PDF of Frugando Tra I Mercati Di Palermo Una Foto Una Storia Ediz Illustrata Gaetano Basile Full Chapter Ebook

Scarica in formato pdf o txt
Scarica in formato pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 69

Frugando tra i mercati di Palermo Una

foto una storia Ediz illustrata Gaetano


Basile
Visit to download the full and correct content document:
https://ebookstep.com/product/frugando-tra-i-mercati-di-palermo-una-foto-una-storia-
ediz-illustrata-gaetano-basile/
More products digital (pdf, epub, mobi) instant
download maybe you interests ...

I ragni di Lecco Una storia per immagini Ediz


illustrata Serafino Ripamonti

https://ebookstep.com/product/i-ragni-di-lecco-una-storia-per-
immagini-ediz-illustrata-serafino-ripamonti/

Macroeconomia Una prospettiva europea Nuova ediz


Olivier Blanchard Alessia Amighini Francesco Giavazzi

https://ebookstep.com/product/macroeconomia-una-prospettiva-
europea-nuova-ediz-olivier-blanchard-alessia-amighini-francesco-
giavazzi/

Storia e geografia Idee per una didattica congiunta


Cristina Minelle Lorena Rocca Francesco Bussi

https://ebookstep.com/product/storia-e-geografia-idee-per-una-
didattica-congiunta-cristina-minelle-lorena-rocca-francesco-
bussi/

Josep Pla sis amics i una amant Xavier Febrés

https://ebookstep.com/product/josep-pla-sis-amics-i-una-amant-
xavier-febres/
L infinito tra parentesi Storia Sentimentale Della
Scienza Da Omero A Borges Italian Edition Malvaldi
Marco

https://ebookstep.com/product/l-infinito-tra-parentesi-storia-
sentimentale-della-scienza-da-omero-a-borges-italian-edition-
malvaldi-marco/

Apogeo e fine del Medioevo 1288 1431 Corpus La pittura


medievale a Roma Ediz illustrata Serena Romano (Editor)

https://ebookstep.com/product/apogeo-e-fine-del-
medioevo-1288-1431-corpus-la-pittura-medievale-a-roma-ediz-
illustrata-serena-romano-editor/

Una historia de India moderna Volumen I India colonial


1st Edition Banerjee Dube Ishita

https://ebookstep.com/product/una-historia-de-india-moderna-
volumen-i-india-colonial-1st-edition-banerjee-dube-ishita/

Una pobre vida Eduardo Zamacois

https://ebookstep.com/product/una-pobre-vida-eduardo-zamacois/

Annette una epopeya Anne Weber

https://ebookstep.com/product/annette-una-epopeya-anne-weber/
Gaetano Basile, palermitano Andrea Ardizzone, imprenditore di
doc, è giornalista e autore di testi successo nel campo della moda,si
teatrali, ma anche enogastronomo accosta alla fotografia a partire dagli
appassionato e narratore awincente. anni Sessanta.
Ha alle spalle un'intensa attività Ben presto si rende conto che non
giornalistica televisiva come bastano l'attitudine e la capacità di
divulgatore di tutto ciò che è cultura scegliere un click piuttosto che un
siciliana. altro, c'è bisogno di imparare dai più
Ha scritto di Sicilia e di Palermo, grandi. Sono gli anni Ottanta quelli
di cucina e di cavalli, di Storia e degli stage con Ferdinando Scianna,
storie, con toni lievi, talora graffianti, Fulvio Roiter, Franco Fontana,Angelo
mai seriosi. Viaggiatore attento e Cozzi, Giorgio Lotti, Melo Minnella.
testimone di una cultura antica, sa "Questi signori mi hanno insegnato
parlare alla memoria della gente che la fotografia",ammette. Eppure,la
seduce, prescindendo da stereotipi voglia irrinunciabile di catturare
e luoghi comuni. Capace di farsi una situazione, un viso, un'abside, un
leggere e amare da grandi e piccini, panorama lui la possedeva già.
siciliani e non, toccando la parte più Non parla mai di macchine
profonda dell'anima dei lettori. fotografiche, di diaframmi, di tempi di
I suoi libri sono pubblicati da Dario esposizione, ma solo di quello che sta
Flaccovio Editore e da Edizioni davanti al suo obbiettivo: la Sicilia.
Kalòs di Palermo. Ha diretto la Nel 1995 passa il testimone
rivista di etnoantropologia «il dell'azienda ai due figli per dedicarsi
Pitrè»; oggi collabora con la RAI e completamente alla fotografia.
numerose testate nazionali ed estere. Cominciano le mostre e le
Dall'Associazione Giornalisti Stampa pubblicazioni. Nasce la collaborazione
Estera è stato premiato come miglior con la Fondazione Salvare Palermo,
divulgatore della cucina italiana per della quale diventa socio benemerito,
l'anno 2011. e con la rivista «Per».
Vive e lavora a Palermo.
In copertina
Particolare dell'opera di Alessandro Bazan, Faces are places (2018),
in una fotografia di Andrea Ardizzone.

€ 18,00
OBBIET TI VI

Scatti che mettono a fuoco la realtà.


Volumi che puntano a tradurre gli oggetti del mondo in immagini reali ,
in racconti da sfogliare.

]~ alos
ED I ZIONI
Si ringrazia Giorgia Guerrieri per aver contribuito all'elaborazione grafica dell'immagine a p. 72

© 2019 Andrea Ardizzone per le fotografie


© 2019 Gaetano Basile per i testi

© 2019 Edizioni Kal6s


Tutti i diritti sono riservati.
È vietata la riproduzione totale o parziale dei testi e delle immagini se non autorizzata dall'editore.

Cura redazionale
Luana Lupo

Progetto grafico e impaginazione


Flavia Fi lpi

Edizioni Kal6s
via Giulio D'Alcamo. 15/17
90143 Palermo
t ( +39) 091 7320918
e [email protected]
w edizionikalos.com

Basile. Gaetano <1937->

Frugando tra i mercati di Palermo· una foto. una storia I Gaetano Basile commenta
Andrea Ardizzone. - Palermo : Kal6s, 2019.
(Obbiettivi)
ISBN 978-88-98777-86-0
1. Mercati al minuto - Palermo. I. Ardizzone, Andrea <1938-
>.
3811809458231 CDD-23 SBN PAL0322117

CIP - Biblioteca centrale della Regione sici liana "Alberto Bombace"


