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Peter Norman

Unità di apprendimento:
I Miti dello Sport

Corso di Scienze Motorie e Sportive - Prof Oddo Maurizio


Le fotografie, a volte, ingannano

Prendete questa immagine famosissima, per esempio:


racconta il gesto di ribellione di Tommie Smith e John
Carlos il giorno della premiazione dei 200 metri alle
Olimpiadi di Città del Messico.
L’abbiamo sempre guardata concentrandoci sui due uomini
neri scalzi, con il capo chino e il pugno guantato di nero
verso il cielo, mentre suona l’inno americano. Un gesto
simbolico fortissimo, per rivendicare la tutela dei diritti
delle popolazioni afroamericane in un anno di tragedie
come la morte di Martin Luther King e Bob Kennedy.

È la foto del gesto storico di due uomini di colore.


Per questo non abbiamo mai osservato troppo quell’uomo,
bianco, immobile sul secondo gradino
L’uomo bianco nella foto è il terzo, grande eroe,
emerso da quella notte del 1968
Si chiamava Peter Norman, era australiano e arrivò
alla finale dei 200 metri
In finale, Peter Norman fece la gara della vita,
partendo piano ma producendosi in un favoloso
recupero e migliorandosi ancora. Chiuse in 20.06, sua
prestazione migliore di sempre e record australiano
ancora oggi imbattuto, a 47 anni di distanza.
Ma quel record non bastò, perché Tommie Smith era
davvero “The jet” e rispose con il record del mondo.
Abbatté il muro dei venti secondi, primo uomo della
storia, chiudendo in 19.83 e prendendosi l’oro.
John Carlos arrivò terzo di un soffio, dietro la
sorpresa Norman, unico bianco in mezzo ai fuoriclasse
di colore.
Fu una gara bellissima
Generazioni rubate
Eppure la gara non sarà mai ricordata quanto la sua
premiazione, perché sul podio di quei 200 metri sarebbe
accaduto qualcosa di inaudito. Smith e Carlos avevano
deciso di portare davanti al mondo intero la loro battaglia
per i diritti umani e la voce girava tra gli atleti.

Norman era un bianco e veniva dall’Australia, un paese


dove c’erano tensioni e proteste di piazza a seguito delle
pesanti restrizioni all’immigrazione non bianca e
dell’apartheid che, per anni, aveva segregato gli aborigeni.

Gli australiani, tra i primi del ‘900 e fino agli anni Sessanta Opera intitolata The Taking of the
avevano persino imposto adozioni forzate di figli di nativi Children dell'artista Chris Cooke
a vantaggio di famiglie di bianchi per “anglicizzare” gli
aborigeni, sradicando dalla famiglie migliaia di bimbi. Una
tragedia passata alla storia con il nome di “generazioni
rubate”.
Tu credi nei diritti umani, Norman?
I due americani non sapevano come la pensasse Peter.
“Tu credi nei diritti umani, Norman?” gli chiesero.
“Sì”, disse lui.
Gli domandarono se credeva in Dio e lui, che aveva un
passato nell’Esercito della Salvezza, rispose ancora sì.

“Sapevamo che andavamo a fare qualcosa ben al di là di


qualsiasi competizione sportiva ma lui disse: <<sarò con
voi>> – ricorda John Carlos – Mi aspettavo di vedere
paura negli occhi di Norman, invece ci vidi amore”.

