Storia di Cosa nostra: differenze tra le versioni
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Nel [[1989]] fu scoperto nel covo di [[Antonino Madonia]] (giovane "rampollo" della famiglia di [[Resuttana]], da sempre alleata ai Corleonesi) un [[libro mastro]] con quattrocento nomi di [[Concessionaria d'auto|auto-saloni]], [[boutique]], studi professionali, [[Ristorante|ristoranti]] e piccole [[Fabbrica|fabbriche]] con a fianco le relative cifre mensili o trimestrali delle estorsioni da pagare (il famigerato "[[Pizzo (mafia)|''pizzo'']]"), che variavano dalle 150.000 ai 7 milioni di [[Lira italiana|lire]]<ref name=":20" /><ref name=":109">{{Cita web|url=https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/04/10/cosi-800-commercianti-pagavano-il-pizzo-ai.html|titolo=COSI' 800 COMMERCIANTI PAGAVANO IL PIZZO AI BOSS - la Repubblica.it|sito=Archivio - la Repubblica.it|data=1993-04-10|lingua=it|accesso=2024-04-03}}</ref><ref name=":71" />. Delle quattrocento attività commerciali elencate, solo quattro ammisero alla polizia di pagare e nessuno collaborò alle indagini<ref name=":71" /><ref name=":109" />. Anche altri segnali preoccupanti giungevano da [[Catania]]: nel gennaio [[1990]] furono oggetto di attentati incendiari i magazzini [[Standa]] nel centro città mentre in novembre furono assassinati Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta, dirigenti delle Acciaierie Megara, che probabilmente non si erano piegati ad un tentativo di [[estorsione]].<ref name=":71" /> |
Nel [[1989]] fu scoperto nel covo di [[Antonino Madonia]] (giovane "rampollo" della famiglia di [[Resuttana]], da sempre alleata ai Corleonesi) un [[libro mastro]] con quattrocento nomi di [[Concessionaria d'auto|auto-saloni]], [[boutique]], studi professionali, [[Ristorante|ristoranti]] e piccole [[Fabbrica|fabbriche]] con a fianco le relative cifre mensili o trimestrali delle estorsioni da pagare (il famigerato "[[Pizzo (mafia)|''pizzo'']]"), che variavano dalle 150.000 ai 7 milioni di [[Lira italiana|lire]]<ref name=":20" /><ref name=":109">{{Cita web|url=https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/04/10/cosi-800-commercianti-pagavano-il-pizzo-ai.html|titolo=COSI' 800 COMMERCIANTI PAGAVANO IL PIZZO AI BOSS - la Repubblica.it|sito=Archivio - la Repubblica.it|data=1993-04-10|lingua=it|accesso=2024-04-03}}</ref><ref name=":71" />. Delle quattrocento attività commerciali elencate, solo quattro ammisero alla polizia di pagare e nessuno collaborò alle indagini<ref name=":71" /><ref name=":109" />. Anche altri segnali preoccupanti giungevano da [[Catania]]: nel gennaio [[1990]] furono oggetto di attentati incendiari i magazzini [[Standa]] nel centro città mentre in novembre furono assassinati Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta, dirigenti delle Acciaierie Megara, che probabilmente non si erano piegati ad un tentativo di [[estorsione]].<ref name=":71" /> |
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Secondo [[Giovanni Falcone]], il proliferare delle estorsioni rispondeva ad «''una precisa scelta ispirata dai Corleonesi che hanno dato via libera a ladruncoli, teppisti, malviventi da strapazzo, a Palermo come a Catania e altrove, sia per invischiare la repressione poliziesca nella caccia ai piccoli delinquenti, sia per mettere nei guai le famiglie delle grandi città, lasciando invece maggiore libertà di azione alla periferia.'' [...] ''La pratica dell'estorsione si è quindi distaccata dalle necessità di sopravvivenza'' [...] ''e di protezione, e si è trasformata in un semplice mezzo per raccogliere denaro''» necessario «''a finanziare gli strati più bassi dell'organizzazione, la manodopera di Cosa nostra, e il mondo che le ruota attorno''».<ref name=":20" /> |
Secondo l'analisi di [[Giovanni Falcone]], il proliferare delle estorsioni rispondeva ad «''una precisa scelta ispirata dai Corleonesi che hanno dato via libera a ladruncoli, teppisti, malviventi da strapazzo, a Palermo come a Catania e altrove, sia per invischiare la repressione poliziesca nella caccia ai piccoli delinquenti, sia per mettere nei guai le famiglie delle grandi città, lasciando invece maggiore libertà di azione alla periferia.'' [...] ''La pratica dell'estorsione si è quindi distaccata dalle necessità di sopravvivenza'' [...] ''e di protezione, e si è trasformata in un semplice mezzo per raccogliere denaro''» necessario «''a finanziare gli strati più bassi dell'organizzazione, la manodopera di Cosa nostra, e il mondo che le ruota attorno''».<ref name=":20" /> |
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In questo contesto fece scalpore la decisione dell'imprenditore [[Libero Grassi]] (titolare di un'azienda situata nel territorio dei Madonia) di non pagare il "pizzo", anzi di denunciare pubblicamente questa pratica: prima con una [[lettera aperta]] pubblicata dal [[Giornale di Sicilia|''Giornale di Sicilia'']] indirizzata al «caro estorsore» e poi in un'intervista televisiva concessa al conduttore [[Michele Santoro]].<ref name=":71" /> Grassi inoltre collaborò con la polizia per far arrestare i suoi estorsori, che agivano alle dipendenze della [[cosca]] dei Madonia.<ref>{{Cita web|url=https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/03/19/non-pagheremo-gli-industriali-fanno-catturare-la.html|titolo='NON PAGHEREMO' E GLI INDUSTRIALI FANNO CATTURARE LA GANG DI ESTORSORI - la Repubblica.it|sito=Archivio - la Repubblica.it|data=1991-03-19|lingua=it|accesso=2024-04-03}}</ref> L'iniziativa di Grassi non trovò l'appoggio di [[Sicindustria]] ed anzi l'[[Assindustria]] lo accusò di cercare soltanto visibilità poiché non risultava che gli imprenditori palermitani pagassero il "pizzo".<ref>{{Cita web|url=https://www.ilfattoquotidiano.it/2010/08/29/la-storia-di-un-uomo-libero/54415/|titolo=La storia di un uomo Libero - Il Fatto Quotidiano|autore=di RQuotidiano|data=2010-08-29|accesso=2024-04-03}}</ref> Perciò il 29 agosto [[1991]] Grassi fu ucciso in un agguato sotto la sua abitazione, come disse Falcone «''non tanto per le centinaia di migliaia di lire che rifiutava di pagare, quanto per il "cattivo esempio" che dava all'insieme al mondo produttivo''».<ref name=":20" /> |
In questo contesto fece scalpore la decisione dell'imprenditore [[Libero Grassi]] (titolare di un'azienda situata nel territorio dei Madonia) di non pagare il "pizzo", anzi di denunciare pubblicamente questa pratica: prima con una [[lettera aperta]] pubblicata dal [[Giornale di Sicilia|''Giornale di Sicilia'']] indirizzata al «caro estorsore» e poi in un'intervista televisiva concessa al conduttore [[Michele Santoro]].<ref name=":71" /> Grassi inoltre collaborò con la polizia per far arrestare i suoi estorsori, che agivano alle dipendenze della [[cosca]] dei Madonia.<ref>{{Cita web|url=https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/03/19/non-pagheremo-gli-industriali-fanno-catturare-la.html|titolo='NON PAGHEREMO' E GLI INDUSTRIALI FANNO CATTURARE LA GANG DI ESTORSORI - la Repubblica.it|sito=Archivio - la Repubblica.it|data=1991-03-19|lingua=it|accesso=2024-04-03}}</ref> L'iniziativa di Grassi non trovò l'appoggio di [[Sicindustria]] ed anzi l'[[Assindustria]] lo accusò di cercare soltanto visibilità poiché non risultava che gli imprenditori palermitani pagassero il "pizzo".<ref>{{Cita web|url=https://www.ilfattoquotidiano.it/2010/08/29/la-storia-di-un-uomo-libero/54415/|titolo=La storia di un uomo Libero - Il Fatto Quotidiano|autore=di RQuotidiano|data=2010-08-29|accesso=2024-04-03}}</ref> Perciò il 29 agosto [[1991]] Grassi fu ucciso in un agguato sotto la sua abitazione, come disse Falcone «''non tanto per le centinaia di migliaia di lire che rifiutava di pagare, quanto per il "cattivo esempio" che dava all'insieme al mondo produttivo''».<ref name=":20" /> |
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Mentre il mondo imprenditoriale abbandonava al suo destino Libero Grassi, una sentenza (giudicata scandalosa da più parti) affermava che gli imprenditori [[Carmelo Costanzo|Costanzo]] di Catania non sarebbero stati complici di Cosa nostra ma costretti a subire la "protezione" per necessità e quieto vivere<ref>{{Cita web|url=https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/04/06/catania-il-teorema-del-giudice.html|titolo=CATANIA, IL TEOREMA DEL GIUDICE - la Repubblica.it|sito=Archivio - la Repubblica.it|data=1991-04-06|lingua=it|accesso=2024-04-03}}</ref><ref>{{Cita web|url=https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/04/05/assolti-cavalieri-dell-apocalisse.html|titolo=ASSOLTI I 'CAVALIERI DELL' APOCALISSE' - la Repubblica.it|sito=Archivio - la Repubblica.it|data=1991-04-05|lingua=it|accesso=2024-04-03}}</ref>. |
Mentre il mondo imprenditoriale abbandonava al suo destino Libero Grassi, una sentenza (giudicata scandalosa da più parti) affermava che gli imprenditori [[Carmelo Costanzo|Costanzo]] di Catania non sarebbero stati complici di Cosa nostra ma costretti a subire la "protezione" per necessità e quieto vivere<ref>{{Cita web|url=https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/04/06/catania-il-teorema-del-giudice.html|titolo=CATANIA, IL TEOREMA DEL GIUDICE - la Repubblica.it|sito=Archivio - la Repubblica.it|data=1991-04-06|lingua=it|accesso=2024-04-03}}</ref><ref>{{Cita web|url=https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/04/05/assolti-cavalieri-dell-apocalisse.html|titolo=ASSOLTI I 'CAVALIERI DELL' APOCALISSE' - la Repubblica.it|sito=Archivio - la Repubblica.it|data=1991-04-05|lingua=it|accesso=2024-04-03}}</ref>. |
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L'esempio di Grassi fu seguito da 140 negozianti di [[Capo d'Orlando]], nel [[Provincia di Messina|messinese]], che nel 1990 costituirono l'A.C.I.O., un'associazione [[Racket|antiracket]] (la prima in Italia) e fecero arrestare (e condannare) i loro estorsori, appartenenti ad un clan di pastori, i Galati Giordano, collegato ai più potenti [[Giuseppe Farinella|Farinella]] delle [[Madonie]], fedelissimi dei Corleonesi.<ref name=":71" /> |
L'esempio di Grassi fu seguito da 140 negozianti di [[Capo d'Orlando]], nel [[Provincia di Messina|messinese]], che nel 1990 costituirono l'A.C.I.O. (Associazione Commercianti ed Imprenditori Orlandini), un'associazione [[Racket|antiracket]] (la prima in Italia) e fecero arrestare (e condannare)<ref>{{Cita web|url=https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/11/27/taglieggiatori-mafiosi-in-galera.html|titolo=' TAGLIEGGIATORI E MAFIOSI: IN GALERA' - la Repubblica.it|sito=Archivio - la Repubblica.it|data=1991-11-27|lingua=it|accesso=2024-04-03}}</ref> i loro estorsori, appartenenti ad un clan di pastori, i Galati Giordano di [[Tortorici]], collegato ai più potenti [[Giuseppe Farinella|Farinella]] delle [[Madonie]], fedelissimi dei Corleonesi.<ref name=":71" /><ref>{{Cita web|url=http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/264897.pdf|titolo=Relazione sulle risultanze dell'attività del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti sullo stato della lotta alla criminalità organizzata nella provincia di Messina|autore=Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari|data=X Legislatura}}</ref><ref>{{Cita web|url=https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/11/01/mi-hanno-avvertito-se-parli-ti.html|titolo=' MI HANNO AVVERTITO: SE PARLI, TI UCCIDIAMO' - la Repubblica.it|sito=Archivio - la Repubblica.it|data=1991-11-01|lingua=it|accesso=2024-04-03}}</ref> |
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== La stagione delle bombe e dell'offensiva giudiziaria == |
== La stagione delle bombe e dell'offensiva giudiziaria == |
Versione delle 10:40, 3 apr 2024
La storia di Cosa nostra è l'insieme degli eventi storici che hanno determinato la nascita e lo sviluppo di quest'organizzazione criminale di stampo mafioso radicata in Sicilia e considerata una delle più potenti in Italia.
Dalle origini al Regno delle Due Sicilie
Dibattito sulle origini
Le reali origini del fenomeno mafioso non sono note con precisione e alcuni autori hanno cercato di risalire alle origini finendo però spesso col fornire delle ricostruzioni prive di fondamento. In particolare, alcuni studiosi ritengono che l'origine del fenomeno potrebbe essere molto antica, partendo dal presupposto che, essendo la mafia nata dalle strutture sociali del feudo, esso (con tutto ciò che ne consegue) esiste in Sicilia fin dall'epoca normanna[1]. Secondo altri, potrebbe essere stato originato dall'antica setta dei Beati Paoli, attiva a Palermo nel XII secolo, diventata popolare a seguito del successo dell'omonimo romanzo (1910) di Luigi Natoli ma liquidata dagli storici come leggenda priva di fondamento[2]. Secondo un'altra leggenda sarebbe dovuta all'immigrazione in Italia di tre cavalieri spagnoli fratelli tra di loro di nome Osso, Mastrosso e Carcagnosso, appartenenti alla setta segreta della Garduna, fuggiti da Toledo nel XV secolo dopo aver vendicato col sangue l'onore di una sorella, che sbarcarono nell'isola di Favignana e che si rifugiarono nelle grotte di tufo dell'isola[3]. Altre teorie ancora farebbero risalire le origini della mafia al periodo della dominazione spagnola in Sicilia, quando la Santa Inquisizione sottraeva i suoi familiari (ossia i suoi collaboratori stipendiati) alla giustizia statale, assicurandogli la totale impunità per qualsiasi crimine.[4][5] In una lettera del 3 novembre 1577, il viceré di Sicilia Marcantonio Colonna scriveva che i familiari dell’Inquisizione erano “todos los ricos, nobles, y los ricos delinquentes” ("tutti i ricchi, i nobili e i ricchi delinquenti")[5].
La nascita della "proto-mafia" nella realtà della Sicilia feudale
Il retroterra socio-economico della "proto-mafia"
La Sicilia fu l'ultimo Paese d'Europa ad abolire i privilegi feudali con la Costituzione del 1812, concessa da re Ferdinando IV di Borbone ai baroni siciliani su pressione inglese.[1] Infatti la terra della parte occidentale e centrale dell'isola (province di Palermo, Trapani, Girgenti e Caltanissetta) per il 90% risultava ancora in mani feudali, al contrario di quello che avvenne nella Sicilia orientale (in particolare Messina, Catania e Siracusa), dove gli organi amministrativi locali cercarono di acquisire un'autonomia di governo per favorire la tutela dei loro commerci.[6]
Di fatto la situazione non cambiò perché la Costituzione del 1812 trasformò i feudi in proprietà "allodiali", cioè in proprietà private presso l'antico possessore, e ne consentì perciò la vendita[6]. Come conseguenza diretta, questa riforma favorì l'alienazione delle terre ad un nuovo ceto medio emergente, i cosiddetti gabellotti, che in precedenza amministravano in locazione i feudi della nobiltà siciliana. Essi si comportarono come i vecchi padroni, di cui imitarono l'attitudine parassitaria, che si concretizzava nel praticare un'agricoltura estensiva e nello sfruttamento dei braccianti (da cui pretendevano esosi pagamenti in natura) e dei mezzadri (da cui riscuotevano gli affitti anche con la forza)[1]. I contadini inferociti dalla fame e ribelli alla loro miseria andavano ad ingrossare le fila dei briganti e dei scassapagghiari (ladri di poco conto), che terrorizzavano le contrade con frequenti abigeati, furti di derrate e sequestri di persona, favoriti dalla totale mancanza di strade ed infrastrutture[1]. Contro di loro i proprietari utilizzarono le vecchie guardie del feudo, ossia "i bravi", cioè quei loro servi bravi e addestrati nell'uso delle armi (spesso briganti che facevano carriera con la violenza), dalle cui fila provenivano i campieri, ossia le guardie armate a cavallo, che erano organizzati in squadre agli ordini di un soprastante, che faceva le veci del gabellotto quando questi era assente[7]. Spesso i soprastanti e i camperi riuscivano a scendere a patti con i banditi per la restituzione della merce rubata e finivano per fornirgli rifugio e protezione, magari per utilizzarli per razzie e atti di terrorismo in altre zone e magari specificamente contro quel feudo o quel proprietario, in maniera che da quella aggressione il mandante occulto avesse i suoi vantaggi.[1][6]
La Costituzione del 1812 prevedeva inoltre l'istituzione delle "Compagnie d'armi", corpi paramilitari che avevano il compito di mantenere l'ordine pubblico nelle campagne, in cui confluirono i soprastanti e i loro campieri. Abolite prima nel 1837 e poi nuovamente nel 1860, le Compagnie d'armi rinacquero sotto i nomi di “militi a cavallo” o di “guardie di pubblica sicurezza a cavallo” per essere definitivamente soppresse nel 1891[1][6][8].
La miserabile condizione dei latifondi delle zone interne della Sicilia è descritta dall'economista Lodovico Bianchini, inviato in Sicilia nel 1837 dal re Ferdinando II di Borbone per affiancare il luogotenente generale Onorato Caetani duca di Laurenzana[6]:
«[...] gli uomini di armi [le Compagnie d'armi, rectius], la più parte senza disciplina e di scadente morale, in diversi luoghi partecipavano ai furti che si commettevano ed inoltre non impedivano, anzi facevano quelle turpi convenzioni sotto nome di componende, sinonimo di ricatto, che annualmente facevansi fra famigerati ladri e i proprietari per le quali costoro corrispondevano a quelli una data somma di denaro per evitare d'essere violentamente derubati. [I proprietari n.d.r.] che non prestavasi a siffatte convenzioni, che i suoi poderi sarebbero distrutti o incendiati ed ucciso il bestiame, senza che la giustizia facesse il suo corso ed i rei fossero menomameate preseguitati o puniti. Quindi i proprietari nel difetto delle istituzioni e nella impotenza delle leggi, e della potestà, paventando delle vendette sia dei ladri, sia degli stessi uomini d'arme, non osavano muovere doglianze.»
In alcune zone circoscritte delle province di Caltanissetta e Girgenti (odierna Agrigento), il sistema del latifondo si integrava con quello delle miniere di zolfo (zolfare o pirrere): a partire dal 1815, grazie all'apporto determinante dei capitali inglesi, il commercio dello zolfo siciliano iniziò ad assumere grande rilievo internazionale (a quei tempi, infatti, lo zolfo era una risorsa fondamentale per la fabbricazione di polvere da sparo e di acido solforico, largamente impiegato nella nascente industria chimica)[9]. La gestione delle zolfare rispondeva agli stessi criteri di sfruttamento della grande proprietà agraria: l'antica nobiltà feudale le dava in locazione insieme al latifondo a personaggi assai più intraprendenti (i cosiddetti "gabellotti di zolfara"), che miravano a conseguire il maggior guadagno possibile con la minor spesa.[10][11] Perciò la condizione degli zolfatari (lavoratori della zolfara) non era molto dissimile da quella dei contadini del latifondo in quanto, come questi ultimi, essi erano largamente sfruttati dal gabellotto: i pirriatura (picconieri), coloro che estrevano materialmente lo zolfo dalle viscere della terra, erano organizzati in squadre di tre o quattro operai ed erano pagati a cottimo o in natura; a loro volta, sfruttavano al massimo i garzoni alle loro dipendenze, i cosiddetti carusi, bambini dagli otto ai quindici anni venduti dalla loro famiglia al picconiere alla stessa stregua degli antichi schiavi.[10][12] I carusi si accollavano un lavoro massacrante, consistente nel portare in superficie lungo ripide gallerie le ceste cariche di zolfo estratto, che spesso li portava a morte prematura a causa delle deformazioni fisiche o delle esalazioni tossiche dei gas sprigionati dallo zolfo, i quali provocavano anche terribili esplosioni se a contatto con qualche fiamma.[10][12][11] Oltre al duro lavoro, i carusi erano costretti a subire ogni tipo di angheria o abuso fisico da parte dei picconieri[12]. Gabellotti e capi-picconieri erano in grado di costituire cartelli commerciali per costringere i rivali ad uscire dal mercato, anche utilizzando metodi violenti[12].
Analoga situazione si ripeteva nelle campagne intorno a Palermo e nelle sue borgate suburbane, dove il latifondo brullo dell'interno lasciava spazio al jardinu (giardino coltivato ad agrumi, olivi e viti), in cui, oltre ai gabellotti (che qui presero il nome di giardinieri), la facevano da padroni i guardiani, ossia coloro che esercitavano la guardiania (sorveglianza armata), l'equivalente delle mansioni dei campieri nel feudo[13][12]. Ad essi si affiancavano i fontanieri, che controllavano i pozzi per la distribuzione dell'acqua irrigua, e gli speculanti, cioè i sensali, gli intermediari tra i produttori e i grossisti d'agrumi. Perciò, da questa posizione di vantaggio, essi potevano benissimo influenzare la produzione e il rendimento di un agrumeto, tanto da imporre ai proprietari terrieri le proprie condizioni, come l'estorsione di somme di denaro o assunzioni di uomini di propria fiducia.[12] Secondo alcuni calcoli dell'epoca, nella seconda metà dell'Ottocento la produzione agrumaria nell'hinterland palermitano aveva toccato il suo apice a causa del boom delle esportazioni e i jardini della Conca d'oro rappresentavano i terreni più redditizi d'Europa.[13][12]
È da questo ambiente sociale con le sue classi (in particolare i «facinorosi della classe media» come li definirà più tardi Leopoldo Franchetti) che la "proto-mafia" trovò il suo vivaio e i suoi quadri dirigenti.[13]
Il rapporto tra sette e cospirazioni risorgimentali
Il 3 agosto 1838 il procuratore generale di Trapani, Pietro Calà Ulloa, presentò al ministro di Grazia e Giustizia del Regno delle Due Sicilie, Nicola Parisio, un dettagliato rapporto sullo stato economico e politico della Sicilia[6][14]:
«Non vi è impiegato in Sicilia che non sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a tirar profitto del suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle fratellanze specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, lì un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggere un funzionario, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei. Come accadono furti, escono dei mediatori ad offrire transazioni pel recuperamento degli oggetti rubati. [...] Non è possibile indurre le guardie cittadine a perlustrare le strade; nè di trovare testimoni pei reati commessi in pieno giorno. Al centro di tale stato di dissoluzione evvi una capitale [Palermo, n.d.r.] col suo lusso e le sue pretenzioni feudali in mezzo al secolo XIX, città nella quale vivono quarantamila proletari, la cui sussistenza dipende dal lusso e dal capriccio dei grandi. In questo umbelico della Sicilia si vendono gli uffici pubblici, si corrompe la giustizia, si fomenta l’ignoranza.»
Il rapporto metteva chiaramente in luce il pullulare di cosche, sette, nasse e fratellanze di varia natura, frutto della capillare diffusione di idee carbonare e mazziniane che alimentarono in Sicilia i moti del 1820-21 e del 1848 (e successivamente un tentativo di rivolta nel 1856, subito stroncato dai borbonici, guidato da Francesco Bentivegna e Salvatore Spinuzza, nonché la ribellione che accompagnò la spedizione dei Mille nel 1860), in cui furono coinvolti delinquenti e popolani di varia risma provenienti dal contado palermitano (i celebri picciotti) e raggruppati in squadre (in gergo siciliano bunache, dal nome della tipica giacca portata dai contadini)[7], sobillate dai baroni e dai gabellotti[15]; uno dei capi-squadra più famigerati fu Salvatore "Turi" Miceli, giardiniere di Monreale, che partecipò alle rivoluzioni siciliane del 1848 e del 1860[13][16]. Perciò, scrive la storica Amelia Crisantino, «diventa spiegabile l'esistenza di molte mafie, alcune prevalentemente criminali e altre soprattutto politiche, accomunate dalla capacità di agire in vista di un fine»[17]. Studiosi come Salvatore Lupo hanno identificato questi gruppi come "proto-mafia"[18]. Lupo stesso descrive due dei principali leaders rivoluzionari siciliani, ossia il barone Francesco Bentivegna e il garibaldino Giovanni Corrao, come in combutta con elementi "proto-mafiosi"[19]. Secondo lo storico John Dickie (autore di diversi saggi sulla storia della mafia), la nascita di Cosa nostra fu «il risultato di quell’insieme di cospirazionismo, violenza rivoluzionaria e società segrete para-massoniche che caratterizzò il Risorgimento nel Regno delle Due Sicilie»[20] ed anche il sociologo e criminologo tedesco Henner Hess (altro studioso del fenomeno mafioso) scrisse che, durante i moti risorgimentali, «( [...] ) fosse senz’altro possibile che nelle carceri vi fossero congiure con riti simili a quelli napoletani [il riferimento è ai riti iniziatici della camorra ottocentesca n.d.r.], o brutte copie di quelli massoni a carattere politico-rivoluzionario»[21]
La risposta di Ferdinando II di Borbone alle istanze autonomiste dei siciliani fu dispotica e crudele: oltre alla nomina di uomini di assoluta fedeltà al regime borbonico per occupare i posti-chiave dell'amministrazione isolana (ad esempio i già citati Calà Ulloa e Bianchini)[22], la repressione poliziesca fu invece affidata a Salvatore Maniscalco, intransigente direttore del dipartimento di Polizia in Sicilia dal 1851 al 1860, il quale ebbe ai suoi ordini un corpo di polizia molto violento e odiato, che non usava mezze misure e che aveva rapporti "diretti" con la malavita, come dimostrato dall'arruolamento di "malandrini", in quanto essi - cosa non sconosciuta alla Francia di Luigi Filippo (vedi il caso di Eugène-François Vidocq) e che continuerà anche dopo l'Unità d'Italia – erano considerati i più adatti per arrestare i malandrini ufficiali.[23] Fu arruolato anche il famigerato "Turi" Miceli, che perciò ottenne l'amnistia per la sua partecipazione alla rivolta del 1848[13][16]. Il coinvolgimento della criminalità nelle trame rivoluzionarie è dimostrato dal tentativo di omicidio ai danni di Maniscalco, accoltellato da un picciotto all'uscita dalla cattedrale di Palermo il 27 ottobre 1859.[7][23]
Dopo l'Unità d'Italia
La comparsa della mafia
Nel 1863 fece il suo debutto I mafiusi de la Vicaria, un'opera teatrale in lingua siciliana scritta dal commediografo Giuseppe Rizzotto in collaborazione con il maestro elementare Gaspare Mosca. La commedia, ambientata nelle Grandi Prigioni della Vicaria di Palermo[24], ebbe grande successo in tutta Italia e venne tradotta in italiano, napoletano e meneghino, facendo sì che il termine mafia intesa come «associazione a delinquere, con gerarchie e con specifiche usanze, tra le quali veri e propri riti di iniziazione»[6] si diffondesse su tutto il territorio nazionale[25]. La commedia di Rizzotto e Mosca, nonostante lo avesse individuato e ne avesse coniato il nome, non colse la vera portata del fenomeno mafioso siciliano, limitandosi ad una visione di esso popolaresca e quasi folkloristica[26].
Infatti lo sviluppo della mafia come organizzazione seguì le fasi dell'annessione della Sicilia al neonato Regno d'Italia (1861), il quale rappresentò un evento traumatico, soprattutto dal punto di vista dell'ordine pubblico, come evidenziato dal diplomatico Diomede Pantaleoni, incaricato dal Presidente del Consiglio Bettino Ricasoli e dal ministro dell’Interno Marco Minghetti di una missione conoscitiva nel Mezzogiorno, il quale scrisse[6][26]:
«[...] l'assassinio o il tentativo di quello è comune e direi quasi cosa di tutti i di, e meglio anco nelle grandi che nelle piccole città. L’assassinio è quasi ognora o personale vendetta, la quale importa un eguale ritorno di vendetta per la parte offesa, o tale che di assassinio in assassinio si funestano le città e le contrade, ed in Palermo si registravano nel diario ufficiale 29 attentati in 27 giorni nel mese di luglio, né la giustizia ripara a ciò, imperocché il terrore della pubblica vendetta è tale che non si trovano testimoni a deporre, sindaci o questori di pubblica sicurezza per decretare gli arresti, e, quando pure abbiano luogo per l’azione di benemeriti carabinieri reali, non giudici per procedere e condannare. Non si stimi esagerazione quanto io espongo, e se meno acuti se ne sentono i lamenti di quelle popolazioni, gli è che esse stesse preferiscono la personale vendetta all’azione della legge.»