GAETANO BASILE
~
ANDREA ARDIZZONE

Frugando tra i mercati di Palermo


Una foto, una storia
Indice

6 Introduzione

9 Ba li arò

59

99 -
Capo

Vucciria
Un mio vecchio amico francese, infaticabile scorridore dei sette mari e dei cinque conti-
nenti, dichiarò d'essersi innamorato di Palermo. Non della Sicilia come succede a chi viene
6 da fuori. No, lui s'era preso una cotta per Palermo. Diceva che è una città unica. La sua po-
sizione al centro del Mediterraneo le ha fatto assorbire tutti gli umori che qui, da sempre,
giungono da ogni dove. È la concentrazione di una cultura millenaria, di una diversità eno-
gastronomica cresciuta nello splendore, nella contraddizione e nella sofferenza. Trasmet-
te la sua storia attraverso i mercati per giungere sulle tavole in piatti e bicchieri. In questa
città, ciò che per molte culture è strano diventa quotidiano. Basti pensare all'agrodolce,
all 'amaro, al salato, al dolce, al piccante, messi tutti insieme. In questa città le dominazioni
si leggono, come pagine di storia, riflesse nei piatti. Nei mercati, grazie al cibo di strada,
si ritrovano piatti antichi di oltre duemila anni come le stigghiole, la quarume, le verdure
bollite, le cipolle infornate...
Mi fece notare che all'Orto Botanico convivono piante tropicali e subtropicali, accanto a
pini nordici, pioppi e betulle; la lingua che usiamo è, come la nostra cucina, il risultato de-
gli apporti civili di chi arrivò via mare. Il mio amico adorava gironzolare per i nostri merca-
ti "storici". Così come hanno deciso di chiamare quei mercati ormai celebri come Ballarò,
Capo e Vucciria. Assieme agli odori, alle voci, ai colori mediorientali, ci trovò quella islamica
indolenza o musulmana indifferenza, come diceva, che ci ha permesso di soprawivere alle
quotidiane sopraffazioni, alle mane, corruttele, governanti ladri e amministratori incapaci.
Forse aveva ragione lui.
Qui l'arte del vendere e comprare, con trattative interminabili, generò il marketing oltre
mille anni fa. Così come l'uso di vendere cibi cotti da mangiare con le man i, nei pressi di
antiche taverne, diede vita allajoint-venture. Che è roba difficile da spiegare se non si abita
a Palermo.
Noi palermitani, poi, siamo riusciti addirittura a fornire una nuova divinità femmini le al pan-
theon indù ed è Santa Rosalia. I tamil le rendono omaggio ogni domenica salendo anche loro
sul monte Pellegrino. Palermitani e cingalesi insieme, nel punto più alto della più cosmopo-
lita città italiana. Capì, il mio amico globe trotter, che qui chiunque è il benvenuto. O quasi.
Come se tutti comprendessero le solitudini e lo sperdimento altrui. Dal l'Asia, dallf\frica,
dallf\merica latina, dall'Est europeo, tutti quanti hanno trovato un clima a loro familiare,
colori e profumi immutati da tremila anni. I nostri vicoli dove si accumula l'immondizia, tra
le macerie del '43, i crolli recenti, gli abusi edilizi di ogni epoca, odorano anche di fritture e
grigliate, basilico, curry e chiodi di garofano. Bottegucce e bancarelle vendono mango secco
accanto a sontuose parrucche africane, fagioli neri del Centro Africa e banane da friggere.
Difficile è restarci dato che manca il lavoro e il futuro è solo domani. Al dopodomani ci
pensa Dio. Diciamo noi tutti che ci viviamo. A Palermo girando tra i mercati si possono
assaporare tutti i colori dell'umanità, tutte le sfumature dell'anima, tutte le tonalità del 7
sorriso. Tra questi vicoli trovò i suoi modelli il grande Giacomo Serpotta che con i suoi
stucchi, marmi da poveri, trasformò povere macilente prostitute in elegantissime "Virtù"
e bambini emaciati, tristi, affamati in putti paffuti e bellissimi. Un vero atto d'amore per
Palermo e i palermitani.
Da qualche tempo le cose sono cambiate. La mafia si è impossessata della città, il pizzo ai
commercianti dei mercati ha sostituito la tassa comunale, malgrado Falcone e Borsellino
e tanti altri che hanno sacrificato le loro vite per sradicarla. Le tiwù scendono a Palermo
alla ricerca del colore, delle abbanniate, del fumo delle stigghio/e, dei fichidindia sbucciati
davanti alle telecamere, dell'antimafia espressa nelle ricorrenze con le autorità in primo
piano. Negli antichi mercati tanti godono di questo interesse facendo le comparse di se
stessi, lasciandosi intervistare per raccontare tante sciocchezze, contenti di "andare in te-
levisione" con il sorrisetto complice e strizzando l'occhio al vicino di bancone.
Una volta in quei mercati si leggeva poesia, quella che trasmisero grandi scultori come i
Gagini, l'abate Giovanni Meli e più tardi Franco Franchi, Ciccio lngrassia, Pino Caruso e
altri cantori della Palermo del dopoguerra e oltre. Nessuno si accorge che ci stiamo allon-
tanando dalla realtà per vivere uno sceneggiato che ci allontana sempre di più dalle cose
essenziali della vita.
Mi piace ricordare le parole del grande documentarista e regista palermitano Vittorio De
Seta, in una lontana intervista. «La poesia esiste sempre a Palermo, ma è più difficile sco-
prirla. Imbarazza e spaventa perché non abbiamo gli strumenti per interpretare la realtà.
È una città che fa paura perché tutto rimane a basso voltaggio. Nasconde la poesia e se
oggi dovessi cercarla guarderei a coloro che dedicano la propria vita agli altri, a coloro che
fanno volontariato in ambienti disagiati e continuano a credere in qualcosa».
Molto è cambiato negli antichi mercati. Nelle botteghe e sulle bancarelle che occupano
abusivamente il suolo pubblico si sono aggiunti, ai prodotti di un tempo, quelli della odier-
na società dei consumi. Droga compresa. Naturalmente.
Oggi si stenta a credere che Ballarò sia un mercato perché con questo termine si inten-
de generalmente una piazza, uno spazio delimitato, qualcosa che già a prima vista deve
10 fare capire che si tratta di un posto entro il quale si vendono merci, alimentari o meno.
Il suo nome spiega meglio e subito che si tratta di un suk mediorientale: SOq a/-bal/a-
rat, cioè il mercato degli specchi, dei cristalli, dei vetri. Un mercato saraceno, citato già
dal viaggiatore arabo lbn Hawqal nel 973, nato fuori dalle mura cittadine che da quelle
parti coincidevano all'incirca con l'attuale via dei Biscottari dove ancora si vedono le
mura punico-romane. Più giù il letto del torrente Kemonia, Malutempu o Cannizzaro a
seconda della lingua parlata in quel momento, che era all'epoca il vero confine naturale
con la città chiusa entro le mura. Un mercato improvvisato, senza regole, dove ognuno
proponeva ciò che aveva da vendere. E tale è rimasto dopo oltre mille anni. Anche se la
città le è cresciuta attorno. Soltanto nel 1468 il Senato (il Comune, per intenderci) se ne
accorse e si abbatterono alcune case in modo da trasformare una strada in una piazza.
Tre secoli dopo, esattamente nel 1784, fu avanzata la proposta di costruire dei portici
lungo il perimetro, ma non se ne fece nulla perché si sarebbe rifatta, in pratica, una stra-
da stretta. Si tentò allora di allargare il mercato nell'attigua piazza del Carmine. Questa
volta vi si opposero i proprietari delle case che si svilivano commercialmente ...
Finalmente nel 1929, davanti alla chiesa del Carmine, si costruì una grande tettoia sor-
retta da eleganti colonne in ghisa e destinata al mercato del pesce. Ebbe vita breve per-
ché venne rimossa alcuni decenni dopo per dare maggiore spazio al mercato allargan-
done il perimetro oltre la cortina degli edifici danneggiati dai bombardamenti aerei. Che
ancora là stanno ...
Il mercato, insegnano gli studiosi della materia, non è qualcosa di immobile e fisso, al
contrario vive, si evolve secondo le esigenze economiche e sociali, e Ballarò ne è la di-
mostrazione. Si è dilatato invadendo parte dell'Albergheria, certamente la parte più an-
tica della città fenicia. Anche se il suo intrigante nome venne dalla Albergaria Centurbi et
Capici i quando, nel 1243, vi furono "albergati" (deportati, per l'esattezza ...) gli abitanti di
Centuripe e Capizzi che si erano rivoltati contro Federico 11. Stupor mundi, lui in persona.
È Briarìa in siciliano, e briariuoti gli abitanti che parlarono, fino all'avvento della tivvù,
con un loro accento che li identificava nel contesto cittadino.
Il mercato di Ballarò ha cominciato a ramificarsi sul versante Porta Sant'Agata, e giù fino
alla cortina delle mura trecentesche e sul retro del magnifico Palazzo Cutò. Discreta-
mente, in silenzio, abusivamente. Con lo sviluppo turistico il commercio si è aggiornato
adeguandosi a ciò che l'ospite cerca in un mercato del genere. La frutta (immancabile il
ftcodindia già sbucciato) è offerta ai malcapitati, a prezzo forfetizzato, in vaschette di
plastica, ma con contorno-omaggio di abbanniata e posa per selfte-souvenir. Ma dicono
tenchiù e gubbài. Tanto l'inglese, anche se non lo parlano, lo capiscono tutti. 11
Vigili urbani, polizia, carabinieri? " Ma per favore, qui lavoriamo per campare la famiglia". •
Quelli che disturbano sono i venatori che periodicamente vengono a sequestrare uccel-
lini in gabbia catturati di frodo e ricercatissimi dagli intenditori. Ora ci sono pure i nivu-
ri cioè africani, tamil, indiani, cinesi, ucraini, russi, polacchi ecc., ma loro hanno un loro
mercatino di roba usata, recuperata nei cassonetti dei rifiuti, che s'allunga fino all'Ospe-
dale dei Bambini; e pure una loro lingua creata spontaneamente per intendersi. Un po'
come il sabìr in uso nel Mediterraneo tra la gente di mare per oltre mille anni. E poi han-
no i loro prodotti, i loro negozi, i loro barbieri. Ci stanno bene come a casa, assicurano.
È un quartiere assai intrigante con una toponomastica che fa pensare. Come via e piaz-
zetta dello Zucchero che ci riporta alla canna da zucchero che cresceva lungo le rive del
torrente ai piedi del grande complesso di San Giovanni degli Eremiti. Che, poveracci,
non c'entrano per nulla visto che di Sant'Ermete si trattava ... Meravigliosa città capace
di storpiare ogni cosa. Forse per renderla più gradevole agli altri. ..
Ballarò oggi è lontano anni luce da quello della mia adolescenza. Lo percorrevo due vol-
te al giorno a piedi per andare dal corso dei Mille al Convitto Nazionale. Il trascorrere
del tempo, dei mesi, delle stagioni era scandito dalle abbanniate. Mi incantavano quelle
dei pescivendol i: sarde a gennaio, minuti a febbraio, vope a marzo, triglie ad aprile, tunni-
na a maggio, pescespada a giugno; poi c'era il tripudio estivo di luvari, ucchiati, asineddi e,
finalmente, capuni e 'nfanfari a settembre segnavano il rientro a scuola, fino alle murene,
anguille e capitoni di dicembre. Era il mercato della povera gente, di coloro che prima di
comprare se lo giravano da cima a fondo, tenendosi stretto al petto il portamonete. La
qualità spesso non era eccelsa, ma il prezzo conveniente.
C'era il settore abiti usati, cappotti, impermeabili, giacche; camicie e cravatte americane
pacchianamente floreali. C'erano uniformi militari, fez e camicie nere, scarponi chiodati,
fino all 'intimo mai esibito sui banchi, ma pudicamente venduto in negozietti dove era
pure difficile muoversi. Alcuni chianchieri avevano l'affettatrice Berkel con cui staccava-
no fette imponenti di carne che non andavano oltre i cinquanta grammi. Si vendevano
bambole e giochi per bambini poveri: si vedeva a occhio che erano diversi da quelli in
vendita dal mitico Studer di via Napoli.
C'erano le salsamenterie, le carnezzerie, uova & polli, vino & olio, lo sf,nciaro non ancora
panellaro, tante taverne ("qui si fa da mangiare") con il democratico tavolone dove si tra-
vavano accanto muratori, chianchieri, pescivendoli , mastri e gente di passaggio. Laranci-
na e lo sfmcionel/o si trovavano solo al mattino come la mezza mafalda con tre pane/le; le
12 stigghiole dopo le 17 come il frve o' dock degli inglesi. In inverno era di rito il piatto con la
quarume al pomeriggio, ma peri, carcagnola, mussu ecc. in estate, rinfrescati e serviti con
la spruzzata di limone. Che era il verdello. Si tornava alla taverna per il quartino con la
gazzosa al limone. Ci si riconciliava con la vita dopo una giornata di stenti.
Le putìe erano aperte fino alle 21: era l'ora in cui si vendevano povere cose, quando il ma-
rito tornava dal lavoro con quello che aveva guadagnato quel giorno. Sennò "si scriveva"
nel nero quadernetto dei poveri.
È quartiere ricco di monumenti importanti come il Carmine, San Nicolò, Casa Professa
e San Saverio. Numerosi sono gli oratori di antiche confraternite e maestranze che ci ri-
cordano l'operosità degli abitanti la cui attività era legata alla trasformazione e vendita
di prodotti agricoli. Oggi quel ruolo sociale è nelle mani di giovani volontari che tentano
di recuperare alla civiltà quanto si è perso strada facendo. Anche a combattere l'inci-
piente arroganza razzista. È un continuo brulicare di gente d'ogni colore, già da quando
nacque. La presenza di tanti immigrati ha ridato la vita al rione, case e vicoli fatiscenti
sono popolati da chi è sfuggito a guerre, persecuzioni, carestie. Molti portano negli oc-
chi storie d'ingiustizia e di violenze.
Mi resta l'antico piacere di entrarci dai punti a me più graditi. Amo molto passare sotto
l'arco di Cutò, creato sotto il magnifico Palazzo dei Filangeri, oppure da via delle Pergole
che è un vicolo che si dà delle arie ... Mi piace pure l'aristocratica via del Bosco con quei
palazzi splendidi che nessuno degna di uno sguardo. Non è male neppure l'accesso da
Casa Professa con la visione del duecentesco campanile di San Nicolò, costeggiando la
taverna della Perciata che usava Cagliostro per dileguarsi ... Ma non manco di rifare il
percorso che facevo con mio nonno partendo da San Giovanni degli Eremiti. Dipende.
Dipende dalle giornate invernali o estive, dalle ore del giorno che danno sempre luci e
colorazioni diverse alle cose; dalla mia voglia di ricordi, dal mio umore. Anche.
13

