Italiano Verismo e Verga

Scarica in formato pdf o txt
Scarica in formato pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 18

Verismo (Pag 153 - 156)

È bene chiarire innanzitutto quali sono i rapporti di filiazione e le differenze che si stabiliscono fra Naturalismo e
Verismo. Com’è risaputo, il Naturalismo, teorizzato inizialmente dal critico Hippolyte Taine in un suo articolo su
«Journal des débats» del 1858, nasce in Francia nella suggestione della corrente filosofica del Positivismo e
dell’opera del fisiologo Claude Bernard, Introduction à l’étude de la médecine expérimentale (1865). Le premesse
teoriche del “metodo” naturalistico - quali per esempio il tema dell’ereditarietà così centrale nel ciclo dei
Rougon-Macquart di Zola, venti romanzi pubblicati tra il 1871 e il 1893, che saranno di stimolo per la Prefazione ai
Malavoglia verghiani - provengono da questo sostrato di determinismo scientista. I naturalisti promuovono
dunque un modello di romanzo che, ponendosi al pari (e in diretta concorrenza) della Scienza, sappia analizzare i
mutamenti della società francese del Secondo Impero con obiettività fotografica, con “occhio clinico di
scienziato”, in modo da restituire la realtà con un atteggiamento di studio distaccato, come farebbe “un medico
che percorre le sale di uno spedale in mezzo a’ suoi ammalati, e niente gli sfugge” 1. Questo “metodo
sperimentale” si attua in forma narrativa attraverso un rigido canone dell’impersonalità tale per cui il narratore
deve rimanere nascosto e non far sentire la sua presenza all’interno della vicenda narrata. In tal senso - con la
Comédie Humaine di Honoré de Balzac (1799-1850) e soprattutto con l’opera di Gustave Flaubert (1821-1880) ed
Émile Zola (1840-1902) e senza dimenticare Guy de Maupassant o i fratelli Goncourt - il Naturalismo francese
supera modi e temi della letteratura romantica e tardo-romantica, ponendo sotto la lente della propria indagine
gli ambienti della piccola borghesia, del proletariato e del sottoproletariato urbano, colti molto spesso negli
aspetti più degradanti e con schietto realismo, e attraverso meccanismi narrativi di tipo mimetico restituisce
anche il linguaggio degli individui.
Il verismo italiano è invece elaborato alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento come assimilazione del
Naturalismo francese. Accanto alle analogie di fondo che accomunano le due correnti, le quali si configurano al
tempo come le evoluzioni più radicali del realismo ottocentesco, occorre però registrare le notevoli differenze che
fanno del Verismo una corrente letteraria originale e per questo motivo importante nel contesto europeo.
Principale fonte teorica del Verismo italiano - oltre al Verga di Fantasticheria, de L’amante di Gramigna o della
citata Prefazione ai Malavoglia - è allora Luigi Capuana (1839-1915), scrittore ed intellettuale catanese che, sulla
scorta di letture di Hegel (da cui mutua il concetto della funzione dell’arte nella Storia), De Sanctis e del filosofo
Camillo De Meis, approda ad alcune fondamentali formulazioni per “importare” i precetti del Naturalismo su suolo
italiano. La parentela stretta che Capuana, lettore appassionato di Zola, istituisce tra forme artistiche e forme
naturali e la superiorità dell’arte rispetto alla fotografia (e sono affermazioni che si trovano nella recensione di
Capuana a Vita dei campi) trovano forma completa in Per l’arte del 1895, in cui ricorrono le tematiche della
riflessione dello scrittore (l’importanza del genere "romanzo", la scientificità del lavoro dello scrittore, il rilievo
delle leggi deterministiche dell’ereditarietà, l’immaginazione artistica che dà vita ai “documenti umani”, il primato
assegnato alla “forma”). E ai presupposti teorici fa seguito per Capuana la produzione artistica, di livello
sicuramente inferiore ai grandi capolavori verghiani ma interessante per osservare il legame e la
compenetrazione tra riflessione metodologica e scrittura personale: da Giacinta (1879), romanzo dedicato a Émile
Zola sul “caso clinico” (desunto dalla cronaca vera) di una giovane che non riesce a superare il trauma e il senso di
colpa per una violenza infantile, Profumo (1890), sul complesso edipico di un giovane “inetto” (che quasi
preannuncia quelli di Svevo), e Il marchese di Roccaverdina (1901), sullo scoppio della pazzia di un nobile, roso dal
senso di colpa per un suo delitto impunito (trama che riporta alla memoria il Delitto e castigo Dostoevskij).
Altra voce da tenere in considerazione è quella di Federico De Roberto (1861-1927), la cui ricca produzione
narrativa, sulle orme dei “maestri” Verga e Capuana, si sviluppa tra racconti e novelle (Documenti umani, 1888;
Processi verbali, 1890) e romanzi (Ermanno Raeli, 1889; L’illusione, 1891; l’incompiuto L’imperio, edito postumo
solo nel 1929), fino al suo capolavoro, I Viceré (1894), cupo e grottesco affresco storico della Sicilia nei decenni
del Risorgimento, vista attraverso le vicende della famiglia nobiliare degli Uzeda. Anche De Roberto unisce
all’invenzione narrativa gli interessi di critico letterario e di teorico del movimento (come dimostrano i saggi di
Arabeschi, pubblicati nel 1883), mettendo in dubbio il canone dell’impersonalità o il presupposto dell’obiettività
del reale, o portando alle estreme conseguenze alcuni precetti di base del verismo, così che si avrebbe
“rappresentazione obiettiva” - per De Roberto - solo nel “puro dialogo”, come insegna il teatro (e si ricordi che
anche Verga opta, nello sviluppo della sua carriera, per la scrittura teatrale). In molte prefazioni ai suoi testi, De
Roberto torna spesso sul problema della “forma” (ribadendo come Capuana e sulla linea di De Sanctis il suo
primato sul metodo), e sulle risorse dell’analisi psicologica per indagare classi sociali (come quella alto-borghese
o nobiliare) del tutto antitetiche rispetto all’universo rurale e contadino verghiano.
Il variegato panorama del Verismo italiano, che conosce le sue maggiori fortune e le sue opere emblematiche nei
due decenni conclusivi del secolo XIX, sarebbe del resto incompleto senza il precedente storico del movimento
milanese della Scapigliatura, con cui le “tre corone” del Verismo intrattengono spesso stretti rapporti, soprattutto
nell’ottica comune di uno svecchiamento della tradizione nazionale. La battaglia degli scapigliati (tra gli altri:
Arrigo e Camillo Boito, Luigi Gualdo, Cletto Arrighi, Carlo Dossi, Iginio Ugo Tarchetti, Vittorio Imbriani) contro
l’ipocrisia e il moralismo borghese e contro un’idea di letteratura rimasta ferma al realismo romantico di Manzoni,
aggravata da una “rettorica” sentita come stantia e melensa, stimola in Verga la tensione verso “l’immediatezza”
della rappresentazione. Con il loro antagonismo, infatti, gli scapigliati hanno un ruolo cruciale anche nel
rinnovamento della novella, e la forma breve è una tappa fondamentale proprio in Verga, che da Milano inizia a
tracciare i bozzetti di alcune scene di vita paesane della sua Sicilia. D’altra parte gli scapigliati, “romantici in ira”,
nel loro maledettismo e nella disillusione post-risorgimentale veicolano già istanze opposte a quelle positivistiche
che invece vanno diffondendosi. In Verga, più radicalmente, la ricerca di una “letteratura della verità” si traduce
quindi per altre vie nel peculiare pessimismo del ciclo dei “vinti”, che porta alle estreme conseguenze la
riflessione sulla darwiniana legge del più forte: “sotto questo aspetto l’adesione al verismo significa anche
l’abbandono dell’atteggiamento esplicitamente polemico degli scapigliati, il quale in fondo nasceva ancora
dall’illusione romantica di incidere in qualche modo sulla società”.
Giovanni Verga (Pag 184 - 189)