Infatti si registrarono nella sola Palermo preoccupanti atti di vero e proprio terrorismo politico: nel 1861 vi fu il tentato omicidio ai danni di Domenico Peranni (futuro sindaco della città) e l'omicidio del consigliere di Corte d'appello Giovanbattista Guccione, entrambi esponenti della sinistra mazziniana-garibaldina[26][27]; nel 1862 fu scoperta la congiura dei "pugnalatori" ai danni di tredici ignari passanti, forse capeggiata dal senatore Romualdo Trigona principe di Sant'Elia[12][28]; nel 1863 fu assassinato l'ex generale garibaldino Giovanni Corrao, capo dell'ala estremista del Partito d'Azione mazziniano[29], e vi fu il fallito agguato nei confronti del barone Nicolò Turrisi Colonna (esponente della Sinistra storica ed anche lui futuro sindaco di Palermo)[30][31]; nel 1865 due leaders della frangia moderata del Partito d'Azione, Francesco Perroni Paladini e Carlo Trasselli, furono oggetto di tentativi falliti di omicidio (Trasselli verrà poi ucciso nel 1869)[27][29]. Oltre a Palermo, anche a Castellammare del Golfo, Santa Margherita Belice e Racalmuto si verificarono lotte tra fazioni politiche che degenerarono in fatti di sangue.[32]
Ai delitti politici si sommava il brigantaggio comune, che assunse i toni di una forma di protesta all'introduzione del servizio di leva obbligatorio, che privava per cinque anni le famiglie contadine di braccia per l'agricoltura. Infatti i renitenti alla leva e i disertori che si diedero alla macchia (circa 26.000 nel 1863)[13] divennero un vero e proprio esercito, ingrossato anche dalla delinquenza comune e da ex volontari del disciolto esercito garibaldino, che mise a ferro e fuoco le campagne siciliane dell'interno con furti e abigeati, spesso con la complicità dei gabellotti mafiosi, che a loro volta li assunsero come campieri e soprastanti per catturare altri briganti[32][33]. A questo si aggiungeva il malcontento e la sfiducia delle classi meno abbienti per la mancata riforma promessa da Garibaldi riguardante il superamento del secolare sistema socio-economico del latifondo, che non fu minimamente intaccato, anzi, scrisse Leonardo Sciascia «le aspirazioni della nuova classe dominante dell'economia agricola siciliana, i gabellotti e i loro collaboratori cittadini si riducevano in fondo ad una cosa sola: che la Sicilia divenisse una colonia agricola del Nord commerciale e industriale. Il che avvenne e ovviamente non dispiacque alla classe commerciale e industriale del Nord e da ciò, con una più accentuata complicità dello stato italiano nell'affermazione e nel consolidamento della classe borghese mafiosa siciliana»[15]. I ceti più bassi furono inoltre penalizzati dall'introduzione di nuove tasse e balzelli particolarmente vessatori (l'odiosa tassa sul macinato ed imposte sul sale e i tabacchi, che divennero monopolio statale) e dal varo della legge che prevedeva l'esproprio e la vendita dei beni ecclesiastici, che nel passato avevano dato lavoro ad artigiani e ad addetti ai servizi che si ritrovarono disoccupati.[32]
Per gestire la complicata situazione, nel settembre 1862 fu inviato a Palermo il generale Giuseppe Govone e l'anno seguente fu proclamato lo stato d'assedio: per stanare i briganti e i renitenti alla leva, Govone agì manu militari con metodi quasi terroristici nei confronti della popolazione civile, come incendi di campi e di case, privazione dell'acqua potabile a interi comuni allo scopo di indurre le famiglie a consegnare i ricercati e perquisizioni casa per casa, arrivando alla cattura di circa 4.000 renitenti e all'arresto o alla costituzione di oltre 1.300 malviventi soprattutto nelle province di Palermo, Caltanissetta, Agrigento (allora Girgenti) e Trapani.[13][34] Questi metodi, che provocarono accese proteste in sede parlamentare da parte dell'opposizione di Sinistra, aumentarono la sfiducia e l'odio della popolazione siciliana nei confronti dello Stato centrale.[34]
Fu in questa caotica e violenta fase di transizione che i mafiosi si presentarono con il loro abituale ruolo di mediatori: con il pretesto di proteggere i gabellotti e i contadini dal malgoverno statale e dalle ruberie dei briganti e dei ladruncoli (come si è già detto, possibilmente "arruolati" come campieri per combattere altre bande concorrenti), i mafiosi li costrinsero a pagare una taglia («u' pizzu», "erede" diretto delle «componende» di epoca borbonica) e a mantenere l'omertà, il codice del silenzio, come ricompensa per il loro "servizio"; ben presto, poiché riusciva ad imporre la sua volontà ai numerosi abitanti del latifondo e dei paesi viciniori, il boss mafioso divenne un procacciatore di voti per conto di determinati candidati alle elezioni, accrescendone ulteriormente il potere[1]. Una delle prime testimonianze in merito fu quella del barone Turrisi Colonna, il quale, sopravvissuto ad un tentativo di omicidio, nel 1864 scrisse un pamphlet, Pubblica sicurezza in Sicilia nel 1864, in cui denunciò l'esistenza di un'organizzazione criminale (pur senza nominare il termine «mafia») che minacciava i proprietari terrieri e i contadini e che aveva particolari rituali e una struttura molto articolata[6][30][31]:
«[...] in Sicilia esiste una setta di ladri che ha rapporti in tutta l'isola, e dalla quale i nemici d'Italia potrebbero giovarsi. Setta che trova ogni giorno nuovi affiliati nella gioventù più svelta della classe rurale, che dà e riceve protezione da tutti coloro che sono obbligati a vivere in campagna, che poco o nulla teme la forza pubblica e la giustizia punitrice, lusingandosi nella mancanza delle prove, e per la pressione che si esercita sui testimoni, e sperando finalmente sulle rivoluzioni che al 1848 ed al 1860 fruttarono in Sicilia due generali amnistie pei prevenuti, e pei condannati per reati comuni.»
Il rapporto del prefetto Gualterio sulla mafia
Il 25 aprile 1865 il prefetto di Palermo, marchese Filippo Antonio Gualterio, inviò un rapporto al ministro dell'Interno Giovanni Lanza in cui affermava l'esistenza della «maffia o associazione malandrinesca» che sarebbe stata capeggiata dall'artigiano palermitano Giuseppe Badia, erede dell'ex generale Corrao (ucciso in circostanze misteriose nel 1863) alla guida dell'ala radicale-repubblicana del Partito d'Azione ed organizzatore delle locali società operaie.[28][32][35][36] Il rapporto del prefetto Gualterio (considerato il primo documento ufficiale in cui compare il termine «mafia» intesa come associazione criminosa)[6] fu il catalizzatore di una nuova e feroce repressione portata avanti dal generale Giacomo Medici, il quale, posto alla testa di 15.000 soldati, condusse retate di massa nelle province di Palermo, Trapani e Girgenti[26][37] nei confronti di disertori, renitenti alla leva e presunti «maffiosi», identificati per lo più tra i seguaci politici di Badia (nella sola provincia di Palermo furono catturati 2384 uomini e 180 donne, compreso lo stesso Badia).[12][16][32]
Di lì a poco, nel settembre 1866, scoppiò a Palermo e nei suoi dintorni la famosa rivolta del sette e mezzo, probabilmente organizzata dai seguaci del Badia in combutta con le squadre delle precedenti rivoluzioni siciliane, che esprimevano la diffusa delusione dei ceti popolari nei confronti del nuovo Stato unitario[32]. Uno dei caporioni della rivolta fu infatti "Turi" Miceli, che rimase ucciso durante l'assalto per liberare Badia dalla prigione[16]. La ribellione fu stroncata nel sangue dalle truppe del generale Raffaele Cadorna, che proclamò nuovamente lo stato d'assedio. Dopo questi fatti vi fu una violenta epidemia di colera e si diffuse la voce (rivelatasi infondata) tra la popolazione che sarebbe stata portata dai soldati "piemontesi" arrivati a sedare la rivolta.[38]
Il "metodo" Medici (1868-1873)
Nel dicembre 1866, al fine di ristabilire l'ordine dopo la rivolta del sette e mezzo, il generale Giacomo Medici fu nuovamente inviato in Sicilia per comandare le truppe di stanza sull'isola e nel 1868 sommò a questa carica quelle di prefetto di Palermo e di direttore generale dei lavori pubblici.[37] Medici fu inoltre uno dei promotori della legge speciale di pubblica sicurezza approvata nel 1871 (legge n. 294/1871), che lo autorizzava all'uso di misure eccezionali (ammonizione giudiziaria e domicilio coatto) nei confronti dei soggetti indicati dalla voce pubblica come «mafiosi»[13]. Sotto la sua prefettura, che durò fino al 1873, si inaugurò una pratica già sperimentata dal suo predecessore Antonio Starabba di Rudinì, colui che coniò la distinzione tra «mafia maligna» e «mafia benigna»[16][39]: come avvenne in passato con il famigerato funzionario borbonico Salvatore Maniscalco, si cominciò a fare affidamento sulle cosche mafiose che, ben conoscendo i meccanismi locali, facilmente presero le veci del governo centrale, il quale non riusciva a garantire un controllo diretto e stabile dell'isola (la cui organizzazione sociale era molto diversa da quella settentrionale)[13][26][40]. Medici addirittura non esitò a servirsi della soffiata di un mafioso per catturare Giuseppe Mazzini, sbarcato a Palermo nel 1870 per organizzare una nuova cospirazione repubblicana.[13][17][36][37] Tuttavia il procuratore generale del Re Diego Tajani non approvò queste pratiche ed incriminò il questore Giuseppe Albanese (sottoposto di Medici) per complicità con le bande criminali ma fu poi prosciolto da ogni accusa.[13][12][40]
L'opposizione della Sinistra storica e l'inchiesta Sonnino-Franchetti
Nel 1874 il ministro dell'Interno Girolamo Cantelli e il suo segretario generale Luigi Gerra (poi nominato prefetto di Palermo) avviarono una dura campagna in Sicilia contro briganti, mafiosi e i loro fiancheggiatori (manutengoli, secondo il linguaggio ufficiale dell'epoca), sospettati di agire in sincronia con una congiura internazionalista già scoperta in Romagna[17][26][41]. Furono quindi indagati e repressi dei gruppi di delinquenti nella borgata palermitana dell’Uditore e poi a Monreale che possedevano più di un tratto in comune: una cassa comunitaria, segni di riconoscimento, una gerarchia, regole di comportamento e un rituale d'affiliazione particolare di chiara ispirazione massonica-carbonara, che consisteva nel pungere con uno spillo il dito del neofita e nel fare sgorgare il sangue su una santina[13][17][36]. Alla protesta di Nicolò Turrisi Colonna (esponente della Sinistra cui furono perquisite alcune proprietà alla ricerca di latitanti) si unì quella degli altri proprietari terrieri e dei rappresentanti della Sinistra nei confronti di queste misure considerate un affronto per la Sicilia[12][26][30][31]. Perciò nelle successive elezioni politiche, su 48 deputati siciliani eletti, solo 6 risultarono candidati della Destra[17]. Il 5 dicembre dello stesso anno, il ministro Cantelli presentò un progetto di legge per la concessione di poteri speciali al governo finalizzati a riportare l'ordine in Sicilia[39][40][41]. Il dibattito parlamentare, che vide un aspro scontro tra i deputati di Destra e di Sinistra, si protrasse fino a giugno 1875 e in esso si distinse Diego Tajani, divenuto parlamentare della Sinistra, il quale denunciò la sconvolgente circostanza emersa dalle sue precedenti indagini da magistrato, ossia che a Palermo il questore Albanese e il prefetto-generale Medici, con la copertura del precedente ministro dell'Interno Lanza, proteggevano i mafiosi per mantenere l'ordine pubblico[40]. Per questi motivi, fu istituita la Giunta parlamentare d'inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia che, dopo aver raccolto una vasta documentazione in loco, presentò la relazione finale dei suoi lavori redatta dal deputato lombardo Romualdo Bonfadini, in cui si escludeva che in Sicilia ci fosse una questione sociale e si sosteneva che la mafia non fosse un'associazione organizzata ma soltanto «prepotenza diretta ad ogni scopo di male», una «solidarietà istintiva, brutale»[42][43]. Questa tesi riprendeva le teorie positiviste di Cesare Lombroso e Enrico Ferri, i quali affermavano che le cause principali della delinquenza nell'isola fossero la canicola e le anomalie fisiche della "razza" siciliana.[44][45]
Una "contro-inchiesta" parallela a quella governativa fu condotta dall'intellettuale toscano Leopoldo Franchetti insieme a Sidney Sonnino, che arrivarono in Sicilia per ricercare i fattori ambientali e le cause storico-sociali che avevano generato la mafia e i ritardi dell’isola, pubblicando infine lo studio dal titolo Condizioni politiche e amministrative della Sicilia: secondo i risultati di tale indagine, la delinquenza minuta che esegue i delitti è costituita dai «facinorosi della classe infima» mentre i mafiosi sono considerati «facinorosi della classe media», un vero e proprio ceto capitalista che, in assenza di una classe borghese ben definita, si arricchisce e acquisisce posizioni di potere mettendo al servizio dei potenti i suoi violenti "servigi" (ad esempio con il racket della "protezione"), mirati ad assumere il controllo monopolistico di determinate attività economiche, tanto che Franchetti parla di «industria della violenza»[43]:
«Tutti i cosiddetti capi mafia sono persone di condizione agiata. Sono sempre assicurati di trovare istrumenti sufficientemente numerosi a cagione della gran facilità al sangue della popolazione anche non infima di Palermo e dei dintorni. Del resto sono capaci di operare da sé gli omicidi. Ma in generale non hanno bisogno di farlo, giacché la loro intelligenza superiore, la loro profonda cognizione delle condizioni della industria ad ogni momento, lega intorno a loro, per la forza delle cose, i semplici esecutori di delitti e li fa loro docili istrumenti. I facinorosi della classe infima appartengono quasi tutti in diversi gradi e sotto diverse forme alla clientela dell’uno o dell’altro di questi capi mafia, e sono uniti a quelli in virtù di una reciprocanza di servigi, di cui il risultato finale riesce sempre a vantaggio del capo mafia. Il quale fa in quell’industria la parte del capitalista, dell’impresario e del direttore. (...) È proprio di lui quella finissima arte, che distingue quando convenga meglio uccidere addirittura la persona recalcitrante agli ordini della mafia, oppure farla scendere ad accordi con uno sfregio, coll’uccisione di animali o la distruzione di sostanze, od anche semplicemente con una schioppettata di ammonizione.»
L'inchiesta di Franchetti e Sonnino si unì a quella del loro mentore, l'intellettuale napoletano Pasquale Villari, il quale, nelle sue celebri Lettere meridionali (1875), oltre a denunciare i mali sociali dell'Italia meridionale quali la camorra e il brigantaggio, compie anche un'analisi del fenomeno mafioso in Sicilia[42][46]:
«(...) Noi abbiamo dunque tre classi distinte. In Palermo sono i grandi possessori dei vasti latifondi o ex-feudi, e nei dintorni abitano contadini agiati, dai quali sorge o accanto ai quali si forma una classe di gabellotti, di guardiani e di negozianti di grano. I primi sono spesso vittime della mafia, se con essa non s’intendono; fra i secondi essa recluta i suoi soldati, i terzi ne sono capitani. Nell’interno dell’Isola si trovano i feudi e i contadini più poveri o proletarii.»
La repressione sotto Nicotera e la scoperta delle associazioni mafiose
Nel 1876 la Sinistra salì al potere con Depretis e il nuovo ministro dell'Interno Giovanni Nicotera, messo alle strette dal rapimento dell'industriale inglese John Forester Rose realizzato da una banda di briganti nella zona delle Madonie, decise di inviare a Palermo il prefetto Antonio Malusardi, investito di poteri eccezionali.[12][33] Nel giro di otto mesi (15 gennaio-23 agosto 1877) furono uccisi in conflitto a fuoco ben cinque dei più temibili briganti, ne furono catturati tredici e sei si costituirono volontariamente.[33] Si trattò di un'operazione realizzata con i soliti metodi spicci e feroci: accerchiamento notturno dei comuni, perquisizioni a tappeto e soprattutto uso su larga scala della deportazione dei sospetti, che provocarono talmente sconcerto tra la popolazione da far aumentare il numero dei suicidi e dei tentativi di suicidio.[26] Malusardi trovò l'appoggio dei proprietari terrieri finché si concentrò nella caccia ai briganti ma, quando volse la sua attenzione sui notabili legati alla mafia come il consigliere comunale (futuro deputato) Raffaele Palizzolo, il parlamentare Giuseppe Torina e il marchese Spinola, fu duramente attaccato dalla stampa locale e collocato a riposo nel 1878.[13][26][27][47] Nel clou di questa repressione anti-mafiosa, il ministro Nicotera cercò di accreditare la tesi della collusione della mafia con i cospiratori anarchico-internazionalisti ed infatti, in un discorso tenuto alla Camera dei deputati, affermò: «[gli anarchici] in Romagna erano accoltellatori, nel Napoletano camorristi, mafiosi in Sicilia».[36][48]
A cavallo dell'operazione Malusardi furono inoltre scoperte e processate numerose associazioni segrete che presentavano varie somiglianze con le società operaie di mutuo soccorso e, nonostante si trovassero in territori distanti, presentavano dei tratti in comune tra loro: identici erano statuti, gerarchie, segni di riconoscimento e un particolare rituale di iniziazione sul modello della massoneria, sempre consistente nella puntura di un dito e nella bruciatura della santina su cui era sgorgato il sangue.[6][12][27] Tuttavia il procuratore generale del Re Carlo Morena negò che tutte queste associazioni fossero collegate ed appartenessero ad un'unica organizzazione.[16][36] La più importante e numerosa di queste fu quella degli Stuppagghieri a Monreale, che affonderebbe le sue radici nel "metodo" adottato durante la prefettura Medici: fu allora che sarebbe stata fondata da un fervente mazziniano, fratello del locale delegato di polizia Paolo Palmeri, per combattere a suon di omicidi la vecchia mafia rappresentata dal ceto dei giardinieri[7][17][36]. La sua esistenza venne alla luce nel 1876 grazie alle indagini del successore di Palmeri, Emilio Bernabò, che si servì della testimonianza di un delatore, Salvatore D’Amico da Bagheria, finito ammazzato poco prima di testimoniare al processo contro gli affiliati alla setta, che si concluse in primo grado nel 1878 con alcune condanne ma, spostato a Catanzaro per un vizio di forma, finì con una generale assoluzione nel 1880.[13][17][49]
Nel 1883, alcuni anni dopo la fine del ministero di Nicotera, fu scoperta dal funzionario di P.S. Ermanno Sangiorgi un'altra di queste associazioni, la "Fratellanza", radicata nel grosso comune di Favara, nei pressi di Girgenti (odierna Agrigento), che però aveva ramificazioni nei vicini paesi di Campobello di Licata, Canicattì, Comitini e Palma di Montechiaro, dove si macchiò di parecchi omicidi.[7] La zona in cui la setta agiva era interessata dall'industria estrattiva dello zolfo ed infatti l'associazione trovò proseliti soprattutto tra i ceti zolfatai[12]. Con le sue regole, gerarchie e rituali d'affiliazione, essa presentava le stesse identiche caratteristiche delle società segrete messe sotto processo pochi anni prima: ciò si spiegava con la circostanza che nel 1879 numerosi futuri membri della "Fratellanza" erano stati detenuti insieme a mafiosi palermitani nel carcere di Ustica[12][49]. Nel 1885 i "fratelli" di Favara finirono tutti sotto processo a Girgenti ma molti negarono le loro confessioni, sostenendo che avevano parlato sotto tortura, ma alla fine furono tutti condannati ed incarcerati.[12]
Il caso Notarbartolo
Il 1º febbraio 1893, su un treno in corsa sulla linea Termini Imerese-Palermo, venne ucciso a coltellate il marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, poi scaraventato giù dalla carrozza ferroviaria dai due sicari[12]. L'omicidio Notarbartolo è considerato dagli studiosi il primo delitto "eccellente" (ossia che colpisce un importante personaggio con incarichi pubblici) compiuto da Cosa nostra in Sicilia[13][50].
Fin da subito il principale sospettato come mandante fu Raffaele Palizzolo, deputato della Sinistra vicino alle posizioni di Crispi, già inquisito dal prefetto Malusardi quale noto protettore di briganti e mafiosi[13][50]. Notarbartolo, rampollo di una delle più importanti famiglie aristocratiche siciliane e sindaco di Palermo dal 1873 al 1876, era invece un uomo della Destra ed infatti fu nominato direttore generale del Banco di Sicilia nel 1876 su proposta di Luigi Gerra, segretario del ministro dell'Interno Cantelli e prefetto di Palermo[51]. Appena insediatosi, trovò una situazione disastrosa: impiego illegale di fondi del Banco per speculazioni finanziarie spericolate e il consiglio d'amministrazione composto da persone di nessuna competenza bancaria ma nominate soltanto per ragioni clientelari ed elettorali.[50] Uno dei principali avversari del Notarbartolo all'interno del consiglio fu appunto Palizzolo, che lo fece addirittura rapire da una banda di briganti che proteggeva e fu rilasciato solamente dopo il pagamento di un lauto riscatto[12][51]. Nel 1890 riuscì perfino a farlo rimuovere dalla direzione del Banco dal governo Crispi ma, tre anni più tardi, Notarbartolo ispirò un'ispezione disposta da Giolitti (subentrato a Crispi), che fece venir fuori le malefatte del nuovo direttore Giulio Benso della Verdura e dei consiglieri d'amministrazione. Le causa dell'omicidio era da ricercarsi probabilmente nel timore che potesse assumere nuovamente la carica di direttore.[51][52]
Le indagini sull'omicidio brancolarono nel buio per lungo tempo: né il questore Michele Lucchesi né il procuratore generale del Re Vincenzo Cosenza osarono interrogare Palizzolo e vi furono seri tentativi di depistaggio.[8] Soltanto nel 1900, grazie al figlio di Notarbartolo, Leopoldo, e all'ascesa al governo di Luigi Pelloux (amico di famiglia dei Notarbartolo), fu possibile portare a processo Palizzolo come mandante e un mafioso alle sue dipendenze, Giuseppe Fontana, come esecutore materiale[12][52]. Il dibattimento, che si svolse a Bologna per legittimo sospetto, fu molto seguito dalla stampa nazionale e perciò rese pubblica in tutta Italia l'esistenza della mafia e i suoi rapporti con la politica.[50] Nel 1902 Palizzolo e Fontana furono riconosciuti colpevoli e condannati a 30 anni di carcere ma, in difesa del deputato (ritenuto vittima di un clima di pregiudizi contro i siciliani da parte dei governanti settentrionali), si costituì il «Comitato pro Sicilia» su iniziativa di intellettuali quali Giuseppe Pitrè e Federico De Roberto, la cui attività si concluse con successo: la sentenza fu annullata per un vizio di forma e il nuovo processo, celebrato a Firenze, si concluse nel 1904 con il proscioglimento per insufficienza di prove dei due imputati.[50]
Il rapporto Sangiorgi
Nel 1898 il nuovo governo presieduto da Luigi Pelloux rimosse il questore di Palermo Michele Lucchesi (accusato da più parti di lassismo nelle indagini sull'omicidio del marchese Notarbartolo), sostituendolo con Ermanno Sangiorgi, che si affrettò ad arrestare il deputato Raffaele Palizzolo e il boss mafioso Giuseppe Fontana, accusati appunto del delitto Notarbartolo.[13][52] Sangiorgi era un funzionario di polizia romagnolo che si era già distinto nelle indagini anti-mafia per aver scoperto e smantellato con gli arresti la Fratellanza di Favara nel 1883.[16] Ed è proprio a queste indagini che si dedicò: sfruttando la favorevole congiuntura offerta dal caso Notarbartolo, scoprì l'esistenza di un «tenebroso sodalizio» suddiviso in otto cosche che si spartivano il controllo delle borgate nella Piana dei Colli a Palermo e che presentavano regole, gerarchie e rituali d'iniziazione comuni tra loro, controllando attività criminali ed imponendo estorsioni ed assunzioni ad importanti famiglie aristocratiche e borghesi, come i Florio e i Whitaker[12][39][53]. I capi delle cosche erano in apparenza possidenti benestanti ed avevano infatti interessi nel lucroso settore agrumario[53]. Sangiorgi condensò queste scoperte in un rapporto stilato tra il novembre del 1898 e il febbraio del 1900, che portò a numerosi arresti e ad un processo, che si concluse con poche ed irrisorie condanne.[12][39] Il prezioso lavoro investigativo di Sangiorgi è emerso soltanto in tempi recenti grazie alle ricerche d'archivio condotte dallo storico Salvatore Lupo.[12]
Le rivendicazioni agricole
La situazione dopo l'Unità d'Italia
Nella seconda metà dell'Ottocento, anche se non più con un regime feudale, nelle campagne siciliane gli agricoltori erano ancora sfruttati. I grandi proprietari terrieri risiedevano a Palermo o in altre grandi città e affittavano i loro terreni a gabellotti con contratti a breve termine, che, per essere redditizi, costringevano il gabellotto a sfruttare i contadini. Per evitare rivolte e lavorare meglio, al gabellotto conveniva allearsi con i mafiosi, che da un lato offrivano il loro potere coercitivo contro i contadini, dall'altro le loro conoscenze a Palermo, dove si siglavano la maggioranza dei contratti agricoli[47].
La miserabile condizione dei contadini e dei zolfatai siciliani rese possibile la diffusione a macchia d'olio sull'isola delle idee e delle organizzazioni facenti capo all'Internazionale socialista, che perciò i ministri dell'Interno Cantelli (della Destra) e Nicotera (della Sinistra) perseguitarono duramente con la scusa che fosse strettamente legata alla mafia[26][36][54]. Per citare i casi più noti di perseguitati politici con l'accusa pretestuosa di essere "mafiosi", durante il ministero Cantelli vi fu il fratello del deputato radicale Saverio Friscia sottoposto alla misura del domicilio coatto mentre, sotto Nicotera, il leader internazionalista trapanese Francesco Sceusa fu ammonito per impedirgli di svolgere la sua attività politica[26][36]. La relazione tra mafia e movimenti rivoluzionari fu per altro negata già all'epoca dal Procuratore del Re Giuseppe Di Menza[26][36]. Lo storico Francesco Brancato ne da la seguente spiegazione[26]:
«Una correlazione quindi tra i due fenomeni vi era in effetti, ma non nel senso sopra accennato. Era infatti avvenuto che in quelle zone, per la cresciuta miseria dei ceti proletari, l'Internazionale aveva trovato un terreno più favorevole alla sua diffusione, per l'adesione incontrata soprattutto tra i giovani intellettuali appartenenti alla piccola borghesia cittadina e alla classe dei professionisti. Da qui era avvenuto che i ceti più abbienti, di fronte alle "macchinazioni" degli internazionalisti, s'erano maggiormente stretti alla mafia la quale s'era anche per questa ragione maggiormente potenziata, avendo assunto ancora una volta, agli occhi dei grossi proprietari, un ruolo di straordinaria importanza: di conservazione cioè e di reazione contro il pericolo di rivolgimenti sociali.»