Fu il gioco di tante domeniche mattina con nonno Gaetano. Mi faceva percorrere


Via Porta la via Porta di Castro, l'antico letto del nume Kemonia, che scorreva sotto i nostri
piedi, a un paio di metri sottoterra. Era stato interrato alla fine del Cinquecento,
di Castro mi diceva, per evitare i danni che procurava quando era ingrossato dalle piogge.
E mi faceva rivivere con i suoi racconti la porta abbattuta a fine Ottocento, le rive
ricche di vegetazione dove prosperavano canne da zucchero, i cannizzi dicevano...
Deviando, mi portava a piazzetta dello Zucchero: figuratevi, unica piazza al mondo
titolata allo zucchero. Su quelle rive crescevano pure tante verdure, a seconda delle
stagioni, che venivano vendute nel vicino mercato di Ballarò... e mi faceva notare
che il fiume andava diritto perché non aveva ostacoli. Dopo l'interramento scom-
parvero gli ortolani e, come succede sempre a Palermo, ci fabbricarono case, tante
case, quelle che si vedono ancora oggi in quella che si chiama via Porta di Castro.
Mi faceva risalire una delle rive che aveva il nome bizzarro di "salita del Ban-
14 ditore", perché ci abitava il banditore degli editti del Senato palermitano, e si
• divertiva a cercarne il domicilio, chiedeva dove fosse finita la famiglia Peri no
(così si chiamavano quelli che per oltre due secoli fecero questo mestiere).
Era un mago quel nonno! Riusciva a incantarmi con le sue storie.
E seguendo il fiume si arrivava a Casa Professa e, più oltre, al Ponticello. Per-
ché c'era un ponticello di ferro per attraversarlo soprattutto in inverno. Ecco
perché quel nome alla via ... Che meraviglia! Quando sfociavamo a Bai Iarò mi
ricordava immancabilmente che già "a suo tempo" il mercato era fiorente e
affollato, visitato da mercanti catalani, genovesi, pisani, amalfitani, napole-
tani, lombardi; e pure maltesi, tunisini ... Era tutta gente che veniva per affari
e ognuno vestiva alla maniera del suo Paese. Non dimentichiamo che fu uno
dei mercati più antichi e affollati dell'isola. Un mercato alimentare dove si
trovava di tutto. Preciso come ora.
Ecco perché per giungere a Ballarò mi piace iniziare da San Giovanni degli Ere-
miti: è un godimento lasciarsi scivolare lungo il letto del Kemonia per finire
tra vicoli, piazzette, prima di giungere alle voci, agli odori, ai colori dell'antico
mercato. Provate pure voi a rifare lo stesso percorso cercando di immagina-
re come dovevano essere una volta quei luoghi. Con gli stessi suoni, gli stessi
odori, le stesse tende colorate ... È un modo per entrare nell'anima di quel mer-
cato incredibilmente vivo che è ancora oggi Ballarò.
15

Un mare Osservate bene. A sinistra la cupola di Casa Professa, mentre a destra si vede
quella del Carmine con il suo bel lanternino. Due isole che sorgono da un mare
di tetti. Tegole come onde smosse dal vento. Sotto c'è l'Albergheria e il merca-
di tetti to di Ballarò. Sembra di sentirne gli odori e le voci.
San Nicolò
16
e la torre

La chiesa di San Nicolò c'era già nel


Duecento. Il suo interno oggi ci appa-
re dimesso perché nel corso dei secoli
ci hanno messo le mani in tanti produ-
cendo solo danni. Purtroppo. Ci scopri-
rete, in ogni caso, un quadrone, datato
1749, che ci mostra com'erano la zona
dell'Albergheria e il mercato di Ballarò
all'epoca. Occasione per fare pure voi
un piccolo viaggio nel tempo. Rimane di
grande interesse il prospetto che rivela
elementi medievali accanto ad altri dal
sapore rinascimentale. Assai elegante il
portale che è sormontato da un'edicola
barocca con una statuina della Madon-
na di bella fattura.
La torre campanaria non c'entra per
nulla con la chiesa trattandosi di una
"torre civica" a difesa delle mura e
del quartiere. Nel Cinquecento ci fu
pure un orologio meccanico, rimosso
e scomparso negli anni Sessanta, per
mettere in luce la bifora a cui era stato
attaccato. Si prevedeva di posizionarlo
più in basso contro il muro, ma non se
ne fece più nulla ... Siamo a Palermo e al-
lora non chiedetevi mai il perché.
18

Chiesa Me la fece conoscere nonno Gaetano. Fu in una calda giornata d'agosto e lui
per farmi riposare mi portò in questa chiesa freschissima. Mentre s'allentava la
cravatta togliendosi il panama, mi disse di guardarmi in giro e dirgli cosa mi pia-
della Madonna cesse. Gli risposi che questa Madonna mi piaceva molto. «Hai visto? Rassomiglia
alla pescivendola che c'è qui davanti perché il pittore voleva una popolana ». Era
del Carmine vero. Mi disse che era stata dipinta mentre Cristoforo Colombo era per mare.
Scoprii più tardi che era tutto vero. Tomaso da Vigilia la dipinse nel settembre
Maggiore del 1492. Non l'ho mai dimenticato.
La chiesa attuale è secentesca anche se i padri carmelitani ci stanno sin dall 'e-
poca normanna. A loro si deve l'arrivo dalla Palestina di una melanzana gene-
ticamente modificata e non ve-
lenosa come quella più antica, la
badingian portata dagli arabi, che 19
per questo fu detta "mela insana"
a causa dell 'eccesso di solanina.

La chiesa non è stata costruita su
un pianoro, ma è stato ribassato
il livello della piazza per cui si ri-
corse a una scalinata interna che
mai si vide in una chiesa. Serpot-
ta e i Gagini hanno lasciato ope-
re splendide da non perdere. Tra
tende colorate, montagne di frut-
ta, fumi di stigghiole, fa l'occhioli-
no la possente cupola rivestita di
maioliche colorate e con quattro
giganteschi telamoni che la so-
stengono. Non lasciatevi distrar-
re dal mercato...
-
20
Biblioteca
21
comunale
Ogni volta che passo davanti alla
chiesa della Casa Professa vado
indietro di tanti anni, quando la
vidi distrutta dalle bombe e con
tanti operai che setacciavano le
macerie mettendo da parte ogni
pezzetto di marmo e ogni mat-
tone che sarebbero serviti per la
sua ricostruzione, che vidi giorno
dopo giorno andando a scuola. A
piedi, come si usava. Fu di grande
utilità l'Archivio Alinari che pos-
sedeva le foto di ogni dettaglio.
Grande fu la mia emozione quan-
do mi portarono a vederla ultima-
ta. Ricordo ancora le lacrime di
mia madre.
Nell'antica Casa Professa dei Ge-
suiti si trova la Biblioteca comu-
nale che conserva l'anima stessa
di questa città: le sue memorie,
non solo cartacee, ma pure una
importante collezione numisma-
tica. È il luogo della memoria dal
1775 quando i libri vennero da
case patrizie, monasteri e con-
venti, frutto spesso di generose
donazioni.
22

Attaccagghieddi Un bello spirito sull'aletta di questo scatolone pieno di antichi libriccini scrisse
(sbagliando pure l'ortografia) questo: "ATTACCAGHEDD/" che nella nostra lin-
gua sta per nastrini e robetta da merceria, se con ortografia corretta ... Meravi-
glioso proprio in questo tempio della nostra cultura!
23

Macerie l'.ultima guerra è ormai un ricordo per tutti gli europei. Meglio ancora: non se la
ricorda più nessuno, tanto che ripetiamo gli stessi errori di prima. Basta legge-
re i giornali dei nostri giorni. Soltanto da noi è possibile vedere le macerie dei
e degrado bombardamenti alleati del '43. Quell 'auto e il cassonetto ci fanno capire che è
foto dei giorni nostri. Forse si provvederà alla loro rimozione, ma non sappia-
mo quando. Fa un certo senso osservare il banano cresciuto in mezzo a questo
squallore: la natura ha ripreso il sopravvento sulla stupidità degli uomini.
Intanto resta il relitto del bel pa-
lazzetto settecentesco con il por-
24 tale elegantissimo della chiesetta.
Tutto quanto murato da mani pie-
tose che hanno messo un sudario
su quelle rovine. Fa riflettere l'edi-
cola votiva realizzata di recente e
protetta dalle auto con un paio di
dissuasori "fatti in casa"...
25

Commercianti Ieri come oggi: osservate bene i prodotti, chi vende, chi acquista ... Certamente
"a suo tempo" non c'era il pomodoro, il cartellino con il prezzo, la plastica, ma
c'era il kasher e l'ha/al che fanno ancora parte della nostra cultura e tradizione
alimentare, assieme alla gioia e al sorriso dei piccoli davanti a tutto questo ben
di Dio.
Non vi stupite, vestivano così anche i nostri nonni. Il mercato di Ballarò è sem-
pre stato uno spazio di frontiera in cui confluiscono le diversità. Le contrapposi-
zioni tra "noi e loro" si dissolvono. È così da sempre da queste parti.
26