Giovanni Verga nasce a Catania (o, secondo fonti meno attendibili, a Vizzini, dove la famiglia aveva terreni e
proprietà) il 2 settembre del 1840, in una famiglia dell’aristocrazia siciliana. Agli anni della prima formazione
sotto la guida di un intellettuale di formazione liberale, don Antonio Abate, fanno seguito i primi tentativi
letterari, ancora fortemente legati al modello del romanzo storico: nasce così Amore e patria, completato ma non
pubblicato dal giovane scrittore nel 1857. Si iscrisse alla facoltà di Legge dell’Università di Catania per
assecondare i desideri del padre (Verga nel 1861 abbandonerà di fatto gli studi), lavora intanto al secondo
romanzo, questa volta edito a proprie spese: I carbonari della montagna (1861-1862) in cui vengono raccontate,
sempre nel filone del romanzo storico, le vicende dei moti catanesi del 1810-1812. Nel frattempo, si arruolò nella
Guardia Nazionale (chiaro indizio dei suoi sentimenti patriottici), inizia a collaborare a settimanali politici e riviste
locali, quali il «Roma degli italiani» e «L’Italia contemporanea», e, più avanti, «L’Indipendente». Tra il 1862 e il
1863, Verga pubblica poi sul periodico fiorentino garibaldino «La Nuova Europa» il romanzo Sulle lagune,
ennesima tappa del suo lungo apprendistato letterario.

La prima svolta della carriera verghiana arriva però nel 1865, quando lo scrittore, soggiornando per alcuni mesi a
Firenze (che era da poco divenuta capitale del Regno), viene introdotto nei salotti e nei circoli letterari più noti;
pubblicato l’anno successivo il romanzo Una peccatrice" (di sapore autobiografico), Verga stringe quella che sarà
una duratura amicizia con Luigi Capuana e soprattutto dà alle stampe, nel 1870, Storia di una capinera per le
riviste milanesi «Corriere delle Dame» e «La ricamatrice». Il notevole successo del libro (pubblicato in volume nel
1871 ed incentrato sulla tragica vicenda di una monacazione forzata), induce l’autore a stabilirsi, per circa un
ventennio, nella città lombarda, dove entra in contatto con i più importanti scrittori, intellettuali ed editori di
quegli anni. In particolare, è con Treves che Verga inaugura una lunga (e talora travagliata) collaborazione
editoriale: nel 1873, Eva, romanzo iniziato negli anni fiorentini, presenta, con un occhio di riguardo al pubblico
femminile, l’infelice vicenda sentimentale ed artistica di un giovane pittore bohémien.
Questi però sono anche anni di messa in discussione dei propri principi di poetica e del proprio stile narrativo:
allo sfruttamento del filone delle opere più “commerciali” (come Tigre reale ed Eros, entrambi usciti per Brigola
nel 1875) si affiancano sperimentazioni di natura diversa, come quella Nedda, pubblicato sulla «Rivista italiana di
Scienze, Lettere e Arti», "bozzetto" che dà il via all’interesse per la realtà siciliana, poi tema privilegiato dei grandi
romanzi verghiani come I Malavoglia (che anzi proprio in Nedda trovano un primissimo nucleo genetico) e Mastro
don Gesualdo.

Affiancando d’ora in poi alla stesura delle opere maggiori una fitta produzione di novelle e racconti, Verga si avvia
a toccare il punto più alto della propria produzione, imprimendo alla propria penna una netta svolta in senso
realista, dovuta anche (ma non solo) alla lettura dei grandi modelli francesi, Flaubert e Zola su tutti. Già nel 1876
Primavera è un segnale esplicito in questa direzione; nel 1878 poi, esce sul «Fanfulla» la celebre novella Rosso
Malpelo, che solleva la questione dello sfruttamento delle classi popolari in Sicilia. L’anno successivo, sempre
sullo stesso periodico, vede invece la luce Fantasticheria, un'importante lettera in forma di monologo che l’anno
successivo confluisce, assieme ad altri testi, nell’importante raccolta Vita dei campi.
I Malavoglia, romanzo che apre quel “ciclo dei vinti” che nelle intenzioni dello scrittore voleva dare un quadro
complessivo della società dell’epoca e della “fiumana del progresso”, viene pubblicato a Milano nel 1881: al
grande rilievo letterario dell’opera, capolavoro del verismo verghiano, non corrisponde affatto l’apprezzamento di
gran parte del pubblico. Si apre così una nuova fase creativa: alla pubblicazione di raccolte di racconti (prima
usciti in rivista) nel corso degli anni ottanta e novanta dell’Ottocento (Novelle rusticane e Per le vie, 1883;
Vagabondaggio, 1887; I ricordi del capitano d’Arce, 1891; Don Candeloro e C.i, 1894) si affiancano fortunate
riduzioni teatrali di alcuni tra i testi brevi più noti di Verga, su tutte Cavalleria rusticana (1884). Nel frattempo, lo
scrittore lavora al nuovo romanzo, Mastro don Gesualdo, che verrà pubblicato sulla «Nuova Antologia» tra il 1°
luglio e il 16 dicembre del 1888 e poi in volume l’anno successivo.

