The Quiet Girl 1st Edition S. F. Kosa Full Chapter PDF

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The Quiet Girl 1st Edition S. F.

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la massa romana, tramutando quel macello in fuga. Ma Annibale non
si die’ per vinto: raccolse alle ali quel che rimaneva della prima e
della seconda linea, mentre Scipione imbarazzato dai cadaveri, che
gli giacevano innanzi, in mezzo al campo, allungava il suo fronte
collocando ai lati la seconda e la terza linea e nel centro quel che gli
restava della prima. Così i due eserciti vennero all’urto finale, che fu
terribile. Le sorti del combattimento apparivano ancora incerte,
allorchè alle spalle delle milizie di Annibale comparve la cavalleria
dei Romani, reduce dall’inseguimento nemico. L’esercito cartaginese
fu avvolto; e la mossa e la sorpresa di Canne si rinnovarono. Dei
60.000 cartaginesi, ben 20.000 rimasero sul campo, ed altrettanti
furono fatti prigionieri; lo stesso Annibale potè salvarsi a stento con
un pugno di cavalieri ad Hadrumetum [47].
Da Hadrumetum il generale si recò tosto a Cartagine a consigliare,
come quarant’anni prima, suo padre, dopo le Egadi, la pace. E la
pace fu fatta. Cartagine riconosceva il nuovo regno di Numidia nella
persona di Massinissa; entro i confini che Roma le avrebbe indicati.
Si impegnava a pagare a questa, per cinquant’anni, una
contribuzione annuale di 200 talenti; a consegnare, salvo dieci, tutte
le navi e gli elefanti da guerra; ad abbandonare, per ora e per
l’avvenire, ogni conquista esterna; a limitare i suoi armamenti,
rinunziando alle leve dei mercenari stranieri; a far guerra in Africa
solo con licenza dei Romani (201). Così, dopo poco più di
sessant’anni di guerra, il più grande Stato dell’Occidente, europeo
ed africano, spariva dal numero delle grandi potenze.
Roma aveva vinto perchè, possedendo la Sicilia, aveva per sè il
vantaggio strategico, cosicchè Cartagine dovè attaccarla con il lungo
giro fatto da Annibale; perchè, per la maggior parte della guerra, si
tenne sulla difesa e non passò all’offesa che sull’ultimo; perchè le
colonie latine rimasero fedeli, cingendola di una corazza di fortezze
invincibili; e perchè dei sudditi, Galli, Italici, Greci ed Etruschi, solo
una parte si ribellò. A queste tre ragioni conviene aggiungerne una
quarta: l’esercito di coscrizione. Gli eserciti romani, reclutati con leve
obbligatorie, erano più scadenti degli eserciti cartaginesi, composti di
soldati di mestiere; onde si spiegano le gravi disfatte dei primi anni.
Ma in compenso Roma potè disporre di forze più numerose; onde
alla fine, la guerra essendo durata così a lungo, la quantità vinse la
qualità.
Note al Capitolo Ottavo.

39. Polyb., 2, 13, 7; 3, 27, 9 dà il testo della clausola capitale del trattato:
μὴ διαβαίνειν Καρχηδονίους ἐπὶ πολέμῳ τὸν Ἴβηρα ποταμόν. Si tratta,
dunque, come gli storici non hanno avvertito, di un accordo, con il quale
Cartagine accettava una limitazione delle sue armi, impegnandosi a non
mandare truppe oltre l’Ebro, per nessuna ragione; e non già di una
delimitazione delle due reciproche sfere d’influenza. Come Polibio
stesso osserva, i Romani, con questo trattato, non riconoscevano punto
la Spagna al di là dell’Ebro quale territorio cartaginese (2, 13, 7).

40. Cfr. Polyb., 2, 24: uno dei capitoli più importanti di tutta l’opera del
grande storico.

41. Queste, come le cifre precedenti e seguenti, risalgono a un’epigrafe


dettata dallo stesso Annibale in memoria delle sue gesta italiche, a
Lacinium, che lo storico Polibio conobbe e seguì nella sua grande opera
(3, 56). Non abbiamo accolto i dubbi della moderna critica tedesca sulla
presunta esagerazione di queste perdite, sia perchè Annibale ci pare
fosse in grado di sapere quanti soldati aveva perduti meglio dei
professori moderni; sia perchè la storia militare ci avverte come, in
parecchie grandi campagne, antiche e moderne, le perdite che gli
eserciti hanno subite per via dell’inclemenza delle stagioni, sono state
più gravi di quelle toccate nelle vere e proprie battaglie campali.

42. Il nome tradizionale dello scontro, è quello di battaglia del Ticino; ma il


luogo preciso ove avvenne la battaglia è incerto.

43. Molto hanno discusso gli eruditi per ritrovar dove fossero queste famose
paludi; e con tanto maggiore accanimento, perchè Polibio e Livio non
solo si contradicono tra di loro su questo punto, ma sono ambedue
oscuri e imprecisi. Senonchè per sciogliere i dubbi non c’è che un
mezzo: tener conto della ragione militare. Annibale non può aver
imposto al suo esercito la fatica di marciare per parecchi giorni nelle
paludi con l’acqua a mezza gamba, se non per evitare un ostacolo che
gli sbarrava la strada. Ora dalla battaglia delle Trebbia sino alla battaglia
del Trasimeno il solo ostacolo serio che egli doveva incontrare, era
Arezzo, dove Flaminio l’aspettava. Noi sappiamo d’altra parte che
Annibale eluse Flaminio, sbucandogli all’improvviso alle spalle, tanto
che Flaminio fu costretto a rivoltare il fronte del suo esercito e inseguirlo
nella direzione del Trasimeno. È dunque chiaro che Annibale ha gettato
il suo esercito nelle paludi, per aggirare la posizione di Arezzo,
costringere Flaminio ad uscire in campo aperto, invece di assalirlo nella
posizione fortificata.