I fasci siciliani
A partire dal 1891 ebbero notevole diffusione in Sicilia i fasci, movimenti organizzati di matrice socialista che s'ispiravano al modello delle società operaie di mutuo soccorso di stampo mazziniano e repubblicano.[10] Ne facevano parte in maggioranza contadini, artigiani, zolfatai e, per la prima volta, anche donne, che chiedevano ai "padroni" un trattamento lavorativo più equo, il cambiamento delle condizioni d'affitto dei terreni e maggiori diritti. I "padroni" si identificavano nei proprietari terrieri e nei loro gabellotti affiliati alla mafia.[12]
I fasci più forti sorsero a Catania con Giuseppe De Felice Giuffrida, a Palermo con Rosario Garibaldi Bosco, a Piana dei Greci (odierna Piana degli Albanesi) con il medico Nicola Barbato, a Corleone con Bernardino Verro e ad Erice con Giacomo Montalto[55]. Verro in particolare riuscì a riunire nel locale fascio circa 6.000 persone, quasi la totalità della popolazione adulta di Corleone[10]. Il successo dei fasci era dovuto alla graduale diffusione dell'istruzione tra i ceti proletari e al disastro economico provocato dalla forsennata guerra commerciale con la Francia voluta da Crispi, che aveva danneggiato l'esportazione dei principali prodotti siciliani (frutta, vino e zolfo) e che, di conseguenza, aveva trascinato nella crisi produttori e lavoratori[38]. Influì anche la fondazione del Partito Socialista Italiano, avvenuta a Genova nel 1892, che prese i fasci sotto la sua ala.[10] Alcuni storici, come Giuseppe Carlo Marino e Salvatore Lupo, ritengono che il successo fu inizialmente dovuto anche ad infiltrazioni della mafia, probabilmente perché l'organizzazione malavitosa non voleva perdere il consenso dei contadini: infatti Vito Cascio Ferro, uno dei più famigerati mafiosi della sua epoca, divenne dirigente dei fasci di Bisacquino e di Chiusa Sclafani (comuni entrambi vicini a Corleone), e lo stesso Verro accettò di entrare a far parte di una cosca mafiosa, i "fratuzzi", che lo sottoposero al solito rituale d'affiliazione di stampo massonico[13][12][10]. Come lui stesso raccontò in un'autobiografia resa pubblica dopo la sua morte, l'affiliazione ai "fratuzzi" sarebbe avvenuta nella primavera del 1893:
«Fui invitato a prendere parte ad una riunione segreta dei Fratuzzi. Entrai in una stanza misteriosa dove erano presenti alcuni uomini armati di pistola, seduti intorno ad un tavolo. Al centro del tavolo c'era un pezzo di carta su cui era disegnato un teschio, e un coltello. Per essere ammessi nei Fratuzzi, dovevo essere sottoposto ad una iniziazione costituita da alcune prove di fedeltà e dalla puntura del labbro inferiore con la punta del coltello: il sangue dalla ferita avrebbe macchiato il teschio.[56]»
Tuttavia, alla fine dello stesso anno, i proprietari terrieri siciliani, preoccupati dagli scioperi e dai disordini nelle campagne, si appellarono a Crispi che, tornato al governo, proclamò lo stato d'assedio sull'isola ed affidò la feroce repressione al generale Roberto Morra di Lavriano, che fece sparare sui manifestanti inermi ed eseguì arresti di massa[38]. I principali dirigenti dei fasci (De Felice Giuffrida, Garibaldi Bosco, Barbato e Verro) furono imprigionati e condannati da tribunali militari a pene severissime. Perciò l'Onorata società (termine usato all'epoca per identificare Cosa nostra) si distaccò dai fasci (che avevano tentato in tutti i modi di evitare la penetrazione di mafiosi nelle loro file, spesso riuscendoci) e anzi aiutò il governo nella repressione. Infatti a Lercara Friddi (11 morti), a Gibellina (20 morti) e a Giardinello (7 morti e 12 feriti), a sparare sulla folla di manifestanti non furono soltanto le truppe inviate a sedare la rivolta ma anche i campieri e le guardie municipali al servizio dei sindaci, che spesso appartenevano alla mafia[6]. Tuttavia, nei processi che ne seguirono, i mafiosi che spararono sulla folla furono assolti mentre i manifestanti legati ai fasci che avevano ricevuto le pallottole furono condannati a pene durissime (in alcuni casi anche all'ergastolo).[6]
L'età giolittiana
Le "affittanze collettive"
La presidenza di Giovanni Giolitti (che governò, salvo brevi interruzioni, dal 1903 al 1914)[57] fu caratterizzata da una serie di trasformazioni sociali ed economiche. Con l'introduzione della legge n. 100 del 1906 (promossa dall'allora primo ministro Sidney Sonnino), che autorizzava il Banco di Sicilia e le casse rurali a fare prestiti alle cooperative, si riuscì a consolidare ed estendere la stagione delle «affittanze collettive», cioè i contratti di affitto stipulati direttamente tra proprietari terrieri e cooperative contadine.[13][58] Ad entrare nel nuovo mercato furono soprattutto le cooperative socialiste, i cui promotori furono Bernardino Verro (già "padre" dei Fasci siciliani) a Corleone, Lorenzo Panepinto a Santo Stefano Quisquina, Nicola Alongi a Prizzi e Giacomo Montalto[55] e Sebastiano Cammareri Scurti ad Erice[59], mentre quelle cattoliche agirono ispirate dall'opera di don Luigi Sturzo e di don Alberto Vassallo di Torregrossa, sul modello dell'esperienza già avviata in Veneto da padre Luigi Cerutti e in Lombardia da Guido Miglioli.[13][10][60][61]
Il sistema delle «affittanze collettive» contribuì all'eliminazione della figura del gabellotto parassitario (quasi sempre coincidente con il mafioso) ma non eliminò del tutto il ruolo della mafia, che si trasformò in quello di mediare tra cooperative e proprietari terrieri per la stipula dei contratti d'affitto[13][10]. Inoltre, per stroncare il pericolo "rosso" che si esprimeva con gli scioperi (favoriti dalla politica intrapresa da Giolitti), le cooperative cattoliche non si chiusero ad infiltrazioni mafiose, a patto che questi ultimi scoraggiassero in tutti i modi i socialisti, che appunto rifiutavano categoricamente la mediazione mafiosa nella stipula dei contratti[12]. Nel primo quindicennio del '900 si iniziarono perciò a contare le prime vittime socialiste ad opera della mafia: nella sola Corleone furono uccisi, in rapida successione, i militanti socialisti Luciano Nicoletti (1905), Andrea Orlando (1906) e lo stesso Verro (1915), oltre a Panepinto (1911), mentre nel 1914 a Piana dei Greci (odierna Piana degli Albanesi) furono trucidati Mariano Barbato (cugino di Nicola) e Giorgio Pecoraro, anche loro impegnati nella lotta contadina. I processi ai presunti responsabili di questi omicidi si conclusero quasi sempre con l’assoluzione.[10]
Il "ministro della malavita"
Nonostante le riforme sociali da lui promosse, Giolitti venne accusato da più parti di considerare la Sicilia come un mero serbatoio di voti poiché, nonostante le sue schiaccianti vittorie, egli non mise mai piede sull'isola (e nel meridione in generale)[62]: la sua base elettorale era costituita dalla corruzione dei deputati locali soprannominati spregiativamente gli "àscari"[63] del governo, conniventi a loro volta con la criminalità mafiosa (i famosi "mazzieri")[64] che si occupava di eseguire intimidazioni ed atti violenti nei confronti dei seguaci dei partiti avversi, come denunciò anche Gaetano Salvemini[65], definendo lo statista «ministro della malavita» in un celebre saggio da lui scritto. Un caso emblematico della generale corruzione dei deputati siciliani è rappresentato da Nunzio Nasi, parlamentare e per due volte ministro, avversario e sostenitore di Giolitti a seconda delle circostanze, nonché massone e patrono di vaste clientele (non immuni da influenze mafiose)[10] nel trapanese, che nel 1908 fu condannato dall'Alta Corte di giustizia per aver rubato denaro pubblico ed aver attestato il falso: tale condanna (che scontò interamente non in prigione ma a casa propria) provocò violente dimostrazioni di protesta in tutta la Sicilia (ispirate anche da intellettuali del calibro di Luigi Capuana che fondarono comitati "pro-Nasi") in quanto la popolazione considerò le accuse ingiuste perché ispirate da sentimenti anti-siciliani da parte dei "continentali".[66] Scrisse lo storico Denis Mack Smith: «Il processo all'ex ministro siciliano Nasi per peculato rafforzò la convinzione generale che la corruzione nell'isola fosse molto diffusa, e [Enrico] Ferri affermò una volta in pieno parlamento che esistevano solo poche "oasi" di onestà in tutto il Mezzogiorno.»[38]
L'emigrazione negli Stati Uniti e il delitto Petrosino
Un altro fenomeno che contraddistinse l'epoca giolittiana fu l'emigrazione in massa verso le Americhe: da 15.432 emigranti siciliani che lasciarono l'isola nel 1896, si salì a 127.603 nel 1906 per toccare la punta massima di 146.061 nel 1913.[26][67] Mescolati tra di loro vi erano, ovviamente, i mafiosi che impiantarono negli Stati Uniti le stesse attività che li avevano resi "celebri" in Sicilia: taglieggiamenti ed estorsioni nei confronti dei connazionali, omicidi, corruzione ed infiltrazione nei clubs politici (fra tutti, la Tammany Hall) e nei sindacati degli operai.[12] Le estorsioni avvenivano con un particolare metodo: si spediva al malcapitato una lettera con minacce e richieste di denaro firmata solamente con un'impronta di mano realizzata con l'inchiostro nero, tanto che la stampa statunitense affibbiò alla misteriosa organizzazione il nomignolo di "Mano Nera".[12][62] Rimasero vittime di questo tipo di estorsione anche il famoso tenore Enrico Caruso e il trasformista Leopoldo Fregoli[68]. Su quest'organizzazione indagò a lungo l'italo-americano Joe Petrosino, tenente della Polizia di New York, il quale accertò che essa era composta in maggioranza da delinquenti siciliani e che quindi fosse necessario recarsi in Sicilia per effettuare più accurate indagini perché era lì che risiedeva la centrale dell'associazione[62]. Il 20 febbraio 1909, prima di giungere a Palermo in missione segreta dagli Stati Uniti, Petrosino s'incontrò a Roma con il ministro dell'Interno di Giolitti, Camillo Peano, che gli promise la massima collaborazione alle sue indagini da parte del governo italiano[62][68]. Dopo soltanto un mese circa, la sera del 12 marzo, Petrosino fu freddato nella centralissima Piazza Marina a Palermo da uno sconosciuto che subito si dileguò: si trattò del primo omicidio "eccellente" del nuovo secolo, che fece grande impressione in Italia e negli Stati Uniti ma rimase impunito[62]. Infatti il presunto assassino, Vito Cascio Ferro, riuscì a cavarsela grazie ad un alibi fabbricatogli dal barone Domenico De Michele Ferrantelli, deputato filogiolittiano di Bivona e noto mafioso.[1][16][10][69]
La prima guerra mondiale e le sue conseguenze
Nel 1915 l'Italia entrò nella prima guerra mondiale; vennero chiamati alle armi centinaia di migliaia di giovani da tutto il paese. In Sicilia i disertori furono numerosi: essi abbandonarono le città e si dettero alla macchia all'interno dell'isola, andando ad ingrossare le file dei briganti che vivevano per lo più di rapine ed abigeati[70]. A causa della mancanza di braccia per l'agricoltura e della sempre maggiore richiesta di soldati dal fronte, moltissimi terreni vennero adibiti al pascolo.
Aumentati i furti di bestiame, i proprietari terrieri si rivolsero sempre più spesso ai mafiosi, piuttosto che alle impotenti autorità statali, per farsi restituire almeno in parte le mandrie. I boss, nei loro abituali panni, si prestavano a mediare tra i banditi e le vittime, prendendo una percentuale per il loro lavoro.[1] Siccome durante la guerra c'era l'ordine di requisire cavalli ed asini ai civili per esigenze belliche, i mafiosi fecero affari d'oro vendendo il bestiame rubato all'esercito, spesso con la complicità degli alti comandi[1][54].
Queste condizioni fecero aumentare enormemente l'influenza di Cosa nostra in tutta l'isola. Nel maggio 1916, per estirpare il brigantaggio, il governo decise la formazione di speciali squadriglie composte da carabinieri, poliziotti e cavalleggeri, il cui comando fu affidato al vicequestore Cesare Mori, che si distinse per i suoi metodi brutali, come perquisizioni indiscriminate, occupazione militare dei comuni, rastrellamenti e retate di massa, che nel giro di due anni gli consentirono di debellare ben quattro bande di briganti operanti tra le province di Caltanissetta, Girgenti e Palermo.[70][71]
Alla fine della prima guerra mondiale, l'Italia dovette affrontare un momento di crisi, che rischiò di sfociare in una vera e propria rivolta popolare, ad imitazione della recente rivoluzione russa, tanto che questo periodo viene ricordato come «biennio rosso» (1919-1920). Al nord gli operai scioperarono ed occuparono le fabbriche chiedendo migliori condizioni di lavoro, al sud furono i giovani appena tornati a casa a lamentarsi per le promesse non mantenute dal governo (in particolar modo quelle relative alla terra). Moltissimi quindi andarono ad ingrossare le file dei banditi, altri entrarono direttamente nella mafia e altri ancora parteciparono alla rinascita dei movimenti socialisti siciliani o comunque formarono delle cooperative di reduci per ottenere l'affittanza diretta dei latifondi[1]. Queste aspirazioni trovavano riscontro in un diritto legittimo: già nel 1917 era stata istituita l'Opera Nazionale Combattenti, ente pubblico che aveva il potere di espropriare terreni incolti da destinare alle cooperative di reduci, mentre nel 1919 il governo Nitti emanò il decreto-legge proposto dal ministro dell'agricoltura Visocchi che consentiva l'assegnazione dei latifondi in stato di abbandono alle cooperative o alle leghe di contadini da parte delle prefetture.[10] Tuttavia il blocco agrario si coalizzò nuovamente con la mafia per soffocare nel sangue le richieste di questi movimenti: furono colpiti infatti gli esponenti più rappresentativi, come avvenne per Nicola Alongi, ucciso a Prizzi il 29 febbraio 1920, o per Sebastiano Bonfiglio, assassinato ad Erice il 10 giugno 1922, e tanti altri[6]. Fu in questo clima di tensione che il fascismo fece la sua comparsa.
Il ventennio fascista
Il "prefetto di ferro"
Dopo una visita in Sicilia avvenuta nel maggio 1924, il presidente del consiglio Benito Mussolini decise di intraprendere una campagna per sradicare una volta per tutte la mafia. La leggenda vuole che, durante il viaggio, Mussolini fu oltraggiato in pubblico dal sindaco-mafioso di Piana dei Greci, don Ciccio Cuccia, e da lì sarebbe partito il suo risentimento contro la mafia[1][70]. Probabilmente covava già questo proposito, il quale si collocava nella sua volontà di una generale riorganizzazione dello Stato in senso autoritario e totalitario, che quindi non poteva tollerare la concorrenza di poteri alternativi quale era quello mafioso.[26] Mussolini affidò l'incarico a Cesare Mori, funzionario di polizia che si era già distinto nella repressione del brigantaggio isolano durante la Grande Guerra, e lo destinò inizialmente alla prefettura di Trapani, dove rimase fino il 20 ottobre 1925, quando fu nominato prefetto di Palermo con poteri eccezionali estesi a tutta la Sicilia.[71]
Alle elezioni amministrative del 1925, il blocco agrario-mafioso rappresentato dal principe Pietro Lanza di Scalea capì l'antifona ed abbandonò il suo vecchio protettore, il deputato liberale Vittorio Emanuele Orlando (addirittura "uomo d'onore" organico all'organizzazione, a detta dell'ex boss Buscetta)[72], per appoggiare il listone fascista capeggiato dal medico oculista Alfredo Cucco, non esitando a servirsi della solita manovalanza malavitosa per intimidire gli avversari politici.[70][73] Durante la campagna elettorale, Orlando tenne un celebre discorso pubblico al Teatro Massimo di Palermo, che fu interpretato come un tentativo maldestro di recuperare il favore perduto delle consorterie[70]:
«[...] Or vi dico, signori, che se per mafia si intende il senso dell'onore portato fino all'esagerazione, l'insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte. Se per mafia si intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell'anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo!»
Un'altra frangia del notabilato mafioso guidata dal deputato liberal-democratico Andrea Finocchiaro Aprile (indicato anche lui come "uomo d'onore" ma fiero avversario politico di Orlando in quanto vicino alle posizioni di Nitti ed Amendola)[12][72] ripiegò invece su posizioni dichiaratamente sicilianiste in aperta opposizione al fascismo, considerato «l'esponente del capitalismo settentrionale contro il Mezzogiorno d'Italia» (ideologia che nell'immediato dopoguerra sfocerà nella fondazione del movimento separatista).[10][74]
Mori non disturbò per il momento questi potentati e puntò subito l'attenzione alla delinquenza minuta (la cosiddetta «bassa mafia»), ossia alle bande di briganti che erano da sempre molto numerose nella zona delle Madonie ed avevano la loro base logistica nel piccolo comune montano di Gangi.[70] Ai primi di gennaio del 1926 fece porre un vero e proprio assedio a Gangi, tornando ai suoi vecchi metodi spicci che «avrebbero fatto impallidire i gesuiti della Santa Inquisizione», come scrisse lo studioso Michele Pantaleone: occupazione militare del comune, distruzione di beni e proprietà, privazione dell'acqua potabile agli abitanti, perquisizioni, arresti arbitrari e, in alcuni casi, torture.[1] Dopo circa una settimana di "assedio", tutti i capi-banda accettarono finalmente di arrendersi grazie alla decisiva mediazione dei baroni Li Destri e Sgadari (noti capi-mafia che fino ad allora li avevano protetti ma ora si adeguavano alla nuova situazione)[13][75][10] e il successo di quest'azione contribuì ad alimentare il mito di Mori quale "prefetto di ferro"[12][70][71]. Durante il biennio 1926-1927 il "metodo" Mori fu replicato in tutti i comuni della Sicilia occidentale con retate di massa che portarono in carcere caporioni della mafia del calibro di Vito Cascio Ferro e Calogero Vizzini[1]. Gli arrestati furono portati a centinaia sul banco degli imputati, dove la pubblica accusa era spesso rappresentata dal Procuratore generale del Re Luigi Giampietro, che fece condannare i presunti "mafiosi" a pene severissime per fatti mai commessi o, se venivano assolti, gli faceva assegnare il confino di polizia[1][70][71].
Nel 1927 Mori presentò alcuni dossier (basati in gran parte su informazioni anonime) che accusavano il deputato fascista Alfredo Cucco e il generale Antonino Di Giorgio di presunti legami con la mafia. Entrambi ebbero la carriera rovinata: Di Giorgio fu costretto alle dimissioni da ogni incarico mentre Cucco fu espulso dal partito fascista e finì sotto processo, da cui fu infine assolto per insufficienza di prove.[70] Probabilmente i due erano stati soltanto dei capri espiatori dati in pasto a Mori per coprire più alte responsabilità oppure, secondo un'altra ipotesi, vittime di una lotta di potere tra fazioni politiche cui il "prefetto di ferro" si sarebbe prestato.[12][71][76]
Il 26 maggio 1927, in un famoso discorso alla Camera dei deputati, Mussolini annunciò trionfalmente che i reati in Sicilia erano stati dimezzati e che la mafia si avviava verso la definitiva sconfitta[70]. Perciò l'anno seguente, Mori fu nominato senatore del Regno e nel giugno 1929 fu improvvisamente posto a riposo "per anzianità di servizio" con un telegramma di Mussolini[71]. Nel 1931 anche Giampietro lasciò la magistratura per limiti d'età[70]. La propaganda fascista poté finalmente proclamare che la mafia era stata definitivamente debellata[70].
L'istituzione dell'Ispettorato di Pubblica sicurezza per la Sicilia
Nel 1932, in occasione del decennale della marcia su Roma, fu promulgata un'amnistia che portò alla scarcerazione di numerosi mafiosi che erano stati arrestati e condannati durante l'operazione Mori[16]. Essi tornarono subito a delinquere e le conseguenze furono evidenti: a Canicattì, nell'agrigentino, vennero consumati tre omicidi «le cui modalità di esecuzione ed il mistero profondo in cui rimangono tuttora avvolti» rimandano a «delitti tipici di organizzazioni mafiose»; intorno a Partinico, alla metà degli anni trenta, si verificarono «incendi, danneggiamenti, omicidi […] a sfondo eminentemente associativo».[13]
Nel settembre 1933 fu quindi istituito l'Ispettorato interprovinciale di Pubblica sicurezza per la Sicilia, sotto il comando del questore Giuseppe Gueli, che aveva un organico misto di uomini dell'Arma dei carabinieri e del Regio Corpo degli agenti di pubblica sicurezza, con competenza d'indagine su tutta l'isola. Le sue operazioni furono tenute nascoste dal regime fascista perché ufficialmente la mafia era stata dichiarata estinta con Mori.[77]
Le indagini dell'Ispettorato accertarono che la mafia era organizzata «in forma settaria sulla falsa riga della massoneria» e stava attraversando una fase di transizione perché essa «[con Mori] fu sfrontata, potata, quasi intaccata al tronco, ma la base e le radici rimasero intatte, perché costituite dai cosiddetti "stati maggiori", ormai notoriamente composti da professionisti, titolati e da individui, in genere, di elevata classe sociale»[77], che si identificavano nei fratelli Marasà, ricchi gabellotti di fondi agricoli nella borgata palermitana di Boccadifalco, i quali infatti non furono minimamente toccati dalla repressione di Mori perché probabilmente avevano fornito informazioni incriminanti sui loro rivali all'interno della mafia, che finirono tutti in prigione e ora tornavano dopo l'amnistia per vendicarsi con omicidi ed attentati.[16][77] Nel 1938 queste scoperte furono condensate in un dettagliato rapporto di denunzia, che dovette aspettare altri tre anni per arrivare in tribunale: i fratelli Marasà e tanti altri indagati furono prosciolti da ogni accusa per mancanza di prove e il processo, come al solito, si concluse con pochi imputati condannati a pene miti[16][77]. Nel frattempo i pochi mafiosi che avevano accettato di collaborare con l'Ispettorato rivelando strutture gerarchiche, rituali ed organigrammi, ritrattarono pubblicamente le loro confessioni, affermando che gli erano state estorte con la tortura.[16][77]
Le indagini dell'Ispettorato non si fermarono qui. Infatti, nel luglio 1937, prima i carabinieri di Castelvetrano e poi la pubblica sicurezza di Alcamo raccolsero la testimonianza del medico Melchiorre Allegra, incappato in una retata dell'Ispettorato nella zona tra Trapani e Palermo, il quale confessò di essere mafioso, appartenente cioè ad «una setta con potenti ramificazioni, oltre che in Sicilia, in Tunisia, nelle Americhe e in Francia», e rivelò l'esistenza dei soliti rituali d'iniziazione, gerarchie e regole di comportamento[77][78]. Oltre a fare i nomi di professionisti e notabili aderenti alla mafia, raccontò anche che, alcuni anni prima, il "prefetto di ferro" Mori avrebbe fatto da paciere fra le cosche in lotta per la spartizione di una tangente su alcuni appalti portuali e a tale scopo avrebbe organizzato, con la mediazione del barone Lucio Tasca Bordonaro (anche lui "fratello" affiliato alla mafia e futuro sindaco di Palermo), una riunione che si tenne in prefettura e vide la partecipazione dei principali capi-mafia[16][78]. Stranamente, quei verbali non furono neanche presi in considerazione e rimasero sepolti in archivio per parecchi anni, finché furono ritrovati dal giornalista Mauro De Mauro nel 1962.[77][78][79]
I rapporti e i documenti sulle attività dell'Ispettorato furono invece scoperti soltanto nel 2007 grazie alle ricerche condotte negli archivi dagli storici Vittorio Coco e Manoela Patti sotto la supervisione di Salvatore Lupo.[77][80]
La seconda guerra mondiale e il dopoguerra
Dibattito sul ruolo di Cosa nostra nello sbarco alleato in Sicilia
Le voci di un possibile concorso di Cosa nostra nello sbarco alleato in Sicilia (9-10 luglio 1943) e nella successiva invasione dell'isola nacquero già alla fine della seconda guerra mondiale. Si pensò subito che vi fosse coinvolto il noto boss mafioso italo-americano Charles "Lucky" Luciano, inspiegabilmente scarcerato nel 1946 ed espulso dagli Stati Uniti. Nel 1951 indagò su questa faccenda pure la Commissione d'inchiesta statunitense sul crimine organizzato presieduta dal senatore Estes Kefauver, la quale giunse a queste conclusioni[6][81]:
«Durante la seconda guerra mondiale si fece molto rumore intorno a certi preziosi servigi che Luciano, a quel tempo in carcere, avrebbe reso alle autorità militari in relazione a piani per l'invasione della sua nativa Sicilia. Secondo Moses Polakoff, avvocato difensore di Meyer Lansky, la Naval Intelligence aveva richiesto l'aiuto di Luciano, chiedendo a Polakoff di fare da intermediario. Polakoff, il quale aveva difeso Luciano quando questi venne condannato, disse di essersi allora rivolto a Meyer Lansky, antico compagno di Luciano; vennero combinati quindici o venti incontri, durante i quali Luciano fornì certe informazioni.»
Infatti la Commissione Kefauver accertò che nel 1942 Luciano (condannato a cinquant'anni di reclusione per sfruttamento della prostituzione nel 1936 e da allora detenuto) offrì il suo aiuto al Naval Intelligence per indagare sul sabotaggio di diverse navi nel porto di Manhattan, di cui furono sospettate alcune spie naziste infiltrate tra i portuali; in cambio della sua collaborazione, Luciano venne trasferito in un altro carcere, dove venne interrogato dagli agenti del Naval Intelligence e offrì anche di recarsi in Sicilia per prendere contatti in vista dello sbarco, progetto comunque non andato in porto[81][82]. È quasi certo che la collaborazione di Luciano con il governo statunitense sia finita qui, anche se una parte della pubblicistica ritiene provato il complotto tra Cosa nostra e servizi segreti statunitensi volto a favorire lo sbarco e l'avanzata degli anglo-americani: il racconto più celebre fu quello fornito dallo studioso e giornalista Michele Pantaleone, il quale sostenne che, attraverso Luciano, la testa di ponte dell'invasione alleata in Sicilia sarebbe stato Calogero Vizzini, detto don Calò, notabile e gabellotto di Villalba, ritenuto nel dopoguerra il capo supremo della mafia.[1][12] Lo studioso riportò nel suo celebre saggio Mafia e politica (1962) le presunte testimonianze oculari di abitanti di Villalba che nel '43 avrebbero visto aerei caccia americani lanciare un fuolard con il simbolo L (di Luciano) per annunciare lo sbarco e un carro armato con identico vessillo prelevare l'anziano capo-mafia per concordare i movimenti di truppe con gli alti comandi alleati: frutto di questo pactum sceleris fu la ricostruzione di Cosa nostra dopo i duri colpi inferti dal prefetto Mori durante il fascismo[1]. Inoltre l'Amgot (il governo militare dei territori occupati dagli Alleati diretto dal colonnello Charles Poletti) si sarebbe affidato completamente a Vizzini per scegliere gli uomini da collocare nei posti-chiave dell'amministrazione isolana e lo stesso Poletti si scelse come interprete di fiducia l'italo-americano Vito Genovese, luogotenente di Luciano in Italia.[1]
In tempi più recenti la teoria del coinvolgimento di Cosa nostra nello sbarco alleato è stata riproposta dagli storici Nicola Tranfaglia e Giuseppe Casarrubea, a seguito della scoperta di documenti desecretati dall'amministrazione Clinton e conservati presso il NARA di Washington e il College Park del Maryland relativi ad un piano elaborato nel luglio 1942 da due agenti italo-americani dell'O.S.S. (i servizi segreti statunitensi antesignani della C.I.A.), Max Corvo e Victor Scamporino, che prevedeva il reclutamento di «sei agenti di origine siciliana» negli Stati Uniti da inviare in Sicilia prima dello sbarco con funzioni di spionaggio, sabotaggio e guerra psicologica, ma non è stato chiarito se il progetto fu effettivamente realizzato e se gli agenti fossero di estrazione mafiosa poiché Corvo, il 20 luglio 1943, scrisse «l’efficacia delle infiltrazioni [degli agenti dell’O.S.S. nell’isola] è stata vanificata e resa quasi impossibile dalla rapidità delle operazioni militari».[83][84]
Queste ricostruzioni sono però smentite da altre testimonianze: infatti le ricerche condotte dagli storici Salvatore Lupo, Rosario Mangiameli, Francesco Renda e John Dickie liquidano l'aiuto di Cosa nostra allo sbarco alleato come una «favola che ha la forza di un mito»[12][22][85][86]. Innanzitutto il racconto di Pantaleone presenterebbe delle falle perché in contraddizione con altre testimonianze oculari[87]. E bisogna notare che gli anglo-americani avevano mezzi militari superiori agli italo-tedeschi da non aver bisogno dell'aiuto della mafia per sconfiggerli: lo sbarco in Sicilia fu l'operazione aereo-navale più grande della storia militare che vide coinvolti circa 450.000 soldati, 2.775 navi, 4.000 aerei, 14.000 veicoli e 600 carri armati, un'operazione talmente segreta e delicata che gli Alleati non ne avrebbero certo messo a conoscenza la mafia[22]. Al di là di questo, come ha osservato Salvatore Lupo, nell'eventualità di un aiuto della mafia, la zona scelta per lo sbarco sarebbe stata allora quella della Sicilia occidentale, da cui proveniva la maggioranza dei mafiosi emigrati negli States, e non la zona sud-orientale dell'isola, dove effettivamente avvenne e dove Cosa nostra all'epoca non disponeva di valide teste di ponte.[85][88] I documenti ufficiali dimostrano inequivocabilmente che i contatti tra mafia e Alleati effettivamente vi furono ma avvennero dopo lo sbarco e non prima: si hanno le prove di incontri di Vizzini con agenti dell'O.S.S. per riportare l'ordine nelle campagne turbate dal crescente banditismo[12]. Poi anche il ruolo di Vizzini sarebbe da ridimensionare: egli avrebbe cercato di accreditarsi presso i suoi interlocutori statunitensi come il capo della mafia e, secondo la testimonianza dell'ex boss mafioso Antonino Calderone, gli stessi capi-mafia erano infastiditi dall'atteggiamento di Vizzini perché amava mettersi «troppo in mostra» come «cantanti e ballerine»[89], a dispetto della segretezza dell'organizzazione[12][88].
