Svevo e Leopardi
Svevo e Leopardi
Svevo e Leopardi
Michela Rusi
1. Scarse anche le tracce extratestuali, per le quali si veda il saggio di Palmieri 2000. Al
medesimo si rinvia anche per un primo, sistematico bilancio della presenza leopardiana
nell’opera di Svevo compiuto da un’angolazione prevalentemente di tipo comparativo e pro-
blematico-esistenziale. Va da sé che sia per Leopardi che per le altre fonti da lui utilizzate il
problema è connesso a quello della biblioteca dello scrittore triestino, andata distrutta dalla
bomba che colpì Villa Veneziani nel febbraio 1945. Di grande interesse in questa direzione
Palmieri 1994. Le indagini sugli autori che hanno contribuito alla biografia intellettuale
di Svevo e che si inseriscono nel problema critico del suo «dilettantismo» – del quale pro-
blema l’origine prima, è noto, si deve allo scrittore stesso – ancora proseguono. Segnalo
in questa sede Vacante 2002; inoltre l’avvincente saggio di Volpato 2011 che racconta le
fasi e i modi del ritrovamento da parte sua di 71 volumi appartenuti allo scrittore. Ancora
Simone Volpato e Riccardo Cepach sono coautori di Alla peggio andrò in biblioteca (2013).
A sua volta, Riccardo Cepach si era già occupato della perduta libreria dello scrittore in
Cepach 2012, saggio nel quale racconta l’esperimento da lui tentato di decifrare i volumi
di Svevo conservati nell’armadio-libreria che si vede alle spalle dello scrittore in due, note,
istantanee scattate intorno al 1911.
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nel tragitto dalla stazione verso casa si ritrova a contatto con il proprio
passato. La situazione è quella da ricordanza leopardiana, e il prece-
dente traspare dalla ricorrenza della frase esclamativa, dal confronto
tra la condizione protetta della sua vita finché garantita dalla presenza
paterna e quella attuale che Alfonso fa nell’attesa di rivedere la madre
malata; infine, dalla presenza di tessere lessicali facilmente riconoscibili
come di ascendenza leopardiana.
Si legga il seguente passaggio:
La tristezza che lo assalì in quella prima stanza, ove attendeva di venir chia-
mato e che riconosceva ad onta che non vi fosse alcun oggetto che aiutasse i suoi
ricordi, non era tutta risultato del trovare sua madre ammalata. Questa a cui egli
sentiva di andare ad assistere era una delle sventure della sua vita. Grandissima
era stata quella della morte del padre! In quei luoghi, dinanzi al villaggio e alla
casa e in quella prima stanza, dacché aveva abbandonato la ferrovia, egli si sen-
tiva accompagnato dal suo ricordo. La bella gioventù che gli aveva fatto passare:
quanto tranquilla, protetta! La famiglia doveva certo aver passato delle brutte
epoche ed egli nulla ne aveva saputo, né durante la prima gioventù in villaggio,
né poi in città ove il vecchio Nitti per qualche tempo aveva tentato invano di farsi
una clientela. Quanta bontà e quanta rassegnazione! Non s’era lagnato mai il
vecchio e le esperienze fatte dal padre non avevano rubato le illusioni al figliuolo
[Svevo 2004, pp. 259-260].2
2. Qui e in seguito, i corsivi e i puntini di sospensione posti fra parentesi quadre sono
da intendersi come nostri.
3. Il sintagma prima gioventù ricorre ampiamente in Leopardi, sia in prosa (Zibaldone
compreso) che in poesia. Frequenti sono anche le varianti prima giovinezza e prima giova-
nezza. In Una vita, oltre all’esempio citato, ho riscontrato ancora tre ricorrenze del sintag-
ma prima gioventù (Svevo 2004, pp. 155, 291, 310), mentre in Senilità e nella Coscienza di
Zeno una in entrambi i romanzi (rispettivamente alla p. 462 e alla p. 685).