44. La più sicura biografia politica di Fabio Massimo è contenuta in


un’epigrafe, dettata in sua memoria e in suo onore; CIL, I, p. 288, n.
XXIX.

45. La nostra descrizione della battaglia di Canne deriva principalmente dal


racconto di Polibio, 3, 110 sgg.

46. Il testo del trattato è contenuto in Polibio, 7, 9.

47. Fonte principale della descrizione della battaglia di Zama è al solito


Polibio, 15, 9-14.
CAPITOLO NONO
L’EGEMONIA MEDITERRANEA

56. La guerra con la Macedonia (200-196 a. C.). — La guerra


annibalica aveva dissanguato l’Italia. Ma Roma aveva conquistato
tutta la Sicilia, incluso il territorio siracusano, e la Spagna, ricca di
uomini e di metalli. Signora della Sicilia, della Sardegna, della
Corsica e della Spagna, essa dominava ormai il Mediterraneo
occidentale. Gli errori degli avversari, la saggezza del senato, il
valore dei soldati, la tenacia dello spirito pubblico, la fortuna, che
tanto può in queste cose, avevano concorso a far di Roma, in meno
di un secolo, una delle maggiori, forse già la maggiore potenza del
bacino mediterraneo. Si potrebbe quindi aspettare che Roma
proceda d’ora innanzi, fatta ardita dalla fortuna, ad ingrandire il suo
impero. Per quale ragione Roma non avrebbe, come Alessandro
poco più di un secolo prima e sia pure con maggiore lentezza,
cercato di sfruttare subito i favori della fortuna?
Invece, dopo la seconda guerra punica, avviene nella politica
romana un subito rivolgimento. Giova intenderlo bene, se si vuole
capire come a Roma venisse fatto di creare l’impero più duraturo del
mondo antico. La prima spinta a questo nuovo corso fu data dagli
affari di Oriente. Mentre Roma era alle prese con Cartagine, l’Egitto
era andato indebolendosi per diverse ragioni, le più di ordine interno;
la Siria invece, sotto la forte mano di Antioco il Grande, e la
Macedonia, sotto il governo intelligente, se pur oscillante, di Filippo,
si erano notevolmente rafforzate. Perciò, morto nel 204 Tolomeo IV e
passata la corona dell’Egitto a un fanciullo minorenne, Tolomeo V
Epifane, i due sovrani di Macedonia e di Siria si erano alleati per
spartirsi i possessi dei Lagidi posti fuori dell’Egitto. Nel 202 Antioco
aveva invaso la Palestina, Filippo si era gettato sulle Cicladi, sul
Chersoneso tracico e sulle coste della Bitinia, senza che l’Egitto,
governato da una reggenza incapace e rapace, movesse un dito. Ma
le città, che preferivano il protettorato nominale dei Lagidi al duro
governo macedonico, si erano difese da sole; le città libere, Rodi,
Chio, Cizico, Bisanzio, spaventate anche esse dalle ambizioni di
Filippo, avevano stretto alleanza, assoldato milizie — etoliche la più
parte —, apprestato navi; Attalo, Re di Pergamo, si era unito a
questa alleanza. Senonchè la guerra era stata ripresa nel 201 da
Filippo, e con tanto vigore, che Rodi ed Attalo erano ricorsi per aiuto
a Roma. Erano sopraggiunti di lì a poco ambasciatori degli Ateniesi,
a chiedere anche essi aiuto, essendo, in seguito ad un incidente
fortuito, venuti in guerra con Filippo, che aveva mandato un generale
ad invadere l’Attica. L’Egitto essendo impotente, Roma sola poteva
salvare l’Oriente dalla egemonia della Macedonia e della Siria.
Ma Filippo ed Antioco avevano scelto bene il momento. Se l’Egitto
era impotente, l’Italia era in mille difficoltà. Dal braciere del grande
incendio appena domato sprizzavano turbini di faville, che avrebbero
per lunghi anni sollevato incendi minori: guerre nella Spagna, vinta
ma non pacificata; guerre nella pianura padana, ove i Galli avevano
sino all’ultimo disperatamente combattuto per la causa cartaginese e
non accennavano a deporre le armi neppure dopo la pace; guerre in
Liguria, donde gl’indigeni infestavano le vie marittime tra l’Italia e la
Spagna, non che le coste galliche e iberiche. Poteva Roma, con
l’Italia esausta dalla grande guerra allora allora finita, impegnarsi a
fondo nelle faccende orientali, che in fin dei conti la toccavano molto
poco, solo per impedire che Filippo ed Antioco ingrandissero troppo i
loro Stati, a spese dei Lagidi? Noi sappiamo infatti che a Roma
l’opinione popolare reclamava la pace. Il senato invece non esitò ad
accoglier la domanda di aiuto; spedì a Filippo un’ambasceria, che gli
chiedesse di cessar dalle armi contro gli alleati; e, quando
l’ambasceria ritornò senza risposta, non esitò a far proporre ai
comizi dai consoli dell’anno seguente — il 200 a. C. — la guerra alla
Macedonia.
Come si spiega questo risoluto atteggiamento del senato? Tito Livio
pone in bocca al tribuno della plebe, che più strenuamente oppugna
la guerra, un discorso in cui accusa il senato e i Grandi di far
nascere di proposito le guerre l’una dall’altra, così da non finirle più;
e al console che pèrora la guerra un altro discorso, che si può
riassumere così: occorre far la guerra a Filippo in Macedonia, perchè
se no tra poco Filippo verrà a farla a noi in Italia [48]. In questi
discorsi, anche se inventati da Tito Livio, sono esposte le viste vere
dei due partiti, quello della pace e quello della guerra. Il popolo era
stanco di combattere; ma a quanti guardavano oltre il bisogno e
l’interesse del giorno, la guerra annibalica aveva dimostrato che,