Il successo del romanzo, soprattutto nella seconda edizione profondamente rivista, non allevia la profonda crisi
dello scrittore, che di fatto interrompe a quest’altezza il suo programma romanzesco ciclico: La duchessa di Leyra
verrà solo abbozzato negli anni successivi, che anzi vedono il definitivo rientro di Verga a Catania, e un
significativo rallentamento dall’attività di scrittura, che si concretizza solo, oltre che nella revisione di Vita dei
campi (1897), nel romanzo Dal tuo al mio (1903, tratto da un’opera teatrale) e nell’ultima novella (Una capanna e
il tuo cuore, pubblicata postuma).

Lo scrittore, a seguito di una trombosi cerebrale, si spegne a Catania il 27 gennaio del 1922.

Rosso malpelo
Rosso Malpelo è probabilmente la novella più famosa di Giovanni Verga. Attraverso la presentazione di un ragazzo
della classe più umile siciliana e delle vicende della sua breve vita, Verga ci offre un esempio perfetto della sua
poetica verista perché viene utilizzata per la prima volta la tecnica dell'impersonalità.
La novella viene pubblicata per la prima volta tra il 2 e il 5 agosto del 1878 nella rivista «Fanfulla della domenica»
e in seguito venne inserita in Vita dei campi (1880), la prima grande raccolta di novelle di Verga. La versione
definitiva risale al 1897.

(Verga trae ispirazione da un'inchiesta sul lavoro minorile)

Nella scelta dell’ambientazione e del tema l'autore si ispira a un dibattito molto attuale nella società dell’epoca,
quello sulle condizioni di lavoro nelle miniere e sullo sfruttamento del lavoro minorile. In particolare lo spunto
venne a Verga dall’inchiesta Il lavoro dei fanciulli nelle zolfatare siciliane di Leopoldo Franchetti e Giorgio
Sonnino, contenuta nel libro La Sicilia del 1876.
Come aveva già fatto per “Storia di una capinera”, in cui trattava il tema delle monacazioni forzate, anche qui
Verga si ispira a un problema sociale di attualità e si schiera dalla parte dei più deboli, dei vinti.

Rosso malpelo: Trama.

Malpelo reagisce ai maltrattamenti isolandosi


La novella inizia con la presentazione del personaggio di Malpelo, un giovane che lavora in una cava di sabbia
siciliana e che è ritenuto da tutti essere malvagio a causa dei suoi capelli rossi. Per questo motivo il giovane è
malvoluto dalla sua famiglia, che si vergogna di lui, e maltrattato dai suoi compagni di lavoro. In risposta a questo
Malpelo vive completamente isolato. Nel racconto si dice che lo tenevano a lavorare lì solo perché il padre era
morto nella cava in seguito al crollo di una parete. Viene descritta la morte del padre, a cui Malpelo è presente.
Tutti gli uomini giunti in soccorso rinunciano subito a salvarlo, giudicando l’impresa impossibile, e solo Malpelo
continua a scavare inutilmente per tirarlo fuori dalle macerie. Tornato a lavoro dopo la morte del genitore,
Malpelo è ancora più solitario e i compagni si accaniscono di più su di lui. Gli vengono affidati tutti i lavori più
duri e pericolosi e il ragazzo sfoga la sua rabbia contro un vecchio asino.

Malpelo conosce il giovane Ranocchio


A questo punto entra in scena un altro personaggio, il giovane Ranocchio, momentaneamente zoppo dopo un
incidente. Malpelo inizia a tormentare il ragazzo, ma in questo comportamento si cela il suo modo di essergli
amico e di prepararlo per il mondo. Viene descritto anche un ritorno a casa del protagonista, che si reca dalla
madre e la sorella. Le due donne però si vergognano di lui e non vedono l’ora che torni alla cava a lavorare.
In questo momento viene ritrovato il cadavere del padre, evento che sconvolge moltissimo Malpelo. Il ragazzo
prende i vestiti del genitore e inizia a tenerli con gelosia.

Altre morti segnano la vita di Malpelo


La scia di morti, però, non è finita: anche l’asino che Malpelo usava picchiare viene trovato morto e il suo cadavere
viene mangiato dalle bestie. Il protagonista porta Ranocchio a vedere la scena per dargli una lezione sulla vita, ma
il ragazzino non vivrà mai la vita a cui Malpelo lo sta preparando: Ranocchio, infatti, si ammala e Malpelo fa
appena in tempo ad andare a trovarlo prima che muoia.
Dopo la morte di Ranocchio arriva alla cava un uomo evaso di prigione che si sta rifugiando per sfuggire alla
cattura, ma che alla fine decide di andar via, preferendo il carcere alla vita sottoterra.

Come finisce Rosso Malpelo


Nel finale Malpelo viene mandato in esplorazione in una zona pericolosa della cava e non fa più ritorno,
presumibilmente morto nel labirinto dei cunicoli.
Il narratore verista
Rosso Malpelo come prima novella verista

L'uso della tecnica dell'impersonalità


Rosso Malpelo può essere considerata la prima novella del tutto verista di Verga. In Nedda (1874) aveva già
trattato l’argomento del mondo contadino siciliano, ma non aveva abbandonato il punto di vista esterno, quello del
narratore che descrive i fatti e li giudica. In Rosso Malpelo invece adotta la tecnica dell’impersonalità: l'autore
assume il punto di vista dell’ambiente che descrive.