Inoltre, come dimostrato dal rapporto dell'Ispettorato di Pubblica sicurezza del '38, Cosa nostra non era stata completamente smantellata dal prefetto Mori ma si stava riorganizzando già prima della guerra e quindi non avrebbe avuto bisogno degli Alleati per rinascere, come sostenuto da Pantaleone.[88] Spesso, nella nomina delle autorità locali da sostituire a podestà e prefetti fascisti, l'Amgot si affidò semplicemente al parere di interpreti di origine siciliana (in diversi casi provenienti da ambienti mafiosi italo-americani, come avvenne con Vito Genovese) o a quello delle autorità ecclesiastiche locali e dell'aristocrazia terriera, con cui aveva instaurato un ottimo rapporto: un esempio su tutti, Vizzini fu scelto come sindaco di Villalba su raccomandazione della diocesi di Caltanissetta perché proveniente da una famiglia di parroci e vescovi mentre a Palermo fu nominato sindaco il barone Lucio Tasca Bordonaro, massimo rappresentante della nobiltà agraria siciliana (ed indicato in un rapporto dei carabinieri come un autentico capo-mafia)[6][12]. La situazione è ben descritta in un rapporto segreto intitolato "The problem of mafia in Sicily" redatto dal capitano dell'O.S.S. William E. Scotten il 29 ottobre 1943 sempre per conto dell'Amgot (quindi poche settimane dopo l’avvenuta occupazione)[83]:
«[...] La gente si lamenta del fatto, ed è la cosa più inquietante, che molti interpreti del Gma [l'Amgot, n.d.r.] di origine siciliana provengano direttamente da ambienti mafiosi statunitensi. Sostiene inoltre che i nostri alti funzionari sono influenzati dalla nobiltà terriera, che è strettamente legata alla mafia sia per tradizione sia per ragioni di opportunità politica. La popolazione afferma che i nostri funzionari sono ingannati da interpreti e consiglieri corrotti, al punto che vi è il pericolo che possano diventare uno strumento inconsapevole in mano alla mafia. [...] Agli occhi dei siciliani, non solo il Gma non è in grado di affrontare la mafia, ma è arrivato addirittura al punto da esserne manipolato. Ecco perché, al giorno d’oggi, molti siciliani mettono a confronto il Gma e il fascismo. [...] Sotto il fascismo, la mafia non era stata interamente debellata, ma era almeno tenuta sotto controllo. Oggi, invece, cresce con una velocità allarmante e ha persino raggiunto una posizione di rilievo nel Gma.»
Il blocco agrario-mafioso aveva infatti salutato con favore l'arrivo degli anglo-americani perché risentito con il regime fascista, oltre che per la persecuzione di Mori, anche per la promulgazione della legge sulla colonizzazione del latifondo siciliano del 2 gennaio 1940, che li costringeva ad apportare migliorie produttive ai loro latifondi pena l’esproprio delle loro campagne.[26][90]
Il movimento separatista, il banditismo e le lotte contadine (1943-1950)
Gli occupanti anglo-americani alimentarono le istanze autonomiste da sempre proprie delle élite agrarie, che sfociarono nella nascita del Movimento indipendentista siciliano (M.I.S.), la prima organizzazione politica nata dopo lo sbarco alleato (nonostante l'Amgot vietasse ogni attività di tipo politico) che mirava alla separazione della Sicilia dallo Stato italiano ed (almeno inizialmente) anche la sua annessione agli Stati Uniti d'America[6][10]. L'adesione di Cosa nostra al separatismo è dimostrata dalla partecipazione di Calò Vizzini al primo convegno regionale clandestino dei separatisti, avvenuto a Catania il 6 dicembre 1943: egli era uno dei tre principali leaders dell'ala agraria-conservatrice del movimento, insieme al barone Tasca e al deputato liberale Andrea Finocchiaro Aprile, tutti in odor di mafia.[6][91][74]
Infatti, in quei mesi convulsi, la Sicilia viveva una periodo di caos e sbandamento: il razionamento dei generi alimentari di prima necessità aveva prodotto un diffuso mercato nero ('ntrallazzu) praticato da improvvisati commercianti e speculatori.[1] I mafiosi installati dagli Alleati nelle amministrazioni locali si trovavano nelle condizioni ideali per controllare il movimento delle merci e dei mezzi di trasporto[1]. La fame e la povertà avevano inferocito i ceti meno abbienti e il banditismo aveva trovato nuova linfa, tanto che ogni comune della Sicilia occidentale aveva la sua banda e tutte si dotarono di armi pesanti abbandonate dalle truppe italo-tedesche in ritirata: estorsioni, rapine e sequestri di persona divennero endemici. Il bandito fu famigerato di quegli anni fu Salvatore Giuliano. Quella di Giuliano è la storia tipica di ogni bandito siciliano: ucciso nel '43 un carabiniere che lo aveva fermato con farina di contrabbando, si diede alla macchia e trovò la protezione e l'aiuto della mafia per formare la sua banda.[91]
Il governo dell'Amgot durò fino al febbraio del 1944, quando la Sicilia passò sotto l'amministrazione del Regno del Sud, guidato dal governo Badoglio, cui partecipavano tutti i partiti antifascisti aderenti al C.L.N. Fu deciso di istituire un Alto Commissariato per governare la Sicilia e alla sua guida fu posto Francesco Musotto, di tendenze filo-separatiste, che rimase in carica per quattro mesi, quando fu sostituito dal democristiano Salvatore Aldisio, che invece avviò una politica antisecessionista.[92] Alcuni dispacci segreti inviati al Segretario di Stato degli Stati Uniti il 21 e 27 novembre 1944 dal console americano a Palermo, Alfred T. Nester, dimostrano che Calogero Vizzini, attraverso il generale Giuseppe Castellano (lo stesso che firmò per l'Italia l'armistizio di Cassibile nel 1943), cercò di far sostituire Aldisio con Virgilio Nasi, più vicino alle posizioni separatiste, ma il progetto sfumò.[10][93] Infatti Aldisio perseguitò duramente il movimento separatista, che fu messo fuori legge e i suoi leaders principali (tra cui Finocchiaro Aprile) arrestati ed inviati al confino.[91][74]
Nel maggio del ’44 il ministro dell’Agricoltura del governo Badoglio, il comunista calabrese Fausto Gullo, emanò una serie di decreti-legge che prevedevano la concessione delle terre incolte e malcoltivate alle cooperative di contadini ed anche una più equa divisione dei prodotti agricoli tra proprietario e contadino.[94] Ridotto il loro spazio politico dall'azione del governo e dall'iniziativa dei partiti democratici, i separatisti spalleggiati dagli agrari corsero ai ripari giocando nuovamente la carta della mafia: un episodio clamoroso che ebbe una triste risonanza nazionale fu l'attentato subìto il 16 settembre 1944 dal segretario regionale del P.C.I. Girolamo Li Causi, preso a pistolettate dagli uomini di Calò Vizzini per impedirgli di tenere un comizio nella piazza di Villalba.[12][95] Si cercò inoltre di strumentalizzare il malcontento della popolazione contro il governo per il carovita e la chiamata alle armi, che era sfociata nella strage di via Maqueda a Palermo (19 ottobre 1944), quando i soldati spararono sui manifestanti provocando 19 morti e 108 feriti. Fu deciso quindi di passare alla lotta armata con la creazione dell'E.V.I.S. (Esercito volontario per l'indipendenza siciliana), inizialmente guidato da Antonio Canepa, il quale, rimasto ucciso in un agguato dai contorni misteriosi, fu sostituito da Concetto Gallo (a detta di Calderone, anch'egli "uomo d'onore")[82][89][96] che, d'accordo con Finocchiaro Aprile e Lucio Tasca, decise di affidarsi al banditismo per condurre la guerriglia[6][91][97]. Fu agganciato il bandito Giuliano per coordinare le operazioni nella Sicilia occidentale (gli fu addirittura offerta la carica di "colonnello" del neocostituito esercito), che consistettero in diversi attacchi armati alle stazioni dei carabinieri di Bellolampo, Pioppo, e Montelepre, che furono occupate e i carabinieri uccisi senza pietà[91]. L'E.V.I.S. fu poi definitivamente sconfitto nella battaglia di San Mauro (29 dicembre 1945), nei pressi di Caltagirone, e perciò la causa separatista perse vigore a vantaggio della linea autonomista caldeggiata da Aldisio, che si concretizzò nel regio decreto del 15 maggio 1946, emanato dal re Umberto II, che riconosceva appunto l'autonomia speciale della Regione Siciliana[91].
Rimasto "orfano" della lotta separatista, il banditismo fu assoldato per reprimere le legittime istanze dei movimenti contadini che reclamavano l'applicazione dei decreti Gullo con la formazione di cooperative agricole, scioperi ed occupazioni pacifiche dei latifondi lasciati incolti[1][98]. Anche il bandito Giuliano attaccò le leghe contadine e l'offensiva culminò nella strage di Portella della Ginestra (1º maggio 1947), contro i manifestanti socialisti e comunisti a Piana degli Albanesi (provincia di Palermo), in cui morirono 11 persone (otto adulti e tre bambini) e altre 27 rimasero ferite[91]. Dalle file del banditismo emerse anche la figura di Luciano Leggio (detto anche Liggio, a causa di un'errata trascrizione del cognome), la "primula rossa di Corleone", che avrà una rapida "carriera": da semplice scassapagghiaru assurgerà a figura mafiosa di primo piano trasformandosi in campiere e poi in gabellotto (il più giovane di tutta la Sicilia)[1] assoldato dagli agrari per reprimere le istanze contadine, come dimostrò con l'omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, ucciso e gettato in un dirupo il 10 marzo 1948.[99] Rizzotto è uno dei 39 sindacalisti barbaramente uccisi in Sicilia tra il 1945 e il 1958 che in quegli anni lottarono per la terra negata[1][98][100].
Abbandonato al suo destino il movimento separatista, i notabili mafiosi passarono ad appoggiare i liberali e i monarchici (che garantivano una maggiore protezione ai privilegi terrieri) alle elezioni politiche del 1946 e alle regionali del 1947 ma, alle elezioni politiche del 1948, confluirono in massa nella Democrazia Cristiana, che si apprestava a diventare il partito governativo[1][91]. Perciò la manovalanza del banditismo divenne inutile e si provvide subito ad eliminarla: una dopo l'altra, le bande si sfaldarono perché i capi furono trovati misteriosamente uccisi, oppure ammazzati in conflitti a fuoco o arrestati a seguito di "soffiate".[1] Anche la banda Giuliano fu smantellata dagli arresti operati dal Comando forze repressione banditismo, guidato dal colonnello dei carabinieri Ugo Luca, che si servì delle soffiate di elementi mafiosi per catturare i banditi: lo stesso Giuliano verrà ucciso nel 1950 dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, il quale era segretamente diventato anch'egli un informatore del colonnello Luca[91]. In seguito Pisciotta venne arrestato ed accusò apertamente alcuni deputati monarchici e democristiani di essere i mandanti della strage di Portella della Ginestra (probabilmente per depistare gli inquirenti) ma morì avvelenato nel carcere dell'Ucciardone nel 1954[1][91].
Il "miracolo" economico
La riforma agraria e l'infiltrazione negli enti pubblici
Nel 1950 l'Assemblea regionale siciliana varò la legge per la riforma agraria, che limitava il diritto alla proprietà terriera a soli 200 ettari ed obbligava i proprietari terrieri ad effettuare opere di bonifica e trasformazione, pena l'esproprio.[98] L'applicazione della legge però procedette a rilento e soltanto nel 1955 si assegnarono ai contadini più poveri le prime terre espropriate. Si trattava quasi sempre dei terreni peggiori che non si prestavano a nessuna trasformazione perché, nel frattempo, gli agrari avevano avuto modo di vendere la parte migliore dei loro fondi, spesso attraverso la mediazione mafiosa[98]. L'ente regionale istituito per occuparsene, l'E.R.A.S. (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia), si dimostrò un carrozzone clientelare e parassitario che non ostacolò questa pratica.[98][101][10]
Tuttavia il ceto agrario subì un duro colpo con questa riforma, cui cercò di reagire mobilitando i migliori avvocati siciliani (si parlò di «offensiva della carta bollata») oppure, come al solito, facendo intimidire ed uccidere dalla mafia i sindacalisti che davano voce alle istanze del movimento contadino, come avvenne con l'omicidio ai danni di Salvatore Carnevale, avvenuto a Sciara nel 1955.[98][101]
Come conseguenza diretta, la riforma agraria comportò lo smembramento della grande proprietà terriera (fino ad allora importantissima per gli interessi dei mafiosi) e la riduzione del peso economico dell'agricoltura a favore di altri settori come il commercio o il terziario del settore pubblico.[102] In questo periodo l'amministrazione pubblica in Sicilia divenne l'ente più importante in fatto di economia: dal 1950 al 1953 i dipendenti regionali passarono da circa 800 ad oltre 1 350[12]. Si moltiplicarono gli enti regionali e i consorzi di bonifica che avrebbero dovuto dare impulso alla rinascita economica della Sicilia (per citare i più noti, E.S.E., A.S.T., So.Fi.S., E.M.S. e tanti altri) ma, nella maggioranza dei casi, si rivelarono dei carrozzoni clientelari (al pari dell'E.R.A.S.), poiché dal 1946 al 1963 le assunzioni avvennero maggiormente per chiamata diretta, non per concorso, quindi non per merito ma per raccomandazione, amicizia o favore elettorale.[102] Perciò l'inserimento nei vari livelli delle amministrazioni locali e degli enti regionali divenne il nuovo terreno di conquista privilegiato per Cosa nostra al posto della grande proprietà terriera: si stima che negli anni '60, l'amministrazione comunale di Trapani contasse come dipendenti 15 parenti di mafiosi, quella di Caltanissetta 16, quella di Agrigento 20.[102]
In quegli anni, Cosa nostra condizionò anche la formazione dei governi regionali. Dal 1949 al 1955 si alternarono due giunte di centro-destra presiedute dal democristiano Franco Restivo (appoggiato elettoralmente dalle cosche, secondo alcune testimonianze)[1][72]. Nel 1954, con l'affermarsi a livello nazionale della corrente democristiana Iniziativa democratica di Amintore Fanfani, i mafiosi passarono ad appoggiare i «Giovani Turchi» fanfaniani rappresentati a livello locale da Giuseppe La Loggia (Agrigento), Antonino Drago (Catania) e Giovanni Gioia (Palermo).[103][12] In particolare quest'ultimo, eletto deputato nel 1958, inaugurò la cosiddetta "strategia delle tessere", consistente nella distribuzione di tessere del partito a parenti, amici e, persino, ai defunti, che gli consentirono di aprire solo a Palermo ben 59 sezioni democristiane.[12] Egli inoltre fu l'artefice del passaggio di diversi esponenti monarchici e liberali tra le file dei fanfaniani e, con essi, ovviamente arrivò anche la mafia. Il sindaco democristiano di Camporeale, Pasquale Almerico, che si oppose a questa nuova alleanza, fu ucciso senza pietà nel 1957.[103][10]
Nel 1958, Cosa nostra si rivelò fondamentale nella formazione del governo regionale presieduto da Silvio Milazzo, che era appoggiato da un'inedita coalizione tra comunisti, democristiani e missini in aperta opposizione ai fanfaniani, tanto da definire questa convergenza di forze politiche opposte come «milazzismo»[13][104]. Regista occulto di quest'operazione fu Paolino Bontate, ufficialmente grossista di agrumi ma in realtà capocosca della borgata palermitana di Villagrazia, considerato il trait d'union tra monarchici e democristiani[13]. Una volta ottenuti i suoi scopi, la mafia montò ad arte uno scandalo ai danni del governo Milazzo, causandone la rapida caduta[104].
Nel 1961, all'infelice esperienza del milazzismo, seguì un governo regionale di centro-sinistra (il primo della storia repubblicana) guidato dal democristiano Giuseppe D'Angelo, che intraprese subito una serrata battaglia per la moralizzazione della vita pubblica contro quei potentati economici cresciuti grazie ai legami con la mafia.[103][22] Tuttavia D'Angelo non poté portare a termine questi propositi perché fu costretto alle dimissioni e nelle elezioni successive perse addirittura il suo seggio all'Assemblea regionale siciliana.[100]
L'infiltrazione nell'imprenditoria e i "sacchi" edilizi
L'ampliamento dell'amministrazione pubblica fece sì che uno stuolo di dipendenti regionali si trasferisse da ogni parte dell'isola a Palermo (sede degli uffici del nuovo governo regionale), la cui popolazione crebbe da 350.000 a 665.000 abitanti tra il 1959 e il 1963[103]. La città portava ancora i segni dei bombardamenti del 1943, ed anche 40 000 dei suoi abitanti, che avevano avuto la casa distrutta, richiedevano nuove abitazioni.[12][102] Il nuovo piano di ricostruzione edilizia però si rivelò un fallimento e sfociò in quello che venne chiamato «sacco di Palermo»: infatti, negli stessi anni in cui avvenne l'effimera parabola del milazzismo, si assistette alla rapida ascesa dei fanfaniani Salvo Lima e Vito Ciancimino, "delfini" del deputato Gioia che erano strettamente legati ad esponenti mafiosi ed andarono ad occupare le principali cariche dell'amministrazione locale.[12] Un'inchiesta prefettizia voluta dal governo D'Angelo[103][100] accertò che, durante il periodo in cui prima Lima e poi Ciancimino furono assessori ai lavori pubblici del comune di Palermo, il nuovo piano regolatore cittadino sembrò andare in porto nel 1956 e nel 1959 ma furono apportati centinaia di emendamenti, in accoglimento di istanze di privati cittadini (molti dei quali in realtà erano uomini politici e mafiosi, a cui si aggiungevano parenti e associati)[12], che permisero in tempi rapidi l'abbattimento di numerose residenze private in stile Liberty di inestimabile valore artistico ed architettonico che erano state costruite alla fine dell'Ottocento nel centro della città. In particolare, l'inchiesta appurò che nel periodo in cui Ciancimino fu assessore (1959-64), delle 4 000 licenze edilizie rilasciate, 1 600 figurarono intestate a tre prestanome, che non avevano nulla a che fare con l'edilizia[102]. L'imprenditore che più incarnò la situazione di disordine edilizio che viveva Palermo in quegli anni fu Francesco Vassallo, il quale fece una rapidissima carriera nonostante le chiare origini mafiose, riuscendo ad ottenere prestiti agevolati dalle banche, appalti di opere pubbliche e contratti vantaggiosi conclusi con l'amministrazione regionale[103]. Nonostante risultasse che costruisse edifici che violavano palesemente le clausole dei progetti e delle licenze edilizie, questo spregiudicato imprenditore rimase sempre impunito[102][105].
I giornali favoleggiarono di una presunta società VA.LI.GIO. (Vassallo-Lima-Gioia) che dominava all'interno del comune di Palermo e decideva in esclusiva a chi si dovessero assegnare gli appalti pubblici o le licenze edilizie.[103][100] Ma, al contrario della convinzione comune, il sacco edilizio di Palermo vide in realtà protagoniste imprese non siciliane, tra cui la Società Generale Immobiliare (con capitale vaticano) e le cooperative settentrionali.[106] Il ruolo mafioso si limitò quindi alla intermediazione tra i proprietari dei terreni edificabili e le imprese "forestiere" oppure alla fornitura di manodopera o del materiale di costruzione.[106] In quegli anni infatti si moltiplicarono le ditte attive nel trasporto e nella fornitura di materiale per l'edilizia, che fecero la fortuna di boss mafiosi del calibro di Angelo La Barbera, Rosario Mancino, Antonino Sorci e Pietro Torretta, i quali si imposero sul mercato utilizzando, come al solito, metodi violenti ed intimidatori.[107]
All'ombra della corrente fanfaniana si affermarono inoltre due potentati che avrebbero influenzato la vita economica siciliana per oltre un trentennio: i cugini Antonino ed Ignazio Salvo di Salemi e il gruppo Costanzo di Catania[13]. Entrambi appoggiarono il milazzismo anche in ragione delle leggi approvate a sostegno dell’imprenditoria[13]. I Salvo appartenevano ad una famiglia mafiosa da generazioni e proprio il loro connubio con Paolino Bontate e con il figlio Stefano determinò la caduta del governo Milazzo ed, in cambio, i governi regionali che subentrarono assegnarono alla società dei due cugini la riscossione del 40% delle tasse siciliane con un aggio che si aggirava tra il 7% e il 10%, il più alto percepito in tutta Italia[13][104]. Furono tuttavia duramente avversati dal governo di Giuseppe D'Angelo e perciò ne causarono la caduta fino ad estrometterlo del tutto dalla vita politica[104][100]. Invece i Costanzo, attivi nel settore delle costruzioni e delle commesse pubbliche, si legarono indissolubilmente a Luigi Saitta prima e ai nipoti Giuseppe e Antonino Calderone poi, boss mafiosi catanesi che divennero i loro factotum incaricati di tenere le relazioni con le "famiglie" mafiose dei luoghi in cui svolgevano lavori, con cui concordavano l'importo delle tangenti da pagare e i nomi delle ditte "amiche" a cui assegnare i sub-appalti e le forniture di materiale[108][89][13]. La mafia catanese era relativamente giovane (nella sua testimonianza, Antonino Calderone affermò che essa fu fondata da un altro suo zio durante gli anni del "prefetto di ferro" Mori)[89][96] ma rimasta fino al quel momento in sordina ed ora approfittava della favorevole congiuntura offerta dal "miracolo" economico e dall'industrializzazione, che fecero di Catania la "Milano del sud"[13]. Sono gli anni in cui Enrico Mattei, presidente dell'E.N.I., scoprì nella Sicilia orientale vasti giacimenti petroliferi, che portarono all'apertura dello stabilimento Anic a Gela con relativo indotto[109][54]. Perciò i gruppi mafiosi della Sicilia occidentale come i Bontate, i Citarda e i Salvo iniziarono ad investire massicciamente in quella parte dell'isola, dove trovarono dei validi partners proprio nei Calderone-Saitta, rimasti fino ad allora confinati in disparte[110][89]. Nel 1962 lo stesso Mattei rimase ucciso a causa di un misterioso sabotaggio del suo aereo privato dopo essere partito dall'aeroporto di Catania, probabilmente organizzato dal Bontate e da Giuseppe Di Cristina (potente boss mafioso del nisseno) su richiesta di Cosa nostra italo-americana (forse su ispirazione dei petrolieri statunitensi, preoccupati dalla crescente concorrenza di Mattei sul mercato internazionale del petrolio).[109]
L'organizzazione del contrabbando e la nascita della "Commissione"
Dal 1946 in poi, oltre cento mafiosi italo-americani furono rimpatriati in Italia perché gli Stati Uniti li dichiararono elementi "indesiderabili"[111]. Tra di essi vi erano boss mafiosi di rilievo come Charles "Lucky" Luciano, Joe Adonis e Frank Coppola, i quali si mantennero lontani dalla Sicilia e scelsero di stabilirsi sul "continente": Luciano a Napoli, Adonis a Milano e Coppola a Pomezia, nei pressi di Roma.[111][112] Tuttavia continuarono a mantenere contatti con l'organizzazione siciliana e se ne servirono per organizzare in grande stile il contrabbando di sigarette ed eroina. In particolare la droga era destinata ai loro "colleghi" d'oltreoceano, dove il "vizio" era particolarmente diffuso negli slums delle grandi metropoli come New York e Chicago.[113][102] I gangster italo-americani esiliati in Italia erano infatti per i mafiosi siciliani la chiave d'accesso per il mercato statunitense e li invogliava ad intraprendere questo losco "commercio" la blanda legislazione italiana in fatto di stupefacenti, che prevedeva pene irrisorie per i trasgressori poiché all'epoca l'uso di droga in Italia era limitato a gruppi sociali molto ristretti e quindi quasi nessuno se ne curava.[112][12][16]
Il contrabbando nel Mediterraneo era però appannaggio esclusivo delle organizzazioni corso-marsigliesi, cui i siciliani furono costretti ad interfacciarsi per rifornirsi[114]. Negli States la droga giungeva spesso occultata nei bauli di ignari emigranti imbarcati su transatlantici di linea oppure attraverso fidati corrieri reclutati dall'organizzazione[114][112]. Nel giro di pochi anni, alcuni mafiosi siciliani si trasformarono in "turisti" della droga: boss come Angelo La Barbera, Rosario Mancino, Gaetano Badalamenti, Tommaso Buscetta e Salvatore "Cicchiteddu" Greco furono notati in alberghi costosi in giro per l'Italia e la Costa Azzurra, dove potevano agevolmente contattare i contrabbandieri marsigliesi per concordare i movimenti della "merce"[110]. Il cugino omonimo di "Cicchiteddu", «Totò l'Ingegnere», allestì una flotta contrabbandiera di pescherecci e fu segnalata la sua presenza sotto falso nome in diverse città marittime, tra cui Marsiglia e Tangeri, da dove si manteneva in corrispondenza con Coppola.[107] La Barbera e Mancino invece risultarono in costante contatto con Adonis a Milano e nel 1960 si spinsero fino agli Stati Uniti via Messico, dove cercarono di piazzare della droga ma senza successo perché furono segnalati dall'Interpol ed espulsi[107][114][72]. Un altro "turista", il capo-mafia palermitano Calcedonio Di Pisa, fu beccato da un'agente infiltrato del Narcotic Bureau mentre cercava di vendergli una partita di eroina.[115]
Nel 1952 avvenne uno dei primi sequestri di droga in terra siciliana: ad Alcamo fu trovato un baule carico di 6 kg di eroina destinato a Frank Coppola, che finì in manette e fu condannato a soli due anni di carcere[114][68][112]. Lo stesso Luciano risultò in contatto con alcuni corrieri della droga arrestati in Italia ma non si riuscirono mai a trovare prove per arrestarlo.[114][110][112][116]
Nell'ottobre 1957 si tennero una serie di incontri presso il Grand Hotel et des Palmes di Palermo tra mafiosi italo-americani e siciliani (Joseph Bonanno, Gaspare Magaddino, Carmine Galante, Frank Garofalo, Lucky Luciano, Cesare Manzella, Giuseppe Genco Russo ed altri)[114]. Le forze dell'ordine si accorsero del meeting ma non intervennero, limitandosi ad osservare il viavai dei partecipanti, molti dei quali non furono riconosciuti.[116][10] Si sospettò che lo scopo degli incontri fosse quello di affidare ai siciliani la gestione del traffico degli stupefacenti, dopo che la rivoluzione castrista a Cuba (1956-57) aveva privato i corrieri di quell'importante base di smistamento per l'eroina destinata agli U.S.A.[107][114]. Alcuni sostennero che alle riunioni avrebbe partecipato anche l'uomo d'affari siculo-statunitense Michele Sindona (allora agli esordi), che si sarebbe occupato di curare la parte finanziaria del nuovo accordo commerciale.[117][118]
Nella sua testimonianza resa parecchi anni più tardi, Buscetta negò sempre che lui e i suoi amici fossero coinvolti in attività di narcotraffico e si giustificò che i frequenti viaggi avvenivano per andare a giocare al casinò o per avventure galanti[72]. Anche del summit dell'Hotel des Palmes diede una versione diversa: affermò che la droga non c'entrava nulla con quegli incontri (a cui lui stesso ammise di aver partecipato) ma erano soltanto un bentornato da parte degli "amici" siciliani al boss italo-statunitense Joseph Bonanno, che mancava da tanti anni dalla Sicilia[119][12]. L'incontro conviviale però non sarebbe avvenuto all'Hotel des Palmes (dove semplicemente Bonanno alloggiava e riceveva persone venute a salutarlo) ma in un ristorante di Mondello, cui parteciparono, a detta di Buscetta, tutti i pezzi grossi dell'epoca: La Barbera, Mancino, "Cicchiteddu" Greco, Badalamenti, Di Pisa, Cesare Manzella, Totò Minore e Vincenzo Rimi.[72] Sempre secondo Buscetta, Bonanno si appartò a parlare con lui, Badalamenti e "Cicchiteddu" Greco e gli propose di seguire l'esempio dei mafiosi italo-americani, cioè fondare una "Commissione" che mettesse pace tra le varie "famiglie" ed emettesse in esclusiva sentenze di morte. Buscetta, Badalamenti e "Cicchiteddu" si adoperarono in prima persona per realizzare il progetto, che fu apparentemente accettato da tutte le "famiglie"[12]. Le nuove regole prevedevano che facessero parte del nuovo organo di governo soltanto mafiosi di basso rango (esclusi quindi i capifamiglia), i quali avrebbero rappresentato un "mandamento", cioè tre o quattro "famiglie" contigue territorialmente[12][72]. Nota lo storico John Dickie che la versione di Buscetta nasconde la verità: in realtà i personaggi indicati da Buscetta come presenti al pranzo di Mondello erano tutti astri nascenti nel mercato della droga di respiro internazionale (come dimostrato dai loro frequenti viaggi) e la "Commissione" proposta da Bonanno ben si adattava a dare loro più spazio e potere rispetto ai boss di vecchio stampo legati più alla dimensione locale che ai traffici transnazionali.[12]
L'attenzione dell'opinione pubblica sul problema mafioso
Gli anni del dopoguerra furono caratterizzati dall'atteggiamento di minimizzazione o addirittura di negazionismo sul fenomeno mafioso da parte di alcuni esponenti politici di area governativa (come si rileva, ad esempio, da alcune esternazioni dell'allora ministro dell'Interno Mario Scelba)[1][120]. Questa linea fu anche seguita dalla Chiesa cattolica siciliana, come emerge dalle dichiarazioni dell'arcivescovo di Palermo, cardinale Ernesto Ruffini, che, in una lettera pastorale del 1964, indicò il romanzo-capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa Il Gattopardo, il gran parlare di mafia e l'attivista Danilo Dolci come le tre cause che maggiormente contribuivano a disonorare la Sicilia[12][121]. Il dibattito pubblico sul fenomeno fu perciò monopolizzato dalle forze politiche di sinistra, in particolare dal P.C.I., che richiedevano a gran voce l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia che mettesse finalmente a nudo le collusioni con la classe dirigente (in primis con la Democrazia Cristiana).[122] Celebri infatti furono le denunce sui rapporti tra mafia e potere portate all'attenzione dell'opinione pubblica dalle interrogazioni parlamentari del deputato comunista Girolamo Li Causi[123][124] oppure dagli scritti e dagli articoli firmati da intellettuali di sinistra del calibro di Leonardo Sciascia, Carlo Levi, Danilo Dolci, Michele Pantaleone e Giuseppe Fava, che ebbero il merito di sollevare l'attenzione sul problema[12][82].