mentre Roma allargava il suo impero oltre il mare, l’Italia non era
punto sicura. Annibale era pur riuscito ad entrare in Italia, e a restarci
sedici anni; non solo, ma a trovar soldati e aiuti e appoggi di tutti i
generi. L’Italia era questa volta scampata al pericolo; ma l’avventura
era stata troppo calamitosa, perchè la gente avveduta non reputasse
necessario premunirsi per l’avvenire. L’inviolabilità dell’Italia diventa,
da questo momento, un principio capitale della politica romana. Non
per altra ragione il senato volle nel 200 la guerra contro la
Macedonia, se non per tagliar la strada, prima che potesse mettersi
in cammino, ad un nuovo Annibale. La Macedonia era forte d’armi e
ricca di denaro; era stata alleata di Annibale; aveva già mostrato di
temere i Romani e di non gradire la loro presenza sulla sponda
orientale dell’Adriatico; non era infine più distante dall’Italia di
Cartagine; e — vantaggio di cui Cartagine non aveva goduto — era
uno Stato greco.... Non bisogna dimenticare che a quei tempi l’Italia
meridionale era ancora, per metà, greca; cosicchè uno Stato greco
poteva considerarla come un territorio riserbato al proprio impero.
Che cosa sarebbe successo se un giorno, mentre i Cartaginesi
continuavano copertamente ad alimentare nell’Italia settentrionale la
rivolta dei Galli, la Macedonia avesse tentato di assalire Roma dal
sud, rivoltando contro di lei i Greci del mezzogiorno e ripigliando il
disegno di Pirro?
Il senato voleva dunque impedire alla Cartagine dell’Adriatico di
rafforzarsi troppo. Ma il popolo non ne voleva sapere; e nei comizi
respinse la guerra. A sua volta il senato insistè; si sforzò di
convincere il popolo, facendolo arringare da numerosi oratori; riuscì
a portar di nuovo la questione ai comizi, e, questa volta, a vincere il
punto. Il fatto è d’importanza, perchè ci dimostra quanto la guerra
annibalica avesse accresciuto l’autorità del senato e dell’aristocrazia.
Il partito democratico-rurale, che prima della guerra annibalica
veniva acquistando potere, era sparito durante la guerra; e non è
difficile intenderne la ragione. In quegli anni terribili Roma dovette,
non disputar di politica, ma difendersi: il senato, che solo sapeva
dirigere una guerra così lunga e così vasta, predominò per necessità
di governo, crebbe di prestigio e di forza, e si ritrovò alla fine pieno
degli uomini o dei figli degli uomini, che si erano illustrati in tante
battaglie, unito e concorde come non era stato mai, perchè le rivalità
di partito, le gelosie e gli odi di famiglia si erano indeboliti, e quasi
del tutto era stata cancellata l’antica differenza tra patriziato e
senatori plebei. Noi conosciamo i nomi di 148 senatori, che dal 312
al 216 avevano coperto le così dette magistrature curuli, la dittatura,
la censura, il consolato, l’edilità curule: 73 sono patrizi e 75 plebei; e
mentre i 73 senatori patrizi appartengono a 15 famiglie soltanto, i 75
senatori plebei appartengono a 36 [49].
La guerra contro la Macedonia fu dunque imposta dal senato al
popolo, come la prima guerra contro Cartagine era stata imposta dal
popolo al senato. Ma il senato non mirava punto ad una guerra di
conquista in Macedonia. Ogni anno era necessario mandare un
esercito nella Gallia Cisalpina a combattere i Galli che, guidati da
irregolari cartaginesi, incominciavano una guerra atroce di sorprese
e d’imboscate, di paci simulate e di rivolte subitanee. Roma non
poteva impegnarsi in una impresa transmarina troppo ardita. I
disegni del senato erano modesti: costringere Filippo a raccogliere in
più piccolo cerchio le sue ambizioni; e costringerlo non con le armi
soltanto, ma anche e più con l’arte diplomatica, sfruttando le infinite
e inviperite discordie del mondo greco. Roma era già alleata con il
Re di Pergamo, con Atene, con Rodi: occorreva guadagnare gli
Etoli, da lungo tempo nemici della Macedonia; gli Achei, che invece
inclinavano piuttosto all’alleanza macedonica; e quanti altri popoli o
Stati si potesse: accerchiare insomma Filippo e obbligarlo a cedere,
risparmiando denari e soldati. Il che ci spiega il singolare e incerto
andamento della guerra. Nel primo anno i due principali avversari
sembrano, più che cercarsi, schivarsi. Il console Publio Sulpicio
Galba sbarca ad Apollonia in Illiria con un esercito e lì si ferma, per
far dell’Illiria una base di operazione contro la Macedonia e per
intrigare presso gli Etoli, gli Achei e i piccoli principati illirici. Filippo
invece si butta con notevoli forze nell’Attica, dove operavano forze
romane, rodie e pergamee sbarcate a difesa di Atene. Queste
riescono di sorpresa a impadronirsi di Calcide, ma non osano
affrontare Filippo; Filippo per rappresaglia devasta l’Attica, mentre
intriga per tirare dalla sua gli Achei. L’anno 200 si chiude perciò
senza eventi decisivi. Sulpicio è riuscito a guadagnare gli Atamani e
alcuni piccoli principi illirici; ha fallito invece con gli Etoli e non è
venuto in contatto con l’esercito macedone; Filippo a sua volta ha
tentato invano gli Achei. Etoli e Achei vogliono vedere come si
metteranno le cose, prima di decidere. Sulpicio capisce che la sola
presenza di un esercito romano in Illiria non basta a scuotere i due
popoli: e l’anno dopo, nell’estate del 199, irrompe attraverso l’Illiria