Il mercato è, fin dall 'origine, luogo di negoziazioni: si compra, si vende. Qui pre-
Gente che vale il concetto di domanda/offerta e così si discute, si tira sul prezzo prima di
concludere. Per qualsiasi cosa: merci, carni, frutta e verdura, pesci, cibo cotto,
tratta, oggetti. Per questo motivo si fondono proprio qui passato e presente, antico e
moderno che ora possono dialogare, trattare.
tira sul prezzo, Questo mercato è stato definito dai sociologi un "fatto sociale totale" perché i
rapporti tra gli uomini attraverso gli scambi non sono soltanto aspetti economi-
discute ci, ma pure aggregativi, ludici, relazionali.
S~Fo-o-cl
Sicilian ~'WIIL'it!DJ - -
e; t l'ieet fo-o-d,P~metan.o-
27
Street Food

Ho visto la stessa foto in bianco e


nero alcuni anni fa in occasione di
una mostra sulla nostra emigra-
zione negli USA. Una contadina
siciliana con lo stesso sguardo,
con un fazzolettone in testa e due
bambini tristi e coperti di strac-
ci ai lati; dietro c'era una botte-
ga con la scritta "ltalian-Sicilian
Food". Preciso. Questa immagine
ci mostra i bambini ben vestiti e
sorridenti. Vuoi vedere che qui
riescono a trovarsi bene pure
loro? ... Benvenuti a Palermo.
28

Da Umberto C'è qualcuno che saprebbe resistere davanti a questo ben di Dio? Quello che
non è esposto lo trovate fotografato. No, non è possibile stare a dieta in un po-
sto del genere. Capito perché Ballarò resta il mercato delle mille tentazioni?
a Ballarò Andate in giro con gli occhi pronti a cogliere le mille sfumature che vi vengono
offerte. Noterete che qui civilmente "si convive", perché accanto allo sfmcione
c'è il kebab.
29

Polpo bollito Questi turisti non hanno potuto fare a meno di cedere alla tentazione della foto.
Un bel majulinu con i suoi otto tentacoli e quel colore che sembra uscito dalla
tavolozza di Guttuso ... Ma l'avranno assaggiato?
Tavolozza
30 •
primavera-
estate

Non si può restare indifferenti


davanti a una esposizione di frut-
ta e verdura come questa. Ne è
compiaciuto il proprietario e si
vede. Questo non è un banco di
fruttivendolo, ma una tavolozza
di colori e accostamenti studiati
da un artista.
Anche se i broccoli sono fuori sta-
gione!
Totò e le sue
31
diversificazioni •
commerciali

In questa chiesetta sconsacra-


ta dal magnifico portale che da
solo farebbe la gioia di una città,
esercita "Odori e sapori da Totò".
A cornice del carrettino leggia-
mo "uva passa - pinoli - canditi
- frutta secca - caramelle - legu-
mi - spezie". C'è l'i mbarazzo della
scelta.

Qualche mese dopo Totò ha rin-


novato la sua attività commercia-
le con un assortimento di "baccalà
originale" che ci induce a pensare
che ci sia in giro un falso baccalà
o delle imitazioni cinesi o giappo-
nesi. E poi c'è il cartellino del prez-
zo a € 7, 99 che fa riflettere su un
concorrente agguerrito ...
Il concorrente
32
di Totò

... E, difatti, lo abbiamo trovato! È


lui che vende "filetti di baccalà a€
8 Kg", ma in una "Torrefazione".
In nessuna parte del mondo a
qualcuno verrebbe in mente di
acquistare baccalà in una torrefa-
zione di caffè ...
33

Totò e le arance Ma il nostro Totò non si arrende. Esce finalmente allo scoperto e ci fa capire che
si è adeguato alle esigenze del mercato. Arance questa volta, ma si è fatto furbo.
Come vedete fa la concorrenza a se stesso. Tarocchi differenziati dalle arance
bionde con prezzi diversificati, come insegnano i manuali di economia. Mono-
prodotto, d'accordo, ma con diversificazione qualità/prezzo per meglio aderire
alle richieste del mercato. Del marketing Totò ha capito tutto.
34

Quando da bambino attraversavo Ba li arò per andare a scuola mi rendevo con-


Don Carmelo to del trascorrere del tempo, delle stagioni, proprio dai banchi e dalle abban-
niate. Un esempio sono le immagini che ci mostrano don Carmelo e la sua epa,
quattro stagioni ben protetta da maglie di lana, in pieno inverno con tanto di colbacco e i ma-
gnifici finocchi in primo piano. Odorano di terra e l'argilla che resiste ricorda
agli intenditori che sono ricchi di quei sapori sulfurei che ricevono dalla zolla
di terra rossa.
A giugno don Carmelo protegge la sua epa con appena
una canottiera. Davanti a lui il pomodoro costolato tipico
di giugno e le pullanchel/e che gli italiani chiamano pan- 35
nocchie. Sbagliando pure loro: difatti le pannocchie sono
le inflorescenze maschili in cima alla pianta. Il termine
esatto è spiga. l'.avreste mai pensato? E chi lo dice al no-
stro don Carmelo?

A luglio il caldo a Palermo si fa feroce. È tempo di Fi-


stinu, tempo di babbaluci. Don Carmelo è passato allo
short avvinto all'epa grazie all 'ausilio delle bretelle.
Manca il cartellino del prezzo dei babbaluci: non è mai
esistito perché è "a merito", cioè a seconda della faccia
di chi li compra. Se vi presentate in giacca e cravatta li
pagherete a prezzo di caviale del Volga ...
Il fumo di
36
contrabbando

A Ballarò troverete di tutto e di


più. Come se fosse zona franca,
non facesse parte del territorio
della Repubblica italiana. Non po-
teva mancare la bancarella con le
sigarette estere di contrabbando.
Però tutto bene ordinato con tan-
to di listino prezzi. Noterete che si
viene incontro anche a coloro che
non possono disporre della cifra
per il pacchetto. In basso a sini-
stra il listino prevede infatti "siga-
rette sfuse a € 0,30 l'una". Come
noterete, l'assortimento soddisfa
tutti i gusti e tutte le borse.
37

Vendeva Non la vedo da molto tempo. Me la ricordo ancora perché vendeva soltanto li-
moni: belli da vedere, da mangiare, da spremere. Qualche volta aveva anche i
cedri, delizia di noi ragazzini. Ci era proibito il coltellino e allora li grattavamo
limoni contro i muri per morderli poi come una mela ... Chissà che fine ha fatto? Non ho
mai chiesto il suo nome anche se la conoscevo da anni. E poi non amava farsi fo-
tografare. Soltanto Andrea c'è riuscito una volta, quasi sorprendendola mentre
trattava con una cliente.
38

Il five o' clock Non è una via di Beirut e neppure di Damasco. Ballarò più che un mercato è un
fatto sociale. È la continuazione della piazza medievale dove tutti s'incontrano e
mangiano passeggiando ... Le stigghiole c'erano già quando nacque il mercato ol-
palermitano tre mille anni fa. Sono passate da poco le ore 17 e s'innalzano verso il cielo i fumi
delle budelli ne arrostite sulla brace. Roba da far venire l'acquolina in bocca pure
agli dèi dell'Olimpo. Per favore non chiamatele "budelline" o peggio "stigliale" che
sarebbe un conato di italiano che mal si addice a un così nobile piatto siciliano che
deve il suo nome al latino extilia, cioè "interiora", e dunque il diminutivo affettivo di
extilio/a dimostra tutto il nostro affetto. Da quando si servivano nel Thermopolion
delle città greche di Sicilia, surrogarono la costosissima carne, lontana anni luce
dalle possibilità economiche dei poveracci. Dalla faccia dello stigghiolaru non pare
che tutto questo lo possa impressionare più di tanto.
39

Il fumo Quando s'innalza il fumo odoroso e bianco da quel tubo di ferro che sembra il
cubilotto di un'acciaieria, allora è autunno. Si può passare alla camicia con mani-
ca lunga e magari a una giacchetta. Sono le castagne arrostite, neppure parenti
dell'autunno delle italiane caldarroste. Le nostre sono biancastre per il sale marino che, mes-
so a piene mani sul fuoco, ricopre le castagne scoppiate di una patina biancastra
e piacevolmente salata. Quel tanto che ci farà apprezzare il dolce della casta-
gna. Un tempo indicava a noi ragazzi l'inizio della scuola. Era il regalo che ci face-
vano le nostre madri che venivano a prenderci a scuola. Bastava non chiederlo.
Banchi Non solo tendoni e ombrelloni, ma arch itetture effimere rinnovate giorno per
giorno non tralasciando neppure la foto della "buonanima del fondatore" della
40
del pesce ditta. Lo spettacolo più effimero è quello del banco del pesce. Deve essere cam-
biato spesso per far capire, subito, che "non è il pesce di ieri ", perché il cliente
ha buona memoria. E quindi il banco va rinnovato creando innanzitutto l'abbon-
danza vistosa delle merci con codici cromatici che non sono mai casuali. I pesci
minuti e da taglio sono distribuiti sul ghiaccio tritato o sull'alga aggiungendo
pure motivi ornamentali come ross i pomodori laddove c'è il merluzzo, una testa
d'aglio aperto tra sgombri e pesce azzurro in genere, un letto d'alga per il pesce
più pregiato. Non manca mai il mezzo limone o un bel ciuffo di prezzemolo. A
parte montagnole di cozze e vongole. Assolutamente sul marmo bianco il polpo
majulino ben disposto in modo che si possano vedere gli otto tentacoli; in una
cassetta, con tanto ghiaccio tritato sotto, i gamberi rossi e soprattutto esposto
a parte in "bellavista" il gamberone di Mazara, per far passare magari in secondo
piano il cartellino con il prezzo ... A dominare sulla massa ci deve essere il pesce-
spada che "deve" mostrare la sua carne e soprattutto la spina centrale per far
capire agli intenditori che di spada si tratta e non di delfino! Lo deve attestare
sempre la presenza della testa con spadone in alto. È un lavoraccio, ma un indi-
catore della qualità del pescivendolo. Se poi vorrà conquistarsi le simpatie delle
signore dovrà sventrare il pesce domandando sempre come sarà cucinato per
sapere se deve lasciare le scaglie. Tentazione dei buongustai sono il "bicchie-
rino" con il giallo-arancio dei ricci e quello con il nero di seppia già pronto per
essere versato sul bucatino. Mai spaghetto, per favore.
t..:abbanniata? .. .Deve ricordare al viandante il mese in cui ci troviamo e il pesce
che in quel momento abbonda e, per conseguenza, costa anche meno. Le boghe
di marzo (vopi) e le sardine fresche sono come uno squillo di tromba per le brave
massaie che faranno il piatto classico per la festa di San Giuseppe: pasta con le
sarde e vope arrostite.
41