Uno dei mezzi utilizzati dal P.C.I. per condurre la sua campagna di stampa anti-mafia fu un quotidiano di sua proprietà, L'Ora di Palermo.[125] Nel 1958 L'Ora pubblicò congiuntamente al quotidiano Paese Sera di Roma (anch'esso di proprietà del P.C.I.) un'inchiesta a puntate sul fenomeno mafioso dal titolo Tutto sulla mafia firmata dai giornalisti Felice Chilanti, Nino Sorgi (avvocato de L'Ora che si firmava con lo pseudonimo di Castrense Dadò), Michele Pantaleone, Mario Farinella, Enzo Lucchi, Mino Bonsangue ed Enzo Perrone: si trattò della prima indagine giornalistica sulla mafia mai pubblicata da un giornale italiano, che venne portata a termine nonostante l'attentato dinamitardo del 19 ottobre del 1958 che distrusse per ritorsione parte della redazione e della tipografia de L'Ora[126]. A seguito di questo grave fatto, il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat dichiarò in Parlamento: «Ci voleva l'attentato all'Ora per scoprire che in Sicilia c'è la mafia»[12]. L'attentato fu inoltre all'origine della proposta di legge presentata dai senatori Ferruccio Parri e Simone Gatto per l'istituzione di una Commissione parlamentare antimafia.[127][54][128] Soltanto nel dicembre del 1962, a seguito della favorevole congiuntura politica offerta dall'avvento dei governi di centro-sinistra a livello regionale e nazionale, fu approvato il disegno di legge che istituiva la Commissione antimafia (legge n. 1720/62), la quale entrò in funzione soltanto nel febbraio 1963, sotto la presidenza del deputato Paolo Rossi, ma non tenne alcuna seduta a causa dell'avvenuto scioglimento delle Camere[128][103].
La «prima guerra di mafia» e l’«occasione mancata»
A Palermo le tensioni latenti riguardo agli affari illeciti nei settori dell'edilizia e del contrabbando riesplosero con l'uccisione di uno dei "turisti" della droga, Calcedonio Di Pisa (26 dicembre 1962), che ruppe una fragile tregua raggiunta tra i principali mafiosi palermitani del tempo[107][129]. L'omicidio fu attribuito ai fratelli Angelo e Salvatore La Barbera contro cui si scatenò la caccia all'uomo da parte della "Commissione" con una lunga catena di omicidi, sparatorie ed autobombe, che culminarono nella strage di Ciaculli (30 giugno 1963), in cui morirono sette uomini delle forze dell'ordine dilaniati dall'esplosione di una Giulietta imbottita di esplosivo che stavano disinnescando e che era probabilmente destinata al mafioso rivale "Cicchiteddu" Greco (capo del "mandamento" di quella zona).[107][130] I giornali paragonarono Palermo alla Chicago degli anni '30 e definirono il conflitto come "prima guerra di mafia"[12], tentando di presentarla come una resa dei conti tra "nuova" mafia dell'edilizia e del contrabbando (rappresentata dai La Barbera) e "vecchia" mafia agraria (legata a "Cicchiteddu" Greco): secondo gli storici John Dickie e Salvatore Lupo, questa rappresentazione non rispecchia la realtà poiché risulta la circostanza che nel campo dei La Barbera militasse un boss mafioso "vecchio stampo" come Pietro Torretta mentre uno degli alleati di "Cicchiteddu" risultò essere il corleonese Luciano Leggio, indicato come mafioso di nuova generazione[12][13].
Nella sua testimonianza, Buscetta liquidò invece la faccenda come una bega nata a causa di un matrimonio riparatore avversato dalla "famiglia" del Di Pisa, in cui si inserì furbescamente Michele Cavataio (capo-mafia della borgata dell'Acquasanta) in rappresentanza di una coalizione di vecchi boss spodestati dal potere crescente della "Commissione": la strategia di Cavataio e dei suoi alleati consisteva nell'uccidere gli avversari e presentare gli omicidi come responsabilità di Angelo La Barbera e dello stesso Buscetta per spaccare dall'interno il nuovo organo di governo mafioso.[72] Lo storico Dickie afferma che, con questa versione, Buscetta intendeva occultare le sue personali responsabilità nella guerra e il ruolo cruciale assunto nella vicenda dal traffico di stupefacenti.[12]
La strage di Ciaculli provocò molto scalpore nell'opinione pubblica italiana e il governo decise di prendere seri provvedimenti[131]: nei mesi successivi vi furono circa duemila arresti di sospetti mafiosi nella provincia di Palermo e, per queste ragioni, secondo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Antonino Calderone, la "Commissione" di Cosa nostra venne sciolta e molte cosche mafiose decisero di sospendere le proprie attività illecite, disperdendosi[96]. Alcuni boss riuscirono a fuggire all'estero, dove fondarono veri e propri imperi commerciali fondati sul traffico di droga: Buscetta andò negli Stati Uniti e poi in Brasile mentre i due cugini di Ciaculli, "Cicchiteddu" Greco e «Totò l'Ingegnere», si trasferirono in Venezuela (dove se ne persero le tracce)[13] insieme al cognato Antonino Salamone (capo-mafia di San Giuseppe Jato) e ai Cuntrera-Caruana di Siculiana[107][132]. Tuttavia, le “famiglie” più avvedute (in particolare quelle di Corleone, di Santa Maria di Gesù e di Cinisi) avevano tenuto in vita le strutture essenziali, mentre l’organizzazione continuava a vivere nelle province di Trapani, Caltanissetta, Catania ed Enna, rimaste di fatto non toccate dalle indagini[133]. Nella provincia di Agrigento, invece, il discusso omicidio del commissario di P.S. Cataldo Tandoy, avvenuto nella città di Agrigento nel 1960 e ricondotto in un primo momento ad una pista passionale con implicazioni politiche, aveva portato ad un processo celebrato a Lecce per legittima suspicione, che si concluse nel 1968 con la condanna all'ergastolo dei vertici della cosca mafiosa di Raffadali, piccolo centro dell'entroterra agrigentino.[98][134][135]
A causa dello scandalo provocato dalla strage di Ciaculli, la Commissione parlamentare antimafia, presieduta dal senatore ed ex magistrato Donato Pafundi, iniziava finalmente i suoi lavori dopo una prima fase di stasi, raccogliendo notizie e dati necessari alla valutazione del fenomeno mafioso, proponendo misure di prevenzione e svolgendo indagini su casi particolari. Accogliendo le richieste della Commissione antimafia, il Parlamento approvò la famosa legge n. 575 del 1965, la c.d. legge antimafia, che introdusse la misura del soggiorno obbligato nei confronti degli «indiziati di appartenere ad associazioni mafiose»[136], partendo dal presupposto che «il mafioso fuori dal proprio ambiente diventa pressoché innocuo»[108], ma questa legge si rivelò un boomerang: inviati al soggiorno obbligato spesso in comuni dell'Italia settentrionale, i boss andarono ad inquinare zone ancora estranee al fenomeno mafioso.[12]
Nel 1968, al termine della legislatura, il presidente Pafundi concluse i lavori della Commissione con una striminzita relazione, accolta dalle polemiche[136][12]. Perciò Michele Pantaleone ed altri intellettuali di sinistra parlarono della Commissione come di un'«occasione mancata»[137]. Riconfermata nelle successive due legislature, la Commissione antimafia concluderà le sue indagini soltanto nel 1976, dopo numerosi dibattiti, polemiche e il cambio di ben due presidenti in disaccordo tra loro (dopo Pafundi, il deputato Francesco Cattanei e, poi, il senatore Luigi Carraro, tutti democristiani)[136]. La relazione finale di maggioranza redatta dal senatore Carraro venne giudicata inadeguata e riduttiva rispetto al tema delle complicità politiche ed istituzionali della mafia e perciò i membri d'opposizione della Commissione produssero ben due relazioni di minoranza, una di area comunista firmata, tra gli altri, dai deputati Pio La Torre e Cesare Terranova, l'altra di schieramento missino dai deputati Angelo Nicosia, Beppe Niccolai e dal senatore Giorgio Pisanò.[138]
La disfatta giudiziaria
Durante gli anni dell'«occasione mancata», si svolsero alcuni processi contro i protagonisti dei conflitti mafiosi di quegli anni arrestati in seguito alla strage di Ciaculli, che si svolsero in località fuori dalla Sicilia per legittima suspicione: un centinaio di mafiosi vennero giudicati in un processo svoltosi a Catanzaro nel 1968 (La Barbera Angelo + 116, il famoso "processo dei 117"); in dicembre venne pronunciata la sentenza ma solo i boss La Barbera e Torretta ebbero condanne pesanti mentre il resto degli imputati furono assolti per insufficienza di prove o condannati a pene brevi per il reato di associazione a delinquere e, siccome avevano aspettato il processo in stato di detenzione, furono rilasciati immediatamente[133][12].
Un altro processo di rilievo si svolse a Bari nel 1969 contro Luciano Liggio e i suoi accoliti, protagonisti della faida mafiosa avvenuta a Corleone alla fine degli anni cinquanta (Leggio Luciano + 63): gli imputati vennero tutti assolti per insufficienza di prove e un rapporto della Commissione parlamentare antimafia criticò aspramente il verdetto poiché risultò che la giuria avesse subìto minacce ed intimidazioni[133][99][139]. Dopo l'assoluzione di Bari, la Commissione antimafia tornò ad occuparsi di Liggio a causa della sua clamorosa fuga da una clinica romana, dove era riuscito a farsi operare nonostante pendesse su di lui una richiesta di arresto.[99][139]
Un processo che fece clamore in quegli anni fu inoltre quello celebratosi a Perugia nei confronti di Vincenzo e Filippo Rimi (boss mafiosi di Alcamo, cognato e nipote di Gaetano Badalamenti) per l'assassinio di Salvatore Lupo Leale, avvenuto il 30 gennaio 1962 nel contesto di una faida mafiosa, a seguito delle accuse della coraggiosa madre Serafina Battaglia, che fu la prima donna che testimoniò in tribunale contro un boss mafioso[140]. Però nel 1971, in Cassazione la condanna fu annullata perché si scoprì che la Battaglia aveva mentito[141]. Il nuovo processo portò il 13 febbraio 1979 all'assoluzione dei Rimi per insufficienza di prove.[142]
La frustrazione degli inquirenti per le numerose assoluzioni per insufficienza di prove nei confronti dei mafiosi (e quindi per l'impunità da loro raggiunta) emerse da una dichiarazione rilasciata dal colonnello dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa alla Commissione parlamentare antimafia nel 1970[143]:
«Siamo senza unghie, ecco […] mentre nell’indagine normale, nella delinquenza comune, possiamo far fronte e abbiamo ottenuto anche dei risultati di rilievo, nei confronti del mafioso in quanto tale, in quanto inquadrato in tutto un contesto particolare, è difficile per noi raggiungere le prove; ciò, non ci è dato se non attraverso l’indizio, che può diventare grave, può diventare gravissimo, può avere un valore determinante anche nel giudizio discrezionale del magistrato, ma non la prova, perché essa viene a mancare. Questo è il punto dove noi ci fermiamo, malgrado gli sforzi.»
La stagione dei grandi traffici
La riorganizzazione di Cosa nostra
Dopo la fine dei grandi processi di Catanzaro e Bari, i boss Bontate, Di Cristina e Liggio decisero l'eliminazione di Michele Cavataio poiché ritenuto il principale responsabile di molti delitti della "prima guerra di mafia" (compresa la strage di Ciaculli) che avevano provocato la dura repressione delle autorità contro Cosa nostra: per queste ragioni, il 10 dicembre 1969 un "gruppo di fuoco" capeggiato da Salvatore "Totò" Riina (braccio destro di Liggio) trucidò Cavataio ed altri tre uomini in una sparatoria passata alla storia come «strage di viale Lazio», che fece notizia per i metodi "militari" utilizzati[108][89][144][102].
Nell'estate del 1970, Buscetta e "Cicchiteddu" Greco tornarono rispettivamente dagli Stati Uniti e dal Venezuela per tenere una serie di incontri a Zurigo, Milano e Catania, cui parteciparono Bontate, Badalamenti, Di Cristina, Calderone e Liggio: oggetto delle discussioni fu la richiesta, avanzata a Cosa nostra attraverso la massoneria deviata ed ambienti statunitensi, di partecipazione al golpe neofascista organizzato dal principe Junio Valerio Borghese, in cambio della revisione dei processi a carico di alcuni boss; Calderone e Di Cristina stessi andarono a Roma per incontrare il principe Borghese ed ascoltare le sue proposte ma in seguito la richiesta fu respinta[96][145][89]. Durante gli incontri, si decise inoltre di costituire un "triumvirato" che governasse provvisoriamente Cosa nostra, composto da Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio, benché quest'ultimo si facesse spesso rappresentare da Salvatore Riina[96][146]. Nello stesso periodo in cui il "triumvirato" provvisorio si insediò al potere, fu deciso di porre in essere una serie di azioni intimidatorie: il tentato omicidio del deputato del M.S.I. Angelo Nicosia, membro della Commissione parlamentare antimafia (1º giugno 1970), accoltellato sotto casa a Palermo da uno sconosciuto (forse un sicario di Di Cristina).[147][89][144]; la scomparsa del giornalista de L'Ora Mauro De Mauro (16 settembre 1970), che rimase vittima della «lupara bianca» per aver scoperto un coinvolgimento dei mafiosi nel misterioso incidente aereo in cui morì il presidente dell'E.N.I. Enrico Mattei[148][109]; l'esplosione di alcune bombe rudimentali posizionate presso le sedi e gli uffici dell'Ente minerario siciliano e di alcuni assessorati regionali la notte di Capodanno del 1971[149][150][109]; l'omicidio del procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione (5 maggio 1971), assassinato in un agguato insieme al suo autista Antonino Lo Russo: si trattava del primo "delitto eccellente" commesso dall'organizzazione mafiosa nel dopoguerra[102][144]. Sulla figura di Scaglione pesarono forti sospetti di collusione con la mafia alimentati da una campagna di stampa condotta dai quotidiani comunisti L'Unità e L'Ora, dicerie in seguito smentite perché risultò dalle testimonianze di colleghi e familiari che il procuratore assassinato fu «un magistrato integerrimo e spietato persecutore della mafia».[151]
Dopo l'omicidio Scaglione, fu convocato un vertice d’emergenza a Roma cui presero parte il ministro dell’Interno Franco Restivo, il capo della polizia Angelo Vicari e il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Corrado Sangiorgio, in cui si decise di attivare un gruppo interforze a Palermo tra carabinieri e corpo di pubblica sicurezza.[143] Vi presero parte il colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa (per l'Arma) e il commissario Boris Giuliano (per la pubblica sicurezza) con i loro collaboratori, che in un paio di mesi portarono a termine un lavoro di mappatura delle cosche emergenti (la cosiddetta mafia "nuovo corso"), anche servendosi di informatori e spie.[143] Il risultato fu una delle più vaste operazioni anti-mafia di quegli anni, che durò dal giugno all'ottobre del 1971 con la denuncia per i reati di associazione per delinquere e traffico di stupefacenti nei confronti di 114 boss mafiosi, in gran parte individuati ed arrestati in diverse città italiane: oltre Palermo e Catania, anche Milano, Roma e Livorno, a dimostrazione del policentrismo assunto da Cosa nostra[68][152][149][150]. Finirono di colpo in manette pezzi grossi del calibro di Paolino Bontate insieme al figlio Stefano, Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calderone, Gerlando Alberti, Frank Coppola e tanti altri[119][152]. Tuttavia, nonostante l'impegno profuso dal giudice istruttore Filippo Neri e dal pubblico ministero Aldo Rizzo[153], il relativo processo si concluse nel luglio 1974 con sole 34 condanne a pene irrisorie.[143][133]
Nel 1974, passata anche questa tempesta giudiziaria, fu deciso di sciogliere il "triumvirato" per porre un freno al troppo potere acquisito da Liggio e Riina (gli unici rimasti in libertà perché latitanti): Badalamenti avrebbe guidato la nuova "Commissione", che si ricostituiva con nove capi-mandamento, questa volta scelti non più tra i "soldati" semplici (secondo il "modello" Buscetta) ma tra i capifamiglia[154][129][119].
L'anno seguente, quasi in risposta alla ricostituzione della "Commissione", Giuseppe Calderone riuscì a convincere i boss delle altre province siciliane a formare un comitato di sei membri per prendere decisioni che esulassero dall'ambito strettamente provinciale, che prese il nome di "Commissione interprovinciale" o «la Regione», di cui assunse la "presidenza"[12][155][146]. L'idea di una Commissione regionale non era nuova (secondo Antonino Calderone, un organismo del genere esisteva già negli anni '50) ma con essa l'ala catanese di Cosa nostra rivendicava la propria autonomia decisionale rispetto ai più potenti palermitani, anche in ragione del raggiunto benessere grazie all'avvenuto sviluppo economico e ai legami con la grande imprenditoria isolana[89].
In questo contesto, un certo Leonardo Vitale si presentò spontaneamente alla questura di Palermo nel marzo 1973 e dichiarò agli inquirenti che stava attraversando una crisi religiosa e intendeva cominciare una nuova vita; infatti confessò al giudice istruttore Aldo Rizzo di appartenere alla "famiglia" della borgata palermitana di Altarello di Baida e si autoaccusò di numerosi reati, rivelando per primo il ruolo apicale assunto da Riina e descrivendo anche il rito di iniziazione di Cosa nostra e l'organizzazione di una cosca mafiosa[12]: si trattava di uno dei primi mafiosi nel dopoguerra che decideva di collaborare apertamente con le autorità e il caso venne citato nella prima relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia (redatta nel 1976 da La Torre, Terranova ed altri parlamentari)[156][119]. Tuttavia nel processo scaturito dalle sue dichiarazioni che si concluse nel 1977, Vitale (definito dalla stampa "il Joe Valachi di Altarello") non venne ritenuto credibile e condannato a 25 anni di reclusione per gli omicidi confessati, ma tutti gli altri imputati che aveva accusato furono assolti (a cominciare dal boss mafioso Pippo Calò)[157]. La sua pena venne commutata in detenzione in un manicomio criminale perché dichiarato "seminfermo di mente"; scontata la pena e dimesso, Vitale verrà ucciso nel 1984[158].
Il contrabbando di sigarette e la «Pizza connection»
A partire dal 1961, il centro del contrabbando di sigarette nel Mediterraneo si spostò su Napoli a seguito della chiusura del porto franco di Tangeri.[159][110] Buscetta affermò che, dalle 500 casse di sigarette dell'immediato dopoguerra, si passò alle 40.000 sbarcate a ogni viaggio tra Napoli e Palermo nel biennio 1973-1974[72], anni in cui il contrabbando visse un intenso boom, che era dovuto alla dissoluzione della concorrenza corso-marsigliese, scompaginata dalla repressione poliziesca avviata in Francia.[122] Il volume di affari divenne talmente imponente che diversi mafiosi siciliani, come Gerlando Alberti, Giuseppe Calderone e Stefano Bontate, decisero di trasferirsi in Campania per meglio controllare il traffico[68][110] ed addirittura nel 1974 si provvide ad affiliare nell'organizzazione siciliana i camorristi napoletani Michele Zaza, i fratelli Nuvoletta e Antonio Bardellino, al fine di tenerli sotto controllo e di lusingarne le vanità.[89][160][96][161]
Tuttavia, dal 1974, i mafiosi iniziarono ad abbandonare le sigarette per dedicarsi a tempo pieno nella droga: proprio a cavallo di quegli anni, la domanda di sostanze stupefacenti (in particolare di eroina) aveva assunto proporzioni preoccupanti nell'Europa occidentale e nell'America settentrionale allargandosi a tutte le classi sociali ed alimentando quindi un "popolo" di milioni di tossicodipendenti dedito all'accattonaggio e ai furti per acquistare la "dose" giornaliera e decimato da continue overdosi[132][12]. I vecchi contrabbandieri iniziarono perciò ad incettare morfina base o eroina già pronta grazie ad accordi con i trafficanti della mafia turca conclusi in Svizzera o a Milano, dove già si recavano per la compravendita delle sigarette[132][162][108]. Inoltre alcuni chimici marsigliesi sfuggiti alla repressione in patria accettarono di venire in Sicilia per insegnare ai mafiosi il delicato processo chimico per trasformare la morfina base in eroina: in breve si moltiplicarono a dismisura i laboratori clandestini nascosti nelle campagne della Sicilia occidentale[163][164][108]. Il prodotto finito poi raggiungeva gli Stati Uniti con svariati mezzi.[165] Negli States il traffico era pure gestito da "uomini d'onore" siciliani che si erano trasferiti lì da alcuni anni ma non facevano parte delle "famiglie" italo-americane, di cui si servivano invece per smerciare il "prodotto": ne furono un esempio i Cuntrera-Caruana a Montréal, i Gambino a Cherry Hill, i Catalano-Ganci-Lamberti a Brooklyn, che aprirono catene di pizzerie, ristoranti e bar negli Stati Uniti come copertura per i loro grossi guadagni illegali, tanto che gli inquirenti statunitensi parlarono di «Pizza connection»[132][162][12]. Si calcola che, alla fine degli anni settanta, questi gruppi controllassero la distribuzione di circa il 30% dell'eroina consumata negli Stati Uniti.[108]
Tutti le fasi di questa "industria" erano saldamente in mano ai boss mafiosi Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Salvatore Inzerillo, che appunto potevano contare sui contatti con gli acquirenti di morfina base, con i chimici incaricati della raffinazione ed, infine, con i venditori negli Stati Uniti.[12] Gli altri boss (come Salvatore Riina e i suoi alleati) invece dovettero accontentarsi di una posizione marginale nel mercato della droga, con la conseguente nascita di inevitabili invidie e rivalità.[89][164][119]
L'ascesa dei Corleonesi
Nel 1972, approfittando della simultanea carcerazione di Bontate e Badalamenti a causa del blitz dei 114, Riina rimase da solo al comando del "triumvirato".[154] La prima azione che fece fu quella di organizzare il sequestro del facoltoso imprenditore Luciano Cassina e di distribuire il riscatto tra le varie "famiglie" che avevano subìto gli arresti.[89] Quella dei sequestri di persona a scopo di estorsione divenne un'industria remunerativa, sull'esempio della 'ndrangheta calabrese e dell'anonima sarda: gli ostaggi, spesso ricchi imprenditori o loro familiari, passavano di mano tra le varie bande criminali come merce di scambio, venivano incatenati e nascosti in rifugi di fortuna durante le trattative per il riscatto ed, in diversi casi, uccisi o mutilati per indurre le famiglie a pagare, come nel caso del miliardario John Paul Getty III, cui fu mozzato l'orecchio e spedito ad un quotidiano[122][113][12]. Si disse che in questo rapimento fosse coinvolto anche Luciano Liggio, l'imprendibile "primula rossa" di Corleone, che aveva deciso di esportare sul "continente" quest'attività[99][115][12]. A questa decisione contribuì il divieto di realizzare sequestri in Sicilia imposto da Bontate, Badalamenti, Inzerillo, Di Cristina e dai Calderone. Tutti loro non avevano bisogno di ricorrere a questa rozza attività perché avevano grossi interessi nell'edilizia ed iniziavano ad investire massicciamente nel contrabbando di sigarette e nella droga.[12][145][119] Potevano inoltre vantare stretti legami con le élite imprenditoriali ed affaristiche, nonché con la politica a livello nazionale e con la massoneria deviata: da qui appunto l'imposizione del divieto dei sequestri, che intendeva salvaguardare i loro amici imprenditori (in particolare i Salvo e i Costanzo) dal pericolo di rapimenti.[89][96][108][12]
Nel 1974 la quasi permanente latitanza di Liggio fu interrotta da un'indagine della Guardia di Finanza a Milano che aveva portato alla liberazione di un ostaggio[99][113]. Rimasto da solo al comando dei Corleonesi, Riina (insieme a Bernardo Provenzano, anche lui ex fedelissimo di Liggio) continuò a costruire la sua base di potere, trovando proseliti soprattutto nella zona della Piana dei Colli, ormai devastata dal sacco edilizio: i boss mafiosi delle borgate di San Lorenzo e Resuttana, Giuseppe Giacomo Gambino e Francesco Madonia, divennero a Palermo gli alleati di ferro dei Corleonesi.[154] Presto anche altri boss come Pippo Calò e Michele Greco divennero seguaci di Riina in opposizione allo strapotere acquisito da Bontate e dagli altri suoi amici.[166][167] Nel frattempo, i Corleonesi riuscirono ad inserirsi con imprese "amiche" nei sub-appalti per la ricostruzione della valle del Belìce dopo il terremoto del 1968 e, oltre Palermo, continuarono ad allargare le loro alleanze al nisseno con il vecchio Francesco Madonia (solo omonimo del boss di Resuttana), a Trapani con Mariano Agate, Vincenzo Milazzo e Francesco Messina Denaro, ad Agrigento con Antonio Ferro e Carmelo Colletti, a Catania con Benedetto Santapaola e, addirittura, nel napoletano con i fratelli Nuvoletta.[164]
La spaccatura all'interno di Cosa nostra ebbe riflessi anche nello scenario politico: in momenti diversi, Salvo Lima e Vito Ciancimino abbandonarono i fanfaniani ma, mentre Lima (appoggiato dal tandem Bontate-Badalamenti e dai Salvo) passò alla corrente Primavera di Giulio Andreotti (riuscendo a farsi eleggere prima deputato, poi sottosegretario ed, infine, europarlamentare), Ciancimino (notoriamente legato ai Corleonesi di Riina) diede vita ad una gruppo indipendente (il quale forniva occasionalmente appoggio agli andreottiani)[168], che arrivò a dominare tutti i comitati d'affari all'interno del comune di Palermo e a decidere in esclusiva gli assegnatari degli appalti, dall'illuminazione pubblica alla manutenzione di strade e fognature.[167][12]
Il primo ad accorgersi del potere acquisito dai Corleonesi fu il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il quale scoprì che i miliardi dei sequestri di persona erano investiti in società intestate a prestanome che si occupavano delle attività più varie (dall'acquisto di terreni ed immobili alla speculazione edilizia, alla sofisticazione dei vini)[169]. Nel 1977, per queste sue indagini, il colonnello Russo fu assassinato insieme ad un suo amico, l'insegnante Filippo Costa, con cui si trovava in vacanza a Ficuzza, nei pressi di Corleone.[129]
La "seconda guerra di mafia"
La stagione dei "cadaveri eccellenti"
Il duplice omicidio Russo-Costa avvenne senza il permesso della "Commissione" e ciò causò il risentimento di Bontate, Badalamenti e dei loro alleati contro i Corleonesi. Per ritorsione, Riina ordinò di uccidere Di Cristina ma i killers sbagliarono obiettivo[170]. Secondo alcune testimonianze, nel 1978 tornò dal Venezuela addirittura "Cicchiteddu" Greco per cercare di ricomporre la situazione (secondo altri, arrivò per concordare l'offensiva contro i Corleonesi)[170][108][171][119]. Fu allora che Di Cristina si accordò con Calderone per assassinare colui che riteneva responsabile del fallito agguato ai suoi danni, cioè Francesco Madonia (principale alleato dei Corleonesi nella provincia di Caltanissetta) e poi si rivolse ai carabinieri, facendo una serie di confidenze nel disperato tentativo che riuscissero ad arrestare in tempo i Corleonesi, annunciando inoltre che presto avrebbero fatto uccidere il giudice Cesare Terranova (cosa che effettivamente avvenne).[172][108][154] Riina utilizzò questa manovra come pretesto per assassinare Di Cristina mentre qualche tempo dopo anche Giuseppe Calderone finì ucciso dal suo sodale Benedetto Santapaola, che era passato alla fazione corleonese[173]. Badalamenti fu invece espulso dalla "Commissione" con la scusa di essere l'ispiratore dell'omicidio di Madonia e del complotto ai danni di Riina e dei suoi alleati.[170][119] Fuggito in Brasile per timore di essere eliminato anche lui, Badalamenti fu quindi sostituito nella carica di capo della "Commissione" da Michele Greco (capo del "mandamento" di Brancaccio-Ciaculli, che era passato anche lui con i Corleonesi).[154] Prima di riuscire a scappare oltreoceano, Badalamenti fece in tempo a far assassinare, dilaniandolo con l'esplosivo, il giovane Peppino Impastato (9 maggio 1978), militante della sinistra extraparlamentare che denunciava pubblicamente i suoi traffici e i suoi legami con la politica locale e l'imprenditoria[119][12]. Per parecchi anni, l'omicidio Impastato fu fatto passare come un attentato kamikaze.[12]
Nel 1979, la "Commissione", ormai composta in maggioranza da alleati dei Corleonesi, scatenò una serie di "omicidi eccellenti" nei confronti di esponenti delle istituzioni che intralciavano il suo potere[174]. In quei mesi infatti vennero barbaramente trucidati: il giornalista Mario Francese (26 gennaio), che sul Giornale di Sicilia aveva firmato una serie di articoli d'inchiesta sugli affari di Riina e dei suoi amici[175]; il segretario provinciale democristiano Michele Reina (9 marzo), che si opponeva alle ingerenze di Vito Ciancimino (referente politico dei Corleonesi) nel settore degli appalti[176]; il commissario Boris Giuliano (21 luglio), il quale stava indagando sul flusso di denaro sporco proveniente dal narcotraffico che si riversava negli istituti di credito[108]; il giudice Cesare Terranova, ucciso insieme al maresciallo di polizia Lenin Mancuso che lo scortava (25 settembre) perché si apprestava ad insediarsi a capo dell'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, da dove avrebbe potuto coordinare tutte le indagini antimafia[108]. Nell'anno successivo vi furono altri tre "cadaveri eccellenti": il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella (6 gennaio), che voleva avviare un'opera di modernizzazione dell'amministrazione regionale ed aveva disposto ispezioni su alcuni appalti pubblici[174][174]; il capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio), che stava proseguendo le indagini del commissario Giuliano sulle "famiglie" di Corso dei Mille ed Altofonte, principali alleate dei Corleonesi; il procuratore capo Gaetano Costa (6 agosto), che venne fatto assassinare dal boss Salvatore Inzerillo perchè aveva personalmente firmato una serie di mandati di arresto nei confronti di affiliati alla sua "famiglia", accusati di traffico di eroina e di aver protetto la misteriosa fuga in Sicilia (camuffata in rapimento) del bancarottiere italo-americano Michele Sindona.[174] Il procuratore Costa fu lasciato da solo persino dai colleghi, che rifiutarono di firmare i mandati di cattura[177]. Inzerillo voleva inoltre mandare un segnale ai Corleonesi, dimostrando che anche lui era capace di ordinare un omicidio "eccellente"[129].