nella Macedonia superiore, mentre la flotta romana, unita con quella
di Attalo e di Rodi, attacca le coste della Macedonia, l’Eubea e le
isole minori. Filippo si reca a fronteggiar l’esercito romano, ma non si
impegna a fondo; a sua volta il console romano non cerca di
costringere il nemico a una battaglia decisiva, sia che non voglia, sia
che non possa; e dopo diversi combattimenti favorevoli alle armi
romane, quando gli Etoli si son dichiarati per Roma, invece di
avanzare verso il cuore della Macedonia, si ritira di nuovo in Illiria
come chi ha ottenuto il suo intento. Nella seconda metà del 199, egli
cede il comando al console Publio Villio che, giunto d’Italia dopochè
gli Etoli hanno accettato l’alleanza romana, muta il piano di guerra; e
pensa di minacciar la Macedonia, non più dal nord, ma dall’Etolia e
dalla Tessaglia. Al principio del 198 egli mette ad effetto il piano,
tentando di invadere la Tessaglia: ma più pronto, Filippo gli sbarra la
strada occupando una fortissima posizione nelle gole dell’Aoo.
Incapace di girarla e non sentendosi di assalirla di fronte, Villio si
ferma: per un certo tempo i due eserciti campeggiano di fronte,
senza muoversi; e chi sa quanto sarebbe durata quell’inazione, se
ancora nella primavera non fosse sopraggiunto il successore di
Villio, Tito Quinzio Flaminino, un giovane di molto ingegno e di molta
risolutezza. Il quale, dopo aver consumato quaranta giorni a
osservare il nemico senza muovere un passo e dopo aver tentato
invano di intendersi con Filippo, riuscì con l’aiuto di un principe
epirota a minacciare di aggiramento, per certi sentieri poco noti della
montagna, la posizione di Filippo. Allora il Re di Macedonia si ritirò in
Tessaglia, devastandola al suo passaggio, e dalla Tessaglia passò in
Macedonia; ma senza essere inseguito da Flaminino. Il console
romano si recò in Epiro, a ricevere la sottomissione di popolazioni
sino allora rimaste fedeli a Filippo; poi, insieme con gli Etoli, entrò in
Tessaglia e incominciò ad assediare tutte le città fedeli ai Macedoni
o presidiate da loro, sinchè all’avvicinarsi dell’inverno ritornò sul
golfo di Corinto, per provvedere ai quartieri d’inverno; con uno sforzo
supremo riuscì a guadagnare alla causa romana gli Achei,
promettendo loro Corinto; e con forze achee, aiutate da una flotta
romana, mosse contro questa città.
Insomma anche Flaminino non mirava a colpire al tronco la
Macedonia, ma a reciderne i rami troppo allungatisi, e la cui ombra
dava noia a Roma. Senonchè il terzo anno già volgeva al suo
termine, e la guerra non accennava a finire: a Roma molti erano
malcontenti e gli amici di Flaminino ne approfittarono per ottenergli il
prolungamento del comando. Essi convinsero senato e popolo che
la guerra andava per le lunghe, perchè ogni anno si cambiava il
generale. Flaminino tentò allora, nell’inverno dal 198 al 197, di finire
la guerra con le trattative; ma Roma voleva ottenere senza
combattere il premio della vittoria; ossia che Filippo abbandonasse
tutta la Grecia, comprese le piazzeforti di Demetriade, di Calcide e di
Corinto. Non fu possibile intendersi. Nel 197, Flaminino, raccolto un
esercito, mosse risolutamente per assalire la Macedonia. A questo
attacco serio Filippo dovè rispondere, parando sul serio. I due
eserciti si incontrarono finalmente a Cinocefale; e il macedonico fu
disfatto.
Alla battaglia seguì un armistizio, poi una tregua, durante la quale fu
negoziata la pace. Gli alleati di Roma chiedevano la distruzione della
Macedonia. Ma Roma non acconsentì. La Macedonia doveva
restare forte abbastanza, da essere baluardo della Grecia contro i
barbari del nord, ma non quanto fosse pericolo a Roma. La
Macedonia ebbe dunque la pace, acconsentendo ad abbandonare
tutti i possedimenti nell’Illiria, in Grecia, in Tracia, in Asia minore,
nelle isole dell’Egeo; a pagar mille talenti, metà subito metà in dieci
anni; a ridurre l’esercito a 5000 uomini e l’armata a 5 navi coperte; a
non fare alleanze e guerre fuori della Macedonia senza il consenso
del senato romano. Era insomma ridotta poco meno che alla
condizione di Stato protetto: ma era tanto vero che i Romani
volevano solo togliersi dal fianco il pericolo macedone, che dei vasti
territori conquistati non si appropriarono neppure un palmo. Gli Etoli
riebbero quel che avevano perduto nella prima guerra macedonica;
gli Achei ottennero Erea e la Trifilia; il territorio illirico fu dato a
principi illirici: quanto al resto, tutte le città greche, che erano state
soggette a Filippo in Grecia ed in Asia, furono da Flaminino
dichiarate libere, con un decreto che in mezzo a un delirante
entusiasmo fu letto dal proconsole romano nei giuochi istmici del
196. Esser dichiarate libere significava, per queste città, ridiventare
ciascuna autonoma, come nei tempi il cui ricordo splendeva ancora
così luminoso innanzi alla Grecia ormai tanto decaduta. Ai Romani
questa soluzione cadeva acconcia per sbarazzarsi del fardello di
tutte queste città, di cui non potevano caricarsi; per non cederle a chi
potesse servirsene contro la loro potenza; per rendere omaggio a
quella libertà repubblicana, che i Romani ammiravano tanto a
paragone della sudditanza monarchica.

