserve energetiche;
- ruolo strutturale e funzionale in tutte le cellule, sopratutto a livello della menbrana;
- ruolo speciale a livello celebrale specie nella fase dello sviluppo.

I grassi alimentari sono importanti veicoli di alcune vitamine liposolubili (A e D).

I grassi alimentari vengono usualmente ingeriti sotto forma di trigliceridi e vengono classificati in base alle caratteristi-
che degli acidi grassi in essi contenuti.
A seconda del numero dei doppi legami presenti nella catena di atomi avremo grassi saturi, mono-insaturi e poli-insa-
turi.
In genere nei grassi di origine animale prevalgono gli acidi grassi saturi (che di solito hanno una consistenza solida); in
quelli di origine vegetale quelli insaturi (generalmente con consistenza liquida). L’olio di oliva è prevalentemente mo-
no-insaturo; mentre l’olio di palma contiene larghe componenti di grassi saturi; invece i grassi degli animali marini so-
no largamente poli- insaturi.

PROTEINE:
Le proteine alimentari vengono utilizzate dall’organismo del bambino sopratutto per l’aumento della massa corporea.
Hanno inoltre funzioni catalitiche (enzimi), difensive (anticorpi) e di regolazione (ormoni).

Le proteine sono costituite da aminoacidi.


Gli aminoacidi sono distinti in:
- aminoacidi essenziali: che non possono essere sintetizzati dall’organismo;
- aminoacidi non- essenziali: che possono essere sintetizzati da altri precursori nell’organismo.

SALI MINERALI:

La loro presenza ha significato plastico e/o catalitico, ovvero regolatore dei processi metabolici.

Macroelementi:

- Calcio: la funzione plastica del calcio riguarda principalmente il tessuto osseo. La piccola quantità che non fa parte
delle strutture scheletriche si trova nei liquidi organici: ha grande importanza nella coagulazione del sangue, nella fun-
zione del cuore, dei muscoli e dei nervi.

- Fosforo: ha funzione plastica come costituente del tessuto osseo e dei fosfolipidi presenti in tutte le cellule e special-
mente nel tessuto nervoso.

- Magnesio: insieme al calcio e al fosforo partecipa alla costituzione dello scheletro, tant’è che il 70% del magnesio
presente nell’organismo si trova nelle ossa.

- Sodio e Potassio: sono presenti negli organismi quasi esclusivamente in forma ionica, ovvero in soluzione (il potassio
predomina nell’interno delle cellule, il sodio si riscontra di preferenza nei liquidi extracellulari). Importanti funzioni del
sodio sono il mantenimento della pressione osmotica dei liquidi corporei, la protezione dell’organismo contro eccessive
perdite idriche, la regolazione della normale eccitabilità dei muscoli. La funzione intracellulare del potassio corrisponde
a quella del sodio nei liquidi extracellulari (equilibrio acido-base, pressione osmotica, ritenzione idrica).

- Cloro: è presente nell’organismo sopratutto come cloruro di sodio; e analogamente al sodio ha funzioni di regolazione
del bilancio idrico, della pressione osmotica e dell’equilibrio acido-base. E’ presente nel succo gastrico in cui si trova
sotto forma di acido cloridico (HCI).

Microelementi (o oligoelementi): Ferro, Iodio, Zinco, Rame, Manganese, Selenio, Cromo, Fluoro, ecc..Ognuno di que-
sti elementi svolge funzioni specifiche e insostituibili, pertanto una loro carenza nella dieta può essere responsabile di
particolari situazioni morbose.

VITAMINE:

Le vitamine liposolubili possono essere depositate ed accumulate nei lipidi di organi e tessuti dando luogo a possibili ef-
fetti di ipervitaminosi, mentre le idrosolubili vengono facilmente sciolte ed escrete con le urine e non presentano quindi
pericoli da eccesso di consumo.

Vitamine liposolubili:

- vitamina A: è essenziale per la visione, la crescita e la differenziazione cellulare, la riproduzione e l’integrità del siste-
ma immunitario;

- vitamina E: in generale viene comunemente accettato che la funzione pricipale della vitamina E è quella di protegge-
re l’integrità delle membrane cellulari;

- vitamina D: promuove l’assorbimento del calcio dell’intestino e riveste un ruolo importante nel meccanismo di mine-
ralizzazione delle ossa;

- vitamina K: è essenziale per la formazione di fattori proteici coinvolti nel processo di coagulazione del sangue.

Vitamine idrosolubili: vitamine del gruppo B, vitamina C, ed altre, che sono indispensabili per il normale svolgimento
di svariate reazioni metaboliche.
ACQUA:

Se si considera un maschio adulto normale, giovane, il 18% del peso corporeo è costituito da proteine e sostanze affini,
il 7% da minerali e il 15% da grassi. Il rimanente 60% è acqua (40% acqua intracellulare e 20% extracellulare).

ALCOOL:

Non è un nutriente. L’alcol è una sostanza ad alto contenuto energetico, infatti un grammo di alcool apporta 7 Kcal.
L’alcool è anche una sostanza che svolge un’intensa e specifica azione farmacologica sul sistema nervoso e come tutte
le sostanze farmacologiche, oltre una certa dose, risulta chiaramente tossica.

DIETA EQUILIBRATA:

Per dieta equilibrata si intende uno schema alimentare che contiene tutti i fattori nutritivi nelle proporzioni giuste per
una nutrizione corretta e adeguata.

La quota energetica da introdurre con la dieta giornaliera dovrebbe essere distribuita nel seguente modo:
proteine 10-12%; grassi 20-25%; carboidrati 65-70%.

Le proteine dovrebbero essere per due terzi di origine vegetale e per un terzo di origine animale.

Dal punto di vista quantitativo l’apporto lipidico ritenuto adatto per la popolazione italiana è del 30% delle calorie totali
della dieta nell’infanzia e adolescenza, e del 20-25% nell’età adulta.

I grassi dovrebbero essere così ripartiti: < 10% saturi, 10-15% mono-insaturi e 5% poli-insaturi.
Il colesterolo alimentare non dovrebbe superare i 300mg al giorno.
Gli zuccheri semplici non dovrebbero superare il 10% della razione energetica giornaliera.

Il consumo di fibra alimentare dovrebbe essere di 30-35 grammi/giorno.


L’obiettivo dell’aumento del consumo di fibra dovrebbe essere raggiunto attraverso il maggior consumo di frutta, verdu-
ra,ortaggi, legumi e cereali integrali (che forniscono anche minerali e vitamine) e non attraverso il consumo di concen-
trati di fibra.
CAPITOLO 12:
OBESITA’:

L’obesità (aumento del tessuto adiposo sul corpo umano) è un fattore di rischio per numerose condizioni patologiche :
diabete, ipertensione, aterosclerosi e quindi malattie ischemiche del cuore e del cervello, complicazioni della gravidan-
za, malattie della cistifellea, patologia articolari e alcuni tipi di cancro, ad esempio della mammella, dell’utero e del co-
lon.

Allo stato attuale la definizione dell’obesità si basa sul calcolo di uno dei vari rapporti possibili tra peso e statura. Il me-
todo più utilizzato è quello dell’Indice di Massa corporea (IMC), con terminologia inglese Body Mass Indez (BMI).

IMC = Peso (kg) / Statura (m alla seconda)

Sulla base di queste statistiche sono stati derivati i seguenti dati dell’IMC: sono qualche deciamle in meno

MASCHI: FEMMINE:
Peso Ideale 20,0- 24,9 18,7- 23,8
Sovrappeso 25,0-29,9 23,9- 28,6
Obesità 1° 30,0- 34,9 28,7- 33,7
Obesità 2° 35,0- 39,9 33,8- 40,0
Obesità 3° > 40,0 > 40,0

I metodi utilizzati dai diversi Autori per quantificare e descrivere la distribuzione del grasso sono svariati, il più sempli-
ce è quello di calcolare il Rapporto Circonferenza Vita/ Circonferenza Fianchi, con terminologia inglese Waist Hip
Ratio (WHR).
Utilizzando questo metodo è possibile distinguere un’obesità “viscerale” (maggiore quantità di grasso sulla parte alta
del tronco, a alivello dell’addome e all’interno dello stesso) e un’obesità “sottocutanea” (in cui vi è un aumento di
grasso nella zona bassa dei fianchi, sui glutei e sulle cosce, a livello sottocutaneo).

Vari Autori hanno confermato che è l’obesità viscerale ad essere associata ad un forte aumento del rischio sia per i di-
sturbi di natura metabolica (diabete, gotta, calcolosi urinaria) che per patologie cardio e celebro vascolari (infarto mio-
cardico e icutus cerebrale), rispetto alla obesità sottocutanea.

In Italia i più recenti studi epidemiologici svolti nel 2000, su soggetti di età superiore a 18 anni, indicano una prevalen-
za di obesità del 9,7% e del sovrappeso del 33,6%. Percentuali che sono in aumento rispetto ai dati ricavati da indagini
svolte alla metà degli anni Novanta.

Va sottolineato come non effettuare la colazione sia una delle caratteristiche dell’alimentazione del soggetto obeso,
bambini compresi; inoltre queste persone seguono una dieta caratterizzata da uno scarso apporto di carboidrati a lento
assorbimento, di proteine e lipidi di origine vegetale e di fibra sotto forma di verdura e frutta.

Oggi si è determinata una certa omogeneizzazione dei consumi, anche se permangono sensibili differenze fra Nord e
Sud Italia. In ogni caso è noto che il modello alimentare mediterraneo è oggi riconosciuto come il più valido nel ri-
durre l’esposizione a rishio di aterosclerosi.

ALTRE ABITUDINI SCORRETTE :

Il diabete e l’obesità risultano da un punto di vista epidemiologico eziologicamente legati non tanto al consumo di car-
boidrati in sè quanto piuttosto a quello di calorie complessive.

Studi di carattere epidemiologico hanno evidenziato l’esistenza di una associazione statistica tra consumi elevati di sale
(cloruro di sodio) e prevalenza della ipertensione arteriosa in gruppi di popolazione.
Il sale viene di solito aggiunto nel corso della preparazione dei cibi a livello familiare ed anche all’atto del loro consu-
mo.
Vari rapporti, di comitati nazionali e internazionli, indicano un valore inferiore ai 6 grammi/ giorno come quantità di in-
troduzione raccomandabile.
Da tenere presente che tutto il sale di cui abbiamo bisogno è già contenuto negli alimenti allo stato naturale.

In molti Paesi industrializzati, compresa l’Italia, la quantità nella dieta di grassi totali, grassi saturi e colesterolo supera
notevolmente i livelli usualmente raccomandati.
Popolazioni con elevati livelli di colesterolo totale e colesterolo LDL presentano una più elevata incidenza e mortalità
per cardiopatia ischemica.
CAPITOLO 13:
SEDENTARIETA’:

La sedentarietà, ovvero la scarsa attività fisica, rappresenta uno dei principali fattori di rischio per la salute relativi allo
stile di vita.
Secondo alcuni Studiosi l’inattività fisica sarebbe al quarto posto tra i principali fattori di rischio delle patologie croni-
che. Alcune ricerche riportano che il 30% delle morti premature totali sono correlate con il sovrappeso e la sedentarietà;
un terzo delle morti per cancro dipendono da cattiva alimentazione, sedentarietà e sovrappeso; la sedentarietà riduce
l’aspettativa di vita mediamente di 4 anni; mentre secondo altre ricerche la sedentarietà ha superato il fumo come causa
di patologia: infatti ucciderebbe nel mondo 5,3 milioni di persone.

Le cause che hanno portato ad aumento delle sedentarietà sono varie, ad esempio l’aumento del lavoro di tipo sedenta-
rio (meccanizzazione industriale crescente, uso del computer), l’aumento della urbanizzazione e dei mezzi di trasporto,
l’uso dell’ascensore al posto delle scale, l’aumento delle ore passate davanti allo schermo del televisore o del computer,
la diminuzione della pratica di sport o di giochi all’aperto, la carenza di spazi dove praticare attività fisica all’aperto o
di piste ciclabili, l’aumento degli elettrodomestici e la dimiuzione dell’attività domestica: tutti questi fattori hanno con-
tribuito all’aumento dei soggetti sedentari.

ATTIVITA’ FISICA:

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per attività fisica si intende “qualunque sforzo esercitato dal sistema
muscolo-scheletrico che si traduce in un consumo di energia superiore a quello in condizioni di riposo”. In questa defi-
nizione rientrano quindi non solo le attività sportive ma anche semplici movimenti quotidiani come camminare, andare
in bicicletta, ballare, giocare, fare giardinaggio e lavori domestici.

La regolare attività fisica a tutte le età è importante per il benessere fisio e mentale in quanto aiuta a : sviluppare ossa,
articolazioni e muscoli aumentando la potenza muscolare; sviluppare il cordinamento e il controllo dei movimenti; man-
tenere un corretto peso corporeo; migliorare il controllo su ansia e depressione.

Uno studio condotto su 73.743 donne di 50-79 anni, ha confrontato l’influenza dell’esercizio fisico intenso, del cammi-
no e delle attività sedentarie sulla comparsa di eventi cardiovascolari: la riduzione del rischio è risultata simile per il
cammino a passo rapido ( 3-7 km/ora) e l’esercizio fisico intenso: quindi anche il cammino è risultato predittore di un
rischio più basso. Infatti si è visto che è possibile trarre vantaggio anche da soli 30 minuti di moderato esercizio fisico
quotidiano (il cammino veloce è efficace quanto un esercizio fisico intenso/ non c’è differenza entrambi abbassano il ri-
schio)

L’attività fisica è utile anche per ridurre il desiderio acuto della sigaretta (craving) nelle persone che hanno smesso di
fumare. Il craving, vero e proprio sintomo di dipendenza, si riduce significatamente con una breve sessione di esercizio
fisico: 15’ di cammino veloce fa sparire il desiderio anche per 50 minuti.

L’OMS nel 2010 aveva consigliato le seguenti Raccomandazioni sull’attività fisica:

Per i bambini e ragazzi (5-17 anni): almeno 60 minuti al giorno di attività moderata-vigorosa, includendo almeno
3 volte alla settimana esercizi per la forza, che possono consistere in giochi di movimento o attività sportive.

Per gli adulti (18-64 anni): almeno 150 minuti alla settimana di attività moderata o 75 minuti di attività vigorosa (
o combinazioni equivalenti delle due) in sessioni di almeno 10 minuti per volta, con rafforzamento dei maggiori
gruppi muscolari da svolgere almeno 2 volte alla settimana.

Per gli anziani (dai 65 anni in poi): le indicazioni sono le stesse degli adulti, con l’avvertenza di svolgere anche at-
tività orientate all’equilibrio per prevenire le cadute. Chi fosse impossibilitato a seguire a pieno le raccomandazioni
da fare attività fisica almeno 3 volte alla settimana e adottare uno stile di vita attivo adeguato alle proprie condizio-
ni di salute.

TIPI DI ATTIVITA’ FISICA:

1) Criteri da seguire per un soggetto in buona salute che intende praticare attività agonistica:
- certificato di idoneità;
- visita medica completa;
- spirometria a riposo;
- ECG a riposo e durante test ergometrico submassimale;
- richiesta di eventuali accertamenti.
2) Criteri da seguire per indicare una attività ludico-amatoriale in un soggetto in buona salute.
Le indicazioni devono tener conto di: età, BMI (indice di massa corporea), tipo di attività, intensità dello sforzo, fre-
quenza settimanale delle sedute e durata di ogni seduta.
Dopo i 50-60 anni per attività sportive ad impegno cardiovascolare medio-alto si consiglia un Elettrocardiogramma da
sforzo (ECG da sforzo).

Per quanto riguarda il tipo di attività si può dire che le attività sportive si possono schematicamente classificare in rela-
zione al tipo di lavoro muscolare:
- sport dinamici o di resistenza: esempio gli sport di fondo;
- sport statici o di forza esplosiva: esempio gli sport di velocità;
- sport misti dinamici-statici: esempio gli sport di squadra

Si possono anche classificare in relazione all’impegno energetico in:


- sport aerobici: gli sport dinamici o di resistenza;
- sport anaerobici: sport statici o di forza esplosiva;
- sport misti aerobici-anaerobici alternati: gli sport di squadra.

Per quanto riguarda l’intensità dello sforzo si può dire che il corpo umano per fare dell’attività fisica ha bisogno di
energia che viene fornita attraverso il metabolismo degli alimenti ingeriti. Da questi processi metabolici viene liberata
energia sotto forma di ATP (AdenosinTriFosfato). I processi metabolici di produzione di energia possono riguardare gli
acidi grassi e/o il glucosio.
Nel caso di esercizio fisico a bassa intensità prevale il metabolismo degli acidi grassi libri, ovvero un metabolismo aero-
bico; più aumenta l’intensità dell’esercizio e più l’organismo utilizza il glucosio come fonte di energia attraverso un me-
tabolismo anaerobico.

Nel caso di un esercizio fisico ad intensità crescente si determina l’incremento di due parametri misurabili che sono: il
volume di ossigeno consuamato (VO2) e la Frequenza Cardiaca (FC).

VO2 max = capacità aerobica massima (capacità massima di utilizzare il meccanismo aerobico per produrre energia).
FC di soglia erobica- anaerobica = Frequenza Cardiaca (FC) alla quale si innesca il meccanismo anaerobico per la pro-
duzione di energia.

Quindi un allenamento che comporta una FC inferiore alla FC di soglia innesca il metabolismo aerobico mentre un alle-
namento che comporta una FC superiore alla FC di soglia sviluppa il meccanismo anaerobico, con produzione di acido
lattico.

Per calcolare la Frequenza Cardiaca di soglia si può utilizzare un metodo diretto facendo una ergospirometria che è
un test ergometrico per calcolare il consumo di ossigeno (VO2) alle diverse frequenze cardiache.

Si può anche calcolare la Frequenza Cardiaca di soglia con un metodo teorico: dapprima si calcola la FC massima teori-
ca che è uguale a “220-età” ; poi si calcola il 90% della FC massima teorica.

Ad esempio per un atleta di 40 anni si calcola: 220-40 = 180 (FC massima); 90% di 180 = 162, che corrisponde alla Fre-
quenza Cardiaca di soglia.

Se durante l’attività fisica la FC che viene raggiunta è inferiore alla FC di soglia allora il lavoro è di tipo aerobico.
Se durante l’attività fisica la FC che viene raggiunta è superiore alla FC di soglia allora il lavoro è di tipo anaerobico.
CAPITOLO 14: IGIENE AMBIENTALE

AMBIENTE:

Dell’ambiente esistono diverse definizioni: “insieme di quei fattori e di quelle influenze esterne (fisiche, chimiche, bio-
logiche e sociali) che esercitano un effetto significativo ed apprezzabile sulla salute umana” (OMS 1972). Per ambiente
si può intendere anche “tutto ciò che circonda l’uomo nelle 24 ore quotidiane e che viene in contatto con l’uomo, in mo-
do volontario o involontario, provocando effetti positivi ma spesso negativi sulla sua salute.
Avendo come punto di riferimento l’uomo, con il termine ambiente possiamo considerare sia il microambiente, o “am-
bienti chiusi”, detti anche “confinati” o con terminologia più attuale “indoor”, sia il macroambiente, o “ambienti ester-
ni”, detti anche “outdoor”.

Si chiamano matrici o compartimenti ambientali quei settori dell’ambiente con i quali l’uomo può vivere in contatto
e sono l’aria, l’acqua, il suolo e gli alimenti.
E’ importante a questo punto sottolineare che parlando di ambiente si deve necessariamente fare riferimento non solo
allo “spazio” ma anche al “tempo”.
Poichè l’uomo nelle 24 ore della giornata, in funzione delle sue esigenze, cambia il suo modo di vita cambia pertanto
anche l’ambiente delle sue attività (domestico, lavorativo, ricreativo), e quindi ha contatti differenti in qualità , in inten-
sità ed in durata con i diversi componenti dell’ambiente.

Altro elemento importante è il concetto di “contatto”, che esprime il rapporto che si può instaurare tra uomo e matrice
ambientale. Questo rapporto si realizza se c’è un contatto, altrimenti non esiste rapporto senza che vi sia un contatto.
Il contatto è caratterizzato da due elementi che sono l’intensità (bassa, elevata) e la durata (breve, lunga). Potremo
avere pertanto contatti a diversa configurazione a seconda della combinazione delle due modalità (bassa intensità e lun-
ga durata, elevata intensità e breve durata ecc...). Di solito la popolazione è sottoposta a contatti di lunga durata ma di
bassa intensità.

INQUINAMENTO:

Si può definire inquinamento il risultato ovvero l’effetto derivante da ogni azione dell’uomo che comporti modificazio-
ni significative dell’ambiente naturale, con possibili conseguenze nocive per l’uomo. L’inquinamento può essere atti-
nente alle varie matrici ambientali ed avere caratteristiche diverse, e talvolta peculiari, in relazione ai compartimenti in-
teressati.
Per quanto riguarda la matrice aria, potrà essere alterata con compornenti chimici che possono essere allo stato gasso-
so, liquido o solido, oppure con contaminati fisici del tipo radiazioni ionizzanti, radiazioni non ionizzanti, microonde e
radiofrequenze e rumori.

Nel caso dell’acqua possiamo considerare sia l’acqua potabile, che per essere tale deve possedere requisiti fisico-chimi-
co-biologici particolari, che l’acqua cosidetta da balneazione che ne deve possedere altri specifici.

Il suolo, altra matrice fondamentale, può subire inquinamenti sopratutto di tipo chimico, che però possono non essere
circoscritti a questo compimento ma interessare ad esempio le acque o gli alimenti, di orgine vegetale e non, attraverso i
vari cicli biologici delle piante e degli animali. E’ sopratutto il problema dello smaltimento dei rifiuti, sia solidi che li-
quidi, che interessa questo compartimento ambientale.

Gli alimenti rappresentano l’altra matrice ambientale che può essere interessata sopratutto da sostanze di origine chimi-
ca, oltre agli importanti e frequenti contaminati biologici.

Alcuni Autori definiscono contaminati i componenti che si trovano nell’ambiente però a livelli inferiori a quelli am-
messi per legge e pertanto ritenuti accettabili. Quando lo stesso componente è presente nell’ambiente a livelli superiori
ai limiti imposti dalle leggi, e supera pertanto soglie o limiti tossicologici, viene definito inquinante. Avremo nel primo
caso una matrice contaminata, nel secondo caso una matrice inquinata.

L’inquinamento più frequente nei decenni passati era prevalentemente di tipo biologico, mentre quello più caratteristico
degli anni attuali è di tipo chimico. Si valuta che ogni anno vengano sintetizzati circa 40.000 nuovi composti, di cui cir-
ca il 10% entra poi a livello mondiale nell’attività produttiva. Non si fa in tempo a conoscere, a livello scientifico, alcu-
ne caratteristiche dei prodotti esistenti, che già ne vengono immessi sul mercato altri 4.000 nuovi.