Nell'estate del 1980, Buscetta tornò a Palermo dopo essere fuggito dalla semilibertà e fu incaricato da Bontate e Inzerillo di convincere Pippo Calò ad abbandonare i Corleonesi e a passare nuovamente dalla loro parte[129][12][154][72]. Ma, fallito questo tentativo, Buscetta capì che si preparava una nuova guerra e preferì trasferirsi nuovamente in Brasile, dove fu poi raggiunto da Badalamenti[129][119]. Nella sua testimonianza resa qualche anno più tardi, Buscetta cercò di gettare una sinistra luce sui Corleonesi, raccontandoli come la "mafia" cattiva che non aveva remora ad uccidere i rappresentanti dello Stato, sempre più invischiata nel mercato della droga e dei sequestri di persona. Al contrario egli affermò di appartenere, insieme a Bontate e Badalamenti, alla mafia "buona" che incarnava i vecchi valori morali di giustizia e rifiutava la contrapposizione violenta con lo Stato, nonché la vendita di droga.[12] Questa visione appare fuorviante poiché è dimostrato che Bontate e Badalamenti (sicuramente anche lo stesso Buscetta, nonostante lo abbia sempre negato) furono grossi trafficanti di stupefacenti che, all'uccisione indiscriminata degli uomini dello Stato, preferivano il condizionamento silenzioso e pervasivo delle istituzioni realizzato attraverso politici compiacenti o l'infiltrazione in logge massoniche deviate[12][167]. Inoltre diverse fonti affermano che il "buono" Bontate, a cavallo della missione fallita di Buscetta, inviò un suo socio nel giro della droga da un mercante straniero per rifornirsi di armi da fuoco pesanti e giubbotti antiproiettile nell'imminenza di un conflitto armato contro i Corleonesi.[129][115]
La "mattanza" (1981-1982)
Il pretesto della guerra fu fornito nel marzo 1981 dalla scomparsa di Giuseppe Panno, anziano "patriarca" mafioso di Casteldaccia (secondo alcuni soppresso dai Corleonesi, secondo altri da Bontate stesso per far ricadere la colpa su Riina).[154][166] Bontate allora organizzò in gran segreto l'uccisione di Riina, che lo venne a sapere e lo anticipò facendo assassinare brutalmente prima lui (23 aprile) e, subito dopo, anche il suo principale alleato Inzerillo (11 maggio)[129]. Il 25 maggio successivo, 8 mafiosi appartenenti alle cosche Bontate-Inzerillo vennero attirati in imboscate dai loro stessi associati (passati segretamente con i Corleonesi) e fatti sparire[115]. Il "gruppo di fuoco" corleonese sterminò anche i numerosi "candidati" alla successione di Panno nella zona tra Bagheria, Casteldaccia ed Altavilla Milicia (che venne soprannominata «triangolo della morte» dalla stampa dell'epoca) ed, al loro posto, installò al comando i propri fedelissimi[178][179]. In quei due anni (1981-82) si contarono circa 200 omicidi per le strade di Palermo, a cui si aggiunsero altrettante «lupare bianche»[180].
Il massacro si estese perfino negli Stati Uniti: Paul Castellano, capo della Famiglia Gambino di New York, inviò i mafiosi Rosario Naimo e John Gambino (imparentato con gli Inzerillo) a Palermo per accordarsi con la "Commissione"[181], la quale stabilì che i parenti superstiti di Inzerillo fuggiti negli Stati Uniti avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più in Sicilia ma, in cambio della loro fuga, Naimo e Gambino dovevano trovare ed uccidere Antonino e Pietro Inzerillo, rispettivamente zio e fratello del defunto Salvatore, fuggiti anch'essi negli Stati Uniti[182]: Antonino Inzerillo rimase vittima della «lupara bianca» a Brooklyn mentre il cadavere di Pietro venne ritrovato nel bagagliaio di un'auto a Mount Laurel, nel New Jersey, con una mazzetta di dollari in bocca e tra i genitali (14 gennaio 1982)[183].
Buscetta e Badalamenti riuscirono a scampare alla carneficina perché si trovavano in quel momento in Brasile ma i Corleonesi colpirono i loro parenti per costringerli ad uscire allo scoperto: due figli di Buscetta rimasero vittime della «lupara bianca» e gli vennero uccisi un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti[184]. A Badalamenti furono invece assassinati undici familiari.[119][129][115] Ma il caso più eclatante fu quello di Salvatore Contorno, "soldato" di Bontate sopravvissuto ad un agguato organizzato dai Corleonesi nel 1981, cui per ritorsione furono assassinati 35 tra parenti ed amici.[185] La vendetta dei Corleonesi s'abbattè anche su Giovannello Greco e Pietro Marchese, due "soldati" della borgata di Ciaculli considerati "traditori" perché avevano abbandonato lo schieramento di Riina per passare con Buscetta e Badalamenti: Giovannello Greco si vide uccidere il padre, lo zio, il suocero e il cognato prima di far perdere le sue tracce all'estero[186] mentre Marchese finì accoltellato mentre era detenuto all'Ucciardone[187].
Anche i potenti cugini Salvo, temendo di finire anche loro vittime della vendetta dei Corleonesi, cercarono di convincere (invano) Buscetta a tornare dal Brasile per guidare la riscossa dei "perdenti" ma, alla fine, s'accordarono con Michele Greco ed ebbero salva la vita, finendo così nell'orbita di Riina.[188][189]
Alla fine del 1982 la polizia scoprì nella zona del porticciolo di Sant'Erasmo, nella parte orientale della città dominata dal feroce boss Filippo Marchese (bieco assassino al servizio dei Corleonesi), una casa abbandonata dove i killers attiravano le proprie vittime, le torturavano e poi le facevano sparire, sciogliendole nell'acido o buttandole in alto mare[186][190]. I giornali paragonarono quella casa alla «camera della morte», ossia la sezione della tonnara dove si svolge l'ultimo atto cruento della "mattanza", ossia la tradizionale pesca siciliana dei tonni, che qui venivano intrappolati e poi finiti ad arpionate dai pescatori.[132][12][174] Marchese infatti guidava le squadre di killers che seminavano lutti nel «triangolo della morte» Bagheria-Casteldaccia-Altavilla e l'11 agosto del 1982 fece uccidere il medico legale Paolo Giaccone, freddato lungo i viali del Policlinico perché si era rifiutato di modificare una perizia su un'impronta digitale che incastrava per omicidio uno dei sicari del «triangolo della morte»[186]. Marchese fu poi ammazzato e fatto sparire dai suoi stessi uomini perché appariva troppo sadico persino agli occhi di Riina.[167]
Nel novembre 1982 si registrò l'ultimo atto della "mattanza": nel corso di una grigliata all'aperto nella tenuta di Michele Greco a Ciaculli, furono ammazzati simultaneamente il boss Rosario Riccobono e altri mafiosi di Partanna-Mondello, Noce e dell'Acquasanta, che avevano tradito il duo Bontate-Inzerillo per passare con i Corleonesi, i quali li ritenevano inaffidabili proprio per questo motivo: furono perciò strangolati da Riina in persona e dai suoi, i loro corpi spogliati e buttati in bidoni pieni di acido[167]. Nella stessa giornata, in ore e luoghi diversi di Palermo, furono anche uccisi numerosi loro associati per evitarne la reazione[191].
Nello stesso periodo, nelle altre province siciliane Riina e Provenzano imposero i propri uomini di fiducia, che eliminarono i mafiosi locali che erano stati legati al gruppo Bontate-Badalamenti[180][181]: infatti Francesco Messina Denaro (capo del "mandamento" di Castelvetrano) divenne il rappresentante mafioso della provincia di Trapani, Carmelo Colletti della provincia di Agrigento, Giuseppe "Piddu" Madonia (figlio di Francesco e capo del "mandamento" di Vallelunga Pratameno[180]) di quella di Caltanissetta mentre Benedetto Santapaola divenne capo della Famiglia di Catania dopo l'omicidio del suo rivale Alfio Ferlito (ex vice di Giuseppe Calderone[130]), trucidato insieme a tre carabinieri che lo stavano scortando in un altro carcere nella cosiddetta «strage della circonvallazione» (16 giugno 1982)[154][192].
In queste circostanze, la "Commissione" (ormai composta soltanto da capi-mandamento fedeli a Riina e Provenzano) ordinò l'omicidio dell'onorevole Pio La Torre, che era giunto da pochi mesi in Sicilia per prendere la direzione regionale del P.C.I. ed aveva proposto un disegno di legge che prevedeva per la prima volta il reato di "associazione mafiosa" e la confisca dei patrimoni mafiosi di provenienza illecita: il 30 aprile 1982 La Torre venne trucidato insieme al suo autista Rosario Di Salvo in una strada di Palermo[193].
In seguito al delitto La Torre, il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e il ministro dell'Interno Virginio Rognoni chiesero al generale Carlo Alberto dalla Chiesa di insediarsi come prefetto di Palermo con sei giorni di anticipo: infatti il ministro Rognoni aveva promesso a Dalla Chiesa poteri di coordinamento fuori dall'ordinario per contrastare l'emergenza mafiosa ma tali poteri non gli furono mai concessi[194]. Per queste ragioni Dalla Chiesa denunciò il suo stato di isolamento con una famosa intervista al giornalista Giorgio Bocca, in cui parlò anche dei legami tra le cosche ed alcune famose imprese catanesi (il riferimento implicito era ai Costanzo)[195][174]; infine il 3 settembre 1982, dopo circa cento giorni dal suo insediamento a Palermo, Dalla Chiesa venne brutalmente assassinato da un gruppo di fuoco mafioso insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro e all'agente di scorta Domenico Russo.
Gli anni della "primavera"
Il risveglio della società civile e la "primavera" di Palermo
La stagione dei "cadaveri eccellenti" e la "mattanza" scatenata dai Corleonesi con cadenza quasi quotidiana provocarono lo sdegno dell'opinione pubblica su scala nazionale e regionale, che contribuì alla nascita di un vasto movimento antimafia.[106] A farsi interprete del nuovo clima di opposizione alla violenza mafiosa fu, per prima, la Chiesa cattolica siciliana: le omelie dell'arcivescovo di Palermo, monsignor Salvatore Pappalardo, tenute in occasione dei funerali di diversi "cadaveri eccellenti", divennero dei veri e propri atti d'accusa contro le aberrazioni del potere mafioso (e contro l'inerzia dello Stato nella lotta a Cosa nostra).[196] A causa di queste sue posizioni, la messa di Pasqua del 1982 celebrata dal cardinale Pappalardo nel carcere dell'Ucciardone fu disertata da tutti i detenuti.[197]
In quegli anni a Palermo vi fu un pullulare di associazioni e comitati organizzati che si schierarono apertamente contro la mafia, la droga e il degrado urbano, come il Coordinamento antimafia costituito dai familiari di alcuni "cadaveri eccellenti".[174][197] Il 26 febbraio 1983 i comitati studenteschi e i parroci del territorio, con l'adesione del cardinale Pappalardo e di forze eterogenee (dalla C.G.I.L. alla C.I.S.L., dal P.C.I. alle A.C.L.I. e gli Scout, nonché tante altre associazioni sia laiche che cattoliche), diedero luogo ad una storica marcia antimafia che sfilò lungo il famigerato «triangolo della morte» Bagheria-Casteldaccia-Altavilla con la partecipazione di circa 10.000 persone.[106]
Famosa divenne inoltre l'azione dei gesuiti raccolti intorno al Centro "Pedro Arrupe" diretto dai padri Bartolomeo Sorge ed Ennio Pintacuda, che furono gli ispiratori dell'azione politica di Leoluca Orlando, democristiano eletto sindaco di Palermo nel 1985 e sostenuto, prima, da una giunta pentacolore di centro-sinistra e poi da una esacolore allargata al P.C.I. (che entrò, per la prima volta nella sua storia, nel governo della città)[197][174]. L'esperimento politico di Orlando fu soprannominato "primavera di Palermo" perché, oltre a coinvolgere comitati ed associazioni nell'azione di governo, mirò (tra infinite polemiche) a tagliare i ponti con tutti quei comitati d'affari annidati da oltre vent'anni all'interno dell'amministrazione comunale, il cui dominus incontrastato era Vito Ciancimino (nonostante fosse stato allontanato dalla Democrazia Cristiana nel 1983)[168], cui si erano già opposti invano i due precedenti sindaci Elda Pucci e Giuseppe Insalaco.[197][174]
Il pool antimafia, i primi "pentiti" e il maxiprocesso
L'omicidio del generale Dalla Chiesa provocò molto scalpore nell'opinione pubblica italiana e nei giorni successivi il governo Spadolini II varò la legge 13 settembre 1982 n. 646 (detta "Rognoni-La Torre" dal nome dei promotori del disegno di legge) che introdusse nel codice penale italiano l'art. 416-bis, il quale prevedeva per la prima volta nell'ordinamento italiano il reato di "associazione di tipo mafioso" e la confisca dei patrimoni di provenienza illecita.[198]
Tutto ciò indusse i mafiosi a scatenare ritorsioni contro i magistrati che applicavano questa nuova norma: il 26 gennaio 1983 venne ucciso il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, il quale era impegnato in importanti inchieste sui mafiosi della provincia di Trapani e preparava il suo trasferimento alla Procura di Firenze, da dove avrebbe potuto disturbare gli interessi dei Corleonesi in Toscana;[199] il 29 luglio un'autobomba parcheggiata sotto casa uccise Rocco Chinnici, capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, insieme a due agenti di scorta e al portiere del condominio.[200] Si seppe che l'attentato era stato preannunciato da un informatore almeno due settimane prima ma non fu presa nessuna misura di sicurezza[174]. Inoltre il settimanale L'Espresso pubblicò alcuni appunti di Chinnici in cui accusava colleghi ed avvocati di complicità con Cosa nostra, denunciando un clima di condizionamento delle indagini[174][201].
Dopo l'assassinio di Chinnici, il giudice Antonino Caponnetto, che lo sostituì a capo dell'Ufficio Istruzione, decise di istituire un "pool antimafia", ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente e a tempo pieno dei reati di stampo mafioso, di cui chiamò a far parte i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.[202] Falcone in particolare era esperto in investigazioni patrimoniali e bancarie, che aveva già utilizzato con successo in un processo contro la cosca Inzerillo[174]. Furono infatti le indagini sui patrimoni accumulati illecitamente e sui conti bancari (rivoluzionarie per l'epoca) che consentirono al pool di accumulare un'abbondante materiale probatorio in grado di decifrare i legami tra le cosche.[174][203] Tuttavia la conferma a questo lavoro arrivò con la collaborazione di Tommaso Buscetta: arrestato in Brasile ed estradato in Italia nel giugno 1984, il boss, braccato dai Corleonesi che gli avevano sterminato la famiglia, decise di raccontare tutto ciò che sapeva su Cosa nostra al giudice Falcone, rivelando i nomi degli adepti e gli organigrammi delle "famiglie", l'esistenza di regole di comportamento, gerarchie e rituali d'affiliazione che consentirono di considerare le cosche non più come gruppi criminali autonomi ma parte di un'unica organizzazione, Cosa nostra appunto.[184][130][129] Buscetta tacque però sui legami della mafia con il mondo politico: gli unici personaggi legati alla politica che accusò furono Vito Ciancimino e i cugini Nino ed Ignazio Salvo ma non volle andare oltre, nonostante le insistenze di Falcone.[72][174] Il 29 settembre 1984 le dichiarazioni di Buscetta produssero 366 ordini di cattura eseguiti, oltre a Palermo, anche a Roma, Milano e Frosinone.[204] Stessa cosa fece subito dopo Salvatore Contorno, anche lui sopravvissuto alla «seconda guerra di mafia» e vittima di vendette trasversali contro i suoi parenti ed amici, le cui dichiarazioni costituirono una conferma a quelle di Buscetta[203]. Nell'ottobre del 1984 le rivelazioni di Contorno portarono ad altri 127 mandati di cattura, nonché arresti eseguiti tra Palermo, Roma, Bari e Bologna[185].
Per queste ragioni, il boss Pippo Calò organizzò insieme ad ambienti legati alla banda della Magliana la strage del Rapido 904 (23 dicembre 1984), che provocò 17 morti e 267 feriti, al fine di distogliere l'attenzione delle autorità dalle indagini del pool antimafia e dalle dichiarazioni di Buscetta e Contorno[205]. Il 2 aprile 1985, i Corleonesi scatenarono nuovamente l'offensiva contro la magistratura: un altro spaventoso attentato con autobomba a Pizzolungo, nei pressi di Trapani, che doveva colpire il giudice Carlo Palermo (titolare di una complessa indagine su un vasto traffico di droga ed armi imbastito da faccendieri, mafiosi siciliani e turchi con il Medio Oriente) uccise la casalinga Barbara Rizzo e i suoi bimbi di soli 6 anni, Giuseppe e Salvatore Asta, che transitavano in auto nel momento dell'esplosione.[206] Un mese dopo l'attentato, fu trovato ad Alcamo un laboratorio clandestino per la produzione di eroina (il più grande mai scoperto in Europa), che era gestito dai mafiosi di Alcamo e Castellammare del Golfo responsabili del massacro di Pizzolungo (ed alleati di ferro dei Corleonesi nel trapanese)[108][207].
Nell'estate del 1985, a pochi giorni di distanza, furono uccisi due validi investigatori che a lungo avevano collaborato con il pool antimafia: il commissario Beppe Montana (28 luglio) e il vice questore Ninni Cassarà (6 agosto), massacrato insieme all'agente di scorta Roberto Antiochia.[208] Questi due omicidi indussero le autorità ad aumentare le misure di sicurezza intorno a Falcone e Borsellino, incaricati di redigere l'imponente ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio degli imputati accusati da Buscetta e Contorno: i due magistrati furono perciò trasferiti insieme alle proprie famiglie presso la foresteria del carcere dell'Asinara, dove poterono completare il loro lavoro.[201]
Finalmente, l'8 novembre 1985 il giudice Falcone poté depositare l'ordinanza-sentenza di 8 000 pagine che rinviava a giudizio 476 indagati in base alle indagini del pool antimafia supportate dalle dichiarazioni di Buscetta, Contorno e altri ventitré collaboratori di giustizia[209][210]: il cosiddetto "maxiprocesso" che ne scaturì iniziò in primo grado il 10 febbraio 1986, presso un'aula bunker appositamente costruita all'interno del carcere dell'Ucciardone a Palermo per accogliere i numerosi imputati e avvocati[211]. Con una scelta considerata rivoluzionaria, la giunta del sindaco Leoluca Orlando si costituì parte civile nel processo.[174] Dopo 349 udienze, 1314 interrogatori e 635 arringhe difensive, il maxiprocesso si concluse in primo grado il 16 dicembre 1987 con 342 condanne, tra cui 19 ergastoli che vennero comminati tra gli altri ai boss latitanti Benedetto Santapaola, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina, giudicati in contumacia[212][201][203].
La stagione dei "veleni"
Nel gennaio 1988, a Palermo si contarono altri due "cadaveri eccellenti": a distanza di due giorni l'uno dall'altro, furono assassinati l'ex sindaco Giuseppe Insalaco (che aveva rifiutato di sottostare al sistema degli appalti pilotati da Vito Ciancimino) e l'agente di polizia Natale Mondo (già sopravvissuto all'attentato che costò la vita a Ninni Cassarà, si era infiltrato in una banda di narcotrafficanti legati alle cosche del quartiere Arenella)[213]. In quell'anno si assistette anche allo smantellamento del pool antimafia: dopo la nomina di Borsellino a Procuratore della Repubblica di Marsala, Caponnetto chiese di tornare a Firenze prima del pensionamento e, al suo posto, il Consiglio superiore della magistratura nominò Antonino Meli, bocciando clamorosamente la candidatura di Falcone, considerato da molti l'erede naturale di Caponnetto.[174] Insediatosi a capo dell'Ufficio istruzione, Meli iniziò gradualmente a togliere al pool l'esclusiva sulle indagini antimafia, entrando in aperto contrasto con i suoi componenti.[174] Nonostante ciò, Falcone portò a termine una brillante operazione: il boss mafioso catanese Antonino Calderone, detenuto in un carcere francese, chiese di poter parlare esclusivamente con lui e, con le sue rivelazioni, portò all'arresto di 160 mafiosi in tutta la Sicilia, accusando anche i potenti imprenditori Costanzo[89][174]. Ma Meli decise di togliere l'inchiesta Calderone al pool e di smembrarla tra le varie Procure siciliane, con la scusa che non era sufficientemente provato che Cosa nostra fosse un'organizzazione unitaria e verticistica, come sosteneva Falcone.[214][174] Borsellino (che stava ottenendo notevoli successi nelle indagini antimafia in provincia di Trapani) decise di denunciare pubblicamente questa grave situazione[215] ma rischiò un provvedimento disciplinare da parte del Consiglio superiore della magistratura[174][216].
I giudici del pool persero persino l'appoggio del movimento antimafia: lo scrittore Leonardo Sciascia accusò di carrierismo i magistrati impegnati in inchieste sulla mafia in un celebre articolo apparso sul Corriere della Sera[217] mentre, in televisione, Leoluca Orlando tuonò contro Falcone, accusandolo di insabbiare le indagini sui legami politici della mafia[218][219][174]. Finita l'esperienza del pool e bocciato nuovamente dal C.S.M. per la nomina ad Alto commissario antimafia (che andò invece al magistrato Domenico Sica), nella primavera del 1989 Falcone finì nuovamente nell'occhio del ciclone a causa di alcune lettere anonime (pubblicate dai maggiori quotidiani nazionali) che lo accusavano di utilizzare il "pentito" Contorno come «killer di Stato» per sterminare i Corleonesi, accusa infamante e palesemente infondata[174][219][201]. Fu rinvenuto, nello stesso periodo, un borsone carico di tritolo collocato nei pressi della villa al mare affittata da Falcone nel periodo estivo: si diffuse la voce calunniosa che fosse una messinscena per permettere al giudice di ottenere visibilità.[174][201][220]
Nel frattempo, Falcone raccolse le dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, un altro mafioso che aveva preteso di parlare esclusivamente con lui: Mannoia si rivelò prezioso perché rivelò le ultime trame di Cosa nostra ma sui rapporti politici fu evasivo come Buscetta[174][108]. Per ritorsione, a Marino Mannoia furono uccise la madre, la sorella e una zia.[221][222] Le uniche ammissioni "esplosive" che fece a Falcone furono i legami tra Bontate e l'eurodeputato Salvo Lima ma anche che, in occasione delle elezioni politiche del 1987, la "Commissione" presieduta da Riina aveva disposto di votare per il Partito Socialista Italiano e per il Partito Radicale per punire la Democrazia Cristiana del suo scarso interesse per l'esito del Maxiprocesso.[223] In effetti, nel 1987 entrambi i partiti, che si fecero portavoce di furiosi attacchi contro la magistratura in relazione al caso Tortora, aumentarono i loro consensi in zone «ad alta densità» mafiosa: rispetto alle precedenti elezioni, il P.S.I. crebbe a Palermo dal 9,8 al 16,4% mentre il Partito Radicale passò da quasi zero al 2,3%.[174] Claudio Martelli (all'epoca vicesegretario nazionale del P.S.I.) negò sempre con forza che sia stato stipulato un patto elettorale con i boss.[224]
Il 10 dicembre 1990 si registrò un ulteriore sconfitta: la Corte d'assise d'appello di Palermo ridusse drasticamente le condanne di primo grado del Maxiprocesso, accettando soltanto parte delle dichiarazioni di Buscetta e Contorno[225].
Nel 1991, entrato in rotta di collisione anche con il procuratore capo Pietro Giammanco (che ostacolò alcune sue delicate indagini sulla stagione dei "cadaveri eccellenti"), Falcone accettò l'offerta del ministro della Giustizia Claudio Martelli di venire a lavorare a Roma.[174] Nominato direttore degli affari penali al ministero, Falcone promosse l'istituzione della Direzione Nazionale Antimafia (D.N.A.) e della Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), strutture centralizzate di coordinamento delle indagini antimafia su tutto il territorio nazionale, che furono approvate dal Consiglio dei ministri con il decreto-legge 20 novembre 1991, n. 367.[226] Queste misure furono però accolte da polemiche e critiche da parte del P.D.S. e dell'Associazione nazionale magistrati, che addirittura proclamò uno sciopero in segno di protesta.[227][219]
La candidatura di Falcone alla carica di Procuratore nazionale antimafia fu osteggiata dal C.S.M., tanto che nella primavera del 1992 il ministro Martelli (entrato in aperta polemica con l'organo di autogoverno della magistratura) fu costretto a porre il veto alla nomina del magistrato Agostino Cordova, la cui candidatura era stata posta in opposizione a quella di Falcone[228][219].
La secessione della «stella»
Il 25 settembre 1988 anche nella Sicilia centrale si ebbe un omicidio "eccellente": il giudice Antonino Saetta venne ucciso insieme al figlio Stefano lungo la strada statale Caltanissetta-Agrigento da alcuni mafiosi di Palma di Montechiaro per fare un favore ai Corleonesi di Riina[229]: infatti Saetta avrebbe dovuto presiedere il grado di Appello del Maxiprocesso ed aveva già condannato all'ergastolo i responsabili dell'omicidio del capitano Emanuele Basile[230]. In quella parte dell'isola, oltre l'omicidio del giudice Saetta, si registrarono circa 400 morti ammazzati tra il 1989 e il 1992: l'epicentro della "mattanza" mafiosa era appunto a Palma di Montechiaro e a Gela, nel nisseno.[231] Le cause di questo massacro sono da ricercarsi a partire dagli anni '60 in poi, quando, a seguito della crisi irreversibile dell'industria estrattiva dello zolfo (che portò all'inevitabile chiusura di tutte le zolfare), l'economia stagnante della Sicilia centrale si iniziò a basare prevalentemente sul settore terziario e sugli appalti pubblici «manovrati a Roma e in loco da notabili politici dei partiti di governo, amici di noti boss della mafia».[45] La costruzione della diga Olivo a Barrafranca, della diga Furore a Naro, della diga Castello a Bivona e della diga Disueri a Gela divennero oggetto di appetiti da parte di piccoli clan locali rimasti fino ad allora relegati alla piccola criminalità di ambito agro-pastorale (che nell'agrigentino presero il nome di «paracchi» o «famigghiedde»).[232][89][231][96] Dovettero però affrontare la concorrenza delle potenti "famiglie" mafiose, come i Pitruzzella di Favara e i Madonia di Vallelunga Pratameno, che si spostarono in quei luoghi con mezzi ed uomini per sfruttare i nuovi affari, cui si aggiunse l'indotto dell'Anic di Gela[231][232]. Se in un primo momento collaborarono con Cosa nostra, presto i clan dei pastori se ne allontanarono perché non accettavano il diktat dei Corleonesi, i quali intendevano favorire esclusivamente ditte "amiche" in materia di appalti e forniture di calcestruzzi: infatti i "pastori" ammazzarono un potente alleato dei Corleonesi, il capo di Cosa nostra ad Agrigento, Carmelo Colletti, e si unirono agli altri boss della zona che rifiutavano lo strapotere di Riina e dei suoi, i quali, a loro volta, scatenarono la caccia all'uomo.[231] Questa confederazione criminale che si formò fu denominata giornalisticamente «Stidda» (in siciliano «stella» oppure «sfortuna» o «scheggia»), nome, secondo alcuni, derivato da un particolare tatuaggio oppure, secondo altri, dalle origini agricole di molti dei suoi aderenti[231]. Ragazzini di 12-15 anni, rapinatori da strapazzo e tossicodipendenti furono trasformati in killers a buon mercato per regolare i conti con i boss di Cosa nostra. Con questo metodo, gli stiddari riuscirono a compiere le feroci stragi di Porto Empedocle (qui avvennero due distinti massacri: il primo, nel 1986, con tre morti e il secondo, nel 1990, con altri tre uccisi)[233], Riesi (tre morti)[234], Palma di Montechiaro (tre morti)[235], Gela (otto morti e undici feriti in quattro agguati simultanei)[236][232] e Racalmuto (anche qui due massacri: il primo, nel 1991, con quattro morti e il secondo, nel 1992, con tre morti)[237], nonché l'efferato assassinio "eccellente" del giudice Rosario Livatino (21 settembre 1990), inseguito e freddato lungo la statale Caltanissetta-Agrigento mentre si recava al lavoro. Livatino stava seguendo importanti indagini sulle cosche agrigentine e, secondo diverse testimonianze, i boss di Cosa nostra decisero di liberarsene aizzandogli contro gli stiddari con false dicerie, così da far ricadere esclusivamente su di loro la colpa del delitto[231].