Il narratore popolare
Verga descrive i fatti dal punto di vista della comunità

Il narratore di Rosso Malpelo è un narratore popolare, che ci racconta i fatti già conclusi. Non dobbiamo però
pensare che il narratore popolare corrisponda alla voce di un solo personaggio, in quanto esso rappresenta
piuttosto la voce di tutto il popolo, un coro, il punto di vista della comunità. Questo è evidente già nell’incipit della
novella: «Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo
malizioso e cattivo». Appare chiaro che questo non è il punto di vista di Verga, ma quello della gente del popolo e
in particolare degli abitanti del paese in cui Malpelo vive e lavora. Verga in quanto persona è completamente
assente e l’autore regredisce adottando un punto di vista che non è il suo.

il narratore è influenzato dal pregiudizio

A parlare è la voce del pregiudizio, che presenta una spiegazione irrazionale come perfettamente logica. Bisogna
sottolineare che l'utilizzo di questo punto di vista non comporta l’adesione dell’autore a ciò che viene detto. Al
contrario, il lettore va oltre ciò che il narratore popolare dice ed è indotto a contestare il pregiudizio, a svelarne la
falsità.
Ci troviamo allora di fronte a un narratore inattendibile alle cui parole non possiamo credere perché non riporta la
verità, ma un punto di vista distorto. Questo narratore non capisce le azioni di Malpelo e le attribuisce tutte alla
sua presunta malvagità derivante dai capelli rossi.
Lo straniamento
Lo straniamento tra i valori di Malpelo e la disumanità del narratore popolare

Per il lettore è chiaro che Malpelo ha dei valori autentici, come la pietà verso il padre, il senso della giustizia,
l’amicizia e la solidarietà. Il punto di vista del narratore, con i suoi pregiudizi e le sue incomprensioni, crea su
questi valori un effetto di straniamento. Questo accade perché il narratore è portatore di un punto di vista
disumano, che ignora i valori e conosce solo gli interessi privati e la logica del più forte.
Lo straniamento ha dunque l’effetto di negare che possano esistere dei valori in un mondo dominato dalla lotta
per la sopravvivenza, e in questo Verga esprime il suo pessimismo. Dall’altra parte l’insensibilità del narratore, che
dovrebbe apparire strana, appare invece normale: abbiamo qui uno straniamento al rovescio.

La lingua
Verga usa una commistione tra lingua colta e formule del dialetto siciliano

Il punto di vista è popolare ma la lingua usata ha a volte ancora caratteristiche del registro alto e letterario, o
perlomeno dell’italiano grammaticale. Essa accoglie molti elementi del parlato, ma non scende mai fino al
dialetto, la vera lingua parlata dal popolo alla fine dell’800.
Quello che Verga riprende dal siciliano è piuttosto l’immediatezza e la rapidità delle formule, che vivacizzano il
discorso e modernizzano le forme dell’italiano, creando una lingua più diretta e incisiva.

Il pessimismo di Malpelo

Malpelo è un emarginato, rifiutato dalla famiglia e dai compagni di lavoro. La sua diversità si riconosce in un
particolare fisico, i suoi capelli rossi in cui il popolo vede un segno di malvagità.
Come altri personaggi di Verga, Malpelo è vittima di una serie di sventure.
Per Malpelo la vita si configura come un’eterna lotta per la sopravvivenza dominata dalla legge del più forte. Lo
vediamo anche negli insegnamenti che dà a Ranocchio, con il quale intrattiene un rapporto ambiguo tra l’amicizia
e il bullismo. Il fine è far capire a Ranocchio che la vita è una lotta in cui dominano il male e l’ingiustizia. Dalla
vicenda di Ranocchio, così come dal rapporto con la famiglia, emerge un contrasto forte tra amore e violenza nel
personaggio di Malpelo.
Le concezioni della vita di Verga e di Malpelo coincidono

La concezione della vita di Malpelo è priva di speranza. Per questo motivo egli decide di non ribellarsi contro le
ingiustizie che subisce perché gli sembrano inevitabili. A volte sogna un destino diverso, ma subito ne comprende
l’impossibilità e torna alla realtà. È come se Malpelo si facesse carico del male del mondo. Il suo destino è quello
del padre, sia nella vita che nella morte. Nel finale Malpelo si trasforma, per coloro che rimangono, in un fantasma
che vaga nella cava, in una leggenda paurosa. In questo pessimismo assoluto e senza uscita, che porta Malpelo ad
affermare che «se non fosse mai nato sarebbe stato meglio», vediamo lo stesso pessimismo di Verga. L’autore,
che si era eclissato dal testo attraverso la tecnica dell’impersonalità, vi rientra in modo brusco imponendo al
protagonista della vicenda la propria concezione del mondo.

Verga, "Fantasticheria"

Primo testo della raccolta Vita dei campi, Fantasticheria (già comparsa sul «Fanfulla della Domenica» del 24
agosto 1879) svolge un’importante funzione nell’introdurre la determinante silloge verghiana, in quanto teorizza
esplicitamente alcuni capisaldi della poetica verista degli anni a venire, oltre ad introdurre per rapidi accenni
quelli che saranno i personaggi principali del romanzo I Malavoglia, che frattanto sta lievitando nella mente dello
scrittore catanese.
Riassunto e commento
Assai interessante, appunto per le finalità teoriche che Verga assegna al suo testo, la forma che egli sceglie di
conferirgli: quello di una sorta di lettera, scritta da un protagonista maschile, dietro cui pare intravedersi l’autore
reale, ad una figura femminile non meglio identificata, dalla provenienza settentrionale e dalla estrazione sociale
alto-borghese. I due, probabilmente legati da un rapporto sentimentale (come pare di intuire tra le righe del
testo), trascorrono un breve periodo ad Aci Trezza, là dove verrà ambientato il romanzo. Subito si percepisce la
distanza tra la ricca e benestante protagonista e l’ambiente che la circonda:
Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandosi allo sportello del vagone, esclamare:
“Vorrei starci un mese laggiù!”. Noi vi ritornammo e vi passò non un mese, ma quarantott’ore; i terrazzani che
spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci sareste rimasta un paio d’anni. La
mattina del terzo giorno, stanca di veder eternamente del verde e dell’azzurro, e di contare i carri che passavano
per via, eravate alla stazione, e gingillando impaziente colla catenella della vostra boccetta da odore, allungavano
il collo per scorgere un convoglio che non spuntava mai.
La questione in gioco è insomma quella della differente maniera con cui i due personaggi osservano e giudicano la
realtà rurale ed arcaica del paesino siciliano, fatto di “casipole sgangherate e pittoresche, che viste di lontano vi
sembravano avessero il mal di mare anch’esse”. Da un lato, l’atteggiamento superficiale e quasi snobistico della
donna, che nel corso di una breve vacanza cerca qualcosa di divertente e di folklorico, cadendo involontariamente
nel ridicolo. Dall’altro, la percezione da parte di chi scrive della radicale distanza tra sé e questo mondo primitivo,
che necessita di uno sforzo notevole per essere compreso e capito a fondo, senza maschere e mistificazioni. È da
questa consapevolezza che prende corpo il progetto perseguito con Vita dei campi, e cioè quello di “farci piccini
anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i
piccoli cuori”, come spiega il protagonista quasi alludendo alle pratiche della ricerca scientifica. E si capisce sin
da ora che al problema della prospettiva (e, quindi, dello stile letterario) si affianca quello dell'impegno etico del
narratore che, pur non facendo parte di questa realtà, deve sforzarsi di aderirvi nella maniera più piena e “vera”.
Si spiega così l’ironia sarcastica contro le vanità e i disvalori della classe borghese, cui contrappone quell’“ideale
dell’ostrica” che costituisce la miglior sintesi della caparbia mentalità popolare, che per Verga costituisce un
prezioso lascito di valori. Solo vivendo ancorati allo scoglio dove il destino li ha collocati, gli abitanti di Aci Trezza
possono sperare di salvarsi nella lotta per la sopravvivenza, e sfuggire al “dramma” che il vedrà sempre sconfitti:
Un dramma che qualche volta forse vi racconterò e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: - che
allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più egoista degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza
dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com’è, se lo
ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. - E sotto questo aspetto vedete che il dramma non manca d’interesse. Per le
ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del
palombaro che le stacca dallo scoglio.
E così le ultime righe di Fantasticheria, oltre che anticipare il ciclo aperto da I Malavoglia, forse alludono anche al
profondo impegno etico che Giovanni Verga si assume d’ora innanzi: una missione letteraria che lo vedrà, nel
volgere di poco più di un decennio, produrre alcune delle opere più alte della nostra storia letteraria e di trovarsi,
alla fine, sconfitto dal proprio stesso progetto.