Smith e Carlos avevano deciso di salire sul podio


portando al petto uno stemma del Progetto Olimpico
per i Diritti Umani, un movimento di atleti solidali con
le battaglie di uguaglianza.
Io credo in quello in cui credete voi
Avrebbero ritirato le medaglie scalzi, per rappresentare la
povertà degli uomini di colore. E avrebbero indossato i famosi
guanti di pelle nera, simbolo del Potere Nero, per portare
l’attenzione sul tema dei diritti negati.
Ma, prima di andare sul podio, si resero conto di avere un solo paio
di guanti neri. “Come facciamo?”.
“Prendetene uno a testa” suggerì il corridore bianco e loro
accettarono il consiglio.
Ma poi Norman fece qualcos’altro.
“Io credo in quello in cui credete voi. Avete una di quelle anche
per me?“ chiese, indicando la spilla del Progetto per i Diritti
Umani sul petto degli altri due. “Così posso mostrare la mia
solidarietà alla vostra causa”.
I tre uscirono sul campo e salirono sul podio.
Il resto è passato alla storia, con la potenza di quella foto
Nella statua non c’è Peter Norman.
Il presidente del Comitato Olimpico Avery Brundage andò su
tutte le furie per quella protesta politica che non c’entrava nulla
con lo sport. La delegazione americana, anche: Smith e Carlos
furono sospesi dal team statunitense e cacciati dal villaggio
olimpico.
Tornati a casa i due velocisti ebbero pesantissime ripercussioni e
minacce di morte. Furono ridotti in povertà, costretti a smettere
di correre e a fare lavori per pochi soldi.
Ma il tempo, alla fine, ha dato loro ragione.
I diritti dei corridori e degli studenti neri hanno trovato sempre
più spazio e più voci alzate a difenderli e Smith e Carlos sono
diventati simboli e paladini della lotta per i diritti umani.
Sono stati riabilitati, collaborando con il team americano di
atletica, sono entrati nei libri di storia e per loro è stata eretta
una statua all’Università di San José.
Nella statua non c’è Peter Norman.
Un atleta dimenticato
Un atleta dimenticato, anzi, cancellato, prima di tutto dal
suo paese, l’Australia.
Quattro anni dopo Messico 1968, in occasione delle
Olimpiadi di Monaco, Norman non fu convocato nella
squadra di velocisti australiani. Per questa delusione lasciò
l’atletica agonistica, continuando a correre solo a livello
amatoriale.
In patria, nell’Australia bianca che voleva resistere al
cambiamento, fu trattato come un reietto, la famiglia
screditata, il lavoro quasi impossibile da trovare. Fece
l’insegnante di ginnastica, ma – non avendo ultimato gli
studi – non si trovò un modo di dargli un posto fisso. Lavorò
saltuariamente in una macelleria, recitò in piccoli spettacoli
teatrali, cercò di cavarsela come poteva.
Un infortunio in una staffetta corsa con alcuni amici gli
causò una grave cancrena con il rischio di perdere una
gamba.
Lui non mollò

Peter divenne dipendente dagli antidolorifici,


avvitandosi in una spirale di depressione e
alcolismo.

Per diversi anni Norman ebbe una sola


possibilità di salvarsi: condannare il gesto dei
suoi colleghi Tommie Smith e John Carlos,
smetterla di essere così testardo e sostenere
che l’Australia lo avesse penalizzato.

Ma lui non mollò e non condannò mai la scelta


dei due americani.
Ha pagato il prezzo della sua scelta

Norman morì improvvisamente per un attacco cardiaco


nel 2006, senza che il suo paese lo avesse mai
riabilitato.

Al funerale Tommie Smith e John Carlos, amici di


Norman da quel lontano 1968, ne portarono la bara sulle
spalle, salutandolo come un eroe.

“Ha pagato il prezzo della sua scelta – spiegò Tommie


Smith – Non è stato semplicemente un gesto per aiutare
noi due, è stata una SUA battaglia. È stato un uomo
bianco, un uomo bianco australiano tra due uomini di
colore, in piedi nel momento della vittoria, tutti nel
nome della stessa cosa”.
Le scuse del Parlamento Australiano
Solo nel 2012 il Parlamento Australiano ha approvato una tardiva
dichiarazione per scusarsi con Peter Norman e riabilitarlo alla storia
con queste parole:

“Questo Parlamento riconosce lo straordinario risultato atletico di


Peter Norman che vinse la medaglia d’argento nei 200 metri a Città
del Messico, in un tempo di 20.06, ancora oggi record australiano.
Riconosce il coraggio di Peter Norman nell’indossare il simbolo del
Progetto OIimpico per i Diritti umani sul podio, in solidarietà con
Tommie Smith e John Carlos, che fecero il saluto del “potere nero”.
Si scusa tardivamente con Peter Norman per l’errore commesso non
mandandolo alle Olimpiadi del 1972 di Monaco, nonostante si fosse
ripetutamente qualificato e riconosce il potentissimo ruolo che
Peter Norman giocò nel perseguire l’uguaglianza razziale”.
Sono stato piuttosto
fiero di farne parte
Le parole che ricordano meglio di tutti Peter Norman
sono quelle semplici con cui lui stesso spiegò le ragioni
del suo gesto:

“Non vedevo il perché un uomo nero non potesse bere la


stessa acqua da una fontana, prendere lo stesso pullman
o andare alla stessa scuola di un uomo bianco. Era
un’ingiustizia sociale per la quale nulla potevo fare da
dove ero, ma certamente io la detestavo. È stato detto
che condividere il mio argento con tutto quello che
accadde quella notte alla premiazione abbia oscurato la
mia performance. Invece è il contrario. Lo devo
confessare: io sono stato piuttosto fiero di farne
parte”. Peter Norman Statue
Albert Park, Melbourne - Australia

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