Come si può leggere, ben più dell’eco leopardiana avvertibile nel pas-
saggio di Una vita sopra citato è presente in quello ora in esame, dove
al cielo chiaro del notturno precedente si sostituisce una più aperta
memoria da La sera del dì di festa nella «notte stellata chiara», mentre
l’assenza anche in questo caso della luna pare rispondere ad una sfu-
matura di voluta (forse polemica) opposizione al modello leggibile nella
congiunzione avversativa: «ma senza luna».
Ma non si tratta solo di notte e di luna in praesentia o in absentia, per-
ché il passaggio in esame di Senilità pare riecheggiare non solo l’incipit
ma anche l’explicit della Sera leopardiana, qui richiamata nel «silenzio
universale» nel quale si spegne il rumore di un carro.4
Non più memoria scolastica come in Una vita, né propriamente cita-
zione, l’allusione leopardiana iscrive già in partenza la vicenda del rap-
4. Il precedente più immediato è, con evidenza, La sera del dì di festa, per la descrizione
di apertura («Dolce e chiara è la notte e senza vento | E queta sovra i tetti e in mezzo agli
orti | Posa la luna, e di lontan rivela | Serena ogni montagna»), ma anche per i versi con-
clusivi: «[…] ed alla tarda notte | Un canto che s’udia per li sentieri | Lontanando morire
a poco a poco, | Già similmente mi stringeva il core» (Leopardi 1987, p. 50). Da osservare
che riguardo questi ultimi versi, cioè la situazione di un suono, un canto e simili che si ode
spegnersi in lontananza – sulla quale Leopardi si soffermerà a riflettere anche nello Zibal-
done per il piacere che essa desta e che egli collega all’idea dell’infinito (cfr. la riflessione
del 16 ottobre 1821 [1.927-1.930], in Leopardi 1997, t. i, pp. 1307-1308) – se nel passo sopra
riportato da Senilità si parla di «un carro», la memoria del modello pare richiamata con
maggior puntualità all’inizio del capitolo xii: «Alcuni villici passavano cantando per una via
vicina e il loro canto monotono chiamò poi sempre le lagrime agli occhi di Emilio» (Svevo
2004, p. 573). Il silenzio universale del passo sveviano, inoltre, se rinvia ai vv. 38-39 sempre
de La sera («Tutto è pace e silenzio, e tutto posa | Il mondo»), potrebbe anche essere sin-
tagma originato mediante saldatura dalla memoria della conclusione dell’operetta Cantico
del gallo silvestre: «parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle
cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima
empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza
universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi» (Leopardi 1988,
p. 165). È anche utile ricordare che l’aggettivo superlativo lunghissimo richiama una forma
prediletta dal poeta di Recanati.
porto fra Emilio e Angiolina all’interno dell’antitesi fra vero (la realtà di
costei) e illusioni (i sogni di quello); inoltre, la sottopone fin dalle prime
battute alla lente ironica del narratore grazie alla distanza che si crea fra
la riflessione cosmica della Sera e la banalità della vicenda nella quale
essa viene calata.
Personaggio autenticamente tragico di Senilità sarà invece Amalia,
che nel proprio delirio amoroso per Stefano Balli vivrà fino all’autodi-
struzione la radicalità inestinguibile del desiderio che costituisce uno
dei temi portanti de La coscienza di Zeno.