Tunnina Chiariamo subito che il tonno è, per noi siciliani, un pesce; quello che portiamo
in tavola è tunnina, al femminile. No, non sbagliamo. Anzi. Seguiamo i dettami di
Archest rato di Gela che già quattrocento anni prima della nascita di Cristo ci
consigliava di dare la preferenza alla carne delle femmine perché più gustosa,
più tenera ... E poi lasciate perdere la pubblicità televisiva: il tonno pinna gialla è
il meno buono, noi amiamo il tonno rosso. Che, garantito, non si spezzò mai con
un grissino. Era quello che si pescava nelle nostre tonnare tra maggio e giugno.
Era il "porco di mare", come si diceva, perché non si buttava nulla e quello che
non si mangiava fresco si conservava sotto sale. Mangiamo fresco pure il lattu-
me che, stando al pudico dizionario del Traina, è «sostanza bianca consistente
che si trova nei maschi al tempo della fregola e con la quale essi fecondano
le uova », insomma lo sperma del tonno che, bollito e fritto, è una delizia. Si
42 conservava il resto: pensate alla bottarga, uova di tonno, alla f,cazza che è il
salame di tonno, al prumuneddu che sono i polmoni del tonno seccati e salat i.
Brutto segno quando il venditore ci piazzava sopra due garofani rossi. Nel
discreto linguaggio del marketing dell'epoca significava che eravamo attor-
no a San Giovanni o San Pietro, fine giugno, e senza frigo e ghiaccio quello
che rimaneva puzzava già. Ebbene, le nostre nonne lo compravano a buo n
prezzo e dopo averlo bollito lo mettevano sottolio in una burnìa (barattolo
nella nostra lingua) con due foglie di alloro, del pepe in grani e una scorzetta
di limone. La chiamarono vugghiuta , tonnina bollita, e fu la nonna del tonno
in scatola!
Quello che avete visto è un bel tonno e si stanno preparando gli "stalli" -
come si chiamano i tagli del tonno - che sono 25: roba per intenditori perché
ogni parte ha una sua destinazione culinaria. Fatevi consigliare prima di ac-
quistarlo. Viziosi? Per nulla. La gola non fu mai un vizio e neppure un pecca-
to. Soltanto una sfida, il guanto lanciato a colesterolo e trigliceridi.
Pescecane Discorso a parte meritano i pesci poveri per la zuppa. In parole povere i pesce-
cani. La pesca degli squali lungo le nostre coste fu , ed è ancora così ai giorni no-
stri, soltanto occasionale. Se qualche specie incappa nelle reti non si butta via. 43
È facile trovare sui banchi del mercato il surci 'mpiriali, squalo volpe, il palumbo
nelle due varietà palummo e "palumbo stellato" detto però 'mpiriali. Non manca

la vintrisca, cioè lo squalo ventresca, il gattopardo attupardu, fino al più umile
muzzòlu che sarebbe lo squalo canesca. In genere vengono esposti privi di testa
e di pelle per evitare che si possano facilmente identificare e magari impres-
sionare l'acquirente. È buona tecnica, in attesa di ripulirli per l'esposizione, mo-
strarli di schiena, come si vede nell 'immagine.
La loro carne è reputata necessaria nelle solenni zuppe di pesce dove abbonda
ancora lo zafferano. Per molti raffinati intenditori sono leccornie se cucinati in
una agghiotta o "alla matilotta", francesismo che sta per "marinara" nel trapa-
nese. Lasciatevi sempre consigliare dal pescivendolo. Se vi dovesse indicare lo
squatru non dite di no: si tratta dello Squalus squatina dei biologi marini, delizia
raffinata se cucinata proprio alla matilotta.
Another random document with
no related content on Scribd:
EL HOMBRE PONE Y DIOS DISPONE
Ó
LO QUE HA DE SER EL PERIODISTA

Gran cosa dijo el primero que anunció este proverbio, hoy tan
trillado. Si hay proverbios que envejecen y caducan, éste toma por
el contrario más fuerza cada día. Yo por mi parte confieso que á
haber tenido la desgracia de nacer pagano, sería ese proverbio una
de las cosas que más me retraerían de adoptar la existencia de
muchos dioses; porque soy de mío tan indómito é independiente,
que me asustaría la idea de proponer yo, y de que dispusiesen de
mis propósitos millares de dioses, ya que desdichadamente ha de
ser hombre un periodista, y, lo que es peor, hombre débil y
quebradizo. Ello no se puede negar que un periodista es un ser bien
criado, si se atiende á que no tiene voluntad propia; pues sobre ser
bien criado, debe participar también de calidades de los más de los
seres existentes: ha menester, si ha de ser bueno y de dura, la
pasta del asno y su seguridad en el pisar, para caminar sin caer en
un sendero estrecho, y como de esas veces fofo y mal seguro; y
agachar como él las orejas cuando zumba en derredor de ellas el
garrote. Necesita saberse pasar sin alimento semanas enteras como
el camello, y caminar la frente erguida por medio del desierto. Ha de
tener la velocidad del gamo en el huir para un apuro, para un día en
que Dios disponga lo que él no haya puesto. Ha de tener del perro el
olfato, para oler con tiempo dónde está la fiera, y el ladrar á los
pobres; y ha de saber dónde hace presa, y dónde quiere Dios que
hinque el diente. Le es indispensable la vista perspicaz del lince
para conocer en la cara del que ha de disponer, lo que él debe
poner; el oído del jabalí para barruntar el run run de la asonada; se
ha de hacer, como el topo, el mortecino, mientras pasa la tormenta;
ha de saber andar cuando va delante con el paso de la tortuga, tan
menudo y lento que nadie se lo note, que no hay cosa que más
espante que el ver andar al periodista; ha de saber, como el
cangrejo, desandar lo andado, cuando lo ha andado de más, y cómo
de esas veces ha de irse sesgando por entre las matas á guisa de
serpiente; ha de mudar camisa en tiempo y lugar como la culebra;
ha de tener cabeza fuerte como el buey, y cierta amable
inconsecuencia como la mujer; ha de estar en continua atalaya
como el ciervo, y dispuesto como la sanguijuela á recibir el tijeretazo
del mismo á quien salva la vida; ha de ser, como el músico,
inteligente en las fugas, y no ha de cantar de contralto más que
escriba con trabajo; y á todo, en fin, ha de poner cara de risa como
la mona. Esto con respecto al reino animal.
Con respecto al vegetal parécese el periodista á las plantas en
acabar con ellas un huracán sin servirles de mérito el fruto que
hayan dado anteriormente: como la caña ha de doblar la cerviz al
viento, pero sin murmurar como ella; ha de medrar como el junco y
la espadaña en el pantano; ha de dejarse podar como y cuando
Dios disponga, y tomar la dirección que le dé el jardinero; ha de
pinchar como el espino y la zarza los pies de los caminantes
desvalidos, dejándose hollar de la rueda del poderoso; en días
oscuros ha de cerrar el cáliz y no dejar coger sus pistilos como la
flor del azafrán; ha de tomar color según le den los rayos del sol; ha
de hacer sombra, en ocasiones dañina, como el nogal; ha de volver
la cara al astro que más calienta como el girasol, y es planta muerta
si no; seméjase á las palmas en que mueren las compañeras
empezando á morir una; así ha de servir para comer como para
quemar, á guisa de piña; ha de oler á rosa para los altos, y á
espliego para los bajos; ha de matar halagando como la hiedra.
Por lo que hace al mineral, parece el periodista á la piedra en que
no hay picapedrero que no le quite una esquirla y que no le dé un
porrazo; ha de tener tantos colores como el jaspe, si ha de parecer
bien á todos; ha de ser frío como el mármol debajo del pie del
magnate; ha de ser dúctil como el oro: de plata no ha de tener ni
aun el hablar en ella; ha de tener los pies de plomo; ha de servir
como el bronce para inmortalizar hasta los dislates de los próceres;
lo ha de soldar todo como el estaño; ha de tener más vetas que una
mina, y más virtudes que un agua termal. Y después de tanto
trabajo y de tantas calidades ha de saltar, por fin, como el acero en
dando con cosa dura.
En una palabra, ha de ser el periodista un imposible: no ha de
contar sobre todo jamás con el día de mañana: ¡dichoso el que
puede contar con el de ayer! No debe por consiguiente decir nunca
como el Universal: «Este periódico sale todos los días excepto los
lunes»; sino decir: «De este periódico sólo se sabe de cierto que no
sale los lunes». Porque el hombre pone y Dios dispone.
VIDAS DE ESPAÑOLES CÉLEBRES
POR DON JOSÉ QUINTANA
TOMO III