Verga, il Positivismo e la "questione


meridionale"

La critica ha opportunamente messo in luce la relazione che intercorre, da un lato, tra la cosiddetta “conversione”
di Giovanni Verga alla poetica del Verismo, e, dall’altro, l’affacciarsi della "questione meridionale" nel dibattito
della neonata opinione pubblica nazionale. A fronte dei problemi (su tutti, le altissime percentuali di
analfabetismo, il brigantaggio, la distanza percepita dai cittadini rispetto al Paese legale, le drammatiche
condizioni di vita dei contadini) di integrazione del Mezzogiorno d’Italia con il resto del Regno, il futuro
parlamentare Sidney Sonnino (1847-1922), con Leopoldo Franchetti (1847-1917), compie nel 1876 un viaggio
nell'isola da cui deriva l’inchiesta La Sicilia nel 1876, pubblicata l’anno successivo sulla «Rassegna Settimanale». I
due esponenti della Destra Storica consegnano insomma all’opinione pubblica nazionale e alla fantasia dello
scrittore un fondamentale documento (e si ricordi l’importanza che al termine “documento” si dà nella Prefazione
all’Amante di Gramigna) che indaga le ragioni e le cause del sottosviluppo del Meridione d’Italia. Il dito è puntato
sia contro questioni economiche strutturali (come la mancata riforma agragria, fatto che tutela il potere feudale
di nobili e gli interessi dei “baroni” del latifondo) e ferite aperte di natura sociale, come lo sfruttamento del lavoro
minorile nelle zolfare. La prospettiva di Sonnino e Franchetti è insomma di due liberal-conservatori che, dalle basi
epistemologiche del Positivismo, propongono un progetto di riformismo illuminato e filantropico, poi confluito nel
“meridionalismo” di figure quali Stefano Jacini e Pasquale Villari, che sosterranno anch’essi la causa della riforma
agraria come leva dello sviluppo del Sud e per una più equa redistribuzione del tenore di vita tra le due Italie di
fine Ottocento. Si può ben capire allora come, a partire da queste premesse, il Verga trapiantato a Milano -
proprio al tempo della propria adesione alla poetica da cui deriveranno Vita dei campi (1880), I Malavoglia (1881),
e le altre opere maggiori - possa essere fortemente influenzato dall’Inchiesta e dall’insieme di idee e di
prospettive politico-sociali che ne stanno alla base.

Verga e la Sicilia di fine Ottocento

È, in primo luogo, al livello contenutistico che, nelle opere verghiane, si riconoscono i riferimenti dello scrittore
nell'inchiesta di Franchetti e Sonnino; e una novella rappresentativa della raccolta Vita dei campi come Rosso
Malpelo li rivela con particolare efficacia. Il protagonista Malpelo - lavorante presso la stessa cava dove è
impiegato, e dove trova la morte, il padre - sembra modellato sul ritratto che i due studiosi fanno dei bambini
impiegati in miniera: Il lavoro di fanciulli consiste nel trasporto sulla schiena, del minerale in sacchi o ceste. [...]
Essi percorrono coi carichi di minerale sulle spalle le strette gallerie scavate a scalini nel monte, con pendenze
talora ripidissime [...]. I fanciulli lavorano sotto terra da 8 a 10 ore al giorno dovendo fare un determinato numero
di viaggi.
Anche a proposito del romanzo I Malavoglia, sono molti i nuclei contenutistici che Verga, con ogni probabilità,
deriva dalla lucida disamina di Franchetti e Sonnino. Gli elementi della prepotenza, dell’ingiustizia, della
necessaria sopraffazione del più debole da parte del più forte, all’interno di un tessuto sociale invischiato di favori,
personalismi, di stampo quasi feudale - come d’altro canto è ben rappresentato ancora nel più tardo Mastro don
Gesualdo - che muovono la vicenda romanzesca, fanno da sfondo costante alle pagine dell’inchiesta. Il povero è in
balia di questo contesto sociale, per lui, insidioso e sfuggente: l’avvocato a cui, vanamente, si rivolgono i
Malavoglia per salvare qualcosa della propria condizione, richiama significativamente da vicino quegli
“avvocatucoli” citati nell’inchiesta.
Sembra, però, soprattutto un altro elemento ad avvicinare I Malavoglia all’Inchiesta del 1876; in essa si legge: “il
Governo e tutto ciò che lo rappresenta o che è da lui rappresentato, è in molti luoghi profondamente disprezzato”.
È la già citata distanza tra il Paese reale, quello della complessa e immobile società siciliana, e il Paese legale:
quello del nuovo Stato nazionale, e delle sue leggi; per i contadini e i pescatori siciliani - come per i personaggi
del romanzo verghiano - quello del Regno che sottrae i figli per mandarli a morire come soldati in guerre lontane
e ignote (contro “nemici che nessuno sapeva bene nemmeno chi fossero”), che mette in prigione, e soprattutto
che impone le tasse: lo zio Cola tornava a parlare del dazio del sale che volevano mettere, e allora le acciughe
potevano starsene tranquille, senza spaventarsi più delle ruote dei vapori, che nessuno sarebbe più andato a
pescarle. - E ne hanno inventata un’altra! aggiunse mastro Turi il calafato, di mettere anche il dazio sulla pece.
Dunque, anche presso il letterario borgo di Aci Trezza, l'autorità pubblica” è “simile a un esercito in mezzo al
paese nemico”, come si legge ancora nel resoconto di Franchetti e Sonnino. Il tema non era inedito per l’opinione
pubblica contemporanea, e risale almeno alla diffusione, nel 1863, della Relazione sulle cause del brigantaggio nel
Mezzogiorno di Giuseppe Massari. Giovanni Verga coglie dunque lucidamente questo aspetto, della distanza tra il
nuovo Stato e i suoi cittadini, i quali si percepiscono - nella migliore delle ipotesi - alla stregua sudditi di un regno
straniero; l’autore dei Malavoglia potrebbe così essere posto all’inizio di una particolare linea della nostra
narrativa, che insistendo sul tema della “questione meridionale” ne analizza le implicazioni e le molte
sfaccettature: come fanno ad esempio Carlo Levi, in Cristo si è fermato ad Eboli, e più recentemente Roberto
Saviano, indugiando sulle condizioni che permettono il proliferare della criminalità organizzata, in Gomorra.