SORGENTI (di inquinamento):

Da una sorgente di contaminazione si liberano nei compartimenti ambientali sostanze o fenomeni fisici che vengono
trasportati fino ad arrivare all’uomo che pertanto subisce una esposizione all’inquinante, spesso ma non sempre, de-
scrivibile e misurabile sotto forma di dose biologicamente attiva che può provocare degli effetti sull’uomo, più o me-
no gravi. Le sorgenti di inquinamento si dividono in Naturali ed Artificiali. Esempi di sorgenti naturali possono esse-
re le eruzioni vulcaniche, alcuni processi biologici, le traformazioni geologiche come le erosioni provocate dal vento,
l’evaporazione di superfici acquose, le sostanze derivate da incendi di foreste 8non si possono modificare).
Viceversa le sorgenti artificiali sono numerose e diversificate ed esplicano un ruolo di primaria importanza. Le più im-
portanti sono le sorgenti legate alle attività umane (attività antropiche) (essendo costruite dall’uomo sono modificabili).

Le sorgenti di inquinamento possono essere suddivise in puntiforme o diffuse (o areali) e in fisse, mobili o volumetri-
che. Quelle puntiformi (modificabili) sono costituite da un luogo ben definito del territorio nel quale è possibile indivi-
duare una sorgente (es. lo scarico da impianto di riscaldamento , lo scarico canalizzato di liquidi fognari in un corso
d’acqua. superficiale). In generale le sorgenti puntiformi sono caratterizzate da un sistema di canalizzazione che permet-
te il flusso di gas, liquidi e solidi dalla sorgente all’ambiente.

Le sorgenti artificiali diffuse o areali corrispondono ad una superficie all’interno della quale è possibile circoscrivere
una sorgente (ad es. l’ammasso di rifiuti su un terreno che occupa una certa superficie). Sono molto diffuse ma poco ag-
gredibili e modificabili.

Le sorgenti fisse sono quelle che per un dato periodo di tempo in una data zona del terriotorio si trovano associate ad un
processo e sono stazionarie (es. una industria, un condominio, un inceneritore).

Le sorgenti mobili sono quelle che in un certo periodo di tempo si spostano da un punto all’altro secondo una traiettoria
o un percorso definito (es. traffico autoveicolare, trasporto su ferrovia o su acqua).
La sorgente volumetrica si localizza nell’ambiente, di solito nell’aria, e non è conseguente ad una attività vera e pro-
pria ; può essere un volume di aria che in certo momento si determina per la concorrenza simultanea di diversi elementi
o fattori (es. smog fotochimico, l’inversione termica o le radiazioni UV che trasformano alcuni contaminati rendendoli
ancora più tossici ed occupano un certo volume di aria).

Un altro modo di classificare le sorgenti è quello che si basa sulle possibilità tecniche di misura dei contaminati, ovvero
conoscere la composizione dello scarico (che cosa la sorgente scarica), la portata dello scarico (quanto scarica) e la du-
rata dello scarico (per quanto tempo scarica). Questi parametri possono essere costanti (uno o più) o variabili (uno o
più) anche di molto.

La sorgente reale è una sorgente che è possibile definire, attraverso le tre informazioni: che cosa, quanto e per quanto
tempo, ovvero è possibile definire la composizione, la portata e la durata dello scarico.
Nel caso della sorgente virtuale non è possibile, in modo obiettivo, pervenire alla misura dei tre parametri suddetti.

E’ una classificazione importante sotto l’aspetto pratico perchè per le sorgenti reali si può prevedere un miglioramento
ed un intervento tecnologico, mentre per quelle virtuali, che non sono in pratica conosciute o lo sono poco, non è possi-
bile sempre prevedere un intervento o un miglioramento, rendendo il rpoblema molto complicato.

CAPITOLO 15:
ARIA ATMOSFERICA:

L’aria è sicuramente una materia prima fondamentale per l’uomo e per il mondo vegetale ed animale; essa è costituita
da un miscuglio di gas, particelle solide e liquide, il cui insieme rappresenta l’atmosfera, ovvero la parte gassosa del no-
stro globo che ricopre tutta la superficie terrestre. Pur essendo formata da sostanze volatili, rimane aderente alla parte
esterna della litosfera e della idrosfera perchè soggetta all’azione di gravità della Terra.

Questo involucro gassoso ha uno spessore di circa 1000 chilometri e si possono distinguere diversi strati:

- la troposfera (dove viviamo noi): che va dal suolo fino ad una altezza di circa 15Km, in media, e contiene circa i 3/4
dell’atmosfera in peso e la quasi totalità dell’umidità e delle impurità atmosferiche. In essa la temperatura decresce con
l’altezza;

- la stratosfera: che si estende fra i 15 e 30 Km circa, con temperatura costante;

- la ozonosfera: fra 30 e 60 Km, in cui si ha la formazione di ozono ad opera dei raggi ultravioletti del Sole, con svilup-
po di molta energia;

- la mesosfera: tra 60 e 80 Km circa, in cui la temperatura torna a diminuire;

- la termosfera: oltre gli 80 Km fino ai 500 Km, in cui l’energia sviluppata dall’azione delle radiazioni solari provoca
un aumento progressivo della temperatura;
- la esosfera: che verosimilmente può oltrepassare anche il migliaio di Km di altezza e nella quale la temperatura può
raggiungere anche i 2000 °C.

(La temperatura diminuisce o aumenta a seconda dello strato in cui siamo, in alto diminuisce e in basso aumenta)

(Da qui in poi parliamo solo di troposfera)

La composizione chimica dell’aria secca, alla temperatura di 0°C ed alla pressione di 760 mmHg (1 atmosfera) è note-
volmente costante; infatti i principali gas riscontrabili sono:

Azoto 78%, Ossigeno 21%, Argon 0,9%, Anidride Carbonica 0,03%, il restante è costituito da altri gas tra i quali il crip-
ton, il neon, l’elio, lo xenon, l’idrogeno, l’ozono.

L’azoto è completamente inerte agli effetti degli scambi respiratori, si scioglie nel sangue e nei liquidi organici.
L’ossigeno è il gas di fondamentale importanza in quanto nell’uomo partecipa al fenomeno della respirazione ed inter-
viene nei fenomeni vitali delle cellule.

L’anidride carbonica è l’altro componente dell’aria atmosferica importante per noi.


Gli altri componenti, tra quali l’argon, sono, di massima, dei gas inerti che non partecipano agli scambi gassosi della re-
spirazione umana.

Le proprietà fisiche dell’atmosfera di maggior interesse sono: pressione, temperatura, umidità, ventilazione e lumino-
sità.

Pressione: la pressione atmosferica è determinata dal peso dell’aria che circonda la Terra, ed è inversamente proporzio-
nale all’altitudine.
Temperatura : il riscaldamento dell’aria avviene in maggior parte per le radiazioni luminose provenienti dal Sole; in
minor parte dalle radiazioni che vengono riflesse dalla Terra verso gli strati più bassi dell’atmosfera e da qui irradiate di
nuovo al suolo (effetto serra). Temperatura e pressione sono di grande importanza per la formazione dei venti, ovvero
dei movimenti orizzontali dell’atmosfera.
Umidità: è costituita dal vapore acqueo presente nell’aria stessa, e deriva principalmente dalla evaporazione di superfi-
ci idriche. La quantità di vapore acqueo contenuta in un determinato volume di aria è abbastanza costante, oltre questa
quantità si forma rugiada, nebbia, pioggia e neve.

INQUINAMENTO ATMOSFERICO:

L’inquinamento atmosferico può essere definito come “ogni modifica della normale composizione o stato fisico
dell’aria atmosferica, dovuta alla presenza nella stessa di una o più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da alte-
rare le normali condizioni ambientali e la salubrità e da costituire un pericolo diretto o indiretto per la salute
dell’uomo”.

Le sorgenti maggiori di inquinamento atmosferico sono: Processi di combustione: motori di autoveicoli, impianti di ri-
scaldamento (domestici o industriali), servizi (inceneritori municipali); Usura e dispersione di materiali: manto stradale,
pneumatici, frizioni, ecc..e Specifiche lavorazioni industriali.
Il traffico autoveicolare è ormai divenuto una delle principali fonti di inquinamento atmosferico, sopratutto in ambito
urbano.

Le condizioni che ostacolano la dispersione dei contaminati, una volta che questi sono stati immessi nell’atmosfera, so-
no rappresentate fondamentalmente da assenza di vento e da fenomeni di inversione termica. Infatti in queste condizioni
è impedito il movimento ascensionale dell’aria, pertanto i contaminati, sopratutto quelli corpuscolari, restano confinati
tra il terreno e lo strato di inversione termica, con temperatura più elevata.

ALCUNI TRA I MAGGIORI CONTAMINATI:

BENZENE: il benzene è un idrocarburo volatile contenuto nelle benzine per autotrazione; il traffico autoveicolare ne
costituisce pertanto la fonte quasi esclusiva. A differenza di altri idrocarburi egualmente presenti in ambiente, il benze-
ne è riconosciuto cancerogeno ed è pertanto oggetto di particolare attenzione. Per l’affinità sia di sorgente di emissione
che di comportamento in atmosfera, le concentrazioni di benzene sono strettamente correlate a quelle di altri inquinanti
primari emessi dal traffico automobilistico, quali ossidi di azoto e sopratutto monossido di carbonio.

OSSIDO DI CARBONIO (CO): l’ossido di carbonio è il contaminante emesso in quantità maggiore dalla globalità
delle sorgenti inquinanti. E’ un prodotto di combustione incompleta e la sorgente maggiore è rappresentata dal traffico
autoveicolare.

PIOMBO: la maggior parte del piombo atmosferico deriva dalle benzine. La sua presenza è quindi collegata al traffico
autoveicolare. Il piombo può essere, oltre che inalato, anche ingerito perchè è presente nelle acque e negli alimenti. Il
piombo una volta assorbito permane nel sangue (piombemia) per circa 20-40 giorni e quindi si accumula nelle ossa, do-
ve ha una emivita di alcuni anni.

BIOSSIDO DI AZOTO: l’apporto maggiore è dato dalle combustioni, sia da sorgenti stazionarie che mobili (motori di
autoveicoli). Ci possono essere notevoli variazioni di concentrazione nella stessa giornata, e gli effetti sono legati alle
alte concentrazioni, anche se permangono solo per brevi periodi.

OZONO: l’ozono è un inquinante secondario che si forma per effetto di una reazione chimica tra ossidi di azoto, cioè
NO e NO2, presenti nell’atmosfera e composti organici volatili (COV) derivati da diverse sorgenti naturali e artificiali.
Tale reazione presuppone la presenza di radiazioni ultraviolette e si parla in questi casi di smog fotochimico.
Dato il suo alto potere ossidante, l’ozono è in grado di reagire con qualunque sostanza di origine biologica. Sono impor-
tanti anche esposizioni brevi per determinare effetti fisiopatologici. Più sensibili sono i soggetti che già hanno alterazio-
ni funzionali dell’apparato respiratorio ed i bambini, con possibili irritazioni congiuntivali, irritazioni alla gola con tosse
e cefalea.

ANIDRIDE SOLFOROSA (SO2): proviene per lo più da impianti fissi di combustione. Infatti lo zolfo contenuto nei
combustibili lo si ritrova poi nei fiumi sotto forma appunto di SO2. Anche se i nuovi combustibili contengono meno zol-
fo, si possono creare condizioni in cui si ha innalzamento delle concentrazioni nell’aria, anche per brevi periodi
(un’ora), ma sufficienti per determinare effetti sulla funzionalità respiratoria di soggetti sensibili (asmatici). Ha comun-
que una elevata idrosolubilità pertanto è abbastanza trattenuta a livello del rinofaringe.

ACIDO SOLFORICO (H2SO4): in presenza di umidità, ovvero di acqua H2O, l’anidride solforosa SO2,si idrata ad
acido solforico che resta aereodisperso. Gli aerosol di acido solforico hanno effetti biologici ben maggiori che non i gas
di anidride solforosa. Agisce sull’apparato mucociliare delle vie respiratorie, sopratutto determinando effetti sui soggetti
più sensibili come gli asmatici.

NUOVI CONTAMINATI:

Nell’ultimo ventennio il quadro dell’inquinamento atmosferico è tuttavia cambiato notevolmente: sono infatti diminuiti
gli inquinamenti dovuti all’anidride solforosa, al piombo e ai fumi neri. Rimane invece attualissimo il problema degli
ossidi di azoto, delle polveri sospese e dei composti organici volatili ed è aumentato l’allarme verso gli inquinamenti da
benzene e da ozono.

PM10:

Il particolare PM10 consiste nell’insieme delle particelle aereodisperse che ha diametro medio uguale o inferiore a 10
micron e costituisce la frazione che non viene trattenuta nelle vie aeree superiori e, superando la laringe, giunge fino
all’albero bronchiale. Le principali fonti di emissione di PM10 sono le combustioni in genere.

Il termine PM10 si riferisce ad un insieme indistinto di particelle e composti chimici, la cui composizione può essere
differente in diversi ambienti (urbano o rurale), in diversi periodi dell’anno (mesi caldi o mesi freddi), secondo le diver-
se origini (traffico autoveicolare, riscaldamento, emissioni industriali o agricole). Tra le sostanze che compongono il
PM10 vi sono diversi cancerogeni tra i quali idrocarburi policiclici aromatici e benzene.
Alcuni studi analizzano gli effetti della frazione del PM10 costituita dal PM2,5 (particella con diametro aerodinamico
inferiore a 2,5 micron) ovvero la cosidetta “frazione inalabile” che giunge fino all’alveolo polmonare.

Episodi acuti di inquinamento atmosferico da PM10, come da altre sostanze inquinanti, determinano un aumento della
mortalità giornaliera.

CAPITOLO 16:
EFFETTO SERRA:

Da milioni di anni la Terra è costantemente irraggiata dalle radiazioni elettromagnetiche provenienti dal Sole, che scal-
dano il nostro pianeta e danno origine alla vita. Quello che citiamo spesso come “effetto serra” è in realtà un fenomeno
naturale da sempre presente sulla terra. Dall’effetto serra deriva la temperatura terrestre intorno ai 15° gradi medi. Sen-
za l’effetto serra la temperatura del globo terrestre sarebbe in media 30 gradi più fredda, ovvero oscillerebbe intorno ad
una temperatura di -18°C, e a questa temperatura la vita si sarebbe difficilmente evoluta . La potenza della sola radiazio-
ne solare, infatti, non sarebbe sufficiente a sostenere la vita. Nel sistema solare, oltre che sulla Terra, l’effetto serra rego-
la le condizioni termiche su Marte e Venere mentre la nostra Luna, priva di atmosfera e quindi di effetto serra, presenta
escurzioni di temperatura fortissime fra il giorno e la notte e fra le zone in ombra e quelle illuminate.

I principali gas serra naturali sono il vapore acqueo, l’anidride carbonica (CO2) . Questi gas svolgono due importanti
funzioni:

- Filtranole radiaizoni provenienti dal Sole, evitando in tal modo di far giungere fino alle superficie terrestre quelle più
nocive per la vita.

- Ostacolano l’uscita delle radiazioni infrarosse. La radiazione solare ricevuta dalla superficie terrestre riflessa verso
l’alto assume la forma di raggi infrarossi (energia termica). I gas serra presenti nell’atmosfera impediscono la loro com-
pleta dispersione nello spazio, facendoli nuovamente cadere verso il basso. Come in una giagantesca serra dove riman-
gon intrappolati sotto i vetri.

Il problema dei nostri anni è l’eccessiva presenza di “gas serra” nell’atmosfera a causa dell’attività umana e dell’ecces-
sivo sfruttamento dei combustibili fossili. Infatti lo sfruttamento dei combustibili fossili, ovvero il carbone, il petrolio e
il gas, per la produzione di carburanti e di energia elettrica libera nell’aria altri gas di origine antropogenica. Inoltre al-
cuni gas serra prodotti dall’uomo non sono presenti in natura ma risultano essere particolarmente attivi nel rinforzare
l’effetto serra.

E’ il caso degli idrofluocarburi (HFC), dei perfluocarburi (PFC) e dell’esaflururo di zolfo (SF6).
Le emissioni di anidride carbonica sono il principale nemico da combattere . L’80% delle emissioni di anidride carboni-
ca proviene dalla comubustione del petrolio, del metano e del carbone. Un inquinamento cresciuto esponenzialmente
con l’industrializzazione delle attività umane. Nel novecento, il livello di CO2 in atmosfera è aumentato del 40% rispet-
to al secolo precedente come conseguenza dello sviluppo dei trasporti (in particolare l’invezione dell’automobile come
bene di massa). La maggior produzione di metao è invece dovuta ad una crescita esplosia dell’allevamento di bestiame,
sia di bovini che di suini.

Il problema dell’effetto serra si aggrava ulteriormente considerando la terra come “sistema complesso”. La CO2 ha una
durata media in atmosfera di circa 100 anni. Se pure smettessimo oggi di produrre emissioni di CO2 non riusciremmo
comuqnue a ridurre in breve tempo la presenza di anidride carbonica nell’atmosfera. In assenza di attività umana è quin-
di necessario circa un secolo per ristabilire la situazione atmosferica “normale” del periodo antecedente alla rivoluzione
industriale. Le reazioni dell’ambiente sono quindi discontinue e irreversibili e non mostrano immediatamente i loro rea-
li effetti o conseguenze.

L’eccessiva presenza di “gas serra” provoca un continuo surriscaldamento globale dell’atmosfera terrestre. Il riscalda-
mento della temperatura ha effetti molto gravi sugli ecosistemi, che non riescono ad adattarsi a cambiamenti così rapidi.
In assenza di adeguate misure di prevenzione che interrompono o riducano questo incremento, la temperatura terrestre
potrebbe subire nei prossimi 50 anni un aumento medio stimato circa di 2°C. Ciò potrebbe provocare: l’estensione delle
zone acide da 400 a 800 km verso nord; lo scioglimento di una parte delle nevi con conseguente innalzamento del livel-
lo del mare stimato in misura variabile dai 70 ai 150 cm; rilevati sconvolgimenti climatici con accentuazione di fenome-
ni meteo estremi come gli uragani, le tempeste con aumento di precipitazioni e rischio di alluvioni. Nessuno però può
dire con certezza quali siano le reali conseguenze a livello planetario.

I Paesi che emettono la maggior parte dei gas serra sono i Paesi industrializzati, ma anche Paesi in via di sviluppo stan-
no svolgendo un ruolo significativo: al primo posto per quantitativi di gas serra ci sono gli Stati Uniti d’America mentre
la Cina è già al secondo posto.

CAPITOLO 17:
ACQUA POTABILE:

L’acqua per le sue caratteristiche costituisce un elemento essenziale per l’equilibrio della Terra e per la vita di tutti gli
esseri viventi sia vegetali che animali. Infatti essa partecipa con i suoi elementi costitutivi (idrogeno e ossigeno9, insie-
me al carbonio e all’azoto, alla composizione di tutto il materiale plastico ed energetico.

Della quantità totale di acqua esistente sulla Terra il 97,2% è contenuta nei mari e negli oceani, il 2,7% è presente come
acqua dolce nei continenti (ghiacciai, laghi, fiumi, acque sotteranee) e l’1% nell’atmosfera come umidità.

Le perdite di acqua in un soggetto di media attività e vivente in clima temperato sono stimabili in circa 3000 ml giorna-
lieri, così distibuite : 1500 ml circa con le urine, 400-500 ml con l’aria espirata, 800-900 ml circa attraverso la cute e
200 ml circa con le feci.
Questo apporto può avvenire attraverso tre vie principali: con l’acqua derivante dai processi metabolici (circa 200ml),
con l’acqua contenuta negli alimenti (circa 800ml) e sopratutto con l’assunzione diretta di liquidi, acqua e bevande ac-
quose (circa 2000ml).

USO DELL’ACQUA:

L’acqua viene utilizzata per molteplici usi che comprendono l’igiene personale e collettiva e le attività lavorative, agri-
cole ed industriali. Ci sono degli usi strettamente fisiologici, degli usi utili alla vita e degli usi accessori (lavaggio delle
strade, di macchine).

Come abbiamo già detto noi dovremmo bere circa 2 litri di acqua al giorno; poi ci sono le altre necessità; per esempio
cottura dei cibi, pulizia personale, lavaggio degli indumenti: oggi si parla di una quota minima di 50 litri al giorno pro-
capite per usi strettamente umani, ma se si comprendono le esigenze “sociali” e tutte le altre, questa cifra diventa anche
10 volte più grande (circa 500 litri/ giorno/procapite).

Approvvigionamento idrico:

L’approviggionamento idrico per i fabbisogni dell’uomo viene effettuato utilizzando le acque meteoriche, le acque tellu-
riche, le acque superficiali e quelle marine.

Le acque meteoriche o piovane possono essere raccolte e conservate, sopratutto nei piccoli centri rurali, in cisterne.

Le acque telluriche sono acque meteoriche che penetrate nelle rocce e nei terreni si sono arricchite di sali calcarei.

Le acque superficiali sono rappresentate dalle acque dei fiumi, dei laghi e dei bacini artificiali.

Le acque marine non possono essere utilizzate come tali per l’alto contenuto di sali ma vanno sottoposte a processi di
dissalazione attuati con varie metodologie, fra le quali la distillazione ed il congelamento.

REQUISITI DI POTABILITA’:

L’acqua destinata al consumo umano deve possedere tre requisiti principali: essere gradevole, essere usabile ed essere
innocua.

Gradevolezza. Un’acqua si definisce gradevole quando è sprovvista di torbidità, di colorazione e di odori e sapori sgra-
devoli ed è sufficientemente fresca.

Usabilità. La caratteristica che condiziona in misura maggiore l’usabilità dell’acqua è rappresentata dal suo grado di
mineralizzazione.

Innocuità. Se i primi due requisiti non sono vincolati (si pensi ad esempio all’utilizzo di acque con odore o sapore non
molto gradevoli), il possesso del terzo requisito rappresenta una esigenza inderogabile.
I possibili effetti potrebbero essere di tipo tossico, infettiv, mutageno, cancerogeno, ecc.

Gli effetti più conosciuti sono certamente quelli infettivi, riscontrabili ormai da diverso tempo. Anche se in linea pura-
mente teorica numerosissimi agenti patogeni potrebbero essere veicolati dall’acqua, in pratica il rischio reale è costitui-
to quasi esclusivamente dagli agenti di malattie a diffusione oro-fecale che raggiungono le acque utilizzate per il consu-
mo umano sopratutto attraverso la loro contaminazione da parte dei liquami di fogna. Viene considerata come indice di
inquinamento batterologico la carica batterica totale e la presenza di batteri di origine fecale quali conliformi (totali e
fecali), enterococchi e spore di clostridi. Tali microrganismi, pur non rappresentando specie microbiche in grado di cau-
sare malattie in ospiti umani, sono degli utili indicatori di una possibile contaminazione con patogeni enterici.