57. La nuova politica dell’egemonia militare e diplomatica. — A


chi la giudichi alla stregua dell’insaziabile avidità di territori, che da
due secoli non dà pace agli Stati dell’Europa e dell’America, questa
pace può sembrar singolare. Avere in propria balìa la Macedonia e
la Grecia, e resistere alla tentazione! Ma dalla fine della guerra
annibalica in poi, man mano che gli anni passano, cresce in Roma
l’avversione agli ampliamenti territoriali. Se si vuol vigilare tutto il
Mediterraneo e spegnere sul nascere le coalizioni che l’invidia e la
paura possono ordire, non si vogliono ingrandire i confini dell’impero,
poichè le forze militari di Roma bastano appena a difendere quel che
già essa possiede. Questa moderazione era savia. L’esercito
romano si componeva di due parti: le legioni composte di cittadini
romani e i contingenti italici. Era necessario che tra queste due parti
ci fosse una certa proporzione, cosicchè i secondi non
soverchiassero troppo i cittadini. Ma i cittadini diminuivano: 262.321
nel 294-293 non erano più che 258.318 nel 189-188. Aumentare
l’esercito voleva dunque dire italicizzarlo. Inoltre il servizio militare
era a Roma, come abbiamo detto più volte, un dovere civico e non
un mestiere; onde, se Roma poteva con minore spesa di Cartagine e
dei sovrani orientali, che adoperavano milizie mercenarie, tenere
sotto le armi un esercito più numeroso, non poteva servirsene così
liberamente per spedizioni lontane, nè tenerlo sotto le armi per anni
ed anni. In tutti i tempi gli eserciti di leva hanno servito meglio a
difendere il proprio territorio, che a conquistare con guerre lunghe
territori lontani. Le legioni, mandate alla guerra di Macedonia,
avevano minacciato più volte di ammutinarsi [50]. Se non era facile
aumentare i soldati, anche più difficile sarebbe stato per Roma
aumentare il numero degli ufficiali e tutto il personale amministrativo,
quanto gli ampliamenti dell’impero avrebbero richiesto. Questo
personale non poteva essere somministrato che dall’aristocrazia
senatoria, sia perchè tutto l’ordinamento politico e militare della
repubblica posava sulla nobiltà, sia perchè la nobiltà aveva
acquistato un tal prestigio, che le classi medie e la plebe di Roma e
dell’Italia ormai non ammettevano più nemmeno di poter essere
comandate in guerra da uomini di altra condizione. Ma la nobiltà
romana era una piccola oligarchia — un centinaio di famiglie, sì e no
—, e non poteva mettere al mondo, ad ogni generazione, più che un
certo numero di generali, di ambasciatori, di giureconsulti, di
amministratori.
58. La guerra con la Siria (191-189). — Non è dunque da stupire,
se nel proposito di non ampliare più i confini dell’impero noi troviamo
a questo punto concordi tutte le classi e tutti i partiti. Il più illustre e
risoluto campione della nuova dottrina è lo stesso vincitore di Zama.
Riordinare le finanze, riconquistare definitivamente la valle del Po,
che era stata la cagione della seconda guerra punica, assicurarsi la
Spagna ancora riottosa, per il resto del mondo mediterraneo, tener
gli occhi aperti e impedire con tutti i mezzi il crescere di Stati troppo
potenti: questi sono i propositi capitali della nuova politica. Guerre,
sì; conquiste, no: tale è la singolare divisa di questa politica
negativa, per la quale Roma, sentendo, a torto o a ragione, di non
poter più crescere, voleva impedire ad altri Stati di oltrepassarla.
Senonchè questa politica non era nè facile nè di poco impegno.
Anche per essa le guerre generavano le guerre: concatenazione
fatale. La guerra con la Macedonia non era ancora terminata, e già
nascevano pericoli e preoccupazioni dalla parte della Siria. Nel 198
Antioco, mentre Roma e la Macedonia erano alle prese, conquistava
parecchie città poste sulla costa meridionale dell’Asia minore; nel
197 occupava Efeso; nel 196 metteva il piede in Europa, a
Lisimachia. E le città della Troade ricorrevano a Roma, implorando
aiuto, alcune anche facendo testo del decreto con cui Flaminino
liberava le città greche dell’Europa e dell’Asia. Roma era dunque, in
certa misura, impegnata a sostenerle; e difatti nel 196 i commissari
mandati dal senato a riordinare la Macedonia videro Antioco a
Lisimachia; e in forma cortese gli chiesero la libertà di quelle città.
Ma questi abboccamenti furono interrotti dalla falsa notizia della
morte del Re di Egitto, che obbligò il Re di Siria a ritornare nei suoi
Stati; e Roma, che non voleva impegnarsi alla leggiera in una nuova
guerra, si riservò di ripigliar la questione ad altro momento. Intanto
però un nuovo pericolo nasceva dalla parte degli Etoli. Gli Etoli non
solo non avevano ottenuto le spoglie della Macedonia dilaniata; ma
la libertà, concessa alla Grecia, era stata nefasta alle loro ambizioni.