Verga, la Destra storica e l’Unità d’Italia: un progetto incompiuto

La vicinanza che si è descritta, al livello contenutistico, tra le opere di Verga e i contributi fondativi della
questione meridionale, dipende naturalmente anche da una sostanziale adesione dello scrittore verista siciliano
all’atteggiamento di analisi positivista degli studiosi e uomini politici impegnati in questa impresa di messa a
fuoco del fenomeno. Sonnino diventerà infatti, negli anni immediatamente successivi all’Inchiesta, figura di
riferimento di quella Destra storica a cui pure è vicino lo scrittore, soprattutto negli anni della maturità. L’unità
nazionale e il suo rafforzamento sono per questi intellettuali, e per gli esponenti di questa parte politica, gli
obiettivi centrali del loro impegno. La modernizzazione del Paese e l’educazione degli strati popolari sono per essi
da assumere come strumenti per la risoluzione dei problemi sociali, anche in chiave di prevenzione di rivolgimenti
di matrice socialista (ricordiamo che il Partito Socialista italiano nasce di lì a poco, nel 1892).
Questa tendenza – di ricostruzione scientifica di un ambiente sociale, come presupposto funzionale per un’azione
di risoluzione dei problemi individuati – è in effetti alla base dell’impianto stesso, di tipo sociologico e politico,
del romanzo verghiano. Da tutto ciò, dipendono, dunque, le note componenti documentarie, sociologiche,
etnologiche del verismo di Verga. Il quale aveva in un primo tempo previsto di pubblicare I Malavoglia su
«Rassegna Settimanale», la rivista degli stessi Franchetti e Sonnino; e che dichiara, con forte intento
programmatico e spiccata consapevolezza delle difficoltà del suo compito:
Anche se poi vi rinunciò, non è certo casuale che proprio sulle colonne di questa rivista sia uscita una delle poche
recensioni positive che abbia avuto il romanzo: in essa I Malavoglia vengono definiti uno “studio sociale”.
Anche il rifiuto - pur a fronte della presa d’atto delle disuguaglianze delle coeva società siciliana - di un’istanza
effettivamente progressista potrebbe spiegarsi con l’adesione alla Destra storica, a cui premeva soprattutto la
stabilità del quadro sociale. Sembra però, in questo carattere della letteratura verghiana, giocare un ruolo
rilevante specialmente il parziale indugiare, da parte dello scrittore, anche in atteggiamenti di lirico (e romantico)
“idoleggiamento - più mitico che realistico - della realtà popolare siciliana”. Per questa via, dunque, Verga si rivela
voce originale sul piano romanzesco. Illuminata, specie nelle sue tinte più lievi e malinconiche, da una più
tradizionale forma di rimpianto per un mondo rurale minato dal progresso, la scrittura letteraria di Verga è in ogni
caso da comprendere tra gli esiti culturali delle contemporanea propensione all’analisi scientifica della condizione
di un mondo, ormai legalmente italiano, ma nella realtà confinato in una distanza storica e sociale che
rappresenta uno dei problemi più cogenti dell’Italia postunitaria; con qualche riflesso, ancora, sulla realtà attuale.

Verga, "Vita dei campi"

Vita dei campi è una raccolta di otto novelle (nell’ordine: Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Cavalleria
rusticana, La lupa, L’amante di Gramigna, Guerra di santi, Pentolaccia) di Giovanni Verga pubblicata dall’editore
milanese Treves nel 1880. Oltre a contenere una delle novelle più note dell'autore siciliano, è considerata un
anello di congiunzione fondamentale tra le prime opere verghiane (come Storia di una capinera, Eva o Nedda) e il
ciclo romanzesco dei “vinti”, aperto da I Malavoglia nel 1881.