DON ÁLVARO DE LUNA, CONDESTABLE DE


CASTILLA, Y FRAY BARTOLOMÉ DE LAS CASAS,
OBISPO DE CHIAPA Y PROTECTOR DE LOS
INDIOS

Triste es por cierto considerar que donde son tan pocas las obras
que pueden llamar fundadamente la atención de los literatos, se
atreviesen aun los acontecimientos y las circunstancias á estorbar ó
retardar la publicación de tal cual libro científico, luminoso ó bien
escrito. La obra que anunciamos fué comenzada ha muchos años
por el señor don Manuel José Quintana, poeta y literato bien
conocido y apreciado entre nosotros, bajo un plan perfectamente
concebido, y que llevado á cabo con la diligencia que el señor
Quintana se prometía emplear en ella, hubiera dado gloria á su
autor y lustre á su patria.
Desgraciadamente, los tristes acontecimientos y las revueltas
políticas que vinieron poco después de la publicación de las cinco
primeras vidas á conmover violentamente nuestra patria, y que
envolvieron en su torbellino al autor, fueron causa de que se
suspendiese este importante trabajo. Restituido á sus hogares,
como él mismo dice en el prólogo de este su tercer tomo, lo primero
á que atendió fué á revisar los estudios que en esta parte tenía
hechos, y poner en orden los más adelantados para su publicación.
Fruto de estas tareas continuas fueron las dos vidas de Vasco
Núñez de Balboa y de Francisco Pizarro, que se dieron á luz en el
año de 30, y las dos que ahora publica de don Álvaro de Luna y fray
Bartolomé de las Casas.
No es esta ocasión de hablar ni del primer tomo, ni del segundo de
esta obra, que ya en distintas ocasiones han sido juzgados y
apreciados justamente por los periódicos y por el público. La
diversidad de épocas, empero, en que se han publicado los tomos
de las Vidas célebres, han debido dar un carácter particular á cada
uno, ora por la influencia que ejercen siempre en el escritor las
circunstancias que le rodean, ora por el sello que las diversas
edades del autor no han podido menos de imprimir á trabajos
interrumpidos por muchos lustros. Nótese consiguientemente en las
primeras vidas, para servirnos de una expresión del mismo poeta
que analizamos, el hervir vividor de la juventud, el entusiasmo, el
encanto, el color de heroísmo con que suele complacerse la primera
edad del hombre en revestir todos los objetos que se presentan á su
vista. La materia de ellas contribuía también en verdad á prestar una
tinta más poética á aquellos hombres cuya historia, perdiéndose en
la oscuridad de los tiempos remotos, se clasifica naturalmente entre
las tradiciones fabulosas que presiden á la formación de las
sociedades. Por el contrario, conforme se acerca la historia á los
tiempos modernos, la multiplicidad de datos que se acumulan en
comprobación ó contradicción de los hechos, y la mayor importancia
que naturalmente damos á los que por más recientes se enlazan
con los nuestros, ó han podido tener influencia en ellos, atan al
historiador y tórnanle más circunspecto, dejando á la par menos
libertad á su imaginación para campear libre y osadamente. Así que,
en el primer tomo leemos continuamente al poeta. En el segundo, y
aun más en el tercero, leemos al historiador, si menos galano, más
filósofo. Vemos al hombre que ha pasado por el tamiz de las
revoluciones, que ha sufrido, que ha aprendido á conocer á los
hombres. El primer tomo descubre en todas sus páginas la
expresión noble y generosa de una alma joven y poética, que no ve
más allá de la exterioridad aparente en las acciones. El tercero
respira la amargura del desengaño, la triste verdad de la
experiencia. Las dos vidas que encierra este tomo ofrecían á su
cronista más que medianas dificultades, que ni ha desconocido, ni le
han arredrado. Don Álvaro de Luna, juguete de los caprichos de la
fortuna, víctima de su propia elevación, y escarmiento de favoritos,
es uno de los hombres que más celebridad han obtenido en nuestra
patria; de esa celebridad empero estéril, hija de una existencia tan
improductiva como ruidosa. Triste es reflexionar que entre los
muchos hombres que han inmortalizado su nombre en las páginas
de nuestra historia, es contado el número de los que han influido en
su prosperidad. De aquí ha nacido sin duda que la nación ha
permanecido estancada, cuando sus hijos adelantaban su fama
particularmente. Harto débiles para sobreponerse á su siglo y á su
país, en vez de prestarles su influencia, la han recibido de ellos: han
sucumbido á las circunstancias que los han rodeado, casi siempre,
en vez de dominarlas. Considerados políticamente nuestros grandes
hombres, han sido bien pequeños. En este número no puede menos
de colocarse el condestable; su paso, semejante al de la tempestad,
fué ruidoso, sí, pero nada fecundo. La reflexión política que parece
deducirse de la narración de la vida del condestable, es aquélla que
cita el mismo autor del cronista Pero de Guzmán, y en que nos
asegura abundar gustosísimo: «La mi gruesa é material opinión es
esta: que ni buenos temporales ni salud son tan provechosos é
necesarios al reino como justo é discreto rey».
Fray Bartolomé de las Casas, este hombre tan extraordinario, por
las opiniones que osó, casi temerariamente, adoptar en unos
tiempos en que creían sus compatriotas que el Hacedor supremo
había hecho á la raza india para uso particular de la Europa, y que
no dudó en ver hombres donde sólo veían siervos los demás; tan
locamente encomiado por los extraños, como injustamente
vilipendiado por los propios, es el objeto de la segunda parte del
tercer tomo. La vida de Fray Bartolomé pertenece más bien á la
humanidad entera que á la España sola. Las Casas no fué un
hombre de un talento superior: fué sí un hombre extraordinario por
su fanatismo filantrópico, digámoslo así. Éste es el juicio que de la
lectura de su vida resulta. Arrebatado en sus opiniones exclusivas, si
bien justas, su exaltación inutilizó y malogró casi siempre la pureza
de sus intenciones. No bastan éstas empero para constituir grande
al hombre: es preciso saberlas llevar á cabo y hacerlas triunfar.
Dirásenos que la fortuna pudo influir en el mal éxito de los afanes de
las Casas: ésta es una vulgaridad que nunca entenderemos: el
hombre superior hace la fortuna: conocedor de las circunstancias
que se oponen al logro de sus planes, las esquiva ó las dirige, y las
domina. El que sucumbe á ellas es el hombre vulgar; por más que
haya vencimientos más gloriosos que la misma victoria, nunca será
grande el guerrero constantemente vencido. Todo el mérito, pues,
que á las Casas podemos conceder es el de haberse adelantado á
su siglo en la manera de considerar á los Indios, el de un tesón á
prueba de todo desaire, el de un zelo ejemplar, y el de haber tenido
alguna influencia, si bien indirectísima é imperceptible casi, en
mejorar la existencia de algunas tribus americanas.—El señor
Quintana ha respondido victoriosamente en su prólogo á la
acusación que se le podía hacer de poco afecto al honor de su país,
cuando adopta tan francamente los sentimientos y principios del
protector de los Indios. «¿Se negará uno, dice en su prólogo, á las
impresiones que recibe, y repelerá el fallo que dictan la humanidad y
la justicia por no comprometer lo que se llama el honor de su país?
Pero el honor de un país consiste en las acciones verdaderamente
grandes, nobles y virtuosas de sus habitantes: no en dorar con
justificaciones ó disculpas insuficientes las que ya por desgracia
llevan en sí mismas el sello de inicuas é inhumanas». Si la noble
Independencia del señor Quintana, con la cual nosotros
simpatizamos, hubiera menester defensa, ¿qué podríamos añadir á
tan enérgicos renglones? El escritor no es el hombre de una nación:
el filósofo pertenece á todos los países: á sus ojos no hay límites, no
hay términos divisorios: la humanidad es y debe ser para él una
gran familia.
El señor Quintana, al continuar la vida de los españoles célebres,
hace un servicio señalado á su patria, á la literatura. Su narración
clara y elegante, su estilo conciso y fluido, su lenguaje castizo y
correcto pueden presentarse en este género como modelos: y el
criterio y la imparcialidad del historiador dan á su obra un lenguaje
distinguido entre esta clase de libros. Es de desear que este
Plutarco español continúe una obra que redunda tanto en honor de
su pluma como en gloria de nuestra patria.
REPRESENTACIÓN DE
LA NIÑA EN CASA Y LA MADRE EN LA
MÁSCARA
COMEDIA ORIGINAL