Non si è forse ancora notato abbastanza, infatti, che il «meraviglioso
e labirintico ‘chiacchiericcio’» (Del Giudice 2003, p. xxiv) mediante il
quale Zeno ripercorre avanti e indietro la propria vita nei blocchi tema-
tici che costituiscono i capitoli del libro trova la propria unità profonda
nelle categorie del tempo e del desiderio; ma, si potrebbe anche dire,
nel «tempo del desiderio». Anche solo cursoriamente sia qui sufficiente
ricordare che l’ultima sigaretta che scandisce il quotidiano di Zeno, le
motivazioni della tragedia che per lui rappresenterà la morte del padre
e la spinta che lo renderà disponibile al tradimento coniugale trovano
un denominatore comune nella tensione a continuare il tempo di un
piacere sospeso e continuamente insidiato dal «leopardiano» terrore
del «non… più», il quale a sua volta alimenta il «desiderio», secondo
un meccanismo che l’io della Coscienza vorrebbe perpetuare all’infini-
to. Quando Zeno dichiara, ripercorrendo le tappe che lo portarono fra
le braccia di Carla: «da tanto tempo ero privo non d’amore, ma delle
corse che vi conducono» (Svevo 2004, p. 814) egli allude a quanto più
avanti definirà come «desiderio di intensificare la [sua] vita» (p. 870).5
In questo senso, l’ultima sigaretta – la migliore, la più gustosa, quella
meglio assaporata che Zeno può continuare a fumare per tutta la sua
vita – e l’ultimo incontro con Carla – che se dipendesse soltanto dalla
sua volontà egli continuerebbe a reiterare: «Io non domandavo Carla, io
volevo il suo abbraccio e preferibilmente il suo ultimo abbraccio» (Svevo
2004, pp. 907-908)6 – sono generati dal medesimo bisogno di rendere
più «intensa» la propria vita: «Penso che la sigaretta abbia un gusto più
intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma
meno intenso» (pp. 633-634).
5. Si rinvia, per questo aspetto, alle riflessioni di Leopardi nello Zibaldone sulla differen-
za fra vita ed esistenza, la prima distinta dalla seconda, appunto, per l’intensità, alla quale
tendono tutte le cose esistenti come al loro massimo piacere. Tra gli altri luoghi, rinvio a
Leopardi 1987, 31 ottobre 1823 (3.813-3.815), t. ii, pp. 2382-2384.
6. Riguardo «un altro ultimo abbraccio» che Zeno si aspetta quando l’avesse desiderato,
si leggano ancora le pp. 892-893.
Mia madre era morta quand’io non avevo ancora quindici anni. Feci delle
poesie per onorarla ciò che mai equivale a piangere e, nel dolore, fui sempre
accompagnato dal sentimento che da quel momento doveva iniziarsi per me una
vita seria e di lavoro. Il dolore stesso accennava ad una vita più intensa.7 Poi un
sentimento religioso tuttavia vivo attenuò e addolcì la grave sciagura. Mia ma-
dre continuava a vivere sebbene distante da me e poteva anche compiacersi dei
successi cui andavo preparandomi. Una bella comodità! Ricordo esattamente
il mio stato di allora. Per la morte di mia madre e la salutare emozione ch’essa
m’aveva procurata, tutto da me doveva migliorarsi.
Invece la morte di mio padre fu una vera, grande catastrofe. Il paradiso non
esisteva più ed io poi, a trent’anni, ero un uomo finito. Anch’io!8 M’accorsi per la
prima volta che la parte più importante e decisiva della mia vita giaceva dietro
di me, irrimediabilmente. Il mio dolore non era solo egoistico come potrebbe
sembrare da queste parole. Tutt’altro! Io piangevo lui e me, e me solo perché
era morto lui. Fino ad allora io ero passato di sigaretta in sigaretta e da una fa-
coltà universitaria all’altra, con una fiducia indistruttibile nelle mie capacità. Ma
io credo che quella fiducia che rendeva tanto dolce la vita, sarebbe continuata
magari fino ad oggi, se mio padre non fosse morto. Lui morto non c’era più una
dimane ove collocare il proposito [Svevo 2004, pp. 653-654].
7. Anche il rapporto fra dolore e intensità vitale, cioè il dolore come condizione che rende
più intensa la vita, è tema di riflessione già leopardiana. Mi limito qui a citare Leopardi
1987, t. i, pp. 170-171.
8. Evidente in questo passaggio il rapporto intertestuale ironico con il romanzo di Papini
Un uomo finito. Si veda al riguardo la nota 1 di Svevo 1994, p. 33.
9. Cfr. Svevo 2004, p. 939: «Era una notte ricca di stelle e priva di luna, una di quelle
notti in cui si vede molto lontano e perciò addolcisce e quieta. […] Nella bella, vasta notte
mi rasserenai del tutto e senz’aver bisogno di fare dei propositi».