Tematiche, modelli e contenuti

Preceduta da una raccolta di carattere intermedio come Primavera e altri racconti (Brigola, 1876), in cui
comunque l’autore manifestava il suo favore per le posizioni del realismo letterario, Vita dei campi riunisce testi
già usciti su rivista nel biennio 1878-1880. Nel corso degli anni l’autore rivede più volte Vita dei campi,
aggiungendo o togliendo testi e intervenendo spesso sulla forma delle novelle stesse; tuttavia, è la prima edizione
del 1880 a riassumere al meglio i criteri e le linee portanti del “metodo” verista.
Le trame delle novelle ricostruiscono allora il microcosmo di un mondo arcaico ed ancestrale, che spesso risulta
del tutto alieno rispetto alle abitudini urbane e borghesi dei lettori (come spiega Fantasticheria, il testo di
apertura che ha un’importante funzione di introduzione e prefazione complessiva). I temi portanti della raccolta
sono così la radicale distanza tra il mondo moderno e l’ incontaminato mondo di natura siciliano (come in Jeli il
pastore), l’analisi impietosa delle leggi di sopraffazione del più debole (come in Rosso Malpelo), i drammi
dell’amore e della gelosia (come in Cavalleria rusticana, La lupa o Guerra di santi), senza dimenticare l’importanza
di chiarire i risvolti teorici della propria scrittura (la Prefazione all’Amante di Gramigna).
Verga arriva a Vita dei campi dopo anni determinanti per la sua formazione: il contatto con il gruppo milanese
degli Scapigliati, la lettura dei grandi maestri del naturalismo francese (dal Balzac della Commedia umana fino
allo Zola del ciclo dei Rougon-Macquart) e il crescente interesse di quegli anni per la cosiddetta “questione
meridionale” (sostenuta dall’inchiesta La Sicilia nel 1876 dei parlamentari Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino e
dalle Lettere meridionali dello storico Pasquale Villari) indirizzano evidentemente i gusti verghiani, stimolati pure
dall’amicizia con Luigi Capuana (uno dei primi teorici del verismo) e dalla costante riflessione teorica su mezzi e
finalità dell’atto narrativo.

Lo stile di Vita dei campi

Obiettivo di Verga è riprodurre e ricreare sulla pagina il mondo popolare siciliano secondo un’ottica che non sia né
quella intrinsecamente superiore (e spesso sprezzante) dell’intellettuale e del letterato, né quella ingenua e
superficiale dell’empatia populistica per le classi più umili. L’autore cioè vuole evitare sia la prospettiva
distaccata di un osservatore esterno sia cadere nel facile tranello di immedesimarsi troppo nei protagonisti delle
proprie narrazioni. Si capisce che l’operazione verghiana è tanto stilistica quanto ideologico-concettuale:
raccontare al pubblico milanese la Sicilia più remota significa innanzitutto mostrare gli esiti del Progresso, vero e
proprio mito per la corrente filosofica del Positivismo allora dominante, o della Marea (così Verga voleva titolare il
suo incompiuto “ciclo”) sulle classi più deboli. Ma per fare ciò è anche necessario impiegare gli strumenti
tecnico-stilistici più appropriati: occorre abbandonare volontariamente il punto di vista del narratore borghese
per modellare la propria visione del mondo (e, di conseguenza, la propria lingua) su quello di ciò che si vuol
descrivere, provando ad aderire ad una mentalità corale e collettiva, non sempre affidabile nel giudizio sui
protagonisti (come esemplarmente dimostrato da Rosso Malpelo).
L’indiretto libero verghiano (e cioè quella forma ibrida tra discorso diretto e discorso indiretto, che mescola alla
parola del narratore quella dei suoi personaggi) e la contaminazione linguistica tra lingua ufficiale e sintassi
modellata su quella del siciliano, muovono quindi in una direzione nettamente antiletteraria, riproducendo sulla
pagina scritta idee, abitudini, convenzioni discorsive, modi di dire e proverbi, fenomeni tipici dell’oralità, che
vogliono portare in primo piano i veri protagonisti delle vicende narrate che rappresentano. Questo è allora il
carattere davvero innovativo non solo di Vita dei campi ma anche de I Malavoglia.
Esercizi Pag 231 n°1-3-4-6.

Certamente, posso aiutarti a rispondere agli esercizi relativi al brano "I vinti e la fiumata del progresso" di
Giovanni Verga.

1) Tema comune nei romanzi del ciclo dei Vinti:


Il tema comune nei romanzi del ciclo dei Vinti di Giovanni Verga è la condizione di sconfitta e di miseria delle
classi sociali più basse e disagiate. L'autore esprime questo concetto attraverso varie espressioni nel testo. Ad
esempio, in "I Vinti e la fiumata del progresso", Verga fa riferimento alla povertà, al degrado sociale e alle lotte
quotidiane dei contadini per sopravvivere. La disperazione e la mancanza di speranza sono elementi ricorrenti che
accomunano queste opere.

3) Metafore sul progresso e la ricerca del benessere:


Verga utilizza diverse metafore per descrivere il progresso e la ricerca del benessere. Ad esempio, potrebbe fare
riferimento a "una corrente inarrestabile" o a "una marea" che trasporta tutto con sé. Queste metafore
rappresentano il modo in cui il progresso avanza senza considerazione per le condizioni delle classi sociali più
basse, travolgendo tutto ciò che si trova sul suo cammino.

4) Termini nella "Prefazione" che rivelano la cultura positivista di Verga:


Nella "Prefazione", Verga potrebbe utilizzare termini o concetti che riflettono la sua adesione alla cultura
positivista. Elementi come "scienza", "evoluzione sociale", "leggi naturali", "determinismo sociale" potrebbero
essere indicativi della visione positivista di Verga, che vede la società e l'evoluzione umana come governate da
leggi simili a quelle della natura.

6) Mobilità sociale nell'attualità e barriere culturali:


La mobilità sociale oggi può essere vista come più complessa rispetto al periodo di Verga. Sebbene l'accesso
all'istruzione e ad opportunità di lavoro possa consentire a individui di diverse classi sociali di avanzare, esistono
ancora numerose barriere culturali che limitano la mobilità sociale. Queste barriere possono essere di natura
etnica, razziale, religiosa o politica. Ad esempio, discriminazioni legate all'origine etnica o razziale, disuguaglianze
socio-economiche, accesso diseguale all'istruzione di qualità, discriminazioni di genere e divisioni politiche
possono costituire barriere significative per la mobilità sociale. Le disparità di opportunità e l'accesso disuguale
alle risorse possono impedire alle persone di progredire socialmente, riflettendo una sorta di "società bloccata" in
termini di mobilità sociale.
Esercizi Pag 210 n°1, 2, 4, 5, 6.

"Fantasticheria" di Giovanni Verga.