POTABILIZZAZIONE DELLE ACQUE:

Per la correzione dei caratteri batteriologici sono generalmente impiegati mezzi fisici, chimici e meccanici. Il sistema
più pratico è la clorazione. Altri sistemi di potabilizzazione sono l’ozonizzazione ed il trattamento con raggi UV. Per
quel che riguarda i mezzi meccanici, esistono diversi tipi di filtri, lenti o rapidi.

(SALI DI CALCIO: i 2 sali minerali che condizionano maggiormente la durezza dell’acqua / anticalcare mamma pub-
blicità / domande esame).

L’acqua per essere microbiologicamente pura non deve deve avere sostanze chimiche di provenienza autropica.
CAPITOLO 18:
RUMORE:

Il rumore o suono, può essere definito come la sensazione uditiva percepita dall’orecchio in conseguenza delle oscilla-
zioni di pressioni dell’aria generate dalla vibrazione dei corpi solidi.

I suoni sono sono definibili in base ad alcune caratteristiche fisiche, le più importanti delle quali sono:

- la velocità di propagazione, che nell’aria è uguale a 340 metri/secondo;


- la frequenza, misurata in Hertz o cicli per secondo, è uguale al numero delle oscillazioni per unità di tempo; il nostro
orecchio è in grado di percepire suoni che abbiano una frequenza compresa tra 16 e 16.000 Hertz (banda acustica udibi-
le); suoni con frequenze inferiori a 16 Hertz sono definiti infrasuoni e suoni con frequenze superiori a 16.000 Hertz so-
no definiti ultrasuoni;
- la lunghezza d’onda, è uguale alla velocità /frequenza, quindi è inversamente proporzionale alla frequenza;
- l’intensità, è quella caratteristica che permette al nostro orecchio di percepire un suono in modo più o meno forte; è
una misura relativa nel senso che indica di quante volte il suono supera l’intensità minima udibile dall’orecchio umano,
definita soglia uditiva. L’unità di misura è il decibel (dB), e pertanto per convenzione la soglia uditiva ha il valore di 0
dB.

Esempi di intensità di differenti rumori: soglia uditiva 0 dB, battiti cardiaci 10 dB, bisbiglio 20 dB, linguaggio abituale
50-60 dB, traffico stradale 70-80 dB, martello pneumatico 100 dB ecc..
Un rumore può essere :
- continuo, quando persiste senza interruzioni nel tempo;
- discontinuo, quando le interruzioni sono irregolari e chiaramente distinguibili;
- stazionario, quando il livello non subisce, rispetto a un valore medio costante, variazioni superiori a 1dB;
- fluttuante, quando subisce variazioni ravvicinate e regolari superiori a 1dB;
- casuale, quando è prodotto irregolarmente, sia dal punto di vista temporale sia come livello di intensità e frequenza di
emissione.

Gli esperti della materia classificano i danni da rumore in uditivi o auricolari ed extra-auricolari.

DANNI UDITIVI:

Per quanto riguarda i danni uditivi o auricolari si può osservare che l’esposizione continuativa di un soggetto ad un ru-
more, con una certa intensità, provoca l’innalzamento della sua soglia uditiva. L’innalzamento, che può essere transito-
rio, viene definito “spostamento temporaneo della soglia uditiva” e si distingue in:

- breve, se la durata dello spostamento è di 1-2 minuti;


- medio, se la durata dello spostamento è di alcune ore, comunque inferiore alle 16 ore;
- prolungato, se la durata dello spostamento della soglia uditiva supera le 16 ore; si parla in questo caso di “fatica uditi-
va patologica” .

Nel caso in cui per il soggetto non sia possibile un recupero funzionale, la “fatica uditiva patologica” si può trasformare
in danno permanente, ovvero in uno “spostamento permanente della soglia uditiva” detta anche ipoacusia. L’ipocusia
consiste infatti in una diminuzione unilaterale o bilaterale della capacità uditiva.

Sembra quanto mai opportuno, per l’attualità del problema, richiamare l’attenzione sui rischi e sui danni dovuti al rumo-
re “voluttuario”, con particolare riferimento alle discoteche e ai riproduttori musicali portatili.
Per quanto riguarda le discoteche, è vero che, dati i periodi di esposizione piuttosto brevi, il rischio è minore, ma si de-
ve tenere presente che gli effetti del rumore sull’orecchio sono cumulativi.
Il livello sonoro è spesso oltre i 90 dB e talvolta supera i 100 dB. Secondo alcuni Autori il rumore “voluttario” può esse-
re equivalente a una esposizione professionale di 80 dB di una intera vita lavorativa. Il risultato è che, negli ultimi de-
cenni, una alta percentuale di ipoacusie incomincia a manifestarsi con una maggiore precocità, interessando giovani
adulti, e pertanto il rischio di avere una “generazione sorda” e tutt’altro che trascurabile.

DANNI EXTRA-AURICOLARI:

Per quanto riguarda i danni extra-auricolari, questi si possono manifestare con effetti negativi: sul senso dell’equili-
brio e sul tono psicomotorio generale; sul senso dell’attenzione e sulla capacità di concentrazione; sul carattere e sul
comportamento; sul sistema nervoso; sull’apparato digestivo; sul sistema endocrino; sull’apparato respiratorio; sul siste-
ma cardiovascolare ; sul sistema sessuale. Però, contrariamente a quanto viene comunemente affermato, le cose non so-
no altrettanto chiare come per i danni accertati di tipo uditivo. E’ certo che, oltre certi limiti di intensità, il rumore rap-
presenta uno stress ed è ben noto il rapporto tra stress e malattia.
Le manifestazioni patologiche di natura psicosomatica derivano frequentemente da disordini del sonno e, come sembra
ovvio, il rumore ha molto a che fare con il sonno e i suoi caratteri.
Oltre agli effetti sulla sfera neurovegetativa si aggiunge la sensazione generica di fastidio, che è un fenomeno pretta-
mente psichico e pertanto legato non alle caratteristiche fisiche del rumore, ma al significato che gli viene assegnato.

CAPITOLO 19:
PREVENZIONE :

La prevenzione ha come scopo quello di mantenere la salute e di evitare le malattie. Infatti può essere definita come un
insieme di attività che hanno il fine di promuovere e conservare lo stato di benessere fisico, psichico e sociale ed evitare
l’insorgenza di patologie, o quanto meno limitare la progressione delle stesse.

A seconda degli obiettivi e dei metodi di intervento si possono prendere in considerazione tre tipi di prevenzione: pre-
venzione primaria, secondaria e terziaria.

La prevenzione primaria (o Medicina Preventiva) consiste nell’attuazione di misure, a livello individuale o di popo-
lazione, atte a diminuire l’incidenza di una qualsiasi patologia. Pertanto si attua prima sui soggetti sani e si propone di
mantenerli sani il più a lungo possibile. Per ottenere questo obiettivo, gli interventi messi in atto mirano:

da un lato ad incrementare le capacità di difesa individuale dell’organismo e ad indurre comportamenti individuali


positivi mediante strategie di “promozione della salute”;

dall’altro a rimuovere e corregere i fattori di rischio e le cause di malttia, siano essi biologici, comportamentali o
ambientali (ambiente fisico e ambiente sociale) con strategie di “prevenzione delle malattie”.

La prevenzione secondaria (o Diagnosi Precoce) si attua su soggetti che pur apparendo ancora sani, risultano in realtà
ammalati ma in una fase della malattia ancora precoce e perciò asintomatica.
Nel caso di alcune malattie infettive, con breve periodo di incubazione, gli interventi di prevenzione secondaria possono
in qualche modo circoscrivere e rallentare la diffusione dell’infenzione e quindi ridurre l’incidenza; nel caso delle pato-
logie cronico-degenerative, che hanno un lungo periodo di latenza, questo tipo di interventi non determina delle modifi-
cazioni sulla incidenza, ma solo sulla prognosi della malattia.

La prevenzione terziaria ( o Medicina Riabilitativa) si occupa di soggetti malati, cercando di limitare le conseguenze
fisiche e sociali attraverso la riabilitazione e le limitazioni delle complicanze e della disabilità.

PREVENZIONE PRIMARIA:

Una ulteriore definizione di prevenzione primaria può essere la seguente: ” Insieme di interventi, attività ed opere che
attraverso il potenziamento dei fattori utili alla salute e l’allontanamento o la correzione dei fattori casuali delle malat-
tie, tendono al conseguimento di uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale dei singoli e della collettività
o quanto meno ad evitare l’insorgenza di condizioni morbose” (Meloni).

Primo livello: Potenziamento dei fattori utili alla salute. Gli strumenti sono costituiti, nel caso delle patologie
non infettive cronico-degenerative, dalla educazione sanitaria; nel caso di patologie infettive, oltre che l’educazione
saniataria, per alcune di esse è possibile anche attuare interventi di profilassi immunitaria, tramite specifiche vacci-
nazioni.

Secondo livello: Allontanamento e/o correzione dei fattori casuali e/o di rischio delle malattie. Questo livello,
attuabile sull’ambiente e sull’uomo, consiste di quegli interventi che evitano l’instaurarsi dei fattori di rischio o dei
fattori casuali nell’individuo. Importanti a questo riguardo sono tutte le attività che interessano la protezione
dell’ambiente, come l’Ecologia e quindi l’epidemiologia ambientale, ma anche interventi che interessano l’uomo
come parte di una collettività, si pensi ad esempio all’Igiene Alimentare e Nutrizionale Collettiva.

Terzo livello: Selezione e trattamento degli stadi o condizioni di rischio. Nel terzo livello sono considerati gli
interventi che riguardano sopratutto l’uomo. Basti pensare agli interventi di disassuefazione al fumo oppure agli in-
terventi terapeutici per la correzione dell’obesità.
Quarto livello: Accertamento diagnostico precoce di malattie in fase iniziale asintomatica. Gli interventi di
questo livello, se per alcuni aspetti rientrano tra gli interventi della prevenzione secondaria poichè interessano sog-
getti effettivamente già malati, si ottiene cioè “la mancata manifestazione” di una patologia, seppur questa sia già
“insorta”. Tra gli strumenti più importanti di questo livello si collocano gli screening.

CAPITOLO 20:

EDUCAZIONE SANITARIA:

L’educazione sanitaria può essere definita come un “intervento che, attraverso l’appropriazione critica di nozioni cor-
rette di tipo sanitario e/o sociale, tende a fornire e/o modificare, consapevolmente e durevolmente, un adeguato compor-
tamento nei confronti dei problemi connessi alla tutela della salute individuale e collettiva” (Meloni).

Pertanto lo scopo primo dell’educazione sanitaria è l’acquisizione di comportamenti corretti per la salute e la modifica
di quelli sbagliati, l’assunzione di atteggiameti nuovi e il cambiamento di quelli negativi. Le nozioni di tipo sanitario o
sociali di cui il soggetto deve appropiarsi, possono essere fornite attraverso processi di due tipi: Informativo e Forma-
tivo, entrambi basati su uno schema generale che regola tutti i processi di comunicazione.

La comunicazione infatti è caratterizzata da:


- una fonte del messaggio;
- un emittente;
- il codice mediante il quale è decodificato il messaggio rispettivamente dall’emittente e dal ricevente, cioè il linguag-
gio;
- il canale, cioè il mezzo attraverso cui passa il messaggio;
- il ricevente o destinatario del messaggio.

L’intervento Informativo è un processo di comunicazione unidirezionale, cioè a senso unico o lineare, in cui si ha una
semplice trasmissione di messaggio, da emittente a destinatario. Il ricevente cerca di capire l’informazione che ha rice-
vuto, la decodifica, da cioè un senso al messaggio, ma il suo ruolo, in questo processo, è decisamente passivo. E’ un ti-
po di comunicazione attuato sopratutto con i mass-media tradizionali (giornali, riviste, manifesti, radio, televisione, ci-
nema) e in tempi più recenti anche con alcune tecnologie informatiche (internet) che pur dando la sensazione, e in alcu-
ni casi anche la possibilità, di interazione, questa in definitiva risulta del tutto parziale rispetto alla mole di messaggi
unidirezionali che contiene.

Ci si è resi conto che applicando solo la metodologia dell’informazione, intesa come comunicazione unidirezionale, non
consente di realizzare finalità e scopi dell’educazione sanitaria, perchè la sola informazione difficilmente può far cam-
biare comportamenti. Infatti la sua efficacia dipende in maniera proporzionale dal livello di cultura generale e specifica,
cioè di tipo socio-sanitario, posseduta del soggetto ricevente.

E’ apparso sempre più necessario passare dal semplice intervento informativo a un intervento educativo formativo.
Pertanto l’educazione sanitaria può essere intesa e realizzata come intervento educativo formativo basato sul processo
di comunicazione interpersonale bidirezionale, in grado di sviluppare esiti formativi, ovvero in grado di fornire le in-
formazioni necessarie per un esame critico dei problemi della salute e a responsabilizzare gli individui nelle scelte del
comportamento che hanno effetti diretti o indiretti sulla salute fisica e psichica.

L’INTERVENTO EDUCATIVO:

La programmazione dell’intervento educativo richiede un vero e proprio processo costituito da diverse fasi:

1. Individuazione fattori di rischio e bisogni.


2. Definizione obiettivi pertinenti ai bisogni.
3. Preparazione del programma.
4. Attuazione del programma.
5. Verifica.
6. Valutazione.

Individuazione fattori di rischio e bisogni:

L’individuazione dei bisogni si fa, oltre che con la raccolta dei dati e la consultazione delle fonti, con l’osservazione e
la comunicazione interpersonale. L’osservazione serve com strumento e metodo di conoscenza. Occorre osservare
con l’occhio, ascoltare con l’orecchio, recepire con la mente, ma non basta; occorre disponibilità e va aggiunto il senti-
mento.
La comunicazione interpersonale è l’elemento fondamentale nell’educazione; infatti una strategia di intervent educati-
vo si fonda sulla trasmissione di messaggi a più livelli, ed è tanto più corretta quanto più è consapevole del suofunziona-
mento e delle sue diverse modalità. D’altra parte occorre tenere in considerazione che la comunicazione è solo uno de-
gli elementi, anche se uno dei più importanti, di tutto il processo educativo. Enfatizzare e isolare il problema della co-
municazione significa dare un’impostazione non corretta ed arretrata di educazione sanitaria, che affida l’efficacia del
proprio intervento all’efficacia di tecniche di comunicazione impiegate. Ciò che conta è portare la persona non a fare
ciò che gli si propone come corretto ma ad essere in grado di fare scelte positive in un cammino di progressiva acquisi-
zione di autonomia e libertà.

La comunicazione interpersonale comporta un processo di interazione tra un emittente e un ricevente che ha inizio
quando un emittente manifesta la sua volontà di cominciare un rapporto di comunicazione e imposta un messaggio. E’
un processo dinamico che può essere scomposto nei suoi vari momenti costitutivi. Nella prima fase del processo avvie-
ne la trasmissione la trasmissione di un messaggio da un emittente a un ricevente. E’ la prima fase, quella unidireziona-
le, o lineare.

Quattro sistemi contribuiscono principalmente alla comunicazione interpersonale e all’interazione: verbale, intonaziona-
le, paralinguistico, cinetico. Il sistema verbale corrisponde alle parole, ma non esaurisce tutto il linguaggio parlato. E’
strettamente interdipendente con il sistema intonazionale e insieme rappresentano le componenti principali del linguag-
gio. Cambiamenti nell’intonazione, infatti, indicano cambiamenti nel significato delle frasi. Il sistema paralinguistico
ha un ruolo importante tramite le vocalizzazioni aggiuntive nel discorso. Il sistema cinetico comprende tutte le posizio-
ni e i movimenti del corpo che assumono un significato nella comunicazione secondo il linguaggio comune sul piano
culturale, soprattutto per quel che riguarda i movimenti delle mani e del capo, le espressioni del viso e lo sguardo, la po-
stura.

Nel processo di formazione è importante rendersi conto di come il ricevente abbia capito il messaggio e di come lo ab-
bia interpretato. Si passa così alla seconda fase della comunicazione, in cui il ricevente interpreta e valuta criticamente
il messaggio. Nella terza fase della comunicazione interpersonale il ricevente diventa emittente, codifica un messaggio
di risposta per l’emittente iniziale che diventa a sua volta ricevente e, attraverso l’informazione di ritorno o feedback, si
rende conto di come è stato interpretato il suo primo messaggio, che ricodifica e trasmette nuovamente in un processo
in cui emittente e ricevente si alterano di continuo nei rispettivi ruoli. Questa è la comunicazione bidirezionale o circo-
lare. La comunicazione così intesa diventa, oltre che processo formativo educativo, anche relazione sociale.

Altro aspetto di grande importanza riguarda il contenuto del messaggio. Esso deve avere alcune caratteristiche fonda-
mentali: deve essere semplice, chiaro, comprensibile, preciso, essenziale ma completo, aggiornato. Ma sopratutto deve
essere rigorosamente valido da un punto di vista scientifico e credibile. La credibilità a sua volta può essere sostenuta e
rinforzata dalla coerenza del soggetto educatore. Importante è infatti l’esempio positivo, ovvero la corrispondenza, da
parte dell’educatore, degli atti con le parole.

Con la metodologia dell’informazione il processo di comunicazione si arresta alla prima fase: il messaggio viene tra-
smesso in modo che il ricevente lo decodifichi soltanto ed esegua quanto gli è stato detto. E’ importante elaborare inve-
ce una metodologia della formazione così da considerare l’individuonella sua unità corpo-psiche, tenere conto del suo
background, bagaglio di esperienze, retroterra culturale e dei suoi interessi, cogliere gli aspetti psicologici, culturali, so-
ciali, economici e ambientali legati alla sua condizione.

Definizione obiettivi pertinenti ai bisogni:

La definizione degli obiettivi è una fese del processo di programmazione dell’intervento educativo. Gli obiettivi vanno
definiti prima di tutto in relazione al tempo del loro perseguimento; obiettivi a lunga scadenza o finalità, a media sca-
denza o obiettivi intermedi o scopi, a breve scadenza o obiettivi educativi specifici.

La riuscita di un intervento educativo dipende in gran parte da una precisa individuazione degli obiettivi educativi spe-
cifici a livello di conoscenza (sapere), di comportamenti (saper fare) e di atteggiamenti (saper essere).

L’atteggiamento è una sorta di ponte di passaggio della conoscenza al comportamento, una predisposizione al comporta-
mento. Si può definire come disposizione interiore che può manifestarsi esteriormente nel comportamento verso le per-
sone e gli avvenimenti; è la manifestazione di un sentimento relativamente costante nei confronti di qualcuno o di qual-
cosa.

Per la programmazione di una attività educativa occorre puntare sugli obiettivi per atteggiamento.

Preparazione del programma:


Le operazioni per espletare la fse di preparazione del programma sono:
- la valutazione della fattibilità dell’intervento educativo;
- la scelta dei contenuti, del metodo, dei mezzi;
- la predisposizione degli strumenti di verifica.

Attuazione del programma:

Durante l’attuazione dell’interventi educativo è bene fare verifiche di continuo per avere riscontro e per apportare le
eventuali modifiche necessarie.

Verifica:

La verifica è un processo di controllo continuo o finale delle risorse utilizzate, degli obiettivi definiti, dei risultati otte-
nuti durante e alla fine dell’attuazione di un programma di lavoro. La verifica più difficile è relativa al cambiamento de-
gli atteggiamenti.

Valutazione:

L’analisi e l’interpretazione dei risultati consentono una valutazione dell’intervento per:


- efficienza (rapporto risultati-risorse o costi-benefici)
- efficacia (rapporto risultati- obiettivi);
- pertinenza (rapporto risultati- bisogni).

Sono necessarie una verifica e una valutazione a distanza (follow-up) che consentono una più precisa eventuale ridefini-
zione degli obiettivi e del metodo e una eventuale nuova lettura dei bisogni.

TIPI DI INTERVENTI EDUCATIVI:

I tipi di intervento educativi, di natura socio-sanitaria, attuabili sono: quello generalizzato o di massa e quello indivi-
duale o selettivo.

L’intervento generalizzato ha come scopo la prevenzione del rischio, mentre l’intervento selettivo può evere come sco-
po la correzione di un rischio già presente. I due tipi di interventi educativi sono pertanto rivolti a destinatari diversi e
quindi comportano anche differenze, non solo nel messaggio, ma anche nel canale e nell’emittente.

Il luogo ideale per l’intervento di massa è la scuola, di ogni ordine egrado; gli emittenti principali sono costituiti dai va-
ri docenti, organizzati in modo unitario, ma ognuno con il proprio specifico contributo; altri emittenti, aggiuntivi e non
sostitutivi, possono essere diverse figure professionali dell’area socio-sanitaria, non necessariamente ed esclusivamente
medica.

Per quanto riguarda gli interventi selettivi, questi possono essere attuati ad esempio a livello dei Distretti Sanitari, da
parte dellle varie figure professionali operanti in esso (medici, infermieri, psicologi, assistenti sanitari, assistenti sociali,
dietiste, ecc..)..

LA RELAZIONE DI AIUTO E LA TECNICA DEL COUNSELLING:

La relazione d’aiuto può essere definita come un processo che comporta la crescita di una persona o di entrambe le
persone coinvolte, per mezzo dei loro relazionarsi e delle risorse che, di conseguenza, possono venire attivate. Ormai è
chiaro che in un sistema che prevede l’autocura per le malattie croniche è diventato necessario, nel reperire risorse, fare
riferimento non solo ai servizi sanitari ma anche alle reti sociali.

Sul piano del sostegno psicologico la relazione di aiuto si colloca sul primo gradino; sul secondo c’è il counselling, rela-
zione ancor più specializzata che ha una chiara connotazione educativa; sul terzo c’è la psicoterapia con tecniche psico-
terapiche specifiche.

La metodologia della relazione di aiuto mette al centro l’uomo nella sua globalità e unitarietà, nella sua soggettività,
nella sua diversità, nel suo mondo di vita quotidiana fatto di percezioni, bisogni, sentimenti, affetti, relazioni familiari e
sociali. E’ una metodologia che concede a ogni persona la possibilità di essere capace di autodirezione e autoregolazio-
ne e pertanto di adattamento e di autonomia. Il lavoro più efficace però non è quello che si fa al posto dell’altro, ma è
quello di aiutare il paziente-utente ad acquistare consapevolezza che ha la capcità di cambiare, di affrontare e risolvere
la propria situazione, ovvero quello dell’empowerment.