10. Riguardo il meccanismo psicologico attivo in tale passaggio, Palmieri 2000, pp.
47-48, rinvia al xiii dei Pensieri di Leopardi, nel quale il poeta riflette sull’illusione degli
anniversari di far rivivere il passato. Come del resto – aggiungo – egli aveva già cominciato
a fare assai presto nello Zibaldone (60): «È pure una bella illusione quella degli anniversari
per cui quantunque quel giorno non abbia niente più che fare col passato che qualunque
altro, noi diciamo, come oggi accadde il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui
tanto sconsolato ec. e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né
possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola
infinitamente allontanandoci l’idea della distruzione e annullamento che tanto ci ripugna»
(Leopardi 1987, t. i, pp. 96-97). Confrontando tale riflessione, e in particolare il passaggio
«né possono più tornare» con il seguente di Svevo 2004, p. 635: «Eppoi il tempo, per me,
non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna», è certo
suggestivo ipotizzare una precisa volontà parodica dello scrittore triestino nei confronti di
Leopardi, da aggiungere a quella, a mio avviso evidente, nel passo che mi accingo sopra ad
esaminare. Il leopardismo di Svevo, cioè, potrebbe collocarsi nella linea di riduzione nove-
centesca del modello, che è sorte comune alle riprese da Leopardi, come ha ben chiarito
Lonardi 1974. Una versione rivista e ampliata è in Lonardi 1990. Vale anche la pena citare
quello che ritengo un altro significativo esempio di «riduzione» del modello alto leopardiano
nella Coscienza, che si legge nelle pagine conclusive, nel quale alcune parole chiave della
riflessione filosofica leopardiana vengono da Zeno utilizzate per parlare del suo rapporto
con le donne: «Gli altri abbandonavano la donna delusi e disperando della vita. Da me la
vita non fu mai privata del desiderio e l’illusione rinacque subito intera dopo ogni naufragio,
nel sogno di membra, di voci, di atteggiamenti più perfetti» (Svevo 2004, p. 1066).
Quanto emerge dall’immagine del giovane Zeno che civetta dalla fine-
stra con una fanciulla è l’allusione in trasparenza alla Silvia leopardiana,
che qui diventa di tipo parodico sia per il rovesciamento piuttosto clamo-
roso del comportamento di quella (che civetta sfacciatamente) rispetto
alla laboriosa riservatezza di questa («all’opre femminili intenta | Sedevi,
assai contenta | Di quel vago avvenir che in mente avevi», Leopardi 1987,
p. 50), sia perché alla vaghezza delle fantasticherie leopardiane si oppo-
ne qui la concretezza del desiderio erotico («La guardavo sognando di
premere quel biancore e quel giallo rosseggiante sul mio guanciale»).
Infine, perché al ricordo della propria inconcludenza di studente Zeno
si definisce «un imbecille», autorizzando il lettore a estendere tale pa-
tente non tanto al modello, ma, tramite questo, all’inettitudine dei suoi
personaggi precedenti, cioè Alfonso ed Emilio.
Nel «labirintico chiacchiericcio» di Zeno, nel suo dire contraddicen-
do e mantenendo come contemporanei e ugualmente validi punti di
vista diversi su di una medesima realtà, il rapporto intertestuale svolge
dunque un ruolo determinante. All’interno di tale rapporto con i testi
contemporanei e della tradizione, e che può essere ironico, parodico,
genericamente allusivo, la «funzione Leopardi» svolge un ruolo non
clamoroso ma preciso, e costante in tutto l’arco della scrittura di Svevo:
dalla memoria scolastica di Una vita, alla ripresa ironica attiva in Senilità
sin dalle prime battute del romanzo, all’allusività parodica con la quale
nella Coscienza Zeno riflette su di sé e sul proprio rapportarsi con le
categorie del tempo e del desiderio.11
Nel giovanotto «imbecille» che a Graz civetta dalla finestra Svevo
riassume le tragedie di Alfonso Nitti, di Emilio Brentani e della sorella
Amalia, e le supera e dissolve grazie all’ironia che nutre il paradosso e
si pone come alleata della ragione intelligente che rappresenta uno dei
lasciti più importanti dell’eredità di Leopardi.12
Bibliografia