1. Dividi il testo in nove sequenze con titoli che includano i futuri protagonisti de "I Malavoglia":

Sequenza 1: "I pescatori di 'Aci-Trezza'"


Sequenza 2: "La donna delle arance"
Sequenza 3: "Il vecchio marinaio"
Sequenza 4: "La ragazza dei vasi di basilico"
Sequenza 5: "I fratelli e la tragedia"
Sequenza 6: "La vita e la morte dei pescatori"
Sequenza 7: "I bambini di 'Aci-Trezza'"
Sequenza 8: "L'ideale dell'ostrica"
Sequenza 9: "La religione della famiglia"

2. Riassunto delle vicende dei personaggi che anticipano quelli de "I Malavoglia":

- La povera donna delle arance: Una donna povera che vendeva arance e accettava l'elemosina, indicando che il
suo destino rimane legato alla povertà e alla lotta quotidiana per sopravvivere.

- Il vecchietto marinaio: Un anziano marinaio, morto in ospedale, che ha vissuto la sua intera vita legato al mare
e alla sua casa, desiderando morire nel suo angolo familiare.

- La ragazza dei vasi di basilico: Una giovane ragazza che sogna e sorride di fronte a un altro viso familiare,
indicando un legame con la sua casa e i suoi ricordi.

- I due fratelli marittimi: Uno dei fratelli è morto come marinaio mentre l'altro è scomparso in mare durante una
tempesta. Questi eventi sottolineano la durezza della vita legata al mare e alle tragedie che coinvolgono le
famiglie dei pescatori.
3. Spiegazione dell'antitesi del "microscopio" e del "cannocchiale":

- Il "microscopio" rappresenta l'approccio dettagliato, focalizzato sulle piccole cose e sui sentimenti intimi. È
simboleggiato dalla capacità di osservare da vicino i piccoli dettagli della vita quotidiana e dei sentimenti umani.

- Il "cannocchiale", d'altro canto, rappresenta una prospettiva distante, enfatizzando la visione allargata e le
grandiosità esterne. Simboleggia una visione più ampia e superficiale delle cose, concentrata sugli aspetti
esteriori e apparenti.

4. Chiarimento del significato delle metafore e delle personificazioni:

- Metafora delle formiche: Rappresenta la persistenza e la resilienza degli individui nell'affrontare le difficoltà.
Le formiche ritornano ai loro affari dopo essere state disturbate, simboleggiano la resistenza di fronte alle
avversità.

- L'ideale dell'ostrica: Si riferisce alla volontà di adattarsi e resistere in un ambiente difficile. Le ostriche,
nonostante la loro apparente staticità, simboleggiano la forza nel restare attaccate al loro ambiente nonostante le
avversità.

- Religione della famiglia: Rappresenta la forza e il legame intrinseco della famiglia, che si riflette nelle
tradizioni, nei valori e nell'attaccamento alla propria casa e ai propri luoghi familiari. È una sorta di culto familiare
che permea le generazioni, legando fortemente le persone a ciò che è familiare e conosciuto.

5. Individuazione di metafore e personificazioni presenti nel brano:

- Metafore: Si trovano nel passaggio che associa la vita degli individui alle formiche e l'ideale dell'ostrica.
Entrambe le metafore sono utilizzate per trasmettere concetti di resistenza, adattamento e persistenza nelle
avversità.

- Personificazioni: Ad esempio, quando si parla del mare come "traditore" o quando si descrivono le formiche che
"aggrappandosi disperatamente al loro monticello bruno". Queste personificazioni attribuiscono caratteristiche
umane a oggetti o concetti non umani, enfatizzando gli aspetti emotivi e comportamentali.
Esercizi Pag 223 da n°1 al n°6.

Esercizi riguardanti "Rosso Malpelo":

1- Riassunto di "Rosso Malpelo" (circa 1200 caratteri):


La novella "Rosso Malpelo" di Giovanni Verga narra la storia di un giovane emarginato di nome Malpelo,
soprannominato "Rosso" per i suoi capelli rossi. Vive con il padre Ignazio, un minatore, in una zona mineraria della
Sicilia. Malpelo è emarginato e malvisto dalla comunità a causa della sua diversità fisica e sociale, oltre che per il
suo comportamento rude e aggressivo. Il ragazzo lavora duramente nelle miniere e mostra un attaccamento
particolare per la terra, la sua unica fonte di conforto. La sua unica amicizia è con Ranocchio, un altro ragazzo
emarginato come lui. La storia si concentra sulla tragica fine di Malpelo, che muore nel tentativo di salvare
Ranocchio durante un crollo nelle miniere. La morte di Malpelo mette in evidenza la sua umanità nonostante la
sua brutale emarginazione.

2- L'esemplarità della vicenda dell'asino grigio:


La vicenda dell'asino grigio è esemplare poiché riflette la vita di Malpelo. L'asino grigio viene trattato male,
trascurato e malvisto, simile al trattamento che subisce Malpelo da parte della società. Entrambi sono emarginati
e disprezzati, e la storia dell'asino grigio serve come metafora per la condizione di Malpelo nella comunità.

3- Le sequenze e i loro elementi:


Le sequenze si articolano principalmente sul tempo cronologico, con particolare attenzione ai momenti di lavoro
nelle miniere, i dialoghi tra i personaggi (come quelli con Ranocchio e il padre Ignazio), e le descrizioni dettagliate
dell'ambiente minerario e della condizione di Malpelo.

4- Tecnica dello "straniamento":


Il narratore adotta la tecnica dello "straniamento" quando racconta i pensieri e i pregiudizi dei personaggi popolari
nei confronti di Malpelo. Questi giudizi negativi sono espressi attraverso il punto di vista dei personaggi della
comunità, evidenziando la loro ostilità e disprezzo verso di lui.

5- Paragoni a Malpelo e Ranocchio con animali:


Malpelo viene spesso paragonato a un cane randagio o a una bestia selvaggia a causa del suo aspetto e
comportamento selvaggio. Ranocchio, invece, viene paragonato a una rana a causa del suo fisico minuto e della
sua natura timida. Questi paragoni rivelano il disprezzo della società nei confronti dei due ragazzi emarginati.
6- La cava e la sciara come metafore esistenziali:
La cava e la sciara, luoghi reali in cui si svolge gran parte della vicenda, rappresentano metafore della vita difficile
e disperata dei minatori e dei contadini del Sud al tempo di Verga. Questi luoghi diventano simboli della miseria
umana, della fatica e della disperazione vissute da coloro che sono emarginati e sfruttati dalla società. Le
descrizioni dettagliate dell'ambiente minerario sottolineano la condizione esistenziale precaria e il duro lavoro dei
protagonisti.

Potrebbero piacerti anche