La comunicazione, su cui si fonda il processo educativo, risulta dal processo di interazione tra un emittente e un rice-
vente. Una tecnica di comunicazione privilegiata nell’educazione sanitaria è il counselling. Il counselling è una tecnica
comunicativa che insegna a fare le domande che servono per raccogliere notizie dal paziente e del paziente, per percepi-
re i suoi bisogni. E’ una strategia per entrare nei meccanismi decisionali del paziente, aiutandolo a correggere i compor-
tamenti non corretti attraverso scelte responsabili e libere. E’ uno strumento e un metodo per aiutare il paziente e recu-
perare scurezza e a ricostruire un suo ruolo.

La comunicazione nel couselling persegue l’obiettivo di non stabilire modifiche necessarie per il paziente, bensì di ren-
dere possibili al paziente modifiche di comportamento attraverso scelte fatte da lui. Il counselling in definitiva non con-
siste nel dare consigli o nell’agire sulle azioni, ma nell’aumentare la possibilità di scelte di comportamento. Non gli si
offrono soluzioni, ma lo si aiuta a reperire risorse personali per risolvere la sua situazione e per innscare comportamenti
adeguati.

Per applicare il consuelling occorre competenza, padronanza di tecniche, ma non bastano le risposte tecniche. Occorro-
no risposte di tipo relazionale, conta insomma la qualità della comunicazione. Per aiutare una persona occorre conoscer-
la e capirla, per capirla occorre stare ad ascoltarla.

CAPITOLO 21:
SCREENING:

La prevenzione secondaria si basa sull’attuazione di misure per l’identificazione precoce di condizioni di rischio o di
stati patologici in fase preclinica, seguite dall’immediato trattamento.

Lo screening può essere definito come una procedura che consente la presuntiva identificazione di una malattia in fase
iniziale asintomatica e di una condizione particolarmente a rischio mediante l’applicazione di test o esami o altri proce-
dimenti che possono essere eseguiti rapidamente. Queste prove dovrebbero essere in grado di distinguere i soggetti ap-
parentemente sani ma che probabilmente sono malati.

E’ importante sottolineare che un test di screenin non permette di fare una diagnosi ma permette di selezionare quei
soggetti da sottoporre a successive indagini giagnostiche vere e proprie. Infatti la positività indica soltanto che quel sog-
getto è ad alto rischio di contrarre quella malattia, e pertanto i soggetti risultati positivi al test di screening devono esse-
re sottoposti ad un esame diagnostico di conferma per quella malattia, e solo dopo l’eventuale esito positivo di quest’ul-
timo possono essere sottoposti ad adeguati interventi terapeutici.

Esistono diversi tipi di screening:


screening di massa, che interessano una intera popolazione;
screening selettivo, o mirato, che riguarda gruppi di soggetti ad alto rischio di malattia;
screening multiplo, che comprende l’uso di vari test simultaneamente;
screening opportunistico, o ricerca dei casi, quando è limitato a pazienti che consultano il medico per motivi non
collegati ai test di screening poi effettuati.

CRITERI DI PROGRAMMAZIONE:

I principali criteri da seguire prima che venga istituito un programma di screening si riferiscono alle caratteristiche
della malattia, al suo trattamento e al test di screening da utilizzare.

Per quanto riguarda la malattia:

deve essere di una certa gravità;


deve essere ben conosciuta la storia naturale della malattia;
la malattia deve avere un cosidetto tempo di anticipazione diagnostica ragionevolmente luongo.

Per quanto riguarda il trattamento:

anche se la malttia è grave, è necessario disporre di un efficace trattamento teraupetico;


i soggetti devono poter fruire di fatto del trattamento necessario;
tutte le persone coinvolte nello screening devono poter accedere al trattamento.

Per quanto riguarda il test di screening:


deve essere semplice, di rapida e facile esecuzione e non eccessivamente costoso;
deve essere sicuro ed accettato dai soggetti coinvolti;
deve essere affidabile, ovvero fornire risultati coerenti e ripetibili;
deve essere valido. La validità di un test si determina valutando i tre parametri: sensibilità, specificità e valore pre-
dittivo.

VALUTAZIONE DEI TEST DI SCREENING:

I risultati ottenuti con un test di screening vengono di solito valutati allestendo una tabella 2 per 2 in cui vengono messi
in rapporto la positività o la negatività ad un determinato test e la presenza o meno di malattia nei pazienti esaminati.

TEST MALATI NON MALATI TOTALE


POSITIVO VP FP VP + FP
NEGATIVO FN VN FN + VN
TOTALE VP + FN VN + FP VP + FP +VN +FN

VP = veri positivi ( positivi al test e effettivamente malati)


FP = falsi positivi ( positivi al test ma non malati)
FN = falsi negativi ( negativi al test però malati)
VN = veri negativi ( negativi al test e veramente non malati)

E’ intuitivo che il test ideale dovrebbe raggruppare solo soggetti veri positivi (VP) e veri negativi (VN), ovvero distin-
guere malati e non malati. Questa situazione non è quasi mai raggiungibile e quindi è inevitabile la possibilità di riscon-
trare anche falsi positivi (FP) e falsi negativi (FN).

Possiamo a questo punto calcolare la sensibilità, la specificità, che vengono generalmente espressi in percentuale.

(malati)
Sensibilità = VP/VP + FN . Sensibilità è la proporzione di persone realmente malate che vengono identificate come tali
dal test, ovvero è la proporzione di persone positive al test tra quelle realmente malate.
Esempio: sensibilità 90% = su 100 persone malate il test ne identifica come tali 90.

(non malati)
Spcificità = VN/VN + FP . Specificità è la proporzione di persone negative al test tre quelle non malate.
Esempio: specificità 90% = su 100 persone non malate il test ne identifica come tali 90.

La sensibilità e la specificità sono due parametri strettamente correlati, infatti in linea generale, aumentando la sensibi-
lità del test viene ad essere ridotta la specificità e viceversa. Infatti uno dei maggiori problemi nell’applicazione pratica
di uno screening è la validità del test utilizzato. Infatti i risultati falsi positivi comportano perdite di tempo ed aumento
dei costi e possono provocare ansietà e sconforto nelle persone risultate erroneamente positive al test. I risultati falsi ne-
gativi risultan a volte peggiori di quelli falsi positivi.

In questo modo i soggetti rischiano una situazione di danno per la propria salute ma anche per quella della comunità nel
momento in cui la malattia non diagnosticata al test è ad esempio una malattia infettiv contagiosa.

Per quanto riguarda la valutazione dell’efficacia delle campagne di screening, nel caso di screening che portano alla dia-
gnosi precoce di malattia in fase iniziale asintomatica (tumore della cervicale uterina e della mammella) non vi sarà nor-
malmente da attendersi una riduzione della incidenza della malattia e la valutazione sull’efficacia dell’intervento dovrà
essere effettuata solo in termini di mortalità e di sopravvivenza.
Nel caso invece della identificazione precoce di condizioni di rischio (es. ipertensione e ipercolesterolemia per le pato-
logie cardiovascolari) c’è da attendersi nel tempo anche una riduzione della incidenza della malattia.

Per le malattie infettive (es. HIV, HBV, HCV) il beneficio può essere identificato nel contenimento del serbatoio e quin-
di dell’infezione e nell’evitare che la malattia conduca maggiori danni, attraverso l’impostazione di idonee terapie, ove
possibile.
CAPITOLO 22:
MICRORGANISMI:

Il corpo umano rappresenta un ecosistema nel quale numerosi microrganismi, ovvero organismi di dimensione micro-
scopiche, trovano condizioni ottimali di vita; essi stabiliscono il loro habitat su tutte le superfici corporee a contatto con
l’esterno, direttamente o tramite l’aria inspirata e il cibo ingerito, conolizzandole in modo differenziale così da formare
una flora caratteristica per ogni regione del corpo.

I microrganismi sono legati all’organismo ospite da un rapporto che viene definito parassitismo. E’ importante notare
comuqnue che il parassitismo non è un fenomeno molto frequente, infatti la maggior parte dei microrganismi presenti
nell’ambiente hanno una funzione positiva, non attaccano l’uomo e pertanto non sono responsabili di malattie.

I microrganismi possono essere distinti in :


- saprofiti: sono delle specie che vivono nell’ambiente e non hanno contatti con l’uomo;
- i commensali: sono microrganismi che si sono adattati a vivere sulla cute e sulle muose dell’uomo, senza arrecare al-
cun danno, anzi costituendo un fattore positivo di equilibrio (non sono in grado di invadere l’uomo);
- sono patogeni: invece i microrganismi che sono in grado di invadere l’uomo, moltiplicandosi al suo interno e determi-
nando con vari meccanismi effetti dannosi.

In alcune situazioni particolari, come ad esempio nel caso di una riduzione della capacità di difesa immunitaria, alcuni
microrganismi commensali possono diventare dannosi, e vengono in tal caso definiti patogeni opportunisti.

I parassiti patogeni possono essere divisi in:

- macroparassiti: detti anche metazoi, sono organismi costituiti da più cellule (esempio vermi, acari); sono respondabi-
li delle malattie parassitarie;

- microparassiti: sono organismi costituiti da una sola cellula, pertanto sono di dimensioni microscopiche e sono re-
sponsabili delle malattie infettive.

Tra essi si distinguono:

- i protisti: che comprendono le alghe, i protozoi e i miceti, con struttura cellulare complessa;

- i procarioti: ovvero, batteri con struttura cellulare più semplice;

- infine i virus: che in realtà non sono cellule ma sono unità subcellulari, ovvero sono costituiti da una struttura esterna
chiamata capside che racchiude una molecola di acido nucleico.

BATTERI:

L’ordine di grandezza dei batteri è il micron (millesimo di millimentro, dividere il millimetro in 100 volte).
Nell’ambito delle specie patogene le dimensioni variano da un minimo di 0,5 micron ad un massimo di 20 micron: tra
questi due estremi si trovano i valori più comuni , che sono 2-4 micron.

La morfologia di questi agenti infettanti corrisponde a quattro modelli fondamentali: la forma cilindrica (bacilli), la for-
ma sferoidale (cocchi), la forma cilindrica incurvata (vibroni) e la forma a spirale (spirilli, spirochete).

Nella cellula batterica si riconoscono degli elementi costitutivi fondamentali, che sono costantemente presen-
ti , e delle formazioni particolari proprie solo di alcune specie:
- appartengono alla prima categoria la parete cellulare, la membrana citoplasmatica, il citoplasma ed un equi-
valente nucleare;
- mentre alla seconda categoria si ascrivono la capsula, le ciglia o flagelli e le inclusioni coplasmatiche.

La diversa costituzione della parete cellulare (cell well) permette di classificare i batteri in due gruppi a
seconda del colore che assumono quando vengono sottoposti al metodo della colorazione secondo Gram;
avremo pertanto batteri Gram positivi e Gram negativi.

Per quanto riguarda il nucleo, esso contiene un solo cromosoma circolare formato da una doppia elica di aci-
do desossiribonucleico (DNA) che contiene tutto il genoma batterico.
I batteri si riproducono mediante un processo asessuato di scissione che divide una cellula madre in due iden-
tiche cellule figlie. La velocità di moltiplicazione dei batteri è molto alta, infatti si riproducono in media ogni
20-30 minuti. Per questo hanno bisogno di un apporto nutritivo abbastanza elevato.

Per quanto riguarda il loro rapporto con l’ossigeno, possiamo suddividere i batteri in:
- aerobi obbligati: ovvero, batteri che si sviluppano solo in presenza di ossigeno;
- anaerobi obbligati: ovvero, batteri che si sviluppano solo in assenza di ossigeno;
- aerobi o anaerobi facolatativi: ovvero, batteri che si sviluppano indipendentemente dalla presenza o as-
senza di ossigeno.

VIRUS:

I virus sono entità biologiche subcellulari (ovvero non sono cellule). La loro organizzazione a livello subcel-
lulare non permette loro capacità bioenergetiche e biosintetiche autonome, pertanto sono obbligati ad un pa-
rassitismo cellulare, ovvero si possono riprodurre solo all’interno di cellule viventi, nelle quali sono in gra-
do di penetrare dall’esterno, attraverso un meccanismo che comporta diverse fasi.
Esistono virus che attaccano l’uomo, gli animali, le piante e i batteri stessi.

Le dimensioni dei virus variano da 10 a 400 millimicron (nanometro o milionesimo di millimetro, diviso per
un milione).
Nella porzione centrale, detta core, è contenuta la molecola di acido nucleico che può essere acido ribonu-
cleico (RNA) o desossiribonucleico (DNA).

La struttura esterna, detta capside, è costituita a sua volta da subunità (capsomeri) formati da catene polipep-
tidiche uguali fra loro.

Presentano in superficie strutture proteiche che si attaccano a specifici recettori della cellula bersaglio.

Il carattere veramente essenziale, che serve a distinguere i virus da ogni altro organismo vivente, è la natura
del loro parassitismo, che si può definire come un parassitismo genetico, ovvero il genoma del virus, cioè il
loro acido nucleico, una volta penetrato nella cellula, prende il controllo del suo metabolismo biosintetico in-
dirizzandolo alla costruzione del proprio materiale costitutivo e quindi alla formazioe di nuove unità virali.

ANTIGENI E ANTICORPI:

Si definiscono antigeni le sostanche che, introdotte in un organismo, sono in grado di determinare una risposta immuni-
taria e di regaire poi in modo specifico con i prodotti di essa, ovvero gli anticorpi e/o i linfociti sensibilizzati; da questa
definizione possiamo dedurre le sue fondamentali funzioni di un antigene:

- l’immunogenicità, ovvero la capacità di determinare un risposta immunitaria;


- e la specificità immunologica, ovvero la capacità di combinarsi in modo specifico con i prodotti della risposta immu-
nitaria.

Nei batteri ci sono 3 tipi di antigeni:

- antigeni capsulari (K): che sono presenti sulla eventuale capsula del battere;
- antigeni somatici (O): che fanno parte della parete cellulare;
- antigeni flaggellari (H): che si trovano sulle ciglia o flagelli dei batteri che possiedono tali strutture.

Ognuno di questi antigeni determina la formazione di altrettati specifici anticorpi.

PATOGENICITA’, VIRULENZA E CARICA INFETTANTE:

Un’importante distinzione va fatta tra la patogenicità, che è la capacità di una specie batterica di causare la malattia in-
fettiva in una determinata specie animale, e la virulenza, che è invece il grado di patogenicità, ovvero l’effettiva capa-
cità di uno stipite di realizzare il potere patogeno proprio della specie cui appartiene.
Questa distinzione non è solo formale, ma trova riscontro in diverse situazioni: ad esempio degli stipiti che spontanea-
mente o in seguito a particolari trattamenti hanno attenuato o perso la loro virulenza (in base a fattori legati al microrga-
nismo e all’ospite).

Per carica infettante invece si intende il numero minimo di microrganismi che risulta necessario per determinare l’infe-
zione.

AZIONE PATOGENA DEI MICRORGANISMI (BATTERI):

L’azione patogena dei batteri si realizza mediante due meccanismi fondamentali: la moltiplicazione nei tessuti dell’orga-
nismo infetto e la produzione di sostanze tossiche dette tossine.

Le tossine, veri e propri veleni macromolecolari, possono essere distinte in due grandi categorie:

- esotossine: devono il loro nome al fatto di potersi costantemente ritrovare al di fuori delle cellule batteriche;

- endotossine: sono sostanze costituenti del corpo batterico dotate di attaività tossica; la loro appartenenza alle strutture
cellulari è il carattere fondamentale che le distingue dalle esotossine, che sono invece un semplice prodotto del metabo-
lismo batterico.

Differenze tra esotossine ed endotossine:

ESOTOSSINE: ENDOTOSSINE:

- prodotte da Gram + e Gram - - prodotte solo da Gram -


- natura chimica: proteica - lipopolisaccaridica
- termolabili - termostabili
- cronolabili - cronostabili
- fortemente antigeni - debolmente antigeni
- convertibili in anatossine - non convertibili in anatossine
- tossicità elevata - tossicità minore
- azione tossica specifica - azione tossica non specifica

GRANDEZZA BATTERI GRANDEZZA VIRUS

CAPITOLO 23:

EPIDEMIOLOGIA DELLE MALATTIE INFETTIVE:

SORGENTE DI INFEZIONE:

Il serbatoio di infezione è definito come la specie, animale o vegetale, o il substrato inanimao nel quale i microorgani-
smi patogeni, batterici o virali in condizioni normali vivono e si moltiplicano (habitat naturale).

Per sorgente di infezione si intende invece il soggetto, uomo o animale, che sia in grado di disseminare i microorgani-
smi che contiene.

Quindi la differenza tra i due è proprio il termine in italiano, ovvero che:


- il serbatoio: contiene qualcosa;
- sorgente: da cui esce qualcosa.

Tra tutte le sorgenti la più importante è l’uomo ammalato di una determinata malattia perchè se è ammalato vuol
dire che ha dei sintomi in cui i microorganismi si sono moltiplicati.

INFEZIONE E MALATTIA:

Ifezione : è la penetrazione di germi patogeni in un organismo sano (capacità immunogena: antigene che genera anti-
corpi).

L’infezione può trasformarsi in malattia che è la manifestazione sintomatologica, ovvero, l’insieme dei sintomi clinici
generici (febbre) e specifici (come ad esempio il morbillo. Se un bambino ha il morbillo e butta fuori i virus di esso che
vanno in un altro bambino, quest’ultimo non lo prende subito ma dopo giorni o settimane; ciò significa che è infetto ma
non ha ancora sviluppato la malattia, è in un periodo di incubazione).
Quindi il periodo di incubazione è il tempo che intercorre fra la penetrazione del microorganismo e il manifestarsi del-
la malattia infettiva (non ci sono sintomi in questo periodo).

Per ciò questa disseminazione della sorgente avviene nel periodo dell’infezione, prima ancora della malattia.

PORTATORI DI MALATTIA:

Altre sorgenti, oltre a quella dell’uomo che ha una malattia, possono essere i portatori di infezione.

Si possono distinguere 3 tipi di portatori:

- un portatore sano: è un sogetto che è stato infettato da un microorganismo, ed è in grado di eliminarlo, ma non ha an-
cora manifestato la malattia, ovvero si trova ancora nella fase di incubazione;

- un portatore convalescente: è il soggetto che, dopo essersi infettato e dopo aver avuto la malattia, continua ad elimi-
nare il microrganismo anche dopo la guarigione della malattia, ovvero nel periodo della convalescenza;

- un portatore cronico: è quel soggetto che elimina i microorganismi patogeni anche dopo il periodo della convale-
scenza, e talvolta in modo continuativo e cronico per decenni.

VIE DI EIMINAZIONE E VIE DI PENETRAZIONE DEI MICROORGANISMI:

Schematizzando possiamo considerare il corpo umano come una struttura, rivestita da cute, che presenta degli orifizi, ri-
vestiti da mucose, che permettono la comunicazione tre interno ed esterno dell’organismo. Pertanto un organismo infet-
tato potrà eliminare nell’ambiente esterno i microorganismi o attraverso la cute o attraverso gli orifizi di cui è dotato.

Quindi la via di eliminazione sarà: cutanea, congiuntivale, respiratoria, buccale, genitale-urinaria e intestinale. La via
di eliminazione dipende dal tipo di malattia infettiva e può essere multipla per la stessa malattia.

I microorganismi di solito sono contenuti nelle secrezioni ed escrezioni degli orifizi, quindi lacrime, muco, saliva, urina,
sperma, secrezioni vaginali e feci. A queste dobbiamo aggiungere anche il latte, secreto dalla donna dopo il parto.

I microorganismi possono essere anche eliminati attraverso il sangue quando, per circostanze particolari, si possono
avere delle lesioni della cute o delle mucose.

Le vie di eliminazione rappresentano peraltro anche le possibili vie di penetrazione.

TIPI DI TRASMISSIONE DELLE INFEZIONI:

Possiamo distinguere una trasmissione verticale e una orizzontale.

La trasmissione verticale è quella che avviene durante la gravidanza per passaggio dall’agente patogeno infettante at-
traverso la placenta tra madre e feto o durante il parto (questa trasmissione è diretta perchè parlando proprio di gravi-
danza il cordone ombelicale passa in modo diretto tra madre e figlio).

La trasmissione orizzontale si divide in:

- la trasmissione diretta: avviene quando i microorganismi passano dal soggetto infetto al sogetto recettivo sano per
contatto diretto, ovvero senza che i microrganismi stazionino per un certo tempo nell’ambiente esterno, implicando un
rapporto di continuità fra i due, ed è tipico delle malattie infettive a contatto sessuale;
(MALATO O PORTATORE SANO)

- la trasmissione indiretta: è quella che si realizza senza che ci sia un contatto diretto tra l’individuo infetto e l’indivi-
duo recettivo. In questo caso l’agente patogeno, eliminato dalla sorgente di infezione, rimane per un periodo di tempo
più o meno a lungo nell’ambiente esterno prima di penetrare nell’organismo del soggetto sano.
(MALATO AMBIENTE ESTERNO SANO)

La trasmissione indiretta vera e prorpia si realizza quando i microrganismi, dispersi nell’ambiente, arrivano ad infettare
un individuo recettivo che si trova lontano, nello spazio e nel tempo, dalla sorgente di infezione.

Si parla in modo più specifico di trasmissione semidiretta quando il tempo di permanenza del germe nell’ambiente
esterno ed anche i confini spaziali della sua presenza sono abbastanza limitati, e questo è possibile quando il passaggio
avviene nelle vicinanze, spaziali e temporali, con il malato (esempio covid-19).

VEICOLI E VETTORI:

Questi due tipi di trasmissione, semidiretta e indiretta, necessitano della presenza di intermediari della infezione, che
rappresentano il legame tra sorgente di infezione e individuo sano, che vengono definiti veicoli e vettori. I veicoli sono
mezzi inanimati e i vettori esseri animati.

Tra i veicoli vengono annoverati: l’aria, l’acqua, il suolo, gli alimenti, i presidi medico-sanitari e gli oggetti personali
(domanda esame).

Per quanto riguarda l’aria, occorre considerare che durante normali atti, quali il parlare, lo starnutire o il tossire, si ha la
liberazione di minuscole goccioline, le quali oltre a contenere muco e residui epiteliali, possono contenere anche mi-
crorganismi. Le dimensioni e la permanenza in aria di queste goccioline dipende dallo loro provenienza, essendo le par-
ticelle prodotte con la vociferazione più grandi rispetto a quelle emesse con lo starnuto o la tosse, ed anche il loro tragit-
to varia a seconda della forza di espulsione, di solito più elevata con la tosse o lo starnuto. Nell’aria queste particelle
umide evaporano trasformandosi in nulei di goccioline che possono galleggiare a lungo in un ambiente, sopratutto se
questo è confinato e non soggetto a correnti d’aria. Inoltre i nuclei possono aderire ai granuli di polvere e risollevarsi in
aria con il sollevamento della polvere stessa e rimanere pertanto veicoli di infezione per un discreto tempo.