Perciò incominciavano a intrigar contro Roma, sia sobillando le città
greche, sia invitando con viva istanza Antioco a passare in Europa.
Infine — e non era cosa di poco momento — Annibale, che, per
ragioni non ben chiare, era stato costretto a lasciare Cartagine,
giungeva nel 195 alla Corte di Siria!
Roma teneva d’occhio questi maneggi, ma desiderava di evitare una
nuova guerra in Oriente. La Gallia Cisalpina, ove ogni anno
occorreva spedir truppe; la Spagna, sempre inquieta e turbolenta,
davano già troppi fastidi. Perciò essa tentò a più riprese di
persuadere Antioco, con le buone, a ritornare in Asia,
abbandonando Lisimachia e a liberare le città greche; ma
inutilmente. Antioco vantava i suoi diritti storici sulle città traciche;
consigliava i Romani, se proprio eran tanto teneri della libertà delle
città greche, a liberare Taranto e Siracusa; e insomma sempre più
propendeva al partito anti-romano, che gli faceva ressa d’intorno.
Sinchè, nell’autunno del 192, fidando negli Etoli, i quali avevano
promesso che, al suo apparire nella penisola, tutta la Grecia si
sarebbe sollevata, approdava in Tessaglia con 10.000 fanti, 500
cavalli e 40 navi. Roma fu costretta a raccogliere la sfida. Per
fortuna, in quell’anno la Cisalpina era quieta; onde il senato potè
spedire nel 191 un forte esercito contro Antioco.
D’altra parte gli Achei, Atene, molte delle città greche, e lo stesso
Filippo di Macedonia parteggiarono per Roma: cosicchè, non
appena l’esercito romano sbarcò in Grecia, il Re di Siria, sentendo di
non poter tenere la Tessaglia, si ritirò verso la Grecia centrale. Al
passo delle Termopili, egli sperò di ritentare con maggior fortuna le
gesta di Leonida. Ma i Romani non erano i Persiani; Antioco fu vinto
e costretto a ripassare in Asia, mentre tutta la Grecia, ad eccezione
degli Etoli, di nuovo si sottometteva ai Romani. Poco dopo, la flotta
romana, rinforzata da quelle di Rodi e di Pergamo, sostenuta con
aiuti di tutti i generi dalle grandi città delle isole dell’Egeo — Samo,
Chio, Lesbo — vinceva nelle acque di Chio la flotta di Antioco,
assicurandosi il dominio del mare. Roma ne approfittò per preparare
subito una spedizione in Asia, che colpisse al cuore la Siria: impresa
vasta ed ardita, per la quale si pensò al vincitore di Zama. Ma Publio
Scipione non poteva esser rieletto console, poichè il tempo legale
non era ancora trascorso dalla sua ultima elezione: si pensò dunque
di eleggere console suo fratello, L. Cornelio Scipione, e di porgli
accanto, con titolo e autorità di proconsole, il fratello. Al principio del
190 Scipione passò in Grecia con il nuovo esercito; conchiuse una
tregua con gli Etoli, che ancora non volevano dichiararsi vinti; si fece
dare un contingente dagli Achei e attraversò la Macedonia e la
Tracia per passare in Asia; dove i Re di Pergamo e Rodi facevano
grandi preparativi per prestargli man forte. A sua volta Antioco
raccoglieva i rinforzi di tutti i suoi alleati dell’Asia minore: dei Galati,
dei Paflagoni, della lega Licia, del Re di Cappadocia; rinforzava la
flotta, l’anno prima vinta, dando il comando di una parte ad Annibale.
Ma Annibale fu vinto dai Rodî; Antioco non riuscì ad impedire il
passaggio dell’esercito in Asia; e tentò invano di vincere il Re di
Pergamo prima che si congiungesse con i Romani, poi di trattare.
Dovè dunque, sul finire dell’anno 190, accettare battaglia presso
Magnesia ad Sypilum; e in questa i Romani, grazie soprattutto
all’aiuto di Eumene, lo disfecero interamente. Caduta l’ultima sua
speranza, Annibale fuggiva in Bitinia, e il Re vinto abbandonava a
Roma tutta l’Asia al di qua del Tauro; acconsentiva a pagare in 12
anni una indennità di 15.000 talenti, a ridurre la flotta e a non tenere
più elefanti da guerra. Il bottino della guerra era stato dunque
copioso; ma Roma non tenne per sè che l’indennità di guerra, e
distribuì ai suoi alleati tutti i territori ceduti da Antioco. Le città greche
furono liberate; i Rodî ebbero buona parte della Caria e la Licia: il Re
di Pergamo ottenne la maggior parte e la migliore di quello che un
tempo era stato il giardino del regno dei Seleucidi: il Chersoneso
tracico, la Lidia, la Frigia e una parte della Caria (189) [51]. Non ci
furono, a Roma, discussioni e dissensi su questa pace. Tutti erano
d’accordo nella formula della nuova politica: guerre sì, conquiste no.
Dopo aver vinto, nel volgere di pochi anni Cartagine, la Macedonia,
la Siria — i tre maggiori potentati del tempo —; dopo averli costretti a
pagare ingenti indennità, Roma era ormai la potenza egemone del
Mediterraneo. Questa egemonia, sostenuta con il denaro dei vinti,
valeva agli occhi dei Romani più che gli ingrandimenti territoriali.
Note al Capitolo Nono.