DE DON FRANCISCO MARTÍNEZ DE LA ROSA

Uno es el objeto del poeta cómico: la corrección del vicio que se


propone por asunto de su obra. Los medios que pueden conducirle
á su único fin son, en nuestro entender, diversos, porque no
creemos en la exclusión de género alguno. Si la ironía ó la parodia
de las situaciones de la vida y de las manías del hombre le
presentan el cuadro de su error y le conducen, avergonzándole de sí
mismo, al convencimiento y la corrección, también la pintura fiel de
las desgracias á que pueden arrastrarle sus vicios le llevan,
moviendo su corazón, al mismo resultado. Molière, jugando
locamente con los extravíos y presentándonos el lado ridículo de
nuestras preocupaciones, puede haber corregido á los más
pundonorosos. Kotzebue, desarrollando á nuestra vista las
circunstancias de las pasiones, y arrancando lágrimas al corazón,
puede haber corregido á los más sensibles. Si Regnard puede haber
hecho sonrojarse á un jugador, Ducange puede haberle hecho
arrepentirse. Para esto basta con que el poeta (adopte el camino
que quiera) presente siempre la verdad y no transija en punto con la
inverosimilitud. Este principio general, que dicta la misma
naturaleza, y que, sancionado por el simple sentido común, mal
puede ser recusado ni aun por el clásico más rígido, parece haber
sido reconocido hace ya tiempo por los poetas modernos; muchos
de ellos le han llevado hasta un punto tal, que no han vacilado en
adoptar á un tiempo ambos caminos: refundiendo en uno los dos
géneros encontrados, dirigieron contra el vicio moral que se
proponían corregir todos los recursos del arte. El primero que entre
nosotros ha dado el ejemplo de esta novedad dramática ha sido el
mismo Moratín, en quien encontramos esta diferencia esencial si le
comparamos con Molière, como creemos haber dicho ya en otra
ocasión. En la Comedia nueva aquel poeta no se contenta con
hacer ver á los espectadores cuán ridículo es un don Eleuterio, sino
que escarmienta crudamente á su protagonista, como desconfiando
de que bastase el ridículo á corregirlo. En el Viejo y la Niña no se
satisface con escarnecer la manía de un viejo que se cree capaz de
hacer por fuerza la felicidad de una joven: esle necesario cebarse
además en la desdicha de esta víctima inocente. En el Sí de las
Niñas, al paso que libra á la pública diversión el error de una madre
que profesa á su hija un amor mal entendido, mueve el corazón con
los lamentos de doña Paquita, y se complace en ponerla á dos
dedos del principio, por si, no bastando á las madres imprudentes la
representación de su ridiculez, han menester además que se les
descorra el velo del funesto porvenir que preparan á sus hijas,
violentadas por su indiscreto cariño. Entre los dramáticos que han
sucedido á Moratín, con más ó menos fortuna, unos han seguido la
escuela de Molière, otros la de Moratín. En la comedia que da
motivo á este artículo ha probado el señor Martínez de la Rosa,
como ya se traslucía en otras obras suyas, que no es la vis cómica
del primero su mérito principal. Los escritos de este autor descubren
en él, por lo general, un fondo de sensibilidad que debía hacerle
adoptar este género, que de buena gana llamaríamos misto, si nos
creyésemos con derecho y autoridad para poner nombres á las
cosas. Admitida esta observación, ¿cuál era el vicio ó el extravío
que se proponía combatir el poeta cómico en la Niña en casa y la
Madre en la máscara? No era una pasión en general, uno de esos
vicios que tienen un nombre y un carácter circunscrito, y que suelen
ser el mejor asunto de la comedia. El objeto es convencer á las
madres locas, á las viejas verdes, del riesgo á que exponen á sus
hijas cuando descuidan su educación por el torbellino del mundo, de
que no bastan á hacerlas prescindir ni su edad, ni su
responsabilidad doméstica y social. Objeto era éste profundamente
moral. El refinamiento de la cultura y sociabilidad moderna no
excluyen del mundo edad ni circunstancia alguna; pero si el mundo
no arroja de sí á las madres, si no las encierra en sus casas, la
moral y el interés de sus familias ponen ciertos cotos á su
disipación. Para lograr su fin y presentarnos el cuadro del
escarmiento, ya que no había adoptado de todo punto el arma del
ridículo, debía pintar á una niña inocente y candorosa, porque ésta
era la única á quien podía traer funestas consecuencias el
abandono de su madre, y esas consecuencias del tal abandono
debían ser tales que la misma madre se avergonzase de ellas y
llorase lágrimas amargas de arrepentimiento. Esto es justamente lo
que ha hecho el señor don Francisco Martínez de la Rosa: de suerte
que fuera injusticia negarle que su plan está bien concebido.
Teodoro, joven de perdidas costumbres, solicita á un tiempo á la
madre y á la hija: esto tiene la doble ventaja de probar que cuando
una niña sin experiencia se halla sola en el mundo, es más fácil que
haga una elección poco acertada, y de hacer ver á la madre que una
vieja loca nunca puede ser sinceramente querida. Hasta aquí sólo
encontramos que admirar en la Niña en casa. No nos sucede lo
mismo con respecto á los personajes accesorios del tío y de don
Luis. El primero es uno de esos personajes que, sin estar
precisamente de más en el argumento, están sin embargo poco
enlazados con él: así es, que en el tío no hay acción, no hay
movimiento. De estos viejos, echados como un libro en una comedia
para presentar el contraste, no con su carácter, sino con sus
máximas, tiene Moratín algunos. Nosotros entendemos que la moral
de una comedia no la ha de poner el autor en boca de este ó de
aquel personaje: ha de resultar entera de la misma acción, y la ha
de deducir forzosa é insensiblemente el espectador del propio
desenlace. El tío no sirve en la Niña en casa sino para hacer la
exposición, que en este supuesto resulta no ser muy ingeniosa ni
muy nueva, y para el desenlace, que también en rigor pudiera
haberse llevado á cabo sin él. Si es episódico el tío por no tener
gran parte en la acción de la comedia, ¿qué diremos de don Luis?
De éste sentimos, no sólo que está poco enlazado con el
argumento, sino que está completamente de más, y que perjudica
para el desenlace sobre todo. Es inútil, porque nada hace sino
precisamente lo que no debiera ni pudiera hacer nadie. Es
inverosímil que este hombre, testigo de la pasión de Inés, esté
siempre dispuesto á tomarla por esposa. Con respecto al
argumento, sólo una observación nos queda que hacer.
Es lástima por cierto que el señor Martínez de la Rosa, que maneja
el amor y el sentimiento en toda la comedia con tal tino, que
sorprende á la naturaleza y hace suyos los secretos de ella,
suponga á Inés, que nos pinta tan joven, tan inexperta, tan
apasionada, desimpresionada sólo porque encuentra á su amante
en su casa. Esto, á sus ojos, no teniendo otros antecedentes de su
carácter, no puede ser nunca más que una falta suficientemente
disculpada por el amor. Era preciso que para desengañarse Inés
tuviese pruebas de la bajeza de Teodoro, que supiese de él lo que
sabe el tío, y que se le hiciese conocer su doble y baja conducta. Y
aun en este caso, si podía renunciar á él, no por eso podría tolerar
siquiera en el momento del desengaño la perspectiva de otro
hombre y otra boda. Ese mismo escarmiento del hombre en quien
más había confiado debía llevarla á desconfiar doblemente de los
otros que le hubiesen sido indiferentes. Ésta es la naturaleza; por
otra parte no era el objeto de la comedia casar á la niña, sino
corregir á la madre; de suerte que desde el momento en que ésta se
desengaña queda concluida la comedia: qui ne sait se borner ne sut
jamais écrire, ha dicho un famoso crítico. Sin que queramos hacer
una aplicación exacta de este axioma al señor Martínez,
confesamos que es sensible que se haya dejado llevar de la antigua
tradición de que han de acabar con boda todas las comedias.
La misma inculpación pudiera hacerse con respecto á alguna
escena harto prolongada: las pasiones tienen un límite, una
expresión última, después de la cual nada se puede escribir que no
sea para descender. Por ejemplo, después de haberse arrojado Inés
á los pies de su amante, después de hacerle locamente dueño de su
albedrío, ¿qué les quedaba que hacer?, ¿qué les quedaba que
decir? Aquella escena pudiera haberse cortado allí en obsequio del
mayor efecto. En el desenlace se olvida el poeta de que tiene
esperando á la puerta á la madre, y prolonga igualmente demasiado
la escena del descubrimiento del amante y del desmayo de Inés.
Sensible nos es haber de encontrar defectos; pero en primer lugar
es sabido que el crítico no puede dejarse alucinar como el
espectador por las impresiones fugitivas; su deber es escudriñar, su
primera obligación la imparcialidad. En segundo lugar, si en esto
puede haber algún riesgo para el escritor, no será seguramente
cuando recae en un hombre del talento y el buen juicio del señor
Martínez. Sólo se ofende de la crítica severa el que no es capaz de
dejarla de merecer nunca. El talento superior la desprecia cuando es
injusta ó parcial, caso de que nos parece estar muy distantes; y
sabe darle su valor, y aun apreciarla, cuando es sincera, noble y de
buena fe.
Después de esta breve indicación de los lunares que, á nuestro
modo de entender, oscurecen el mérito de la Niña en casa, y que
apuntamos con harta desconfianza de nosotros mismos, entraremos
con más placer á encomiar lo mucho que en ella encontramos
superior. El carácter de la madre es excelente y sostenido: el de
Inés es delicado, tierno, profundo, está tocado con una maestría
encantadora: el de Teodoro era el más fácil de escribir, y sin
embargo nosotros nos contentáramos con que el actor encargado
de él le hubiese representado con igual tino que el autor le ha
escrito. Los medios de seducción empleados por el criado de
Teodoro, y sobre todo por la criada de Inés, son un modelo en su
género. Del lenguaje nada diremos, porque el elogiarle como un
mérito extraordinario en el señor Martínez, sería suponer que podía
no haber sido excelente: esto sería hacer una ofensa á este poeta,
uno de nuestros mejores hablistas, delante de quien hablaremos y
escribiremos siempre, en este particular, con respeto y con envidia.
La versificación difícilmente pudiera ser mejor, y el diálogo,
generalmente animado y cómico, está salpicado de chistes del
mayor gusto. Presiden á él siempre la cultura y el conocimiento de la
fina sociedad. En toda la comedia se descubre al filósofo, al poeta
cómico, al conocedor del hombre, en fin, á quien pocos pueden
igualar en ese tino con que se apodera del corazón y le conmueve
con una palabra sola á veces, con un solo ¡ay! El público, al aplaudir
esta comedia, no hace más que tributar una justicia de que ya había
dado pruebas en otras ocasiones.
ESPAGNE POÉTIQUE
CHOIX DE POÉSIES CASTILLANES DEPUIS
CHARLES-QUINT
JUSQU'À NOS JOURS
MISES EN VERS FRANÇAIS

Avec une dissertation comparée sur la langue et la versification


espagnoles,
une introduction en vers et des articles typographiques,
historiques et littéraires

PAR DON JUAN MARÍA MAURY


Ouvrage orné de plusieurs portraits.