Per quanto riguarda l’acqua, la contaminazione può riguardare le acque superficiali o le falde idriche che servono per la
erogazione dell’acqua potabile, e in quest’ultimo caso, fortunatamente più raro, si possono determinare epidemie abba-
stanza gravi.

Tra gli alimenti di origine animale, nei quali i microrganismi possono anche moltiplicarsi attivamente, abbiamo, ad
esempio, il latte e i suoi derivati, la carne e i frutti di mare. Tra gli alimenti di origine vegetale possiamo annoverare gli
ortaggi, che possono essere venuti a contatto con acqua o materiali inquinanti biologicamente, e che uno scarso e inade-
guato lavaggio ha mantenuto infetti.

Gli oggetti personali utilizzati da una persona malata o, sopratutto, presidi e attrezzi medici, quali stringhe, cateteri,
ecc.., se non sottoposti a lavaggio, o nel caso di strumenti medici a disinfezione e sterilizzazione, possono costituire im-
portanti veicoli di trasmissione indiretta di malattie infettive.
I vettori, che sono generalmente degli insetti (mosche, zanzare, pappataci, pidocchi, pulci, zecche, ecc..), si dividono a
loro volta in meccanici ed obbligati.

Un vettore meccanico trasporta i microrganismi passivamente, come ad esempio la mosca che per nutrirsi può posarsi
su feci infette e che può depositare sugli alimenti i germi che si sono attaccati alle sue zampe.

Un vettore obbligato è quel vettore che ospita l’agente infettante nel suo organismo, anzi per compiere il proprio ciclo
vitale è necessario che il microrganismo penetri all’interno del vettore e si moltiplichi. Ad esempio il microrganismo re-
sponsabile della malaria, il plasmodio, deve necessariamente compiere parte del suo ciclo vitale all’interno della zanza-
ra anofele, che diviene pertanto il vettore obbligato per questa malattia.
CAPITOLO 24:
SCHEMI EPIDEMIOLOGICI DELLE MALATTIE INFETTIVE:

Le malattie infettive si trasmettono dalla sorgente di infezione al soggetto recettivo sano con diverse modalità di diffu-
sione.
MALATTIE INFETTIVE A PREVALENTE DIFFUSIONE AEREA:

Al gruppo delle malattie infettive a prevalente diffusione aerea appartengono quelle malattie che hanno l’apparato respi-
ratorio sia come via di eliminazione dei microrganismi dalla sorgente di infezione che come via di penetrazione nel sog-
getto sano recettivo.

Sorgente quasi sempre l’uomo


Serbatoio portatori sani, impianti di condizionamento dell’aria
Eliminazione goccioline emesse con starnuti o tosse dall’apparato respiratorio
Trasmissione semidiretta
Penetrazione apparato respiratorio (naso e bocca)
Condizioni ambienti chiusi affollati, età scolare, clima, stagione
Prevenzione vaccinazione, educazione sanitaria

MALATTIE INFETTIVE A DIFFUSIONE ORO-FECALE:

Al gruppo delle malattie infettive a prevalente diffusione oro-fecale appartengono quelle malattie che hanno le feci co-
me via di eliminazione dei microrganismi dalla sorgente di infezione e che hanno la bocca come via di penetrazione nel
soggetto sano recettivo, attraverso l’ingestione di alimenti contaminati.

Sorgente uomo o animali (polli, cani, gatti, roditori, uccelli)


Serbatoio uomo o animale (spesso portatori, sia sani che cronici)
Eliminazione feci
Trasmissione indiretta (veicoli e vettori)
Penetrazione apparato digerente (bocca)
Condizioni infrastrutture ambientali (acquedotti, fognature), alimentazione
Prevenzione vaccinazione (in pratica solo per epatite A), interventi sulle infrastrutture ambientali, educazione
sanitaria.

MALATTIE INFETTIVE TRASMESSE PER CONTATTO DIRETTO


(TRASMISSIONE EMATICA E/O SESSUALE):

A questo gruppo di malattie infettive appartengono quelle malattie che si trasmettono per contatto diretto da uomo a uo-
mo: o tramite rapporti sessuali, completi o incompleti (orali, vaginali, anali), o tramite il passaggio di sangue, sia duran-
te gli atti sessuali sia durante altre pratiche, volontarie e/o accidentali.

Sorgente uomo
Serbatoio uomo
Eliminazione sangue, apparato genito-urinario (sperma, secrezioni vaginali)
Trasmissione diretta (rapporti sessuali e/o trasmissione di sangue, con diverse modalità)
Penetrazione apparato genito-urinario
Condizioni comportamento (uso preservativo), siringhe sterili, igiene personale
Prevenzione vaccinazione (ove possibile), chemioprofilassi (per interrompere la catena di contagio), educazione
sanitaria (sopratutto nei riguardi dei giovani).

MALATTIE INFETTIVE DIFFUSE PER MEZZO DI VETTORI:

Al gruppo delle malattie infettive diffuse per mezzo di vettori appartengono delle malattie nelle quali i microrganismi
causali vengono trasferiti dalla sorgente di infezione al soggetto sano recettivo per mezzo di vettori, che nella maggio-
ranza dei casi si tratta di insetti .

Sorgente uomo (più raramente alcuni animali selvatici)


Serbatoio uomo o animali
Eliminazione tramite puntura o morsicatura dell’insetto
Trasmissione indiretta (vettori)
Penetrazione puntura o morsicatura dell’insetto, grattamento
Condizioni endemiche in aree geografiche fuori dell’Europa, viaggi
Prevenzione vaccinazione (certificato di vaccinazione internazionale per ingresso in alcuni Stati), chemioprofilas-
si (sopratutto per la malaria), interventi sull’ambiente, educazione sanitaria.

CAPITOLO 25:
DINAMICA DELLE MALATTIE NELLA COLLETTIVITA’ :

Le modalità in cui si può presentare la malattia sono 4:

- per ASSENZA: di una malattia si intende quella situazione nella quale la malattia non è presente in una popolazione.
A livello mondiale possiamo considerare ormai assente il vaiolo, in Italia una malattia attualmente
assente è il colera:

- per SPORADICITA’: si intende quella condizione nella quale una malattia compare occasionalmente in una
popolazione con pochi casi, fra di loro separati sia in senso spaziale che temporale.
Tipiche patologie sporiadiche sono alcune malattie infettive occasionalmente presenti nel
nostro paese in individui che hanno contratto la malattia durante viaggi, in luoghi più o meno
esotici, come ad esempio la malaria;

- per ENDEMIA: si intende la condizione nella quale una malattia è stabilmente presente in una popolazione (tasso di
incidenza costante nel tempo). In Africa ogni anno ci sono casi positivi, in Italia il morbillo.
(il tasso è stabile ma può variare / endo= dentro);

- per EPIDEMIA: si intende quella condizione nella quale l’incidenza di una malattia aumenta bruscamente e può
insorgere in una popolazione nella quale la malattia è assente, sporiadica o endemica
(epidemiologia = lo studio delle epidemie).

Il numero di soggetti interessati da una pandemia può variare notevolmente; quando ad essere interessati sono gli indivi-
dui di intere nazioni, anche di continenti diversi, si parla di PANDEMIA (domanda esame) (malattia pandemia = covid,
hids). Tipica malattia pandemica è l’influenza.

Se in un grafico viene rappresentata la CURVA EPIDEMICA, ovvero l’andamento temporale di un episodio epidemi-
co, si possono distinguere in esso tre fasi:

- la prima è la fase “ascendente” nella quale, poichè aumenta l’incidenza della patologia, anche la prevalenza aumenta;

- la fase ascendente termina quando l’incidenza si eguaglia al numero delle guarigioni, pertanto la prevalenza rimane
per un pò costante, caratterizzando la fase detta di “acme”;

- quando il numero delle guarigioni supera l’incidenza, la prevalenza della patologia incomincia a ridursi iniziando la
fase definita “discendente” al termine della quale l’epidemia si può considerare conclusa.
CAPITOLO 26:
IMMUNITA’:

Gli aspetti peculiari dell’immunologia possono essere considerati la memoria, la specificità e la capacità a riconoscere
strutture chimiche estranee alla propria individuale costituzione. Questa considerazione è basata sull’esperienza che il
contatto con agenti infettivi determina nell’organismo uno stato di protezione (immunità) nei riguardi di questi agenti.

Il concetto di immunità, sorto originariamente come sinonimo di resistenza alle infezioni, si è progressivamente am-
pliato fino ad assumere un significato più generale, comprendente l’insieme dei meccanismi con cui un organismo rico-
nosce una sostanza come estranea e reagisce con essa al fine di eliminarla o neutralizzarla.

Si definiscono antigeni (domanda esame) le sostanze che, introdotte in un organismo, sono in grado di determinare una
risposta immunitaria e di reagire poi specificatamente con i prodotti di essa (anticorpi e/o linfociti sensibilizzati); si
evidenziano da questa definizione le due fondamentali funzioni di un antigene:

- l’immunogenicità: capacità di determinare una risposta immunitaria;

- e la specificità immunologica: capacità di combinazione specifica con i prodotti della risposta immunitaria.

La risposta immunitaria assolve tre compiti fondamentali:

- Funzione di difesa: che è la protezione dell’organismo dall’azione infettante dei microrganismi patogeni;

- Funzione di omeostasi: la rimozione degli elementi cellulari invecchiati e danneggiati;

- Funzione di sorveglianza: il controllo della normalità delle cellule dell’organismo e l’eliminazione delle cellule che,
per diversi motivi (cancerogenesi, mutagenesi, infezioni virali, ecc..) acquistano caratteri di anormalità.

La risposta immunitaria può essere di due tipi:

- aspecifica: quando si limita a rimuovere una sostanza riconosciuta come genericamente estranea all’organismo, indi-
pendemenete da un precedente contantto;

- specifica: quando è in grado di individuare e memorizzare la particolare natura di una sostanza estranea e, ad un suc-
cessivo contatto, di reagire con essa con particolare prontezza ed intensità.

L’immunità aspecifica (o resistenza naturale) verso i microrganismi patogeni si attua attraverso una serie progressiva di
linee di difesa che possono essere:

la barriera cutneo-mucosa (cute e mucose);


la barriera gastrica (nello stomaco acido cloridico / cloro= forte potere germicida);
la reazione infiammatoria (tagli, ferite che potremmo farci);
la barriera linfatica e vascolare (globuli bianchi).

La risposta immunitaria specifica, che viene detta anche acquisita, si verifica in seguito alla penetrazione nell’organi-
smo di una sostanza con le proprietà di antigene, determinando due possibili conseguenze:

- la produzione di particolari gammaglobuline dette anticorpi (immunità umorale);

- la sensibilizzazione di una classe di linfociti (linfociti T) (immunità cellulo-mediata).

L’immunità specifica acquisita si può suddividere in attiva e passiva:

- si definisce attiva l’immunità specifica, sia umorale che cellulo-mediata, che consegue all’introduzione di un antigene
in un organismo. Esempi classici di immunità attiva quella che consegue ad un’infezione o ad una vaccinazione;

- si parla invece di immunità passiva quando gli anticorpi o i linfociti sensibilizzati vengono prelevati dall’organismo
nel quale si sono formati ed introdotti in un altro organismo. Esempio quella che si ottiene con la somministrazione di
sieri immuni (sieroterapia e sieroprofilassi).
CAPITOLO 27: cosa sono i vaccini? sono antigeni, hanno la funzione antigenica (domanda esame)

VACCINAZIONI:

Lo scopo della vaccinazione è quello di instaurare nel soggetto che la riceve una immunità acquisita specifica attiva nei
confronti di un microrganismo che causa una determinata malattia infettiva.

Il termine “vaccino” deriva dalla malattia che per prima fu “utilizzata” per queste pratiche profilattiche, ovvero il vaiolo
vaccino, cioè il vaiolo che colpiva i bovini.

Fu il medico Edward Jenner, nel 1796, che studiò il processo dell’immunità per il vaiolo umano attraverso l’inoculazio-
ne di virus del vaiolo vaccino.

Le vaccinazioni in Italia furono introdotte di routine verso la fine del 1800 sulla spinta delle esperienze acquisite, in Eu-
ropa e nel nostro Paese, con il vaccino-antivaiolo.

Nel momento in cui le vaccinazioni si stanno estendendo nei Paesi del terzo mondo sotto l’impulso dell’OMS che ha
lanciato anni fa il programma allargato di vaccinazione, l’accettabilità delle vaccinazioni ha posto sempre maggiori pro-
blemi nei Paesi sviluppati.

TIPI DI VACCINI:

Esistono diversi tipi di vaccini che possono essere classificati in vario modo. Inanzi tutto possiamo dividerli, ovviamen-
te, in vaccini batterici e virali, a seconda se il microrganismo, causa della malattia, sia un battere o un virus. A loro volta
possono essere suddivisi in quattro tipi a seconda se sono costituiti da:
microrganismi viventi attenuati; microrganismi uccisi o inattivi completi; anatossine; frazione antigenica purificata.

Vaccini costituiti da microrganismi vieventi attenuati: sono vaccini costitutiti da microrganismi ai quali è stato possi-
bile attenuare la virulenza in modo completo ed irreversibile, mentre è stata lasciata intatta la capacità antigenica, ovve-
ro la capacità di determinare la formazione di anticorpi da parte delle cellule immunocompetenti dell’organismo.
Esempi di questo tipo di vaccino: antipoliomielite orale, antirosolia, antimorbillo, antiparotite, ecc..

Vaccini costituiti da microrganismi uccisi o inattivi completi: per costituire questi tipi di vaccini si deve ricorrere al-
la uccisione dei batteri, o nel caso si tratti di virus li si inattiva completamente.
Esempi di questo tipo di vaccino: anticolera, antipertosse, antipoliomielite, iniettabile, antiinfluenza.

Vaccini costituiti da anatossine: nel caso di microrganismi la cui azione patogena si esplica attraverso la produzione di
esotossine, la vaccinazione ha lo scopo di determinare nell’organismo la formazione di anticorpi antitossine.
Esempi di vaccini di questo tipo: antitetano, antidifterite.

Vaccini costituiti da frazione antigenica purificata: questi vaccini vengono preparati utilizzando la tecnica della inge-
gneria genetica o DNA ricombinante.
Esempi di questi vaccini: antiepatite B.

GENERALITA’ SUI VACCINI:

Requisiti. La prima qualità di un buon vaccino è quella, naturalmente, di essere efficace, ovvero di essere fortemente
antigenico, cioè di essere capace di esercitare una buona stimolazione immunitaria, con una buona produzione di anti-
corpi. Un vaccino si deve dimostrare anche innocuo, infatti una vaccinazione è ovviamente effettuabile solo se non
comporta complicazioni serie, e le complicazioni vaccinali, pur esistendo, sono per la verità rare.

Vie di somministrazione. Le iniezioni di vaccino possono essere praticate per via sottocutanea o per via intramuscola-
re, nella regione sottoscapolare, nella ragione deltoidea, in quella anterolaterale della coscia o nel gluteo. Per alcuni vac-
cini è possibile utilizzare la via intradermica, mentre per altri è utilizzata la via orale.

Obbligatorietà. Esistono delle vaccinazioni obbligatorie, estensive (per tutti) o selettive (per alcune categorie, profes-
sionali e non), mentre altre vaccinazioni sono facoltative, ed alcune di esse consigliate per particolari soggetti comun-
que a rischio. In Italia tutti i bambini, in età pediatrica, devono essere sottopposti obbligatoriamente a vaccinazione per
le seguenti malattie: tetano, difterite, poliomielite ed epatite virale B.
Esistono inoltre altre vaccinazioni facoltative che vengono consigliate, tra queste le vaccinazioni contro: il morbillo, la
pertosse, la rosolia, la parotite, ecc.
CAPITOLO 28:
AIDS:

L’AIDS, sindrome da immunodeficienza acqusita, consiste di un complesso quadro morboso comprendente un insieme
di patologie infettive, spesso sostenute da infezioni opportuniste, e/o patologie neoplastiche conseguenti ad una riduzio-
ne della efficienza immunitaria dovuta alle infezioni da virus della immunodeficienza umana, HIV.

CENNI STORICI:

Nella primavera del 1981 il CDC (Center for Diseases Control) di Atlanta riceve la segnalazione che a Los Angeles al-
cuni giovani omosessuali maschi stanno morendo per una infezione da Pneumocystis Carinii che ha determinato in loro
una grave forma di polmonite e presentano anche una diminuzione dei linfociti T-helper.

Qualche mese più tardi vengono segnalati vengono segnalati, in California e a New York, casi di una patologia molto
rara, che colpisce generalmente persone anziane, il Sarcoma di Kaposi, che però ha interessato questa volta, giovani ma-
schi omosessuali. Pertanto la presenza di una deficienza immunitaria inspiegata in un soggetto che manifestasse un Sar-
coma di Kaposi o una Pneumocisti venne considerata una nuova sindrome e, poichè sembrava interessare solo omoses-
suali, venne definita GRID (Gay Related ImmunoDeficiency, immunodeficienza in rapporto all’omosessualità).

Nei mesi successivi aumentò rapidamente la segnalazione di casi simili. Si cominciò ad ipotizzare che la causa fosse un
agente ifettivo trasmissibile con il sangue o con i secreti sessuali e nel luglio 1982 questa nuova entità patologica venne
definita AIDS.

Nel 1984 Robert Gallo dell’Università di Bethesda (USA), isolò un virus, dal sangue di alcuni malati di AIDS, che de-
nominò HTLV-3 (Human T-cell Leukemia Virus-3). Successivamente venne identificato il virus responsabile dell’AIDS
(nel 1986), e denominato HIV (Human Immunodeficiency Virus, virus dell’immunodeficienza umana) e si vide che era
identico a quello isolato, nel 1983, da Luc Montagnier dell’Istituto Pasteur di Parigi e che lui aveva denominato LAV
(LymphoAdenopaty Virus, virus della linfoadenopatia), perchè responsabile dell’ingrossamento delle ghiandole linfati-
che.

VIRUS HIV:

Il virus dell’immunodeficienza umana (HIV) è un virus a RNA. Essi hanno la proprietà di possedere un enzima speci-
fico, la transcriptasi inversa, che permette loro di trascrivere il proprio RNA in forma di DNA e di integrarlo quindi nel
corredo generico del linfocita.

Il virus HIV è composto da tre parti:

Envelope: è il rivestimento esterno, formato da una struttura lipidica e da “proiezioni” proteiche. Queste strutture
sono importanti perchè intervengono nel meccanismo che permette al virus di legarsi alla cellula bersaglio.

Matrice: è lo starto proteico situato sotto l’envelope e che circonda la parte centrale del virus, mantenendo stabile
la struttura della particella virale.

Core: è la parte centrale circondata dalla matrice e contiene il materiale genetico, costituito da due catene di RNA e
gli enzimi fondamentali per la transcriptasi inversa, l’integrasi e la proteasi.

Il ciclo replicativo dell’HIV consiste di diverse fasi:

« Adesione: tramite le gliocoproteine esterne dell’enelope il virus si lega solo alle cellule che abbiano in superficie
degli specifici recettori denominati CD4.

« Fusione: una volta aderite alla superficie le glicoproteine si fondono con la membrana cellulare, aprendo un varco
nella cellula.

« Penetrazione: dopo la fusione, mentre l’envelope rimane all’esterno, il core penetra nella cellula e viene privato
del rivestimento proteico, liberando l’RNA e gli enzimi.

« Trascrizione inversa: le informazioni genetiche contenute nella molecola di RNA vengono copiate, ad opera
dell’enzima transcriptasi inversa, in una doppia catena di DNA virale.

« Integrazione: grazie all’enzima integrasi il DNA-Provirus viene inserito nel DNA della cellula ospite.
« Trascrizione: il DNA-Provirus integrato si attiva e codifica la produzione dell’RNA virale, degli enzimi e delle
proteine strutturali del virus.

« Assemblaggio: le proteine del virus costruite vengono dapprima attivate dall’enzima proteasi e quindi assemblate
dando origine al core della nuova particella virale.

« Gemmazione: il core del nuovo virus si avvicina alla membrana cellulare e fuoriuscendo viene rivestito dell’enve-
lope glicoproteico. Il nuovo virus a questo punto è in grado di infettare un’altra cellula e dare avvio ad un ciclo re-
plicativo.

Ad un esame del sangue il soggetto che è stato infettato risulta pertanto sieropositivo per l’HIV, ovvero il sangue del
soggetto risulta positivo per la ricerca degli anticorpi che si sono formati contro il virus HIV.

STADI CLINICI:

Il CDC di Atlanta ha classficato la malattia riconoscendo in essa 4 stadi:

1. Stadio 1: è quello della infezione; generalmente decorre in modo asintomatico, solo nel 10% dei soggetti ci posso-
no essere manifestazioni cliniche lievi.

2. Stadio 2: è la fase della sieropisitività asintomatica. Questa fase può essere considerata la fase di incubazione della
malattia AIDS, ovvero il soggetto risulta un portatore sano.

3. Stadio 3: è lo stadio della linfoadenopatia generalizzata persistente, ovvero dell’ingrossamento persistente in più
sedi delle ghiandole linfatiche, le più interessate sono le ascellari e le cervicali.

4. Stadio 4: è a sua volta suddiviso in sottogruppi:

- Stadio 4 A: corrisponde ai sintomi costituzionali: dimagrimento, febbre e diarrea persistenti, sudorazioni notturne.

- Stadio 4 B: corrisponde alla compromissione neurologica legata alla infezione da HIV; oltre a neuropatie, nei casi
piu gravi si può avere la demenza da HIV.

- Stadio 4 C: corrisponde alla manifestazione di gravi malattie infettive opportuniste quali Polmonite, Candidosi
esofagea o polmonare.

- Stadio 4 D: corrisponde alla presenza di patologie neoplastiche come Linfomi cerebrali,ecc..

MODALITA’ DI TRASMISSIONE:

Il virus HIV è stato isolato da tutti i liquidi biologici della persona infetta , tuttavia solo il sangue, lo sperma, le scre-
zioni vaginali ed il latte materno sono ritenuti responsabili della trasmissione della malattia.

Pertanto le modalità di trasmissione possono essere:

- quella verticale: da madre infetta a figlio durante la gravidanza;


- quella perinatale: con l’allattamento materno;
- quella parenterale: con sangue infetto inoculato nel soggetto sano tramite emotrasfusioni ed emoderivati non control-
lati, siringhe infette, ecc..
- e quella sessuale: con rapporti vaginali, anali e orali non protetti con il preservativo.