La nascita del movimento antiracket
Nel 1989 fu scoperto nel covo di Antonino Madonia (giovane "rampollo" della famiglia di Resuttana, da sempre alleata ai Corleonesi) un libro mastro con quattrocento nomi di auto-saloni, boutique, studi professionali, ristoranti e piccole fabbriche con a fianco le relative cifre mensili o trimestrali delle estorsioni da pagare (il famigerato "pizzo"), che variavano dalle 150.000 ai 7 milioni di lire[108][238][174]. Delle quattrocento attività commerciali elencate, solo quattro ammisero alla polizia di pagare e nessuno collaborò alle indagini[174][238]. Anche altri segnali preoccupanti giungevano da Catania: nel gennaio 1990 furono oggetto di attentati incendiari i magazzini Standa nel centro città mentre in novembre furono assassinati Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta, dirigenti delle Acciaierie Megara, che probabilmente non si erano piegati ad un tentativo di estorsione.[174]
Secondo l'analisi di Giovanni Falcone, il proliferare delle estorsioni rispondeva ad «una precisa scelta ispirata dai Corleonesi che hanno dato via libera a ladruncoli, teppisti, malviventi da strapazzo, a Palermo come a Catania e altrove, sia per invischiare la repressione poliziesca nella caccia ai piccoli delinquenti, sia per mettere nei guai le famiglie delle grandi città, lasciando invece maggiore libertà di azione alla periferia. [...] La pratica dell'estorsione si è quindi distaccata dalle necessità di sopravvivenza [...] e di protezione, e si è trasformata in un semplice mezzo per raccogliere denaro» necessario «a finanziare gli strati più bassi dell'organizzazione, la manodopera di Cosa nostra, e il mondo che le ruota attorno».[108]
In questo contesto fece scalpore la decisione dell'imprenditore Libero Grassi (titolare di un'azienda situata nel territorio dei Madonia) di non pagare il "pizzo", anzi di denunciare pubblicamente questa pratica: prima con una lettera aperta pubblicata dal Giornale di Sicilia indirizzata al «caro estorsore» e poi in un'intervista televisiva concessa al conduttore Michele Santoro.[174] Grassi inoltre collaborò con la polizia per far arrestare i suoi estorsori, che agivano alle dipendenze della cosca dei Madonia.[239] L'iniziativa di Grassi non trovò l'appoggio di Sicindustria ed anzi l'Assindustria lo accusò di cercare soltanto visibilità poiché non risultava che gli imprenditori palermitani pagassero il "pizzo".[240] Perciò il 29 agosto 1991 Grassi fu ucciso in un agguato sotto la sua abitazione, come disse Falcone «non tanto per le centinaia di migliaia di lire che rifiutava di pagare, quanto per il "cattivo esempio" che dava all'insieme al mondo produttivo».[108]
Mentre il mondo imprenditoriale abbandonava al suo destino Libero Grassi, una sentenza (giudicata scandalosa da più parti) affermava che gli imprenditori Costanzo di Catania non sarebbero stati complici di Cosa nostra ma costretti a subire la "protezione" per necessità e quieto vivere[241][242].
L'esempio di Grassi fu seguito da 140 negozianti di Capo d'Orlando, nel messinese, che nel 1990 costituirono l'A.C.I.O. (Associazione Commercianti ed Imprenditori Orlandini), un'associazione antiracket (la prima in Italia) e fecero arrestare (e condannare)[243] i loro estorsori, appartenenti ad un clan di pastori, i Galati Giordano di Tortorici, collegato ai più potenti Farinella delle Madonie, fedelissimi dei Corleonesi.[174][244][245]
La stagione delle bombe e dell'offensiva giudiziaria
Le stragi del 1992, la reazione dello Stato e le "trattative"
L'avvio della stagione degli attentati contro i rappresentanti dello Stato venne deciso da Riina nel corso di alcune riunioni ristrette della "Commissione interprovinciale" del settembre-ottobre 1991 e subito dopo in una riunione della "Commissione provinciale", svoltasi nel dicembre 1991: specialmente durante questo incontro, venne deciso ed elaborato un piano stragista "ristretto", che prevedeva l'assassinio di nemici storici di Cosa nostra (i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e di personaggi rivelatisi inaffidabili, primo fra tutti l'eurodeputato Salvo Lima[246].
Il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione ribaltò la sentenza d'appello del Maxiprocesso e confermò integralmente tutte le condanne (compresi i numerosi ergastoli a Riina, Provenzano, Madonia, Calò e agli altri boss), avallando in toto le dichiarazioni di Buscetta e Contorno: per la prima volta, la giustizia italiana riconosceva l'esistenza di Cosa nostra come organizzazione unitaria e verticistica, e non più come agglomerato di cosche indipendenti tra loro[12].
In seguito alla sentenza della Cassazione, nel febbraio-marzo 1992 si tennero riunioni ristrette della "Commissione", sempre presiedute da Riina, che decisero di dare inizio agli attentati e stabilirono nuovi obiettivi da colpire[246]: il 12 marzo, Salvo Lima venne ucciso in un agguato alla vigilia delle elezioni politiche, che segnarono il tracollo elettorale della Democrazia Cristiana su scala nazionale; il 23 maggio avvenne la strage di Capaci: l'esplosione di 500 kg di tritolo posizionati in un cunicolo sotto il tratto autostradale tra Palermo e l'aeroporto di Punta Raisi, all'altezza dello svincolo di Capaci, uccise Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo. L'esplosione fu provocata a distanza da Giovanni Brusca, incaricato da Riina di guidare il commando omicida[166]. A soli 57 giorni di distanza, il 19 luglio, avvenne la strage di via d'Amelio: l'esplosione di un'autobomba parcheggiata sotto casa della madre uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, che furono letteralmente fatti a pezzi dalla deflagrazione.
I funerali delle vittime di entrambe le stragi videro una partecipazione popolare mai vista prima e furono caratterizzati dalle dure contestazioni nei confronti delle autorità presenti, che furono "accolte" da urla, insulti, lanci di monetine e tentativi di linciaggio.[247][248]. A seguito della strage di via d'Amelio, il governo Amato reagì con il pugno duro: la notte stessa della strage, il ministro della Giustizia Martelli firmò d'urgenza l'applicazione del regime di carcere duro (art. 41 bis dell'ordinamento penitenziario) nei confronti di circa trecento detenuti per reati di mafia, 'ndrangheta e camorra, che furono trasferiti in blocco nelle carceri di massima sicurezza dell'Asinara e di Pianosa per isolarli dal mondo esterno[246]. Il 17 agosto, il Parlamento convertì in legge il decreto n. 306 dell'8 giugno (c.d. Scotti-Martelli, dal nome dei suoi promotori), che, oltre all'articolo 41 bis, prevedeva un pacchetto di misure antimafia, come l'entrata in funzione della D.N.A. e della D.I.A. volute da Falcone[249]. Si diede inoltre il via all'operazione "Vespri siciliani", con cui vennero inviati 7 000 uomini dell'esercito in Sicilia per presidiare gli obiettivi sensibili, come tribunali ed abitazioni di magistrati[246][250][251].
La decisa reazione dello Stato tuttavia non fermò la resa dei conti: Riina cercò di allargare anche a Catania la campagna di attentati, nonostante l'opposizione di Santapaola, ed infatti il 27 luglio del 1992 fu ucciso in un agguato l'ispettore capo Giovanni Lizzio[252]. Il 14 settembre successivo, sul lungomare di Mazara del Vallo, Leoluca Bagarella (cognato di Riina), insieme ai boss Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, cercò di fare fuori il commissario Calogero Germanà (che stava conducendo importanti indagini sulle cosche trapanesi), il quale riuscì miracolosamente a salvarsi[253]. Il 19 settembre, un "gruppo di fuoco" guidato da Brusca e Bagarella uccise Ignazio Salvo (potente imprenditore e mafioso di Salemi), anche lui rivelatosi inaffidabile perché era stato legato a Salvo Lima[246].
Tra l'estate e l'autunno del 1992, il colonnello dei carabinieri Mario Mori (comandante del Raggruppamento operativo speciale) cercò in gran segreto di stabilire un contatto diretto con Riina attraverso la mediazione di Vito Ciancimino per proporgli la resa incondizionata allo Stato e quindi la cessazione delle stragi.[254][255] Dopo alcune settimane, queste proposte furono giudicate come intrasmissibili da Ciancimino, che quindi si propose a Mori come infiltrato per far catturare Riina[255]. Tuttavia, il 19 dicembre successivo, Ciancimino fu nuovamente arrestato per scontare un residuo di pena e il piano sfumò.[254] Alcuni collaboratori di giustizia sostennero che in realtà Riina recepì l'ambasciata di Ciancimino e quindi avrebbe compilato un "papello" (in siciliano, un elenco scritto) di richieste da trasmettere alle istituzioni (revisione del maxiprocesso, abolizione del 41-bis, riforma della legge sui "pentiti" e chiusura delle super-carceri dell'Asinara e di Pianosa) la cui contropartita sarebbe stata la fine della campagna stragista[166]. Mori negò sempre di aver ricevuto un "papello" da Riina e il dibattito se le richieste di Cosa nostra siano effettivamente arrivate nelle sedi governative ha tenuto banco per anni ed è arrivato persino nelle aule di tribunale.[256][257][258] Parallelamente a questa "trattativa", se ne svolse un'altra: un infiltrato dei carabinieri, l'ex terrorista nero Paolo Bellini, riuscì ad entrare in contatto con Antonino Gioè, uno dei partecipanti alla strage di Capaci.[228][259][260] Gioè informò Giovanni Brusca che Bellini chiedeva, per conto dei carabinieri, la restituzione di alcune opere d'arte trafugate. Brusca ("autorizzato" a tal proposito da Riina) gli fece sapere che voleva in cambio la scarcerazione per alcuni boss detenuti in regime di carcere duro ma la proposta fu rifiutata. Secondo Brusca, Bellini avrebbe suggerito a Gioè «di dare un segnale» allo Stato attraverso attentati contro il patrimonio artistico nazionale, con riferimento particolare alla Torre di Pisa.[166][228][260]
L'arresto di Riina e le bombe sul "continente"
Il 15 gennaio 1993 gli uomini dell'unità CrimOr del Raggruppamento operativo speciale, al comando del capitano dei carabinieri Sergio De Caprio (nome in codice Ultimo), arrestarono Riina (ricercato da venticinque anni e di cui si avevano pochissime fotografie ormai vecchie) mentre usciva dalla sua abitazione a bordo di un'automobile e fu possibile identificarlo solo grazie al riconoscimento effettuato da un suo uomo, Baldassare Di Maggio, divenuto nel frattempo un collaboratore di giustizia[246]. Si trattò di un'operazione complessa, che ebbe degli aspetti mai completamente chiariti, come la ritardata perquisizione della villa dove il boss aveva vissuto con la sua famiglia fino all'arresto, che fu oggetto di diatriba tra i carabinieri e la Procura di Palermo.[261] Oltre a questa inquietante circostanza, l'opinione pubblica rimase perplessa dal fatto che Riina, uno dei latitanti più ricercati d'Italia, potesse circolare tranquillamente per le strade di Palermo con tanto di "autista" ed inoltre che i suoi quattro figli fossero nati in una clinica privata ed avessero frequentato le scuole registrati con il loro effettivo cognome.[167][164] La prima comparsa di Riina in un'aula di tribunale dopo la cattura fu un autentico show trasmesso dalla televisione nazionale e seguito da oltre otto milioni di telespettatori, che ebbero l'occasione di vedere il boss corleonese presentarsi come un umile contadino che non conosceva Cosa nostra e si proclamava come un novello Enzo Tortora calunniato dai "pentiti"[262][45].
Subito dopo l'arresto di Riina, si creò una frattura all'interno di Cosa nostra: vi era un gruppo mafioso favorevole alla continuazione degli attentati contro lo Stato (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro) ed un altro contrario (Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Benedetto Spera) mentre il boss Bernardo Provenzano era il paciere tra le due fazioni e riuscì a porre la condizione che gli attentati avvenissero fuori dalla Sicilia, in "continente"[263]. Poichè Brusca se ne tirò fuori (a suo dire), Bagarella affidò l'organizzazione degli attentati ai fratelli Graviano e a Messina Denaro[166]. Non è ancora ben chiaro come avvenne la scelta degli obiettivi da colpire (secondo alcune testimonianze, furono adoperati depliant turistici procurati da Messina Denaro, secondo altri i bersagli furono indicati da un terrorista nero che era stato in carcere con Bagarella)[260][264]: il 14 maggio avvenne un attentato dinamitardo in via Ruggiero Fauro a Roma ai danni del giornalista Maurizio Costanzo, il quale però ne uscì illeso; il 27 maggio un altro attentato dinamitardo in via dei Georgofili a Firenze devastò la Galleria degli Uffizi e distrusse la Torre dei Pulci (cinque morti e una quarantina di feriti).
Nel maggio del 1993, papa Giovanni Paolo II si era recato in visita in Sicilia e, durante la celebrazione eucaristica tenuta presso la Valle dei Templi ad Agrigento, colse l'occasione per lanciare un duro anatema contro i mafiosi, invitandoli alla conversione.[265][266]
La notte del 27 luglio successivo, esplosero quasi contemporaneamente tre autobombe a Roma e Milano, devastando le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro nonché il Padiglione d'Arte Contemporanea di Milano (cinque morti e una trentina di feriti in tutto). Il motivo della scelta di questi obiettivi non è stato mai chiarito: alcuni sostennero che gli attentati alle basiliche romane fossero un sinistro avvertimento al Vaticano per il discorso contro la mafia pronunciato da Giovanni Paolo II durante la sua visita ad Agrigento nel maggio precedente[265][266] oppure che si trattò di un'intimidazione nei confronti dei massimi esponenti istituzionali dell'epoca, il Presidente del Senato Giovanni Spadolini e il Presidente della Camera Giorgio Napolitano.[267] In effetti, nel settembre del 1993, i fratelli Graviano decisero di far uccidere un sacerdote, padre Pino Puglisi, espressione di una Chiesa impegnata nel sociale e nel recupero di giovani e ragazzi disagiati, che nel quartiere degradato di Brancaccio-Ciaculli ("feudo" appunto dei Graviano) rischiavano di divenire manovalanza a buon mercato per l'organizzazione mafiosa.[12][266]
Nell'autunno del 1993, dopo l'abbandono della Democrazia Cristiana e il fallito tentativo di "agganciare" il P.S.I., Cosa nostra, oltre a perseguire la strategia stragista in aperta contrapposizione allo Stato, era alla ricerca di nuovi referenti politici nelle sedi governative: per questo motivo, Bagarella incaricò l'imprenditore Tullio Cannella (prestanome dei fratelli Graviano nei settori dell'edilizia e del turismo, con un passato da militante della Democrazia Cristiana) di prendere contatti funzionali alla creazione di un nuovo partito politico denominato "Sicilia Libera", di chiara ideologia separatista ed autonomista, cui aderirono diversi esponenti politici compiacenti[268]. Il nuovo partito si saldò subito con una serie di altri movimenti, più marcatamente indipendentisti, sorti a Catania (espressione del gruppo imprenditoriale dei Costanzo) e nel resto del Sud Italia, che videro il coinvolgimento attivo di ambienti massonici e neofascisti.[269][268] Tuttavia, già in occasione delle elezioni politiche del 1994, Bagarella, i Graviano e Messina Denaro si affrettarono a ritirare il loro appoggio a "Sicilia Libera" (che infatti fece fiasco) poiché si resero conto che il progetto non era realizzabile nel breve periodo e quindi decisero di puntare su nuovi alleati.[268][269]
Il 23 gennaio 1994 era infine programmato un altro attentato dinamitardo contro il presidio dell'Arma dei Carabinieri in servizio allo Stadio Olimpico di Roma durante le partite di calcio ma un malfunzionamento del telecomando che doveva provocare l'esplosione fece fallire il piano omicida, che avrebbe potuto causare numerose vittime innocenti; l'autobomba inesplosa fu poi rimossa dagli attentatori e il progetto fu in seguito rivelato dai collaboratori di giustizia[260][270] (episodio ricordato come il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma).
Il 27 gennaio 1994 vennero arrestati in un ristorante a Milano i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, che avevano curato materialmente l'organizzazione degli attentati sul "continente" e per questo la strategia delle bombe improvvisamente si fermò[271].
I collaboratori di giustizia, la "gestione" Caselli e i «processi politici»
La D.I.A. e la D.N.A., gli strumenti voluti da Falcone per coordinare le indagini antimafia, entrarono subito in funzione nel 1992 a seguito della promulgazione della legge Scotti-Martelli. In particolare, a dirigere la D.I.A. fu chiamato il questore Gianni De Gennaro, che era stato uno stretto collaboratore di Falcone.[174]
In quel periodo numerosi mafiosi iniziarono a collaborare con la giustizia per via delle dure condizioni d'isolamento in carcere previste dalla nuova norma del 41-bis e dalle nuove leggi in materia di collaborazione: alla fine del 1992 il numero dei collaboratori di giustizia provenienti dalle file di Cosa nostra raggiunse di colpo le 300 unità, che quattro anni dopo arrivarono a toccare il livello record di 424 unità.[251][272] Addirittura gli uomini vicini a Riina decisero di passare dalla parte dello Stato: per primo, nel settembre 1992 il cognato di Bagarella, Giuseppe Marchese, preferì tradire i Corleonesi per collaborare con i magistrati, che ebbero finalmente informazioni di prima mano sugli "squadroni della morte" di Bagarella.[273] Il mese successivo, in tempi record, la Procura di Palermo potè rinviare a giudizio ben ventiquattro boss della "Commissione" accusati dell'omicidio dell'europarlamentare Lima, grazie alle determinanti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che ne rivelarono i retroscena.[174][274] Nel giro di un anno dai fatti, la Procura di Caltanissetta diretta da Giovanni Tinebra, sempre grazie all'apporto dei collaboratori di giustizia, riuscì ad identificare ed arrestare i responsabili delle stragi di Capaci e di via d'Amelio (per quest'ultima soltanto nel 2008 risultò che le persone accusate e condannate fossero innocenti perché tirate in ballo ingiustamente dal collaboratore Vincenzo Scarantino, a sua volta costretto a confessare a seguito di torture e pressioni psicologiche)[246]. Nel novembre 1992, sempre la Procura retta da Tinebra, mise a segno l'operazione «Leopardo», considerata la più vasta operazione antimafia dai tempi di Buscetta con duecento mandati di cattura spiccati grazie alle dichiarazioni di un ex boss del nisseno, Leonardo Messina, che aveva iniziato a collaborare con il giudice Borsellino prima che lo uccidessero ed aveva consentito agli uomini dello S.C.O. della Polizia di Stato di localizzare in Veneto uno dei boss che sedevano nella «Regione», Giuseppe "Piddu" Madonia, che fu catturato dopo dieci anni di latitanza[174][275][276]. All'alba del 18 maggio del 1993, gli uomini dello S.C.O. misero a segno un altro colpo grosso dopo la cattura di Madonia: nelle campagne di Caltagirone fu preso Benedetto Santapaola, "capo dei capi" di Catania, anche lui latitante da dieci anni[277]. Negli anni successivi, oltre a «Leopardo», le dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia portarono ad operazioni dai nomi fantasiosi («Orsa Maggiore», «Petrov» e «Golden Market», per citare le più note), che, con centinaia di arresti, scompaginarono letteralmente i mandamenti di tutte le province siciliane.[252][278][279]
Nel novembre 1993, per cercare di arginare l'emorragia dei collaboratori di giustizia, Brusca (d'accordo con Bagarella, Graviano e Messina Denaro) organizzò il rapimento del ragazzino Giuseppe Di Matteo al fine di costringere il padre Santino (le cui rivelazioni furono determinanti per incastrare i responsabili della strage di Capaci) a ritrattare le sue dichiarazioni[280][279][166]; infine, dopo 779 giorni di prigionia, Di Matteo fu brutalmente strangolato dagli uomini di Brusca e il cadavere buttato in un bidone pieno di acido nitrico.[281][282]
Lo stesso giorno dell'arresto di Riina s'insediò come nuovo procuratore capo di Palermo Gian Carlo Caselli, subentrato a Pietro Giammanco, travolto dalle polemiche per passati contrasti avuti con Falcone e per i suoi presunti legami con l'eurodeputato Lima[283][284]. Caselli vantava una vasta esperienza investigativa perché aveva fatto parte del pool di giudici torinesi che negli anni settanta collaborò con il generale Carlo Alberto dalla Chiesa allo smantellamento delle Brigate Rosse.[283] Il bilancio dei sette anni di "gestione" Caselli (1993-1999) fu infatti evidente: 3.238 persone rinviate a giudizio per reati di mafia, 650 ergastoli irrogati a mafiosi a seguito di indagini del pool di Caselli, beni mobili ed immobili dal valore di 10.000 miliardi di lire sequestrati a personaggi appartenenti a Cosa nostra e, soprattutto, la cattura di circa trecento latitanti[284][285][286]: le indagini del pool di Caselli consentirono il 24 giugno 1995 l'arresto di Bagarella (considerato il capo militare dei Corleonesi dopo la cattura di Riina), bloccato dal personale della D.I.A. nel traffico di Palermo a seguito delle indicazioni di un suo ex gregario, Pasquale Di Filippo, anche lui passato a collaborare con la giustizia[287][122][279]. Dopo l'arresto di Bagarella, la lista dei latitanti presi grazie alle indagini della Procura diretta da Caselli si allargò con Giovanni Brusca (1996), Gaspare Spatuzza, Pietro Aglieri (entrambi nel 1997), Vito Vitale e Pasquale Cuntrera (entrambi nel 1998), per citare i boss più noti.[279]
A partire dal 1993 il pool di Caselli mise sotto indagine il sette volte Presidente del Consiglio Giulio Andreotti per legami con Cosa nostra, a seguito delle accuse di ben trentaquattro collaboratori di giustizia che lo descrissero come il principale referente dell'organizzazione mafiosa nei gangli del potere politico (persino Buscetta e Marino Mannoia decisero di rompere il silenzio sulla politica che avevano mantenuto con Falcone)[288][289]. Sempre secondo i "pentiti", Andreotti avrebbe chiesto a Cosa nostra il "favore" di eliminare un giornalista scomodo, Carmine Pecorelli, assassinato a Roma nel 1979[174]. Lo statista democristiano si difese affermando di essere vittima di una cospirazione ordita dai "pentiti" per punirlo dei provvedimenti antimafia approvati dai suoi governi (in effetti il decreto-legge che istituiva la D.N.A. e la D.I.A. ed anche un altro decreto che riportava in carcere gli imputati del maxiprocesso scarcerati per decorrenza dei termini furono approvati dal Consiglio dei ministri da lui presieduto nel 1991)[290][291][174].
Una relazione sui rapporti tra mafia e politica (la prima nella storia repubblicana ad essere approvata, anche dal voto favorevole dei parlamentari democristiani) pubblicata dalla Commissione parlamentare antimafia il 6 aprile 1993 fu considerata un vero e proprio atto d'accusa contro la corrente andreottiana: «[...] Risultano certi alla Commissione i collegamenti di Salvo Lima con uomini di cosa nostra. Egli era il massimo esponente, in Sicilia, della corrente democristiana che fa capo a Giulio Andreotti. Sulla eventuale responsabilità politica del senatore Andreotti, derivante dai suoi rapporti con Salvo Lima, dovrà pronunciarsi il Parlamento»[292][293]. Un paio di settimane dopo, il Senato concesse l'autorizzazione a Caselli e al suo pool per portare Andreotti a processo[294]. Alla fine di un lungo iter giudiziario, costellato da infinite polemiche, la Corte di Appello di Palermo nel 2003 accerterà una « [...] autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980»[295], sentenza confermata nel 2004 dalla Cassazione.[296] Per quanto riguarda le imputazioni relative all'omicidio Pecorelli, che furono oggetto di un separato processo celebrato a Perugia, nel 2003 Andreotti fu assolto definitivamente dalla Cassazione, che annullò la precedente sentenza d'appello che lo aveva condannato a 24 anni di reclusione.[297]
Oltre ad Andreotti, Caselli portò a processo una sfilza di personaggi "eccellenti" con l'accusa di complicità con Cosa nostra, come il giudice Corrado Carnevale, l'ex funzionario del SISDE Bruno Contrada, il senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri, l'ex ministro democristiano Calogero Mannino ed altri[284]. Questa stagione di «processi politici», oltre a suscitare l'attenzione mediatica, si trascinò per parecchi anni e spesso i procedimenti si conclusero con il proscioglimento degli imputati perché le accuse dei collaboratori di giustizia furono considerate inconsistenti[298]. Infatti i suoi detrattori accusarono Caselli e il suo pool di giustizialismo e di utilizzo spregiudicato dei cosiddetti "pentiti". Nel 1997 questi ultimi si trovarono al centro delle polemiche poiché Baldassare Di Maggio (uno dei principali accusatori di Andreotti) fu arrestato insieme ad altri due collaboratori di giustizia, Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera, per aver commesso una serie di omicidi contro mafiosi rivali mentre si trovavano inseriti nel programma di protezione.[299]
Terminata l'emergenza post-stragi, i governi di centro-sinistra che si succedettero cercarono di allentare le misure antimafia, tentativo che fu interpretato da più parti (da Caselli alle opposizioni di centro-destra)[300][301][302] come un cedimento dello Stato nei confronti di Cosa nostra: nel 1997 il ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, per conto del governo Prodi, dispose la chiusura delle super-carceri di Pianosa e dell’Asinara per trasformarle in parchi naturali.[303][304][305] Nel 2001, per volontà del ministro della Giustizia Piero Fassino, fu approvato un disegno di legge che modificava la disciplina legislativa sui collaboratori di giustizia, il quale era stato presentato nel 1997 dagli allora ministri della Giustizia Flick e dell'Interno Giorgio Napolitano a seguito del clamore suscitato dal "caso" Di Maggio: la nuova legge (n. 45/2001) imponeva ai collaboratori di giustizia di raccontare tutto ciò che sapevano entro 180 giorni dall'inizio della collaborazione[306]. Da allora, il numero dei collaboratori di giustizia subì un drastico dimezzamento: dalle 428 unità del 1996 si passò nel 2005 alle 290 unità.[307]
Il terzo millennio e la "sommersione"
L'«era» Provenzano
A partire dagli anni novanta, Bernardo Provenzano, con l'arresto di Totò Riina e Leoluca Bagarella, divenne il capo di Cosa nostra (era l'alter-ego di Riina fin dagli anni cinquanta)[308], nonostante il tentativo di alcuni "Giovani turchi" (in particolare Giovanni Brusca e Vito Vitale) di metterlo da parte con alcuni omicidi mirati che avevano appunto lo scopo di fare terra bruciata attorno allo stesso Provenzano. Questi tentativi andarono infine a vuoto con la cattura di Brusca nel 1996 e di Vitale nel 1998.[309][310]
Presentandosi come capo carismatico ma privo dell'investitura formale da parte della "Commissione" (che ormai non si riuniva più dai tempi di Riina perché decimata dagli arresti)[171][122], Provenzano si circondò solo di uomini di assoluta fiducia (come Benedetto Spera e Antonino Giuffrè) e cambiò radicalmente il modus operandi della mafia siciliana: i mandamenti più ricchi cedettero i loro guadagni a quelli meno redditizi in modo da accontentare tutti (una sorta di stato sociale) evitando ulteriori conflitti, e furono ridotti al minimo i crimini efferati e i "cadaveri eccellenti" che attiravano l'attenzione mediatica[311][12]. In effetti, dalla fine degli anni novanta, il tasso di criminalità (sia grande che piccola) subì un sensibile calo persino a Palermo e a Catania.[12] Una relazione del ministero dell'Interno del 2004 descrive bene questa strategia adottata da Provenzano: «Questa sua azione, all'insegna della scarsa visibilità, permette alla mafia di esercitare un attento controllo sugli appalti illeciti, in modo da non sollecitare l'attenzione dell'opinione pubblica e non creare allarme sociale, optando per la pacifica spartizione degli illeciti guadagni, con particolare riferimento a quelli acquisiti nel settore degli appalti»[312].
Benché Bernardo Provenzano si trovasse ad essere l'ultimo dei vecchi boss ancora in libertà, Cosa nostra non godeva più di massiccio consenso, come sino a prima degli anni novanta, a causa delle stragi del '92 che tanto avevano turbato l'opinione pubblica.[12] Ad esempio, nel 2004 il centro di Palermo si trovò tappezzato di adesivi con la scritta: «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità» ad opera di un gruppo di giovani palermitani, i quali daranno vita l'anno seguente al Comitato Addiopizzo che, in pochi anni, raccolse numerosi imprenditori, commercianti ed artigiani, incentivando il consumo critico a favore di coloro che si oppongono al racket mafioso del "pizzo".[313][314]
Il dibattito sul 41-bis e la "dissociazione"
Nel 2002 venne arrestato il boss Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano, che divenne subito un collaboratore di giustizia. Giuffrè rivelò per primo ai magistrati la strategia di "sommersione" portata avanti da Provenzano[315] ed accusò i leaders politici del partito governativo di Forza Italia, Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, di essere i referenti di Cosa nostra nelle sedi istituzionali per portare avanti le istanze che interessavano all'organizzazione: revisioni di processi di mafia, abolizione dell'ergastolo, revoca delle leggi sui sequestri dei beni, sui collaboratori di giustizia e dell'articolo 41-bis[316][317]. Dell'Utri bollò le accuse di Giuffrè come calunnie che intendevano delegittimare i provvedimenti antimafia del governo Berlusconi[318], come l'approvazione della legge presentata dal ministro della Giustizia Roberto Castelli che trasformava il 41-bis da provvedimento temporaneo a permanente (legge 23 dicembre 2002, n. 279)[319][320].