48. Liv., 31, 6 e 7.

49. Cfr. G. Bloch, La République romaine; conflits politiques et sociaux,


Paris, 1913, p. 138.

50. Liv., 32, 3.

51. Polyb., 21, 14, 3 sgg; 22, 7, 7 sgg.; 22, 26, 1 sgg.
CAPITOLO DECIMO
IL CREPUSCOLO DELL’ANTICA ROMA

59. Rivolgimenti economici e sociali della prima metà del II


secolo. — Tuttavia queste guerre di Oriente, se non ingrandirono
l’impero di Roma, generarono un effetto anche maggiore:
precipitarono la rovina della antica Roma, che aveva fondato la
repubblica e latinizzato tanta parte d’Italia; e che già da più di un
secolo veniva alterandosi per opera dell’ellenismo. Quante cose non
erano cangiate negli ultimi cinquanta anni! Intanto, per la prima volta,
dopo secoli di continue strettezze, lo Stato conosceva la felicità del
facile e largo spendere. L’erario riboccava d’oro. Le miniere
d’argento della Spagna, le indennità imposte a Cartagine, alla
Macedonia e alla Siria, il bottino delle guerre della Cisalpina, della
Spagna e dell’Oriente — metalli preziosi, redditi di miniere, terre,
boschi, schiavi — lo colmavano. Cosicchè Roma poteva spendere
largamente, non solo per le guerre, ma pure per i servizi civili. Il
primo trentennio del secondo secolo è meritamente famoso per le
grandi opere pubbliche a cui si pose mano. Nel 187 si cominciò la
costruzione della via Emilia, che avrebbe continuato la Flaminia
attraverso la Cispadana, da Rimini a Piacenza; nel 181 si terminerà
la fognatura di Roma e il prosciugamento delle paludi pontine; nel
177 si aprirà attraverso l’Etruria la nuova via Cassia; la censura del
174 andrà famosa per il gran numero di lavori pubblici ordinati a
Roma e nelle colonie. Cosicchè mai come in questo trentennio gli
appalti pubblici erano stati così numerosi, lucrosi e molteplici: lavori
pubblici, forniture militari, imposte, dogane da riscuotere, miniere,
foreste, terreni appartenenti allo Stato. Molti giovani della media
classe rurale, che avevano portato un piccolo capitale dalle guerre di
Oriente e d’Occidente, sollecitarono e ottennero con facilità di questi
appalti, o da soli, o in società, o facendosi prestare dei capitali da
qualche persona ricca, che avrebbe partecipato al guadagno
comune. La conoscenza e la pratica di questa specie di affari si
diffusero; e in Roma e in Italia si formò in quel trentennio una classe
così numerosa di medi capitalisti, vivente agiatamente sulle
pubbliche forniture, che qualche decennio più tardi Polibio potrà dire
addirittura che «tutti i cittadini romani» facevano di questi affari [52].
Anche l’agricoltura e la pastorizia sembrano svilupparsi. Sin dalla
fine della guerra annibalica si era speculato a Roma largamente
sulle terre dell’Italia meridionale, rinvilite per le devastazioni e la
morte dei proprietari. In seguito, man mano che i capitali e gli schiavi
divennero più numerosi, tutta l’Italia si diede a speculare sul nuovo
ager publicus. Molti proprietari, latini o alleati, ne ottennero
facilmente un pezzo, che aggiunsero al loro campicello e misero a
coltura, dopo aver comperato degli schiavi, con le economie della
guerra. I più ricchi pigliarono in affitto vaste terre pubbliche, sia in
Italia che fuori, per pascolare mandrie di buoi, di maiali, di capre, di
pecore. La grande pastorizia doveva rendere molto in quegli anni;
chè gli eserciti consumavano molte pelli di capre per le macchine,
molta carne salata di porco per i soldati. Crebbe dunque nel senato
e nell’aristocrazia il numero delle grandi fortune fondiarie. L’antica
politica agraria è ripresa su più vasta scala: nelle nuove colonie della
Cisalpina, dedotte fra il 189 e il 177 — Bologna, Parma, Modena,
Aquileia, Lucca, Luni — si assegnano ai nuovi occupanti campi più
vasti che nelle antiche.
Acquistò forza anche maggiore e si diffuse di più lo spirito
mercantile, quell’inclinazione al commercio, che già due volte aveva
tentato di far di Roma una seconda Cartagine. Durante la seconda
guerra macedonica si eran veduti dei soldati romani esercitar l’usura
tra gli indigeni. Negli anni seguenti molti Romani e Italiani, contadini
e piccoli possidenti, che come soldati o fornitori degli eserciti
avevano conosciuto la Grecia e l’Asia, le loro ricchezze, i loro
commerci, comprarono, venduto il campo avito o con il gruzzolo
messo in disparte nelle guerre, una nave; gli uni si stabilirono a Delo,
che, dopo il 192, diventa un ricco emporio romano, e vi apriron
depositi di mercanzie asiatiche per i mercanti che venivano dall’Italia
a empire di vari oggetti la propria nave, e ai quali era più comodo far
capo a Delo, che a Rodi o a Corinto; altri esercitarono il commercio
tra Delo e Roma o nel Mediterraneo occidentale. Sorsero sulle coste
italiane molti piccoli cantieri; i boschi della Sila, dove si raccoglieva la
pece, furono appaltati dallo Stato a gran prezzo; membri della nobiltà
senatoria, a dispetto dei divieti [53], parteciparono ai lucri di questa
mercatura transmarina, prestando a liberi o a liberti i capitali
occorrenti per cominciare.
Insieme con l’ordinamento delle fortune si alterarono gli antichi
costumi e le antiche idee. Tornando dall’Oriente, soldati e mercanti
portavano il seme di nuovi lussi e bisogni. Se Roma era ancora
considerata in Grecia — e a ragione — come una brutta città, senza
monumenti e palazzi, imparava però a godere e a sfoggiare; e l’Italia
ne seguiva l’esempio. Poco dopo la seconda guerra punica, si
aprirono in Roma i primi bagni pubblici — sino ad allora il popolo si
era bagnato nel Tevere —; gli abili cuochi incominciarono in questo
trentennio ad esser pagati carissimi; si cercarono con grande spesa i
vini della Grecia e le costose ghiottonerie dei paesi lontani; si
importò dalla Grecia l’arte squisita di ingrassare i volatili; si videro —
scandalo nuovo — cittadini comparire nelle assemblee ubriachi,
magistrati avviarsi al foro mezzo brilli, tanto che nel 181 si fece una
legge per frenare la troppo diffusa inclinazione alla crapula. Belle
schiave e bei fanciulli acquistarono pure un gran prezzo.... Tra le
antiche, semplici e troppo rare feste latine furono intercalati nuovi e
costosi spettacoli, come la caccia alle belve e i giuochi dei gladiatori
in occasione dei funerali; la legge Oppia, che restringeva il lusso, fu
abolita nel 195; i profumi orientali, i tappeti babilonici, i mobili
incrostati di oro e di avorio incominciarono a vendersi anche in Italia,
massime a Roma.
Infine, nelle alte classi, la cultura greca mette radice. Tutti i giovani
delle grandi famiglie studiano ormai il greco. La filosofia greca apre
lo spirito alle idee generali. Le teorie politiche, elaborate dai Greci,
cominciano a essere conosciute e discusse dalla nobiltà, che fin
allora non aveva conosciuto altra scuola che la pratica e la
tradizione. I tentativi letterari, iniziati cinquant’anni prima, riescono a
creare le prime opere ragguardevoli. È questa l’età di Plauto, di
Ennio, di Pacuvio. Il primo scrive le più belle commedie latine; il
secondo introduce in Roma i metri greci e compone il primo poema
epico; il terzo innova in Italia il genere tragico.