A livello mondiale questa infezione è maggiormente presente nell’Africa subsahariana ( si parla di milioni di morti,
molti bambini sono rimasti orfani).

Anche se l’infezione da HIV negli USA e in Europa ha interessato principalmente uomini omosessuali, bisessuali e tos-
sicodipendenti, il principale comportamento a rischio a livello mondiale è rappresentato dai rapporti eterosessuali.

Più correttamente attualmente non si deve parlare di “categorie” a rischio ma di “comportamenti” a rischio (prostitu-
te).

Per i giovani, che sono i soggetti nei quali l’infezione è notevolmente più diffusa, i due principali comportamenti a ri-
schio sono:
fare sesso senza preservativo, non importa se omosessuale o eterosessuale, vaginale, anale o orale, con pochi o
tanti parther, ufficiali, non ufficiali o mercenari;
iniettarsi droghe con siringhe non sterili.

EPIDEMIOLOGIA:

Per avere una migliore conoscenza dell’epidemiologia del virus HIV, oltre ai dati di sorveglianza sull’AIDS, bisogna
avere i dati della siero-epidemiologia dell’infezione da HIV.

AIDS nel Mondo (2007). In molte regioni del mondo, la pandemia di AIDS ha coinvolto circa 2,1 milioni di persone
nel 2007.
- L’Africa subsahariana rimane di gran lunga la più colpita. Nel 2007 si stimava che lì ci fossero 1,7 milioni di nuove in-
fezioni. A differenza di altre regioni, la maggior parte delle persone che vivevano con l’HIV nell’Africa subsahariana
nel 2007 erano donne.

- Il Sudafrica ha la più grande popolazione di pazienti affetti da HIV nel mondo, seguito da Nigeria e India.

- Il Sud e Sud-Est Asiatico sono le seconde regioni più colpite.

- L’India ha circa 2,5 milioni di infetti.

- Negli Stati Uniti, le giovani donne afro-americane sono a rischio particolarmente elevato per l’infezione da HIV;que-
sto è dovuto a una maggiore probabilità di rapporti sessuali con partner a rischio.

- Nei paesi dell’Europa dell’Est e dell’Asia centrale si stima che vi siano, nel 2010, 1,5 milioni di persone sieropositive.

AIDS in Italia (2012). Nel 2012 tutte le regioni italiane hanno attivato un Sistema di sorveglianza delle nuove diagnosi
di infezione da HIV, ottenendo una copertura del Sistema di sorveglianza del 100%.

Per quanto riguarda il numero dei casi di AIDS per regione di residenza si osserva che le regioni più colpite sono
nell’ordine: Liguria, Veneto, Lombardia, Toscana, Sardegna.

L’età mediana alla diagnosi dei casi adulti di AIDS mostra un aumento nel tempo, sia tra i maschi che tra le femmine.
Infatti, se nel 1992 la mediana era di 31 anni per i maschi e di 29 per le femmine, nel 2012 le mediane sono salite rispet-
tivamente a 44 e 40 anni.

Nel 2012, l’icidenza di AIDS è stata 1,7 per 100.000 residenti. L’incidenza di AIDS e il numero di decessi per anno
continuano a diminuire, principalmente per effetto delle terapie antiretrovirali combinate (introdotte nel nostro Paese
nel 1996).

Nel 2012, poco più di un quarto delle persone diagnosticate con AIDS ha eseguito una terapia antiretrovirale prima del-
la diagnosi di AIDS.

CAPITOLO 32:
MALATTIE CARDIOVASCOLARI:

CARDIOPATIE ISCHEMICHE:

Tra le malattie cardiovascolari rientrano le cardiopatie ischemiche e le ischemie cerebrali. La mortalità per malattie car-
diovascolari è tuttora la prima causa di morte in Italia.

Si definiscono cardiopatie ischemiche le malattie del cuore causate da una riduzione dell’apporto di ossigeno al mu-
scolo cardiaco. Consistono di un gruppo di manifestazioni gravi comprendenti l’angina pectoris, l’infarto miocardiaco
acuto e la morte improvvisa attribuibile ad occlusione coronarica. Infatti altro termine comune utilizzato per definire
queste patologie è quello di cardiopatia coronarica.

L’arterosclerosi è una malattia degenerativa del sistema arterioso caratterizzata dalla formazione nella parte interna del-
le arterie di grosso e medio calibro di depositi giallastri a placca costituiti da cellule contenenti colesterolo e materiale
lipidico. La presenza di ateromi riduce il lume delle arterie e una loro lesione può determinare l’innescarsi di processi
trombotici con conseguente occlusione, parziale o totale, del vaso con insufficienza di apporto di sangue, e quindi di os-
sigeno. La necrosi delle cellule cardiache, ovvero la morte di queste cellule, si definisce infarto.

ISCHEMIE CEREBRALI:

Si definiscono ischemie cerebrali le malattie del cervello causate da una riduzione improvvisa, diffusa o circoscritta,
dell’apporto di sangue e quindi di ossigeno ai neuroni, ovvero alle cellule cerebrali. Queste patologie sono sostenute da
fenomeni di tipo tromboembolico o emorragico, e sono forme assai gravi perchè caratterizzate da elevata mortalità, e
eni casi non mortali, da elevata invalidità.
Anche in queste patologie, la condizione di base è l’aterosclerosi.

FATTORI DI RISCHIO:

Alcuni di questi fattori sono considerati maggiori (fumo, ipercolestemia e ipertensione arteriosa), gli altri minori o se-
condari; alcuni rientrano tra i fattori modificabili, altri sono non modificabili (ereditarietà, età e sesso)

Ereditarietà: come ad esempio il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa, l’ipercolestemia. Pertanto è possibile parlare
piuttosto di predisposizione familiare alle cardiopatie ischemiche.

Età: l’incidenza di queste patologie, cardiopatiche e cerebrali ischemiche, aumenta con l’aumentare dell’età.

Sesso: la morbosità per queste patolgie è più elevata nel sesso maschile. La morbosità nel sesso femminile aumenta do-
po la menopausa.

Alterazioni metabolismo lipidico: L’ipercolesterolemia rappresenta uno dei fattori di rischio maggiori per le patologie
cardiovascolari, sia in quanto favorisce la formazione delle placche ateromasiche all’interno delle arterie, sia in quanto
favorisce un aumento dell’aggredibilità piastrinica.
I dati italiani, integrati con le osservazioni più recenti, continuano ancor oggi a indicare che:

- la colesterolemia, LDL è un fattore di rischio potente;

- elevati livelli di colesterolemia totale e colesterolemia LDL, si associano anche a un eccesso di rischio di morbosità e
mortalità per patologie cerebrovascolari;

- i portatori di patologia arteriosa coronarica ed extracoronarica, presentano livelli di colesterolemia più elevati.

Ipertensione arteriosa: costituisce il principale e più importante fattore di rischio per quanto riguarda l’ischemia cere-
brale.

Fumo di tabacco: insieme a ipercolesterolemia e ipertensione arteriosa costituisce il terzo dei fattori di rischio maggio-
ri. Sono sopratutto le sostanze tossiche presenti nel fumo di tabacco che giocano un ruolo di assoluto rilievo, cioè nicoti-
na e monossido di carbonio.

Diabete mellito: indipendentemente da altri fattori di rischio il diabete conferisce un rischio doppio o persino maggiore
di cardiopatia ischemica.
Obesità, Sedentarietà, Stress: questi fattori possono portare un notevole contributo in termini globali data la loro ele-
vata prevalenza nella popolazione.

PREVENZIONE:

Nel Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 era scritto:


Le patologie del sistema circolatorio sono responsabili del 44% dei decessi registrati in Italia nel 1993.
La mortalità per malattie cardio e cerebrovascolari è in diminuzione nel periodo 1971-1993.

Al fine di raggiungere la riduzione di almeno il 10% delle patologie ischemiche del cuore e delle malattie cardiovasco-
lari, il PSN 1998-2000, proponeva le seguenti azioni:

- Interventi finalizzati alla prevenzione nella popolazione generale. Gli interventi dovranno essere focalizzati sui be-
nefici derivati dalla abolizione o dalla riduzione del fumo, dalla adozione di stili di vita caratterizzati da una sana ali-
mentazione e da un aumento dell’attività fisica.
Le azioni potranno avvalersi di campagne di educazione sanitaria e di sensibilizzazione degli operatori sanitari, per il
controllo dei fattori di rischio nella popolazione.
- Interventi finalizzati alla prevenzione nelle persone a rischio. Gli interventi dovranno essere mirati alla diminuzio-
ne dei livelli dei fattori di rischio e alla prevenzione delle complicanze nelle persone già affette da una patologia cardio-
vascolare.

Le azioni potranno essere finalizzate a:


- identificazione e assistenza differenziata dei soggetti ad alto rischio;
- produzione, diffusione e adozione di Linee Guida per l’assistenza ai soggetti ipertesi e ipercolesterolemici;
- attivazione di prograami di riabilitazione.

A proposito delle patologie cardiovascolari è ora disponibile per gli operatori sanitari uno strumento quale la Carta Ita-
liana del Rischio Cardiovascolare. La Carta del Rischio consiste in una serie di tabelle a caselle: una volta individua-
ta la tabella relativa al sesso, alla classe di età e alla propria condizione (fumatore e/o diabetico), basta posizionarsi sulla
casella corrispondente ai valori della pressione arteriosa e della colesterolemia per conoscere le probabilità di incorrere
in un infarto o in un ictus nei successivi dieci anni.

CAPITOLO 33:
TUMORI MALIGNI:

Un tumore maligno, o cancro, è una nuova crescita di tessuto (neoplasia) in cui la moltiplicazione delle cellule è incon-
trollata e progressiva. Le cellule del cancro, a differenza di quelle dei tumori benigni, possiedo le properietà dell’inva-
sione e della metastatizzazione e sono altamente atipiche.

Il cancro è essenzialmente una malattia gentica che inizia a livello dei geni di una singola cellula. Il processo di can-
cerogenesi si sviluppa in diverse fasi.
La prima fase, che è di breve durata (giorni o settimane) viene denominata iniziazione. Nella maggior parte dei casi i
cancerogeni iniziatori sono genotossici, ovvero interagiscono con il DNA producendo mutazioni a carico delle cellule
somatiche dell’organismo. Si possono distinguere mutazioni cromosomiche, più grossolane, e mutazioni più fini defini-
te geniche.

La seconda fase, denominata promozione, può durare nell’uomo anni o decenni. Mentre un cancerogeno iniziatore de-
termina la formazione del cancro con un meccanismo irreversibile, il promotore provoca effetti reversibili e non è di per
sè sufficiente a provocare l’insorgenza del tumore. Se però il cancerogeno promotore è somministrato a dosi ravvicinate
e ripetute, esso è in grado di rendere efficace il danno provocato dall’iniziatore. In pratica il cancerogeno promotore in-
terviene nel processo cancerogenetico in quanto stimola la poliferazione della cellula modificata con il processo
dell’iniziazione.

Occore comuqnue sottolineare che talvolta è difficile distinguere se una sostanza sia solo iniziatrice o promotrice: infat-
ti esistono anche sostanze, dette cancerogeni completi, che possiedono entrambe le attività.

Alla fase iniziazione-promozione, con la creazione della massa neoplastica iniziale, segue la fase di progressione della
neoplasia, che inizia in pratica con la manifestazione clinica della malattia e di solito questa fase si protae, se non si ap-
plicano interventi terapeutici, per qualche mese.

La specifica caratterizzazione di malignità interviene nel momento in cui la neoplasia manifesta le capacità di invasione
del tessuto circostante e di formazione di metastasi. La disseminazione di metastasi avviene ad opera, sopratutto del si-
stema vascolare e consiste nel trasporto, nel torrente circolatorio ematico, di cellule neoplastiche e quindi l’instaurarsi
della neoplasia secondaria in sedi dell’organismo lontane dal tumore primitivo.

EPIDEMIOLOGIA:

La situazione oncologica in Europa:

Per gli uomini i tumori più frequenti sono risultati quelli del polmone, del colon e del retto, della prostata, della vesci-
ca e dello stomaco. I cancri più frequenti nella donne sono quelli della mammella, del colom e del retto, del polmone e
dello stomaco.

Nel 1998 si sono registrati circa 500.000 decessi di uomini e 400.000 di donne per cancro. Pertanto il cancro rappresen-
ta un rilevante problema di sanità pubblica per l’Unione Europea e lo rimarrà in un futuro prevedibile, a meno di intro-
durre efficaci strategie di controllo.

La situazione italiana:
Nel 2000 si sono verificati circa 160.000 decessi causati da tumori maligni. Per entrambi i sessi, per la totalità dei tumo-
ri e per la maggior parte delle singole localizzazioni il rischio di ammalarsi è circa il doppio nell’Italia del Nord rispetto
a quella del Sud.

I dati sulla mortalità italiana mostrano che il tumore rappresenta la seconda causa di morte, dopo quella dovuta alle ma-
lattie cardio- vascolari, determinando circa il 30 % di decessi, questo significa che in Italia un cittadino su tre muore di
cancro.

E’ possibile stimare in circa 270.000 i nuovi casi di tumore diagnosticati ogni anno in Italia e in circa un milione la pre-
valenza di questa patologia, in altre parole l’ammontare complessivo dei pazienti portatori di tumore.

La sopravivvenza, a cinque anni dalla diagnosi, è complessivamente in lieve aumento (in analogia con il resto dell’Eu-
ropa) e pari, per l’insieme dei tumori maligni, al 45%, con intuibili differenze fra i tumori a prognosi più sfavorevole
(25%), quali quelli polmonare e gastrico, rispetto a quelli con prognosi più favorevole (anche 85%), queli le neoplasie
della mammella e dell’utero.

FATTORI DI RISCHIO:

Le principali cause note che condizionano l’insorgenza dei tumori nella popolazione sono:

Fumo di tabacco: è considerato il principale fattore di rischio noto. In italia la quota di tumori attribuibili al tabacco è
del 30% sul totale delle morti per tumore. Il fumo di tabacco causa circa l’85% di tutti i tumori del polmone e una fra-
zione di poco inferiore, il 75%, dei tumori del cavo orale, laringe, faringe ed esofago. Il fumo aumenta anche il rischio
di tumore del pancreas, del rene e della vescica. Ci sono inoltre gli effetti del fumo passivo, per il quale è stato stimato
un aumento del rischio di neoplasie polmonari di circa il 20%.

Alcool: il consumo di bevande alcoliche è correlato positivamente con il cancro della bocca, della faringe, dell’esofago,
della laringe e del fegato. La frazione di decessi per tumore attribuibile al consumo di alcool è di circa il 4% del totale
delle morti per tumore.

Dieta: nel suo complesso è responsabile di un elevato numero di tumori, stimabile intorno al 35% nei Paesi industrializ-
zati, Italia compresa. Le cause sarebbero attribuibili sopratutto alle abitudini alimentari caratterizzate da una dieta ricca
di proteine e di grassi animali, che possono portare a situzioni di obesità e di insulino-resistenza, riconosciute a loro vol-
ta condizioni predisponenti per alcune forme tumorali.

Fattori ormonali: l’azione di questi fattori è ormai ampiamente dimostrata per alcune patologie, come ad esempio il
cancro della mammella e dell’ovaio che riconoscono nella iperproduzione estrogenica uno dei principali fattori di ri-
schio.

Fattori ambientali e occupazionali: il rischio di insorgenza di tumori attribuibile ad una esposizione di tipo professio-
nale è stimata intorno al 2-3 % di tutti i tumori. Tra gli inquinanti atmosferici è stata evidenziata l’importanza del benze-
ne, la cui presenza nell’aria è strettamente correlata alle sorgenti di emissioni, quali ad esempio i processi di combustio-
ne dei motori a benzina. Altri inquinanti sono gli idrocarburi policiclici aromatici.

Radiazioni: le radiazioni si dividono in ionizzanti e non ionizzanti. tra quelle ionizzanti ci sono quelle emesse da so-
stanze radioattive presenti nel suolo, nell’aria e nell’acqua. Per esempio va considerato il radon, un gas radioattivo che
si trova nel terreno, nelle rocce e nei materiali da costruzione. Il radon rappresenta uno dei più importanti inquinanti in
ambienti chiusi, dove si concentra. Tra le radiazioni non ionizzanti si considerano principalmente i raggi solari e le altre
fonti di radiazioni ultraviolette, che hanno una notevole importanza per l’insorgenza dei tumori della pelle.

Fattori infettivi: negli ultimi anni molti agenti microbici sono stati sospettati di essere implicati nella eziologia di alcu-
ne neoplasie. Alcuni PapillomaVirus Umani (HPV) entrano nel determinismo del tumore della cervice uterina, così co-
me i virus dell’epatite B (HBV) e dell’epatite C (HCV) nel determinismo del cancro primitivo del fegato. Importanti a
questo proposito sono gli screening per l’identificazione precoce di queste infenzioni (esempio test per ricerca HPV e ri-
cerca per epatite B e C) facilmente eseguibili e per alcune di queste (infezione da HBV) oggi anche prevenibili median-
te vaccinazione.

Fattori genetici: solo recentemente sta emergendo il concetto di una diversa suscettibilità individule, secondo cui i can-
cerogeni ambientali sono più dannosi per certi individui rispetto ad altri a parità di esposizione, a questo sembra dipen-
dere dal diverso grado di efficacia delle risposte difensive immunitarie dell’organismo che possono variare da una per-
sona all’altra.

PREVENZIONE:
Le azioni che il Piano Sanitario Nazionale (PSN) 1998-2000 prevedeva di sviluppare riguardavano:

1.Interventi di diagnosi precoce:

Campagne di screening per la diagnosi precoce e per il controllo periodico dei fattori di rischio.
Sono pertanto da estendere a tutto il territorio nazionale:
lo scrrening mammografico con periodicità biennale per le donne tra 50 e 69 anni, per il carcinoma mammario;
lo screening tramite pap-test con periodicità triennale per le donne tra 25 e 64 nni, per il carcinoma del collo
dell’utero;
la diagnosi precoce delle patologie tumorali eredo-familiari invasive e preinvasive nei soggetti riconosciuti ad alto
rischio (limitatamente alle patologie per le quali la diagnosi prococe si è dimostrata efficace nel modificare la storia
naturale della malattia).

2. Interventi per il miglioramento della qualità della vita:

Programmi di intervento dovranno essere attuati per il miglioramento della qualità della vita dei pazienti affetti da tu-
more, con particolare riguardo alla umanizzazione della assistenza, alla prevenzione delle complicanze e alla riparazio-
ne e riabilitazione degli esiti.
Le iniziative possono avvalersi dei seguenti interventi:
produzione, diffusione e adozione di Linee Guida per l’assistenza ai pazienti oncologici terminali;
attivazione di appropiati programmi di riabilitazione e per la terapia palliativa e del dolore;
diffusione di forme di assistenza domiciliare che favoriscano il concorso della famiglia e della rete sociale del pa-
ziente.

Nell’ambito del programma “L’Europa contro il cancro” della Commissione Europea è stato redatto, da un gruppo di
esperti oncologi provenienti da tutta l’Europa, il “Codice Europeo contro il cancro”, che contiene dieci raccomanda-
zioni per prevenire e ridurre il rischio di ammalarsi di questa patologia.

Adottando uno stile di vita più sano è possibile evitare alcuni tipi di cancro e migliorare lo stato di salute:

1. Non fumare. Se fumi, smetti il più presto possibile e non fumare in presenza di altri. Se non fumi, non provare a
farlo.
2. Se bevi alcolici, birra, vino o liquori, moderane il consumo.
3. Aumenta il consumo quotidiano di verdura e di di frutta fresca. Mangia spesso cereali ed alto contenuto di fibre.
4. Evita l’eccesso di peso, aumenta l’attività fisica e limita il consumo di grassi.
5. Evita l’esposizione eccessiva al sole ed evita scottature, sopratutto nell’infanzia.
6. Attieniti strettamente alle norme che invitano a non esporsi alle sostanze conosciute come cancerogene. Rispetta
tutte le istruzioni di igiene e di sicurezza per le sostanze cancerogene.

Molti più cancri possono essere curati se diagnosticati tempestivamente:

7. Consulta un medico se noti un rigonfiamento, una lesione che non guarisce, un neo che cambia forma ecc..
8. Consulta un medico se presenti continui problemi, quali tosse, una perdita inspiegabile di peso ecc..

Per le donne:

9. Effettuare regolarmente uno striscio vaginale e partecipare ai programmi organizzati di screening del cancro del collo
dell’utero.
10. Sorvegliare regolarmente il vostro seno. Partecipate ai programmi organizzati di screening mammografico se avete
più di cinquant’anni.

CAPITOLO 34:

DIABETE MELLITO:

Il diabete mellito è una sindrome dovuta ad un alterazione del metabolismo del glucosio, che si manifesta con un innal-
zamento del glucosio nel sangue (iperglicemia) e l’eventuale passaggio dello stesso nelle urine (glicosuria).
L’importanza di questa malattia dismetabolica, da un punto di vista medico ma anche sociale, consiste non solo nella
patologia in sè ma anche nelle frequenti e gravi complicanze che vi sono associate, tra queste:
l’arterosclerosi dei vasi arteriosi di grosso e medio calibro, con conseguenti malattie cardio e cerebrovascolari (in-
farto miocardico acuto, trombosi ed emorragie cerebrali, morte improvvisa);

l’arteriosclerosi delle arterie di piccolo calibro, con le conseguenti :


- retinopatie (riduzione della vista fino alla cecità);
- nefropatie (alterazioni della funzionalità renale fino alla insufficienza renale);
- neuropatie (problemi sensitivi e motori da alterazioni della trasmissione nervosa);
- piede diabetico (gradi progressivi di cancrena alle dita fino ad arrivare alla amputazione degli arti inferiori)

La classificazione dell’OMS del 1985 indentificava le seguenti sindromi cliniche:


- diabete mellito insulino-dipendente (IDDM);
- diabete mellito non insulino-dipendente (NIDDM);
- diabete da malnutrizione (tipico delle società non sviluppate);
- diabete associato ad altre sindromi;
- diabete mellito della gravidanza.

L’American Diabetes Association ha proposto nel 1997 una nuova classificazione e nuovi criteri diagnostici. Questa
proposta ha riservato i termini “insulino-dipendente” e “non insulino-dipendente” all’aspetto clinico-teraupetico della
malattia , riprendendo i termini “tipo 1” e “tipo 2”.