Hubo un tiempo feliz para nuestra patria, en que supo en armas, en


política, en letras, dar la ley al mundo. Cuando es llegada para una
nación la hora de la gloria, parece que se complace el cielo en
acumular lauros de todas especies sobre su generosa frente. Tocóle
á la España esta época, y sublimóse á un grado de esplendor que
ya difícilmente alcanzará ni ella ni pueblo alguno. En un mismo siglo
expulsaba heroicamente de su profanado suelo los restos de la
opresión dominadora que, por espacio de ocho largos siglos, la
avasallara, y hacía ondear el estandarte de la cruz sobre las
mezquitas de la media luna: extendía el poder de sus armas
victoriosas por gran parte de la Europa: no contenta con tremolar el
pabellón español en las tres partes del mundo conocido, vínole éste
estrecho á su gloria, y lanzóse al vago inmenso del Océano,
buscando mundos nuevos que conquistar. Roma, Méjico, Lepanto
inclinaron sucesivamente la cerviz humillada bajo su poderoso cetro:
no le bastaba tampoco el dominio de la fuerza; no le satisfacía que
el sol no se pusiese nunca en sus dilatados términos, era preciso
que el ingenio español desplegase también su poderío, y
concluyese la conquista de las armas. Á la sombra de los ganados
laureles nacieron y crecieron hombres que previnieron é inutilizaron
para la patria los posibles rigores del olvido. Lope y Calderón no
fueron efectivamente nuestras glorias menores. Si cuando
circunstancias de doloroso recuerdo hicieron degenerar después á
la España, quedaron sus grandes hechos consignados en la
historia, para servir de eterna reconvención á las degradadas
generaciones posteriores, los escritos de nuestros grandes hombres
permanecieron como blanco perpetuo de envidia para los que
después de ellos habían de venir.
Olvidada luego la antigua influencia nuestra, levantadas otras
naciones á ocupar el puesto privilegiado que vergonzosamente les
cedíamos en el rango de los pueblos, la literatura no podía menos
de resentirse de nuestra decadencia política y militar: callaron los
cisnes de España; una nación vecina, de quien atinadamente dice el
señor Maury: Le goût naquit français, creó una literatura nueva, que
debía adolecer sin embargo de la influencia regularizadora,
acompasada, filosófica del siglo en que aquélla prosperaba. Millares
de preceptistas creyeron leer en Horacio lo que nunca acaso había
pensado decir; Shakespeare y Lope fueron sacrificados en las aras
de la nueva escuela, y el gusto se asentó sobre las ruinas del genio;
el corto número de sus apasionados hubo de contentarse con
admirarlos en silencio; nadie osó alabarlos sin rubor. Entronizada la
nueva escuela, que nada debía en verdad á la España, ésta debía
quedar borrada del mundo literario, y un célebre crítico pudo decir
de ella impunemente: un rimeur sans péril delà les Pyrénées, etc., y
llamarla bárbara, sin que nadie se atreviese á sospechar que se
podría volver por ella algún día victoriosamente. Las épocas y los
gustos se suceden sin embargo rápidamente, y el hombre debía
volver á conocer que no había nacido sólo para un mundo de
amarga y disecada realidad; escritores osados intentaron sacudir el
yugo impuesto por los preceptistas; el mundo debía encontrar al fin,
en política como en literatura, la libertad para que nació; la literatura
española debía surgir desde este momento y aparecer más radiante
que nunca, como un inmenso fanal oscurecido largo tiempo por una
espesa niebla. Los Alemanes fueron los primeros que desenterraron
nuestras bellezas, y Calderón vino á serles un objeto de culto. Había
falta sin embargo todavía de una obra que hiciese conocer á la
nación exclusiva que los españoles son hombres también y poetas.
Tan grande empresa debía arredrar al más osado. No bastaba decir:
«Aprendan ustedes á leer el castellano». Esto hubiera sido acaso
reproducir la Casandra de Troya, y era preciso decir: «Aprendan
ustedes en francés á leer el castellano». Don Juan María Maury,
nuestro compatriota, tomó sobre sí la arrojada empresa de
convencer al sordo que se negaba á oir, y si es cierto que in magnis
audisse sat est, la idea sola del señor Maury constituye el mayor
elogio de su obra.
Esta idea llevaba empero en sí misma un escollo inevitable: la
índole de la lengua y de la poesía francesa, tan opuesta á la
española, debía ser un obstáculo invencible. El intentar la perfección
hubiera, pues, sido desatino: en acercarse á ella estaba la victoria;
admitido este principio, creemos que la ha alcanzado muchas veces
el señor Maury. El plan de su obra es el más á propósito para el
objeto que se propone: la colección de poesías escogidas hubiera
sido incompleta sin una reseña histórica de nuestra literatura; este
vacío ha tratado de llenar su introducción. Convenimos con el
Monitor francés que al analizar la España poética siente que el autor
se haya dejado llevar de su inclinación y aun de tal cual parte de
amor propio al escribirla en verso; amor propio disculpable en un
español que ha podido desplegar tales fuerzas en el difícil empeño
de poetizar en una lengua extraña. Este plan envuelve el
inconveniente que abraza el punto mismo: una historia de literatura
llena de fechas y nombres propios es argumento harto estéril para
las musas: al quererlo tratar poéticamente le ha sido forzoso al autor
embarazar su lectura con notas históricas, si bien importantes,
prolijas, y á veces minuciosas. Una disculpa encontramos con todo
á su introducción poética. Acaso necesitaba el autor captarse la
benevolencia de sus lectores creando en ellos hacia él una
prevención favorable de su suficiencia. Si tal fué su objeto, hale
conseguido sobradamente. Las noticias biográficas de nuestros
poetas era otro punto importante que no podía olvidarse en
semejante trabajo.
Con respecto al desempeño de la obra en general, varios críticos
franceses se apresuraron á admitir en la literatura francesa al señor
Maury, que se había adquirido indudablemente no pocos títulos á
ocupar en ella un lugar distinguido.
«La expresión de don Juan Maury, dijo un periódico francés
haciendo el juicio de esta obra, siempre elegante, anuncia un
estudio profundo de la lengua francesa». Tacháronle otros de una
concisión harto incorrecta, de licencias inútiles, y de haber
españolizado demasiado la poesía francesa. Esto, á nuestro
entender, sobre ser lo más atrevido que ha podido hacer, nos parece
un bien hecho á la lengua francesa, harto poco libre y
desembarazada, y esta verdad la han confirmado escritores
modernos de aquel país que después del señor Maury han roto las
antiguas cadenas de la sintaxis francesa. Después de haber leído
Notre-Dame de Paris, obra que ha hecho indudablemente una
revolución en la lengua del Sena, la inculpación hecha á Maury cae
por sí sola.
Más fundado nos parece el reproche que se le ha hecho de poca
fidelidad al texto que traduce: abrevia y suprime á veces con notable
perjuicio del original: ejemplo de esto puede ser la égloga de
Garcilaso, Salicio y Nemoroso; otras amplifica, desliendo un
pensamiento enérgico en más versos franceses de los necesarios.
Puédele obligar á lo primero el miedo de verter al francés ideas
propiamente españolas, cuya osada energía no consiente la índole
de la poesía francesa, y en el segundo la precisión de rimar y
redondear los pensamientos en una poesía que apenas admite les
enjambements. Hay en cambio traducciones bellísimas, y en
algunas creemos que ha mejorado el original. Ejemplo de las
primeras puede ser la fábula de El caballo y la ardilla de Iriarte. Lo
mismo puede decirse de la oda Á las estrellas de Meléndez, de la
Rosa de Rioja, etc.
Interminable empeño sería el de presentar en un artículo de
periódico, acaso ya demasiado largo, los muchos trozos que pueden
servir de modelo á traductores, y en que ha sabido vencer el señor
Maury la inmensa dificultad que le oponían la diversidad de índoles
de las lenguas, de poesías, de giros, de locuciones, etc.
Contentémonos con que haya dado una idea ventajosa, si á veces
incompleta, de nuestros poetas á los extranjeros, y reconozcamos
francamente en honor de Maury que los más de los defectos no son
culpa del autor, y que las más de las bellezas son propias suyas.
Garcilaso, santa Teresa, Luis de León, Herrera, Cervantes,
Góngora, Lope de Vega, los Argensolas, Quevedo, Rioja, Villegas,
Luzán, Cadalso, Iriarte, Meléndez, Iglesias, Noroña, Cienfuegos,
Moratín, Quintana y Arriaza son los poetas que el autor ha puesto á
contribución para formar esta colección escogida: no ha olvidado por
eso que poseemos una inmensa riqueza literaria de autores
desconocidos, en nuestros romanceros sobre todo: al coger de ellos
los mejores y más afamados, ha creído deber dar una idea de este
género puramente español, en que se hallan consignados los
hechos principales de nuestra historia, y que es el verdadero
depósito de la tradición fabulosa é histórica de nuestros tiempos
primitivos.
Alguna reconvención pudiera hacerse al señor Maury acerca de la
elección de algunas piezas; pero es difícil desnudarse de toda
prevención y parcialidad amistosa, sobre todo cuando ha de
hablarse de poetas contemporáneos: desde la dedicatoria se
observa una predilección, que no llamaremos precisamente injusta,
hacia las poesías del señor Arriaza; pero con la cual no convenimos
del todo, sin que esto sea negar el sello de picante originalidad y de
estro poético que casi siempre caracterizan á este escritor.
Generalmente hallamos mejor traducido el género heroico y el de
las fábulas. Quevedo, por ejemplo, era intraducible, y el señor
Maury, en una sola composición jocosa que de él escoge, lo ha
probado. No habiéndole traducido él victoriosamente, creemos que
puede cualquiera renunciar á este empeño. Rioja, Quintana y los
romances son los que han encontrado más simpatías en la índole
de la lengua francesa; la tendencia filosófica de los primeros, y el
vigor varonil y sabor anticuado de los segundos, pueden haber
contribuido á esto.
Mucho sentimos no poder citar largamente los elogios que diversos
periódicos franceses tributaron á la España poética á la sazón de su
publicación.
«Si don Juan Maury, dijo uno de ellos, es español de nacimiento,
diríasele francés por el talento con que escribe la lengua de Racine,
ora en prosa, ora en verso, y cosmopolita por lo bien que sabe
apreciar todas las lenguas de Europa». Nosotros diremos más. Don
Juan Maury ha sabido hacerse con dos patrias: ha conquistado con
su España poética su naturalización en la literatura francesa: no
sabemos cuál le debe más, si esta que ha enriquecido con una
noticia que no podía sin vergüenza ignorar, ó la española, cuyo
mérito ha sabido hacer valer entre los extranjeros.
Sabemos que el señor Maury piensa en introducir y poner en venta
en su patria esta obra impresa en París, que sólo conocen hasta la
presente los más afectos á la literatura: deseamos ardientemente
que la aprobación de nuestros compatriotas confirme nuestro débil
juicio y dé realce al voto que en su favor han emitido los diarios
extranjeros. Entre tanto no podemos menos, como españoles, de
felicitar al señor Maury por su importante trabajo y su acertado
desempeño en general. Y la literatura española que había tenido un
intérprete para los Italianos en Conti, y para los Ingleses en la
Antología española de M. Wiffen y en el informe de lord Holland
sobre Lope de Vega, debe igual servicio con respecto á los
Franceses al señor Maury. Sería, pues, imperdonable ingratitud en
nosotros criticar con más rigorosa severidad una obra á quien tanto
debemos por todos respectos los literatos zelosos de la gloria de las
letras españolas.

Potrebbero piacerti anche