60. Marco Porzio Catone e il movimento tradizionalista. — I primi


trenta anni del II secolo a. C. furono per l’Italia una di quelle età
felici, in cui anche chi comincia con poco può far fortuna; perchè il
tenor di vita, i desideri, l’industria, il commercio, l’audacia, la cultura,
crescono, ingrandiscono, si allargano insieme; onde il lavoro
abbonda, i guadagni sono facili, da ogni ricchezza nuova nascono
molte occasioni di lucro, le ricchezze figliano rapide. Noi diremmo
oggi, con orgoglio, che in quel trentennio Roma e l’Italia
progredirono assai. Ma i contemporanei invece si lamentavano che
Roma si corrompesse. Quel che noi chiamiamo progresso e civiltà,
gli antichi giudicavano corruzione. Già in questo trentennio, che a noi
par così prospero e fortunato, una sorda inquietudine angustia le
classi alte — specie la sua parte migliore —; e proprio in questo
trentennio apparisce nella politica romana un personaggio nuovo, il
puritano arcigno, che fa il broncio ai suoi tempi: Marco Porzio
Catone. Catone era nato a Tuscolo, nel 234. Era dunque un
coetaneo di Scipione l’Africano; apparteneva alla generazione che
aveva combattuto Annibale; e, nato da una famiglia modesta di medi
possidenti, aveva trascorso la sua giovinezza, combattendo contro i
Cartaginesi e coltivando il suo podere. Non era facile, in quella città
aristocratica, ad un modesto possidente salire alle più alte cariche
dello Stato. Ma Catone era intelligente, attivo, eloquente, energico,
coraggioso, onesto; e i tempi erano così difficili, che non
consentivano di trascurare un tale uomo. Aiutato da un patrizio, L.
Valerio Flacco, dalla cui famiglia la famiglia di Catone era protetta,
egli potè essere eletto a 29 anni questore, a 35 edile, a 36 pretore, a