Il diabete di “tipo 1” (“insulino-dipendente”) si può considerare una malattia cronica, irreversibile dovuta a difetti
della cellula beta-pancreatica su base autoimmunitaria: infatti questa cellula che produce insulina viene distrutta
dall’azione di auto-anticorpi (cioè di anticorpi che si formano contro i costituenti del nostro stesso organismo, non
più riconosciuti come tali). Quindi viene a mancare una adeguata produzione di insulina, pertanto la sopravvivenza
dell’individuo affetto da questo tipo di diabete dipende dalla somministrazione quotidiana di dosi di insulina.

Il diabete di “tipo 2” (“non insulino-dipendente”) è la forma di diabete dovuta a meccanismi di insulino-resisten-


za: il soggetto può presentare anche alti livelli di insulina nel sangue, solo che l’afficacia di questo ormone è ridotta
o quasi annullata perchè le cellule dell’organismo diventano resistenti alla sua azione.

Anche i criteri diagnostici sono stati modificati, dall’OMS nel 1999 e adottati anche in Italia nel 2000, e sono i seguen-
ti: si pone diagnosi di “diabete” se viene riscontrato, almeno in due occasioni successive, un valore di glicemia a digiu-
no inferiore o uguale a 126 mg/dl (milligrammo/decilitro); oppure è sufficiente un riscontro casuale di glicemia maggio-
re o uguale a 200 mg/dl, accompagnata da sintomi tipici di diabete; oppure il valore di glicemia alla seconda ora del test
da carico orale di glucosio (OGTT) è maggiore o uguale a 200 mg/dl.

Valori alla seconda ora del test compresi tra 140 e 199 sono indicativi di una “Ridotta tolleranza glucidica” , condizio-
ne da tenere sotto stretta sorveglianza per l’aumento rischio di sviluppare, non solo il diabete, ma anche patologie car-
diovascolari.

Anche una glicemia a digiuno tra 110 e 125 mg/dl, che identifica la situazione di “alterata glicemia a digiuno”, è indi-
cativa di un rischio aumentato, anche se inferiore, per le stesse malattie. Il livello di 126 mg/dl proposto come soglia
diagnostica corrisponde alla soglia oltre la quale aumenta il rischio di comparsa di complicanze del diabete.

FATTORI DI RISCHIO:

Diabete di tipo 1:

Studi nella popolazioni e nella famiglie di diabetici hanno mostrato l’associazione tra alcuni antigeni HLA, codificati
dai ripsettivi geni del Complesso Maggiore di Istocompatibilità, e il diabete di tipo 1. In alcuni di questi individui, por-
tatori di questi antigeni, fattori precipitanti di natura virale e tossica, non ancora identificati, possono innescare una alte-
rata risposta immune nei confronti di antigeni presenti sulla cellula beta-pancreatica. Si determina pertanto una progres-
siva distruzione della massa beta-cellulare con la comparsa di auto-anticorpi circolanti, utili marcatori della malattia in
una fse che può essere ancora clinicamente assente.
Questo tipo di diabete è più frequentemente diagnosticato nei soggetti giovani, bambini e adolescenti, anche se non tra-
scura la fse di età più adulte.

Diabete di tipo 2:

Anche per questa forma di diabete esiste una predisposizione genetica confermata dalla esperienza clinica dell’esistenza
di famiglie con numerosi casi di malattia al loro interno. La predisposizione genetica manifesta in pieno i suoi effetti per
l’azione di fattori di rischio ambientali e metabolici, come la sedentarietà, le diete sbilanciate, l’obesità, gli stress gravi
e prolungati. Questa combinazione determina una compromissione della secrezione e della azione dell’insulina, che si
configur nella cosidetta “Sindrome dell’insulino-resistenza”, condizione ad alto rischio per le patologie cardio e cre-
bro-vascolari. Gli individui che sono affetti da questa sindrome spesso presentano anche obesità addominale associata a
ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, ipertriglicerdemia e iperuricemia.
Questo tipo di diabete è diagnosticato più frequentemente nell’età matura e senile, anche senon mancano casi ad insor-
genza più precoce, nella fase adolescenziale o giovanile.

EPIDEMIOLOGIA:

In Italia i pazienti diabetici noti erano stimati essere, nel 1998, intorno alle 1.700.000 unità, uguale ad una prevalenza di
circa 2-3%. Considerando che è stimata essere circa uguale la prevalenza del diabete non noto, cioè del diabete già me-
tabolicamente iniziato ma non ancora tale da presentare segni e sintomi riconoscibili al soggetto, se non attraverso esa-
mi ematochimici, si arriva ad un numero considerevole di soggetti diabetici.
Il diabete di tipo 1 corrisponde a circa il 10% delle forme di diabete, mentre quello di tipo 2 riguarda circa il 90% di tut-
ti i casi.

PREVENZIONE:

Per quanto concerne il diabete di tipo 1, notevoli progressi sono stati fatti per l’identificazione dei markes genetici e im-
munologici, ma l’alto costo delle analisi e la relativa bassa associazione della malattia con la positività di questi markes,
rendono ancora poco frequenti, al momento attuale, studi su popolazione per identificare gli individui a rischio.

Per il diabete di tipo 2 esistono maggiori difficoltà nell’individuare eventuali markers specifici. Si conosce bene però
come l’insorgenza e la progressione di questo tipo di diabete derivano dalla interazione di fattori genetici e fattori legati
allo stile di vita. Sono perciò possibili due tipi di prevenzione primaria:
- l’approccio su tutta la popolazione (interventi di educazione sanitaria per evitare l’insorgenza dei fattori di rischio);
- e l’approccio sui soggetti a rischio in base a familiarità, età, obesità, adiposità addominale, ipertensione arteriosa, me-
diante la correzione delle condizioni di rischio o mediante l’accertamento diagnostico precoce della malattia ancora in
fase iniziale asintomatica.

CAPITOLO 35:
ETA’ EVOLUTIVA O SCOLARE:

Per “età evolutiva” si intende il periodo che va dai 3 ai 18 anni, ovvero dalla prima infanzia all’età di maturità.

Nei primi anni di vita l’infante ha praticamente solo rapporti costanti con i componenti della propria famiglia, la quale
esercita una fondamentale influenza sulla crescita sia fisica che psichica dell’individuo tale da condizionare in modo de-
terminante per tutta la vita la sua condizione di persona adulta, indipendente, consapevole e responsabile. Sebbene nei
primi anni di vita l’ambiente famigliare sia in pratica il solo a condizionare il soggetto in crescita, questo rapporto conti-
nua anche negli anni successivi, continuando ad influenzare con le proprie scelte e decisioni l’andamento dello sviluppo
del ragazzo/adolescente.

Durante l’età evolutiva il soggetto (bambino, ragazzo, adolescente) viene a doversi affrontare anche con un altro conte-
sto sociale che avrà notevoli influenze sul suo affermarsi come individuo: questo ambiente sociale è la scuola, di ogni
ordine e grado, come si è soliti dire.
E’ nella scuola che il soggetto deve/dovrebbe trovare le migliori condizioni possibili per potersi impegnare nello studio
e poter accedere, utilizzare ed approfittare di tutto quello (persone, ambiente, capacità competenze, mezzi, strumenti,
ecc..) che può essere utile per diventare, in primo luogo, un “soggetto educato e civile” intendendo con questa definizio-
ne una persona adulta responsabile, un portatore di conoscenze, anche sanitarie, almeno basilari, un cittadino non solo
del suo territorio ma del mondo intero.

Oltre all’ambiente famigliare e all’ambiente scolastico anche l’ambiente sociale collettivo che il soggetto frequenta è in
grado di esercitare una influenza condizionante importante, spesso purtroppo negativa. Mentre nel passato l’influenza
che l’ambiente sociale circostante poteva esercitare sull’individuo avveniva per un rapporto diretto e una frequentazione
personale, e quindi anche i comportamenti imitativi di gruppo erano sperimentati spesso con un vero contatto fisico, ne-
gli ultimi decenni il condizionamento è molto spesso solo virtuale, derivante dall’azione dei mass-media (giornali, ra-
dio, televisione, internet), attraverso l’utilizzo dei supporti informatici (smartphone, tablet, computer), la frequentazione
dei social media (Facebook, Twitter, Instagram, YouTube); pertanto anche i comportamenti imitativi di gruppo sono
spesso mediati da una piattaforma virtuale.
L’utilizzo di questi mezzi spesso fa sentire gli individui “protagonista unico” o “spettatore unico” avendo la sensazione
di poter decidere autonomamente come gestire questi mezzi, o la propria giornata o più in generale la propria vita; in
realtà il desiderio di essere costantemente sempre “connessi” con gli altri sottolinea la dipendenza che questi soggetti
hanno nei confronti di queste tecnologie e la loro incapacità di coglierne gli aspetti negativi della loro influenza.

In questo senso la scuola, con i suoi interventi educativi, nel senso più ampio del termine (educazione letteraria, storica,
civica, alimentare, sanitaria, sessuale ecc..) assume una importanza fondamentale per la formazione dell’uomo adulto
del domani. Considerando solo gli aspetti prettamente sanitari, sono numerosi e complessi gli interventi di promozione
della salute e di prevenzione delle malattie che possono essere attuati in questa fase della vita.

IGIENE SCOLASTICA :

Per “Igiene scolastica” si intende quella parte della disciplina Igiene che si occupa della salute dell’individuo in età evo-
lutiva. Più in dettaglio possiamo suddividere il periodo evolutivo secondo questo schema:
da 0 a 3 anni e parleremo più propriamente di igiene dell’infanzia; da 3 anni a 18 anni e parleremo di igiene scolastica.

In Italia la popolazione in età scolastica trascorre da 4 a 8 ore al giorno per almeno 10 minuti nelle strutture educative
scolastiche, con un’esposizione protratta di organismi estremamente suscettibili ai rischi ambientali.

Le competenze del Medico Scolastico, figura definita ai sensi del DPR n.264/1961, con l’avvio del SSN (dal 1978) fu-
rono trasferiti ai servizi materno-infantili delle ASL, abitualmente non operanti all’interno delle istituzioni scolastiche.
Col tempo tale figura si è nei fatti estinta.
I Servizi di Medicina Scolastica gestiti dai Comuni sono stati progressivamente disattivati nell’errato convincimento
che avendo le famiglie acquisito un sufficiente livello educativo potevano esercitare loro stesse attività di prevenzione
con l’ausilio del pediatra di libera scelta.

Già il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008:


incentrava l’attenzione sulla protezione dei gruppi più vulnerabili, tra cui i bambini, dai fattori di rischio presenti
negli ambienti indoor e outdoor.

La promozione della salute nel contesto scolastico può essere definita come “qualsiasi attività intrapesa per migliorare
e/o proteggere la salute di tutti gli utenti della scuola”, ed include “interventi appropriati per realizzare politiche per una
scuola sana, ambienti scolastici come luoghi di benessere fisico, psichico e sociale, curricula educativi per la salute, col-
legamenti e attività comuni con altri servizi rivolti alla cittadinanza e con i servizi sanitari”.

La scuola è il luogo dove programmi didattici e interventi di educazione alla salute possono integrarsi per una reale pro-
mozione della salute e del benessere di tutta la comunità scolastica.

E’ dimostrato che ragazzi e ragazze in buona salute e che si trovano bene a scuola imparano meglio.
Compito dell’Igiene Scolastica (o Medicina Scolastica) è dunque promuovere e tutelare la salute della popolazione sco-
lastica attraverso la diagnosi precoce di patologie proprie dell’età evolutiva (attività di screening) e la prevenzione di
malattie correlate a stili di vita non corretti (interventi di educazione alla salute).

L’attività di Igiene Scolastica si svolge prevalentemente in ambito scolastico e consiste in:

1. Attività di screening
- screening auxologico ( peso, altezza, calcolo del BMI) al fine di individuare gli alunni in stato di sovreppeso- obe-
sità o sottopeso o di bassa statura;
- screening visivo per individuare precocemente difetti visivi;
- screening ortopedico per individuare alterazioni dell’apparato muscolo-scheletrico (scoliosi, ipercifosi);
- screening odontoiatrico per la prevenzione delle imperfezioni e malattie dentarie;
- screening per l’adenoidismo e malattie otorinolaringoiatriche;
- screening per la prevenzione delle parassitosi, in particolare delle pediculosi del capo;
- screening ortottico (scuola dell’infanzia) per individuare precocemente alterazioni della motilità oculare.

Gli screening vengono eseguiti sugli alunni delle “classi filtro” 1a- 2a -3a -5a elementare -1a-3a media inferiore
previo consenso informato dei genitori.
E’ di notevole rilevanza che gli alunni positivi agli screening possono accedere ai poliambulatori aziendali per ef-
fettuare gli approfondimenti clinico-diagnostici GRATUITAMENTE, in regime di esenzione dal ticket sanitario.

2. Sorveglianza sanitaria malattie infettive.

3. Controlli, su segnalazione, delle condizioni igenico-sanitarie degli ambienti scolastici.


4. Controlli periodici e su segnalazione del rispetto delle tabelle dietetiche adottate nelle mense scolastiche.

5. Interventi di educazione sanitaria rivolti agli alunni, ai genitori ed agli insegnanti per promuovere comportamenti e
stili di vita idonei al mantenimento della salute.

CAPITOLO 39:
CONTRACCETTIVI

Per la contraccezione si intende la prevenzione intenzionale del concepimento cioè l’impedimento della fecondazio-
ne dell’uovo da parte dello sperma. Pertanto scopo della concentrazione è quello di impedire la procreazione, in modo
temporaneo e reversibile. Tra le pratiche o tecniche considerate contraccettive sono inclusi anche alcuni metodi che in
realtà non impediscono la fecondazione ma intervengono in uno stadio più avanzato del fenomeno riproduttivo, impe-
dendo ad esempio l’annidamento dell’uovo, già fecondato, nella mucosa uterina. Un contraccettivo per essere valido de-
ve possedere i seguenti requisiti:

efficacia, ovvero deve garantire che non si verifichi una gravidanza;


tollerabilità, ovvero non deve provocare effetti collaterali importanti;
reversibilità, ovvero deve poter garantire una normale fertilità, una volta che viene sospeso;
accettabilità, ovvero deve essere ben accettato da chi lo utilizza, ad esempio con una facilità d’uso.

L’efficacia di un metodo contraccettivo si valuta con il calcolo del cosidetto indice di Pearl, formulato da questo studio-
so nel 1932. Si calcola utilizzando il numero delle gravidanze occorse su 100 donne che per un anno utilizzano un parti-
colare medoto: tanto più basso è l’indice di Pearl, tanto più efficace è il metodo.

I metodi contraccettivi si possono divedere in metodi artificiali e metodi naturali.

METODI ARTIFICIALI:

I contraccettivi ormonali sono sostanze ormonali di sintesi, ovvero sostanze molto simili agli ormoni prodotti normal-
mente dall’organismo femminile. In realtà negli ultimi anni si stanno studiando anche contraccettivi ormonali maschili,
ma il loro uso è ancora solo a livello sperimentale, a differenza di quelli femminili che vantano ormai decenni di utiliz-
zo pratico a livello di popolazione generale. Le sostanze utilizzate sono dei derivati sintetici degli estrogeni e del proge-
sterone, che sono tipici ormoni sessuali femminili.

Esistono dei contraccettivi orali, iniettabili o a deposito sottocute.

Tra i contraccettivi orali, che vengono indicati generalmente con il termine “pillola”, si trovano : la pillola classica o
monofasica, la pillola sequenziale (ora non più utilizzata), la pillola bifasica, trifasica, qudrifasica, la minipillola, la pil-
lola del giorno prima e la pillola del giorno dopo.

Tutte queste pillole hanno in comune il fatto di poter essere assunte per via orale e di essere costituite da estrogeni e
progestinci di sintesi; ciò che le differenzia sono appunto le diverse composizioni, quindi i diversi meccanismi di azione
e pertanto anche le diverse modalità di uso. Agiscono inducendo l’ipofisi a non stimolare con i propri ormoni le ovaie e
pertanto bloccando l’ovulazione; e oltre a questo effetto principale, determinano delle modificazioni sia a livello della
mucosa uterina che del muco cervicale, rendendo difficile la risalita degli spermatozoi nella cavità uterina e impedendo
l’annidamento dell’ovulo.

La pillola classica è costituita da estrogeni e progestinci di sintesi in quantità fissa in ogni pillola (monofasica). Posso-
no essere suddivise in pillole a basso e a medio dosaggio estrogenico in relazione alla diversa potenza ormonale conte-
nuta. Deve essere presa tutti i giorni per 21 giorni consecutivi, poi per 7 giorni si interrompe l’assunzione e questo indu-
ce una mestrauzione. E’ importante non dimenticare di assumere la pillola in quanto questa evenienza potrebbe pregiu-
dicare la completa efficacia della contraccezione.

Le pillole bifasica, trifasica e quadrifasica contengono i due ormoni (estrogeno e progesterone) in quantità diverse e
graduate in modo da ricalcare quanto avviene nell’organismo femminile durante il ciclo mestruale, salvo impedire
l’ovulazione.

A parte alcune controindicazioni all’uso (esempio: gravidanza in corso, diabete mellito, grave obesità ecc), che posso-
no essere rilevate durante la visita ginecologica, necessaria prima di intraprendere l’assunzione di queste sostanze che
sono a tutti gli effetti dei farmaci, si possono manifestare durante l’uso alcuni effetti collaterali quali nausea, tensione
mammaria e leggero sanguinamento intermestruale (spotting). Molti studi hanno evidenziato un aumento rischio di alte-
razioni che riguardano i fattori di coagulazione del sangue, d’altra parte tra i vantaggi abbiamo che la pillola rappresen-
ta il metodo contraccettivo più sicuro e la sua efficacia è praticamente totale se viene utilizzata in modo corretto.

Nella mini-pillola è contenuto solo un progestinico a basse dosi e deve essere assunta tutti i giorni, anche durante le
mestrauzioni; l’effetto contraccettivo è inferiore piochè non contenendo l’estrogeno è ridotto l’effetto di blocco ormona-
le sull’ipofisi e quindi sull’ovaio e sull’ovulazione, rimangono invece gli effetti sulla mucosa uterina e sul muco cervi-
cale. Un possibile rischio nell’uso di questo contraccettivo rimane quello di una gravidanza ectopica, ovvero di una gra-
vidanza in sede diversa dalla cavità uterina, esempio in una tuba, ove si può annidare un eventuale ovulo fecondato.

Altri contraccetivi orali sono la pillola del giorno prima e la pillola del giorno dopo. Sono pillole estro-progestiniche
che vengono usate per pochi giorni in dosi molto elevate prima o all’indomani di un rapporto sessuale ritenuto “a ri-
schio di gravidanza”. Nel caso di queste pillole l’effetto può essere quello dell’impedimento dell’annidamento di un
ovulo già fecondato. L’effetto è massimo entro le prime 24 ore del rapporto e diminuisce progressivamente fino ad esse-
re nullo dopo le 72 ore. A causa dell’alto dosaggio ormonale, questo tipo di pillola non può essere utilizzata regolar-
mente e nè ad intervalli troppo ravvicinati a causa degli effetti collaterali talvolta importanti.

CONTRACCETTIVI CHIMICI MASCHILI:

Negli ultimi anni studi ed esperimenti vengono fatti anche sull’uomo per ottenere il blocco della spermatogenesi. Anche
in questo caso si sono studiati gli effetti degli androgeni, degli estrogeni e dei progestinci sul meccanismo delle forma-
zione degli spermatozoi, ma si sono incontrate difficoltà nell’ottenere un effetto di blocco della spermatogenesi senza
che venisse anche interessata la funzionalità sessuale del maschio, ovvero la libido (impulsi sessuali, il desiderio o at-
trattiva sessuale) e la potenza sessuale.

DISPOSITIVI INTRAUTERNI O IUD (intra-uternine device) O “SPIRALE”:

I dispositivi intrauterini sono dei piccoli apparati tra i 20 e 35 millimetri di grandezza, costituiti da un supporto di ma-
teriale adatto sul quale è avvolto a spirale un filamento di rame e può contenere o no una certa quantità di progestinico;
vengono inseriti nella cavità uterina con lo scopo principale di impedire l’annidamento dell’ovulo fecondato, ma anche
di ostacolare la stessa fecondazione.

Esistono diversi tipi di “spirale” con diverse forme e diversi materiali e una volta stabilito, dal ginecologo durante la vi-
sita, il medolle più adatto per la paziente viene inserits nella cavità uterina o può rimanere in utero anche per tre o cin-
que anni, mantenendo un efficacia contraccettiva. Tra i possibili rischi dell’uso di questo metodo c’è la possibilità di
espulsione della spirale.

L’annidamento dell’ovulo fecondato viene impedito mediante tre meccanismi:

- per effetto meccanico, in quanto la spirale dtermina sulla mucosa uterina una specie di reazione infiammatoria da cor-
po estraneo e questo diminuisce sia la capcità fecondante degli spermatozoi ma sopratutto la possibilità dell’annidamen-
to;

- per effetto biologico del rame che inibisce l’azione di sostanze indispensabili per l’impianto dell’ovulo fecondato ;

- e per effetto ormonale dell’eventuale progesterone presente nella spirale che modifica la mucosa endometriale renden-
dola inadatta all’impianto dell’ovulo e alterando il muco cervicale rendendo difficile la risalita degli spermatozoi nella
cavità uterina.

Tra i vantaggi di questo metodo contraccettivo possiamo considerare la elevata efficacia che può durare per anni e la co-
modità legata al fatto che la paziente non deve preoccuparsi di assumere regolarmente un farmaco contraccettivo. Tra
gli effetti collaterali si possono annoverare alcuni disturbi a livello uterino (mestrauzioni dolorose, aumeno delle perdite
vaginali) possibilità che lo spirale venga espulso anche inavvertitamente con conseguente rischio di gravidanza, possibi-
lità e poi anche infezio uterine.

METODI DI BARRIERA:

Tra i metodi di barriera possiamo distinguere i metodi per la donna, ovvero il diaframma, e i metodi per l’uomo, ovve-
ro il preservativo, chiamato anche profilattico o condom. Ad entrambi questi metodi di barriera meccanica possono es-
sere aggiunti anche i metodi di barriera chimica ovvero gli spermicidi.

Il diaframma è una calotta (struttura di forma convessa) di gomma o plastica sottile con un bordo più spesso montata
su un anello di metallo flessibile che si può flettere in due o tutte le direzioni, per agevolare l’introduzione in vagina. Il
diaframma deve essere inserito nel fondo della vagina e bloccato al suo interno in modo da isolare il collo dell’utero e
impedire pertanto l’entrata dello sperma nel canale cervicale. La donna lo applica da sola almeno un quarto d’ora prima
del rapporto sessuale utilizzando in aggiunta una crema spermicida, per aumentare l’efficacia contraccettiva. Dopo il
rapporto sessuale il diaframma non va tolto subito ma bisogna attendere almeno 8 ore; il diaframma anche se non da fa-
stidio non va tenuto in vagina oltre le 24 ore perchè determina una situazione antigenica.

Il preservativo è una guaina di gomma sottile che si infila e si srotola sul pene già in erezione e che al momento della
eiaculazione accoglie lo sperma. I preservativi attualmente in commercio sono opportunamente lubrificati e trattati an-
che con spermicidi che ne aumentano l’efficacia. Sono sottili ed influiscono in modo minimo sulla sensibilità di parth-
ner e non interferiscono sull’atto sessuale.
L’efficacia contraccettiva del preservativo dipede dalla sua integrità e dal suo uso corretto. Infatti è importante maneg-
giarlo con cura per evitare di lacerarlo; bisogna indossarlo sul pene eretto prima della penetrazione e non solo un pò pri-
ma del momento della eiaculazione, perchè nel liquido di secrezione che viene emesso dal pene durante l’eccitazione
potrebbero essere già presenti degli spermatozoi; bisogna ritirare il pene dalla vagina prima che l’erezione cessi e tenere
il profilattico tra le dita per evitare che si sfili dal pene e rimanga in vagina con possibile spandimento del liquido semi-
nale.
L’uso del preservativo offre molti vantaggi: infatti se usato correttamente è piuttosto sicuro; è di facile utilizzo; non ha
particolari contraddizioni ed è liberamente in vendita. Inoltre impedendo il contatto diretto tra le mucose genitali dei
due parthner elimina anche eventuai rischi di contaggio per le malattie infettive sessualmente trasmesse quali ad esem-
pio epatiti e AIDS.

Gli spermaticidi sono sostanze chimiche che uccidono gli spermatozoi quando si trovano ancora in vagina. Esistono di-
versi tipi di spermicidi in commercio, venduti sotto forma di caspule, ovuli e creme, ed è importante sottolineare che
sono poco efficaci se usati da soli, infatti devono essere utilizzati associandoli ad altri metodi tipo il diaframma o il pre-
servativo.

STERILIZZAZIONE:

La sterilizzazione volontaria, a livello mondiale, è molto diffusa. Non è però corretto considerare questa pratica un ve-
ro metodo contraccettivo in quanto gli manca il requisito della reversibilità per inserirlo tra i contraccettivi veri e propri,
per questo motivo può essere preso in considerazione solo da coloro che non intendono più avere figli. La sterilizzazio-
ne femminile consiste nella intterruzione chirurgica delle due tube che uniscono le ovaie all’utero, che possono essere
legate e tagliate oppure interrotte con anelli. Bloccando le tube si impedisce all’ovulo liberato dall’ovaio durante l’ovu-
lazione di incontrare gli spermatozoi e di essere fecondato. La sterilizzazione machile consiste nell’interruzione chirur-
gica dei due condotti deferenti(verso, nei confronti, si mostrano), che trasportano gli spermatozoi dei testicoli alle ve-
scichette seminali da dove verranno espulsi durante l’eiaculazione. Pertanto il maschio sterilizzato eiaculerà sperma
senza spermatozoi. L’intervento si chiama vasectomia e si pratica con una semplice incisione dello scroto.

COITO INTERROTTO:

Il coito interrotto è il metodo contraccettivo tuttora più diffuso in Italia. Viene praticato estraendo il pene dalla vagina
prima della eiaculazione, in modo che l’emissione dello sperma avvenga fuori dalla vagina. E’ un metodo contraccetti-
vo non molto efficace poichè c’è la possibilità che il liquido che esce dal pene in erezione prima della eiaculazione pos-
sa contenere degli spermatozoi e inoltre può succedere che l’uomo non riesca a estrarne il pene in tempo. Così pure nel
caso di un secondo rapporto ravvicinato, bisogna tenere presente che alcuni spermatozoi possono essere rimasti
nell’uretra maschile ed essere quindi emessi durante l’erezione e l’eccitazione con il liquido pre-eiaculatorio.

METODI NATURALI:

I metodi contraccettivi naturali consistono in pratica nella astensione dai rapporti sessuali con penetrazione durante il
periodo fecondo di ogni ciclo mestruale, ovvero nei giorni vicini alla ovulazione. Questi metodi ritmici si basano su al-
cune premesse e cioè: che generalmente avviene una sola ovulazione per ciclo, che l’ovulo rimane fecondabile per non
più di 24-36 ore e che gli spermatozoi rimangono vitali per circa 4 giorni. Pertanto potendo prevedere il momento della
ovulazione, l’astenersi dai rapporti sessuali alcuni giorni prima e alcuni giorni dopo si può evitare la fecondazione. Per
questi metodi il problema è quindi individuare con facilità e sicurezza il momento della ovulazione.

IL METODO OGINO-KNAUS:

Con il metodo Ogino-Knaus si calcola il periodo di astinenza sessuale in questo modo: inanzitutto si osservano per di-
versi mesi le durate dei cicli mestruali e partendo dal primo giorno delle mestruazioni si vedrà che ci saranno cicli più
lunghi e cicli più brevi. Quindi si sottraggono 18 giorni dal ciclo più breve, individuando così il primo giorno dell’inizio
dell’astinenza, quindi si sottraggono 11 giorni dal ciclo più lungo, individuando così l’ultimo giorno del periodo di asti-
nenza (grosso modo per molte donne questo periodo va dall’ottavo al diciannovesimo giorno del ciclo). Questo metodo
se i cicli fossero davvero uguali e l’ovulazione fosse sempre costante sarebbe un ottimo metodo, senza interfernze mec-
caniche sul rapporto e senza interfernze farmacologiche sull’organismo, ma piochè così non è nè consegue che è un me-
todo del tutto poco efficace e quindi controindicato quando si vuole assolutamente evitare una gravidanza.

IL METODO DELLA TEMPERATURA BASALE:

Durante il ciclo mestruale la temperatura corporea della donna subisce delle variazioni, infatti si mantiene bassa du-
rante la mestruazione e il periodo successivo, si nota una ulteriore lieve diminuzione subito prima della ovulazione per
poi aumentare, fino alla mestruazione successiva, per l’effetto del progesterone, l’ormone della gestazione. Ogni donna
ha una propria temperatura basale ma comuqnue in tutte si ha il rialzo termico post-ovulatorio. Su questi dati scientifici
si fonda il metodo contraccettivo della temperatura basale. Per applicare questo metodo la donna deve riconoscere le
minime variazioni della propria temperatura, e questa capacità l’acquisisce con l’esperienza di diversi mesi, durante i
quali la donna deve misurare la temperatura (orale o vaginale o anale) tutte le mattine a digiuno prima di alzarsi e di
compiera qualsiasi attività. Riportando i dati su un diagramma è possibile stabilire il giorno della ovulazione e quindi
astenersi dai rapporti sessuali nel periodo considerato fertile della ovulazione e quindi astenersi dai rapporti sessuali nel
periodo considerato fertile che va da circa cinque giorni prima a quattro giorni dopo l’ovulazione. Questo è un metodo
di frequente variabilità pertanto poco efficace.

IL METODO BILLINGS:

Il metodo Billings prende il nome da due coniugi australiani che lo hanno studiato, diffuso e sostenuto. E’ basato sul
principio fisiologico che si possono osservare delle modificazioni fisico-chimiche del muco cervicale, prodotto a livello
della cervice uterina e presente nelle perdite vaginali, modificazioni che si determinano a seconda che il muco sia pro-
dotto prima, durante o dopo l’ovulazione. Infatti sotto l’influsso ormonale le caratteristiche chimiche e fisiche del muco
si modificano, passando, dopo la mestruazione, da un periodo di scarsa sensazione di presenza di fluidi fino al momento
della ovulazione con un aumento di muco che diventa anche più fluido, trasparente ed elastico (muco ovulatorio) per
poi diventare per qualche giorno opaco ed appiccicoso e quindi ridursi es essere quasi inapprezzabile. Il periodo fertile
individuabile con la presenza del muco ovulatorio deve coincidere, ovviamente, con il periodo di astinenza sessuale.
Anche questo metodo non è molto efficace.

I COSIDETTI METODI SINTOTERMICI:

Sotto questa denominazione vengono considerati quei metodi formulati da alcuni ricercatori utilizzando l’associazione
di vari segni e sintomi collegabili con l’ovulazione, primi fra tutti le variazioni della temperatura basale e le modifica-
zioni del muco cervice. Essendo la somma di vari metodi sono i più sicuri tra i metodi naturali, ma sono anche i più
macchinosi e suscettibili di notevoli variazioni soggettive nella interpretazione dei vari segni e sintomi che stanno alla
base del metodo.

DATI EPIDEMIOLOGICI:

Da una indagine svolta dall’Associazione dei Ginecologi Ospedalieri Italiani su un campione di 5000 donne che, in tut-
to il territorio nazionale hanno richiesto una interruzione volontaria di gravidanza, emerge un quadro per molti versi
preoccupante: le donne italiane, pur essendo colte ed informate ricorrono ancora raramente alla contraccezione. Infatti
solo il 30% adotta un metodo efficace, oltre il 35% non usa alcun metodo contraccettivo e più del 34% ricorre al coito
interrotto. La pillola è usata dal 5,5% e il profilattico dal 14,5%.
CALEDARIO VACCINALE:

Il Calendario vaccinale, incluso nel Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale (PNPV) 2017-2019, approvato in Conferen-
za Stato-Regioni con Intesa del 19 gennaio 2017, è stato inserito nel DPCM sui Livelli Essenziali di Assistenza (LEA).

Decreto legge vaccini

L’obiettivo del Decreto legge 7 giugno 2017, n.73, “Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale”, come
modificato dalla Legge di conversione 31 luglio 2017, n.119 è di contrastare il progressivo calo delle vaccinazioni, sia
obbligatorie che raccomandate, in atto dal 2013 che ha determinato una copertura vaccinale media nel nostro Paese al di
sotto del 95%. Questa è la soglia raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per garantire la cosiddetta
“immunità di gregge”, per proteggere, cioè, indirettamente anche coloro che, per motivi di salute, non possono essere
vaccinati.

Il Decreto legge vaccini ha aumentato il numero di vaccinazioni obbligatorie per i minori da zero a 16 anni, e per i mi-
nori stranieri non accompagnati, estendendole da 4 a 10 in base all'anno di nascita. La vaccinazione per la varicella è
obbligatoria soltanto per i nati a partire dal 2017. Esso prevede infatti le seguenti vaccinazioni obbligatorie:

• anti-poliomielitica
• anti-difterica
• anti-tetanica
• anti-epatite B
• anti-pertosse
• anti-Haemophilus influenzae tipo b
• anti-morbillo
• anti-parotite
• anti-rosolia
• anti-varicella

Sono, inoltre, indicate ad offerta attiva e gratuita, da parte delle Regioni e Province autonome, ma senza obbligo vacci-
nale, le vaccinazioni:

• anti-meningococcica B
• anti-meningococcica C
• anti-pneumococcica
• anti-rotavirus.

Le vaccinazioni obbligatorie sono offerte gratuitamente e attivamente dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e devono
tutte essere somministrate ai nati dal 2017.

Ma nel PNPV 2017-2019 sono altresì indicate in offerta attiva e gratuita anche le vaccinazioni antipapilloma virus
(HPV) nei dodicenni e anti-meningococcica tetravalente ACWY nell’adolescenza, che ovviamente mantengono il loro
importante ruolo all’interno di una cornice di offerta vaccinale che mira alla protezione della popolazione fino all’età
avanzata, sia attraverso i richiami periodici sia mediante vaccinazioni raccomandate specificatamente per l’anziano.

Bambini da zero a 6 anni

Ciclo di base di 3 dosi nel primo anno di vita e richiamo a 6 anni:

• Anti-poliomielite
• Anti-difterica
• Anti-tetanica
• Anti-pertosse
• Anti-meningococcica B
• Anti-rotavirus
• Anti-pneumococcica

Ciclo di base di 3 dosi nel primo anno di vita:


• Anti-epatite virale B
• Anti-Haemophilus influenzae tipo b

Una dose nel secondo anno di vita


• Anti-meningococcica C
Una dose nel secondo anno di vita e richiamo a 6 anni
• Anti-morbillo
• Anti-parotite
• Anti-rosolia
• Anti-varicella

Adolescenti Richiami per:


• Anti-poliomielite
• Anti-difterica
• Anti-tetanica
• Anti-pertosse

Due dosi a 12 anni


• Anti-HP (sia per le ragazze che per i ragazzi)

Adulti Una dose a 65 anni:


• Anti-pneumococcica
• Anti-zoster

Una dose ogni anno


• Anti-influenzale

2020: PANDEMIA DA COVID-19

ANTEFATTI

Nel novembre 2002 a Canton in Cina si è manifestata per la prima volta una polmonite atipica. Questa malattia, definita
in seguito SARS (acronimo inglese “Severe Acute Respiratory Syndrome” ovvero Sindrome respiratoria acuta severa),
ha determinato una epidemia fino al luglio 2003 con circa 8000 casi e circa 800 morti diffondendosi in diversi Paesi
dell’Estremo Oriente, soprattutto in Cina e ad Hong Kong. Fu identificata per la prima volta dal medico italiano Carlo
Urbani, medico microbiologo che allora lavorava in Vietnam per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) con
l’Organizzazione non governativa “Medici senza frontiere”. Il dott. Carlo Urbani, dopo aver avvertito l’OMS e fatto
adottare opportune misure di quarantena, è deceduto perché anche lui infettato dal virus responsabile della SARS.

Il virus in causa era un Coronavirus ovvero virus così chiamati perché al microscopio elettronico presentano delle gli-
coproteine superficiali, chiamate proteine Spike, che danno un'immagine che ricorda una corona reale. Queste glicopro-
teine permettono al Coronavirus di attaccarsi alla membrana cellulare delle cellule bersaglio e funzionano da antigeni,
cioè determinano nell’ospite la formazione di anticorpi anti-proteina S. I Coronavirus sono stati scoperti negli anni ses-
santa dalle cavità nasali dei pazienti con raffreddore comune.

Tutti i Coronavirus sono virus a RNA e diversi Coronavirus provocano nell’uomo infezioni delle vie respiratorie che
possono essere di lieve entità, come il comune raffreddore, ma anche infezioni potenzialmente letali come bronchiti o
polmoniti. E’ stato denominato SARS-CoV il Coronavirus che causava la SARS.

COVID-19

Nel dicembre del 2019 nella città di Wuhan in Cina ci furono i primi casi di pazienti che presentavano una sindrome re-
spiratoria acuta grave simile alla SARS ma che non era causata dal Coronavirus responsabile della SARS (ovvero
SARS-CoV). In causa è stato identificato un altro Coronavirus che è stato denominato quindi SARS-CoV-2 e la malattia
infettiva acuta conseguente, con sintomi prevalentemente respiratori, ma anche di altro tipo, è stata denominata CO-
VID-19 (dall’acronimo inglese “COronaVIrus Disease” ovvero la malattia da Coronavirus, identificata nell’anno 2019).
Ad inizio gennaio del 2020 sembrava che questa malattia infettiva interessasse solo la popolazione della città di Wuhan
e zone limitrofe della Cina ma ben presto altri casi si manifestarono in diversi Paesi del Mondo, inizialmente in cittadini
di origini cinesi che rientravano da un viaggio in Cina ma già a febbraio si manifestarono anche i primi casi autoctoni;
in Italia il primo caso si è manifestato a fine febbraio 2020 nel comune di Codogno in provincia di Lodi. Poiché aumen-
tavano rapidamente sia le nuove infezioni, con anche molti casi letali, che i Paesi interessati, il giorno 11 marzo 2020 il
Direttore Generale dell’OMS, Ghebreyesus, ha dichiarato che COVID-19 si caratterizzava come pandemia.

TRASMISSIONE. SINTOMI. DIAGNOSI


Come per altre malattie che hanno sia come via di eliminazione che come via di penetrazione dei microrganismi l’appa-
rato respiratorio, la trasmissione da uomo a uomo del virus SARS-CoV-2 avviene per via semidiretta, ovvero una tra-
smissione indiretta nella quale però la distanza spaziotemporale tra sorgente di infezione e soggetto recettivo sano è
molto limitata. I veicoli in causa in questo tipo di trasmissione sono le micro-goccioline (droplet) che vengono disperse
sotto forma di aerosol dall’individuo mentre parla, canta, tossisce, starnutisce. I soggetti recettivi sani devono però tro-
varsi in un raggio di circa 1-2 metri dalla sorgente di infezione. Altro modo di infettarsi è quello di toccarsi con le mani
gli occhi, il naso o la bocca dopo aver toccato superfici o oggetti che presentano i virus. All’inizio della diffusione della
malattia sembrava che l’individuo sorgente di infezione potesse disseminare i virus con una carica infettante valida solo
in caso di malattia manifesta. Ben presto si accertò che anche i soggetti in fase di incubazione, cosiddetti portatori sani,
possono essere contagiosi così come lo possono essere i soggetti malati ma asintomatici.

Il virus SARS-CoV-2 una volta penetrato nell’organismo del soggetto recettivo sano si lega alla membrana della cellula
bersaglio mediante le proteine Spike, presenti su tutta la superficie del virus (quelle che conferiscono la caratteristica
immagine a “corona”). Le proteine Spike si legano a particolari recettori, chiamati ACE2, presenti sulle cellule bersa-
glio e questo tipo di recettore si trova in modo abbondante nelle cellule dei polmoni ma anche in altri organi come sto-
maco, intestino e cuore. I sintomi più frequenti della malattia sono febbre, tosse, cefalea, astenia, dolori articolari e mu-
scolari, congestione nasale, respiro corto ma possono esserci anche vomito, diarrea, congiuntivite, eruzioni cutanee. Al-
cuni sintomi sono abbastanza suggestivi dell’infezione ovvero anosmia (perdita dell’olfatto) e disgeusia (alterazione del
gusto).

I casi lievi possono essere curati a casa mentre i casi nei quali i sintomi peggiorano ed evolvono verso la polmonite de-
vono essere ricoverati in ospedale e in caso di insufficienza respiratoria sono trasferiti in terapia intensiva per una venti-
lazione meccanica che può essere non invasiva (maschere) oppure invasiva (intubazione) con somministrazione di ossi-
geno ad alta pressione. A seguito dell’infezione da SARS-CoV-2 in alcuni soggetti si determina una reazione iperin-
fiammatoria con l’innesco di una cosiddetta “sindrome da rilascio di citochine” (sostanze che hanno un ruolo importan-
te nell’attivazione della reazione infiammatoria e della reazione 0 2 4 6 8 10 12 14 Tasso di letalità per età in differenti
nazioni (%) 0-9 10-19 20-29 30-39 40-49 50-59 60-69 70-79 >80 Cina Corea Italia immunitaria). Questa “tempesta di
citochine” pregiudica la prognosi dei soggetti malati di COVID19, soprattutto se di età avanzata (superiore a 70 anni) e
già portatori di patologie debilitanti (obesità importante, diabete, malattie croniche cardiache e respiratorie, cancro, ma-
lattie con immunodepressione).

Per la diagnosi di COVID-19 si fa ricorso alla identificazione del genoma virale (molecola di RNA), tramite un test mo-
lecolare PCR (Polymerase Chain Reaction ovvero Reazione a Catena della Polimerasi) su campione biologico (muco)
prelevato tramite un Tampone Naso-Faringeo (TNF). La presenza del genoma virale, ovvero del virus SARS-CoV-2, de-
termina la positività del test.

PREVENZIONE

La pandemia da virus SARS-CoV-2 si potrà limitare interrompendo la catena di trasmissione tra uomo e uomo. Poiché
la trasmissione della malattia è di tipo semidiretto (droplet respiratori che contengono i virus e che sono disseminati dai
soggetti infetti e/o malati, sintomatici o asintomatici) occorre limitare i contatti con persone infette e/o malate (quindi
positive al test molecolare) o potenzialmente infette e/o malate (ovvero non ancora sottoposte a TNF).

Se un soggetto risulta positivo al test deve essere posto in “isolamento” ovvero isolarlo dalle altre persone per bloccare
la trasmissione del virus. I soggetti venuti a “contatto” con una persona COVID19 positiva (malati manifesti o malati
asintomatici o infetti) devono essere posti in “quarantena” ovvero devono “aspettare” per capire se svilupperanno la
malattia o meno, eventualmente accertata in seguito con il tampone naso-faringeo. Se svilupperanno la malattia queste
persone saranno poste poi in isolamento.

Per limitare la diffusione del virus sono state adottate delle misure che comprendono:

• l’utilizzo di mascherine che coprono naso e bocca, le quali trattengono le micro-goccioline (droplet) disseminate dai
soggetti positivi al COVID-19;
• il distanziamento sociale, ovvero mantenere una distanza tra soggetti almeno superiore ad un metro;
• il frequente lavaggio (acqua e sapone) o disinfezione (gel a base di cloro o di etanolo) delle mani.

Viene ulteriormente suggerita la sanificazione frequente dei mobili, degli attrezzi, degli strumenti sui quali si possono
essere depositati i virus e quindi passare alle mani che utilizzano questi attrezzi/strumenti (e dalle mani agli occhi e/o al-
la bocca e/o al naso).

Per arrivare ad un vero controllo della pandemia sarà importante poter vaccinare più persone possibili, e non solo in Ita-
lia ma anche in Europa e in tutto il mondo. Diversi scienziati, industrie e altre organizzazioni in tutto il mondo stanno
sperimentando vari tipi di vaccini. I vaccini sono testati prima in laboratorio poi sugli animali e infine su volontari uma-
ni. Gli studi devono quindi poter confermare l’efficacia e la sicurezza dei vaccini e che i loro benefici siano superiori a
qualsiasi potenziale effetto collaterale o rischio. Alcuni di questi vaccini hanno già superato la terza fase di sperimenta-
zione e, dopo essere stati approvati sia dall’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) che dall’Agenzia Italiana del Farma-
co (AIFA), sono disponibili e somministrati alla popolazione. L’efficacia dei vaccini si determina valutando la risposta
immunitaria innescata dopo la somministrazione (una dose unica o due dosi distanziate, a secondo del tipo di vaccino)
ovvero misurando quanti anticorpi contro la proteina Spike si sono formati nel soggetto vaccinato. Con l’andare della
campagna vaccinale si potrà valutare anche per quanto tempo questi anticorpi saranno in grado di proteggere il soggetto
vaccinato. Quando si raggiungerà una percentuale di almeno il 70% di soggetti vaccinati si potrà parlare di “immunità
di gregge” detta anche “immunità di comunità” intendendo quella situazione nella quale l’alta percentuale di soggetti
vaccinati impedisce al virus di circolare nella comunità e quindi saranno protetti anche gli individui, che per vari moti-
vi, non sono stati vaccinati.

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