Quasi in risposta all'approvazione della legge, uno striscione apparve sugli spalti dello stadio "Renzo Barbera" durante la partita di calcio Palermo-Ascoli del 21 dicembre 2002 in cui si leggeva la scritta «Uniti contro il 41-bis. Berlusconi dimentica la Sicilia» (si scoprì che lo striscione fu opera di alcuni "picciotti" di Brancaccio-Ciaculli).[12][321]
In quei mesi infatti era in corso un intenso dibattito sul 41-bis a seguito di "proclama" letto dal boss Leoluca Bagarella durante un processo in cui affermava che i detenuti in regime di carcere duro fossero «stanchi di essere strumentalizzati dalle forze politiche», che a tanti suonò come un sinistro avvertimento[12][322][323]. Alcune forze politiche, come il Partito Radicale, sostenevano che il 41-bis fosse una norma incostituzionale che calpestava i diritti del detenuto ed appoggiarono la protesta dei boss[324]. Alcuni capi di Cosa nostra detenuti nel carcere di massima sicurezza di Novara (tra cui Salvatore Madonia, Giovanni Scaduto e Giuseppe Graviano) fecero pervenire al segretario del Partito Radicale, Daniele Capezzone, una lettera in cui si rivolgevano ai loro avvocati ora eletti al Parlamento, accusati di averli abbandonati al loro destino: «Erano i primi, quando svolgevano la professione forense, a deprecare più degli altri l’applicazione del 41 bis. [...] Allora svolgevano la professione solo per far cassa».[325]
Un altro boss ergastolano detenuto al 41-bis (ritenuto vicinissimo a Provenzano), Pietro Aglieri, inviò una lettera al procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e al procuratore di Palermo Pietro Grasso in cui si diceva pronto a "dissociarsi" pubblicamente da Cosa nostra ma senza accusare nessuno, in cambio di benefici carcerari e sconti di pena, e il suo esempio fu seguito da altri boss come Pippo Calò e Giuseppe "Piddu" Madonia (anche loro ritenuti legati a Provenzano)[326][327]. La proposta fu seccamente rifiutata dai destinatari della lettera[328]. Già nel 2001 un funzionario del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (D.A.P.), Alfonso Sabella (che era stato un magistrato del pool di Caselli), protestò di essere stato estromesso dal suo ufficio dal ministro Castelli per volere del nuovo direttore del D.A.P. Giovanni Tinebra perché aveva denunciato che alcuni detenuti ristretti al 41-bis (tra cui il boss Salvatore Biondino, fedelissimo di Riina) si stavano organizzando per ottenere una legge sulla "dissociazione" e un regime carcerario meno severo[279][326]. Castelli definì le accuse di Sabella «un caso montato sul nulla»[329].
Lo stesso Giuffrè avvertì i magistrati con cui collaborava che la "dissociazione" fosse una trappola architettata da Provenzano per permettere ai boss di uscire dal regime carcerario previsto dall'articolo 41-bis.[330]
Il "caso" Cuffaro
Nel 2003 un'indagine svelò che il Presidente della Regione Siciliana allora in carica, Salvatore Cuffaro, avrebbe veicolato all'imprenditore Michele Aiello (fiancheggiatore e prestanome di Provenzano nel settore della sanità privata) e al medico Giuseppe Guttadauro (all'epoca capo-mandamento di Brancaccio) le informazioni fornite da due "talpe" in servizio alla D.D.A. di Palermo (Giorgio Riolo del R.O.S. dei Carabinieri e Giuseppe Ciuro della Guardia di Finanza) sulle indagini in corso finalizzate alla cattura dei principali latitanti di Cosa nostra, ossia Provenzano e Messina Denaro[331][332].
La vicenda fece parecchio discutere, anche se Cuffaro si dichiarò sempre estraneo alla vicenda.[333][334] Nell'aprile del 2006, alcuni giorni dopo le elezioni politiche, le riprese televisive all'interno della masseria in cui fu catturato Bernardo Provenzano mostrarono la presenza di numerosi volantini elettorali a favore della candidatura di Cuffaro al Senato, immagini che fecero il giro del mondo e causarono grave imbarazzo politico[335][336].
Cuffaro fu infine riconosciuto colpevole in primo grado nel 2008 per il reato di favoreggiamento a Cosa nostra[337]. Le fotografie che lo ritraevano mentre festeggiava la condanna con vassoi di cannoli furono giudicate di cattivo gusto e fecero scalpore[338]: sommerso dalle polemiche, Cuffaro fu costretto a dimettersi dalla carica di Presidente della Regione[339][340]. La sua condanna fu confermata definitivamente nel 2011.[341]
L'arresto di Provenzano e dei Lo Piccolo
L'11 aprile del 2006, dopo una latitanza record durata 43 anni (dal 1963), Provenzano venne catturato in un casolare a Montagna dei Cavalli (frazione a 2 km da Corleone), che fu localizzato dagli uomini della squadra mobile di Palermo e dello S.C.O. seguendo i movimenti della biancheria e dei "pizzini" (in gergo mafioso, i bigliettini utilizzati per comunicare in codice con gli altri affiliati) in uscita dall'abitazione dei familiari del boss.[342] Nel casolare di Montagna dei Cavalli, oltre a ricotta, formaggi, crocifissi e santini, furono trovati una macchina da scrivere e numerosi "pizzini", che furono poi utilizzati per successive indagini antimafia.[335][336]
Il 5 novembre del 2007, dopo 25 anni di latitanza, venne arrestato, in una villetta di Giardinello, anche colui che veniva considerato il presunto successore di Provenzano, il boss Salvatore Lo Piccolo assieme al figlio Sandro. I Lo Piccolo controllavano la zona della Piana dei Colli, dalla borgata di San Lorenzo allo squallido quartiere popolare dello ZEN, e stavano allargando le loro alleanze ai mandamenti di Brancaccio e Carini fino agli Stati Uniti, grazie ad accordi con la "famiglia" Gambino di New York.[343][344]
In seguito all'arresto dei Lo Piccolo, numerosi osservatori ritennero che al vertice dell'organizzazione criminale vi fosse Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano (Trapani), benché altri ritenessero che il suo dominio si limitasse alla sola provincia di Trapani[345].
Il ritorno degli "scappati" e i tentativi di riorganizzazione
Nei primi anni 2000, all'interno di Cosa nostra si iniziò a discutere su un possibile ritorno in Sicilia degli "scappati", ossia i perdenti della «seconda guerra di mafia» che erano fuggiti all'estero per sfuggire al massacro dei Corleonesi[171][344][122]. In particolare sugli Inzerillo (parenti del boss Salvatore, assassinato nel 1981) pendeva un bando della "Commissione" risalente al 1982 che vietava loro il ritorno, pena la morte[182]. Tuttavia i Lo Piccolo premevano su Provenzano affinché il bando sugli "scappati" fosse revocato, consentendo loro il ritorno: infatti nel ventennio trascorso negli Stati Uniti, gli Inzerillo rafforzarono i legami con i loro cugini Gambino di Brooklyn ed acquisirono un ruolo di primo piano nel traffico di droga, in particolare di cocaina.[171][344] Un collaboratore di giustizia riferì a proposito degli Inzerillo: «Stanno cominciando a camminare [...] hanno possibilità di grosse quantità di droga».[171] Infatti i precedenti tentativi di Cosa nostra di inserirsi nel business della cocaina (ormai saldamente in mano alla 'ndrangheta calabrese) erano andati clamorosamente a vuoto: addirittura nel 2002 un mafioso trapanese, Salvatore Miceli (detto il «ministro degli esteri di Cosa nostra»), finì ostaggio dei narcos colombiani per aver perso un carico di cocaina e si salvò soltanto grazie all'intervento del broker calabrese Roberto Pannunzi, che garantì per lui la restituzione del debito.[346][122]
A questo piano di rientro degli "scappati" si oppose però lo schieramento guidato da Antonino Rotolo (capo-mandamento del quartiere Pagliarelli di Palermo) perché temeva una vendetta degli Inzerillo in quanto, durante la «seconda guerra di mafia», aveva ucciso diversi loro parenti. Rotolo doveva scontare una condanna all'ergastolo ma aveva ottenuto gli arresti domiciliari per problemi di salute, di cui approfittava per poter incontrare i suoi uomini ed associati nel garage della propria abitazione.[122][344]
Perciò nel 2003 Provenzano, Lo Piccolo e Rotolo decisero di inviare negli Stati Uniti due "ambasciatori", Nicola Mandalà e Gianni Nicchi, con il compito di saggiare le intenzioni degli Inzerillo e dei loro parenti Gambino[171][347][344]. Nel 2004 tornò provocatoriamente a Palermo dagli States Rosario "Sarino" Inzerillo (fratello di Salvatore, Santo e Pietro, tutti uccisi durante la «seconda guerra di mafia»), causando ulteriormente le ire di Rotolo poichè, nonostante le sollecitazioni, Provenzano continuava a mantenere un atteggiamento ambiguo sulla vicenda e prendeva tempo.[171][182]
Deluso anche dal risultato della "missione" negli U.S.A., Rotolo decise di uccidere i Lo Piccolo padre e figlio per bloccare il piano di ritorno degli "scappati".[171] Tuttavia da mesi i magistrati della D.D.A. di Palermo e gli investigatori della D.I.A. intercettavano le conversazioni di Rotolo con i suoi associati nel garage e quindi erano a conoscenza di tutti i suoi piani. Infatti gli arresti in sequenza di Provenzano, di Rotolo, dei Lo Piccolo e di altri 52 mafiosi tra il 2006 e il 2007 bloccarono sul nascere questi progetti di morte[348][344][122].
Nel febbraio del 2008, un'operazione congiunta di F.B.I. e della squadra mobile di Palermo e dello S.C.O. della Polizia di Stato, coordinati dalla D.D.A. di Palermo, portarono all'arresto di 90 mafiosi tra New York e la Sicilia appartenenti alle "famiglie" Inzerillo-Gambino. L'operazione, denominata «Old Bridge» (antico ponte), bloccò definitivamente qualsiasi tentativo di ritorno degli "scappati".[122][349][350]
Nel dicembre successivo, i carabinieri di Palermo, dopo nove mesi di pedinamenti ed intercettazioni, scoprirono un tentativo di ricostruire la "Commissione", che non si riuniva più dal lontano 1992.[122][351] Approfittando della favorevole congiuntura offerta dalla cattura di Provenzano e dei Lo Piccolo, erano infatti in corso consultazioni tra i principali capi-mandamento della provincia di Palermo per far rinascere l'organismo di governo di Cosa nostra con undici membri ed a capo fu designato Benedetto Capizzi, capo-mandamento di Villagrazia-Santa Maria di Gesù e boss della vecchia guardia corleonese.[171] Dalle intercettazioni dei carabinieri risultò che uno degli arrestati fosse in contatto epistolare con Matteo Messina Denaro, che avrebbe fatto sapere di essere disposto a collaborare con la nuova "Commissione" ma di non essere intenzionato a riconoscere come capo nessuno al di fuori di Totò Riina, legittimo avente diritto nonostante fosse detenuto da quasi vent'anni[171].
L'operazione condotta dai carabinieri e denominata in codice «Perseo» dimostrò le difficoltà in cui si dibatteva Cosa nostra, incapace, a seguito dei numerosi arresti e della costante pressione degli investigatori, a riorganizzarsi in maniera unitaria.[122][344] Anche la crisi economica del 2007-2008 contribuì all'indebolimento di Cosa nostra: numerose attività commerciali chiusero e diversi lavori pubblici si fermarono per mancanza di fondi, con la conseguenza che molte "famiglie" videro diminuire notevolmente i margini di guadagno derivanti dall'esazione del "pizzo" o dalla partecipazione ai sub-appalti[344]. Inoltre i commercianti, schiacciati dalla crisi, preferivano rischiare denunciando gli estorsori piuttosto che pagare: a Palermo si passò dalle 593 denunce per estorsione del 1996 alle 811 del 2007[344].
Il ritorno d'attualità del biennio stragista
Gli anni 2010 furono assorbiti dal dibattito su vicende passate di Cosa nostra, in particolare sul periodo delle bombe del biennio 1992-1993. Infatti nel 2008 iniziarono a rendere dichiarazioni ai magistrati due testimoni d'eccezione di quel biennio: Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza, che demolirono gran parte delle certezze giudiziarie fino ad allora raggiunte[246][259].
La vicenda della "trattativa" Stato-mafia
Massimo Ciancimino fornì ai giudici una serie di documenti appartenuti al defunto padre Vito (già sindaco democristiano di Palermo, legato ai Corleonesi e condannato per associazione mafiosa)[352] che dimostrerebbero l'esistenza di una trattativa portata avanti, a cavallo delle due stragi del 1992, dal Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri (nelle persone degli allora generale Antonio Subranni, del colonnello Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno) che, su mandato dei vertici istituzionali dell'epoca intenzionati a far cessare le stragi, avrebbero stabilito un contatto, appunto, con Vito Ciancimino ed, attraverso di lui, prima con Totò Riina (capo dell'ala stragista di Cosa nostra) e, poi, con Bernardo Provenzano (fautore invece di una linea "moderata" nei confronti dello Stato); Riina da soggetto sarebbe diventato oggetto della trattativa, che portò alla sua cattura in cambio dell'impegno di ammorbidire il trattamento riservato ai mafiosi (cancellazione dell'articolo 41-bis e dell'ergastolo, revisione dei processi, riforma della legge sui collaboratori di giustizia) e di garantire la quarantennale latitanza dello stesso Provenzano, presunto garante del nuovo accordo[259]. Sempre a detta di Ciancimino, la trattativa sarebbe proseguita almeno fino al 1994, con l'ascesa al potere di Berlusconi, e, al posto del padre Vito, il nuovo interlocutore di Cosa nostra nel governo sarebbe diventato Marcello Dell'Utri, braccio destro del nuovo premier.[353]
I magistrati della Procura di Palermo Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene ed Antonio Ingroia, che si occupavano delle controverse accuse di Massimo Ciancimino, ascoltarono come testimoni anche coloro che in quel particolare frangente storico ricoprivano cariche pubbliche, come i politici Claudio Martelli e Luciano Violante e le funzionarie ministeriali Liliana Ferraro e Fernanda Contri, i quali ammisero, per la prima volta dopo vent'anni, di essere stati informati di una "trattativa" instaurata dal R.O.S. con Ciancimino, di cui sarebbe stato a conoscenza anche il giudice Paolo Borsellino, che forse sarebbe stato ucciso proprio per la sua opposizione a questo dialogo.[259][246] L'ex guardasigilli Giovanni Conso affermò che la sua scelta di non prorogare il regime di carcere duro per 480 mafiosi nel settembre del 1993 fu determinata dalla volontà di lanciare un segnale di distensione verso Cosa nostra[259]. L'ex ministro dell'interno Nicola Mancino invece sostenne di non aver saputo di nessuna trattativa.[354][257]
L'indagine divenne oggetto di discussione: lo storico Salvatore Lupo, il giurista Giovanni Fiandaca[355] e testate giornalistiche come Il Giornale e Il Foglio liquidarono la "trattativa" come un teorema propougnato dalla Procura di Palermo per infangare la reputazione di validi investigatori del R.O.S. che avevano ottenuto grossi successi nella lotta a Cosa nostra[256][356][357]. Alcune associazioni antimafia, come il movimento delle "Agende rosse" fondato da Salvatore Borsellino (fratello del giudice ucciso), invece appoggiarono attivamente l'inchiesta della Procura di Palermo[358]. Nel frattempo, Massimo Ciancimino fu incriminato per aver calunniato alcuni funzionari (tra cui Gianni De Gennaro) con false accuse di complicità con Cosa nostra (per cui riportò alcune condanne per calunnia) e fu accusato di aver simulato un attentato al fine di aumentare la propria credibilità (per cui subì un ulteriore condanna).[359][360] La Procura di Caltanissetta guidata dal procuratore capo Sergio Lari (che indagava sulle stragi di Capaci e via d'Amelio) ritenne le accuse di Ciancimino inattendibili, a differenza dei magistrati di Palermo[246]. Presto la "trattativa" divenne anche un caso politico: alla fine del 2011, durante le intercettazioni sulle utenze telefoniche dell'ex ministro Mancino, si registrarono anche una o più telefonate da questi intrattenute con l'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, verosimilmente ignaro del controllo telefonico in corso. Il giudice Di Matteo, intervistato da un giornalista, ammise indirettamente l'esistenza di queste registrazioni, affermando però che non fossero di alcuna utilità processuale e pertanto non sarebbero state utilizzate in dibattimento[361]. Una polemica si accese in ordine alla richiesta del Quirinale di distruggere le registrazioni, che evolse nella sollevazione di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato[362] dinanzi alla Corte costituzionale, presto ammesso[363] e che si sarebbe poi concluso con sentenza di accoglimento delle richieste della presidenza della Repubblica[364], cui seguì nell'aprile 2013 la materiale distruzione dei supporti[365]. Inoltre, nel luglio 2013, una sentenza del Tribunale di Palermo assolse Mario Mori ed un suo collaboratore, il colonnello Mauro Obinu, dall'accusa di aver favorito la latitanza di Provenzano, demolendo ulteriormente l'attendibilità processuale di Massimo Ciancimino[358]. A ciò si aggiunsero, nell'agosto del 2013, le minacce di morte pronunciate da Totò Riina nei confronti del giudice Di Matteo e registrate da una microspia durante l'ora d'aria nel carcere di Opera.[366]
Nello stesso anno, si aprì il processo che vedeva imputati i tre ufficiali dei carabinieri Subranni, Mori e De Donno, l'ex senatore Dell'Utri e i boss Riina, Bagarella, Brusca ed Antonino Cinà per il reato di "violenza o minaccia a corpo politico dello Stato" mentre l'ex ministro Mancino doveva rispondere di falsa testimonianza e Massimo Ciancimino di calunnia.[367] Il processo di primo grado si trascinò per diversi anni, concludendosi nel 2018 con l'assoluzione di Mancino e con diverse condanne[368], poi in parte annullate in appello nel 2021 e in Cassazione nel 2023. In definitiva fu riconosciuta la colpevolezza soltanto di Bagarella, Brusca e Cinà (Riina era nel frattempo morto) mentre gli ufficiali dei carabinieri furono assolti perché fu riconosciuta la tesi difensiva di Mori e De Donno secondo cui i contatti con Vito Ciancimino fossero esclusivamente di carattere confidenziale finalizzati alla cattura dei Corleonesi e che il movente della strage Borsellino andasse ricercato, non nell'opposizione alla "trattativa", ma nell'interessamento del giudice assassinato su un'indagine scottante riguardante la spartizione degli appalti pubblici tra Cosa nostra, politici ed imprenditori.[258] Le accuse di Massimo Ciancimino furono invece ritenute calunniose, contraddittorie ed, in certi passaggi, persino costruite ad arte[359][360] poiché non si potè dimostrare con certezza l'autenticità dei documenti del padre Vito che, a suo dire, proverebbero l'esistenza della "trattativa".[369]
La scoperta del depistaggio su via d'Amelio e le accuse di Spatuzza a Dell'Utri e Berlusconi
Gaspare Spatuzza era un "soldato" del "gruppo di fuoco" alle dirette dipendenze dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e, come tale, si macchiò di orrendi reati, come gli attentati a Roma, Firenze e Milano del 1993, l'omicidio di padre Pino Puglisi e il rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo[279][122]. Arrestato nel 1997 e condannato a diversi ergastoli che stava scontando in regime di 41-bis, con l'aiuto dei cappellani del carcere iniziò un graduale percorso di riavvicinamento alla fede religiosa che durò circa undici anni. Perciò nel 2008 chiamò i magistrati per accusarsi di tutti i reati che aveva commesso. La sua rivelazione più clamorosa fu quella di aver rubato la Fiat 126 poi utilizzata come autobomba per la strage di via d'Amelio, dove morirono il giudice Borsellino e gli agenti di scorta, ed identificò nei fratelli Graviano i veri organizzatori dell’eccidio, rivelando anche un loro ruolo inedito nella strage di Capaci.[246] Tuttavia questa confessione cozzava con la ricostruzione giudiziaria basata sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino, che si era autoaccusato di aver rubato l'auto ed aveva fatto condannare all'ergastolo sette suoi presunti complici.[246] Le indagini della Procura di Caltanissetta guidata dal procuratore capo Sergio Lari, affiancato dai procuratori aggiunti Domenico Gozzo e Amedeo Bertone e dai p.m. Nicolò Marino, Gabriele Paci e Stefano Luciani, contribuirono ad accertare che Spatuzza diceva la verità mentre Scarantino mentiva, supportato da altri due collaboratori di giustizia che avevano avallato la sua versione dei fatti.[370] Alla fine Scarantino confessò che fu indotto a mentire durante la sua detenzione nel super-carcere di Pianosa a seguito di torture, pestaggi e pressioni psicologiche messe in atto dalla squadra di poliziotti agli ordini del questore Arnaldo La Barbera, che coadiuvava la Procura di Caltanissetta (all'epoca diretta da Giovanni Tinebra) nelle indagini sulle stragi del 1992. Grazie a queste indagini fu possibile celebrare un nuovo processo sulla strage di via d'Amelio nei confronti dei reali responsabili tirati in ballo da Spatuzza (c.d. Borsellino-quater), che furono condannati in via definitiva, mentre nel 2011 un processo di revisione dispose la scarcerazione delle sette persone accusate in passato da Scarantino, che furono riconosciute del tutto innocenti.[371] La sentenza del Borsellino-quater parlò della vicenda come di «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana».[372] Non è stato chiarito fino in fondo se il depistaggio fosse il frutto della fretta di trovare a tutti i costi un colpevole nel clima di emergenza post-stragi oppure fosse un complotto a tutti gli effetti per coprire responsabilità più alte[246]. I poliziotti che prestarono servizio nella squadra del questore La Barbera (deceduto nel 2002 per un tumore) finirono sotto processo per aver indotto Scarantino a mentire ma nel 2022 furono salvati dalla prescrizione del reato.[373]
Più scalpore fecero le dichiarazioni di Spatuzza sui rapporti dei fratelli Graviano con il mondo politico ed imprenditoriale, in particolare con Marcello Dell'Utri e, tramite lui, con Silvio Berlusconi, che a cavallo degli attentati sul "continente" del 1993 e della celebre «discesa in campo», avrebbero promesso ai due fratelli di realizzare le richieste di Cosa nostra sul carcere duro, sull'abolizione dell'ergastolo e sulla riforma della legge sui "pentiti" in cambio dell'appoggio elettorale alla nuova formazione politica di Forza Italia.[374]
Nel 2009 il premier in carica Berlusconi affermò che le accuse di Spatuzza farebbero parte di una macchinazione ai suoi danni per punirlo delle politiche antimafia dei suoi governi[375]. I rappresentanti politici della coalizione governativa di centro-destra espressero pubblicamente solidarietà nei confronti del loro leader[376]. Filippo Graviano negò in aula le affermazioni di Spatuzza, sostenendo di non aver mai avuto rapporti di alcun tipo con Dell'Utri.[377] Giuseppe Graviano decise invece di non rispondere alle domande dell'accusa lamentando problemi di salute dovuti al 41 bis. Gli inquirenti ritennero che gli atteggiamenti dei fratelli Graviano potessero essere stati una sorta di avvertimento su possibili loro rivelazioni future in caso di mancati accordi.[377][378]
Nel giugno 2010, con una decisione giudicata "senza precedenti" dai p.m. di Caltanissetta e di Palermo,[379] la Commissione Centrale del ministero dell'Interno stabilì che Spatuzza non poteva essere ammesso al programma di protezione previsto per i collaboratori di giustizia, essendo decorso il limite di 180 giorni previsto dalla legge entro cui era tenuto a riferire i fatti di cui era a conoscenza. In una lettera inviata al settimanale L'Espresso a seguito della decisione del Viminale, Spatuzza si diceva amareggiato ma fiducioso nelle istituzioni e disposto a continuare a collaborare, e commentava: «tutta la criminalità organizzata [...] certamente sta gioendo e magari brindando a questa vittoria».[380] Nel giugno del 2011 il T.A.R. del Lazio gli ha dato ragione e così due mesi dopo è stato inserito nel programma di protezione.[381]
Le dichiarazioni di Spatuzza hanno dato nuova linfa alle teorie sull'esistenza di una trattativa tra Stato e Cosa nostra per porre fine alle stragi in cambio di misure legislative compiacenti ai voleri dell'organizzazione.[122] Fece infatti parecchio discutere una sentenza del 2011 che, riconoscendo la colpevolezza di un boss mafioso identificato grazie alle determinanti accuse di Spatuzza come uno degli organizzatori degli attentati sul "continente", affermò l'esistenza di una "trattativa" portata avanti dalle istituzioni con Cosa nostra durante la stagione delle bombe «impostata su un do ut des», anche alla luce delle nuove indagini della Procura di Palermo sulla "trattativa Stato-mafia".[382]
Nel 2014, dopo un processo durato quasi vent'anni, la Cassazione riconobbe Dell'Utri colpevole per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa ma lo assolse per le condotte successive al 1992, ritenendo quindi le accuse di Spatuzza non provate.[383] Fuggito in Libano, Dell'Utri fu arrestato ed estradato in Italia, dove doveva scontare la sua pena a sette anni di carcere[384].
L'alleanza con i nigeriani e l'operazione «Cupola 2.0»
Nel 2013 i carabinieri di Palermo intercettarono una conversazione tra l’allora capo-mandamento di Porta Nuova, Giuseppe Di Giacomo (già finito in manette nell'ambito dell'operazione «Perseo» del 2008)[385], ed il fratello ergastolano Giovanni, nella quale facevano riferimento ad un'organizzazione nigeriana operante nel quartiere di Ballarò (che rientrava appunto nel "mandamento" di Porta Nuova)[344], i cui componenti «sono rispettosi, mi vengono ad aspettare sotto casa per parlare, chiedere …e poi questi immagazzinano [partite di droga, n.d.r.]».[386] Infatti, da alcuni anni, nei vicoli di Ballarò agiva indisturbata una pericolosa associazione criminale nigeriana, la Black Axe, caratterizzata da gerarchie, regole e rituali d'iniziazione, che con metodi brutali aveva monopolizzato lo spaccio di droga (all'ingrosso e al dettaglio) e lo sfruttamento della prostituzione (si calcola che il 90% delle prostitute operanti a Palermo sia di nazionalità nigeriana)[344], sempre con il benestare di Cosa nostra: secondo l'accordo, i nigeriani avrebbero venduto marijuana «per conto loro» e l’hashish per conto della "famiglia" mafiosa di Palermo centro, che formalmente controllava la zona di Ballarò[387][344]. Come risultò dalle stesse intercettazioni con il fratello Giovanni, Giuseppe Di Giacomo aveva commissionato ai nigeriani il violento pestaggio di alcuni loro connazionali che non volevano sottostare alle regole imposte da Cosa nostra nel quartiere.[386][388] Nel 2014 Di Giacomo fu ucciso in un agguato da un rivale che gli contendeva la guida del "mandamento" ma l'accordo con i nigeriani per la spartizione del territorio è rimasto in piedi.[385][389] Alcuni collaboratori di giustizia testimoniarono che nel 2016, dopo un blitz della polizia che aveva portato in prigione diversi appartenenti a Black Axe, i boss mafiosi del mandamento di Porta Nuova fecero arrivare l'ordine in carcere che i nigeriani detenuti nelle loro stesse sezioni dovessero essere rispettati ed anzi bisognava «mettersi a loro disposizione» poiché si trattava di preziosi alleati nel traffico della droga[387].
Il 4 dicembre 2018 il comando dei Carabinieri del capoluogo siciliano effettuò un'importante operazione chiamata «Cupola 2.0» che portò all'arresto di 46 persone per associazione mafiosa. Tra loro il gioielliere ottantenne Settimo Mineo, ritenuto, oltre che capo del "mandamento" di Pagliarelli, il nuovo "capo dei capi" di Cosa nostra tramite elezione unanime avvenuta nel corso di un summit organizzato da tutti i capi regionali il 29 maggio precedente in una località sconosciuta[390]. Secondo gli inquirenti, tale incontro ha posto le basi per la costituzione di una nuova "Commissione" (che non si riuniva ormai da 25 anni), ponendo Mineo come l'erede assoluto di Salvatore Riina, deceduto in carcere nel 2017[391][392][393].
L'arresto di Mineo, come dichiarato dal Procuratore aggiunto Salvatore De Luca e dall'ex p.m. Antonio Ingroia, confermò la posizione di Matteo Messina Denaro al vertice solo della provincia di Trapani, visto che nell'organizzazione per tradizione il capo assoluto di Cosa nostra non è, dai tempi di Vincenzo Rimi, un membro situato al di fuori della provincia di Palermo[394][395][396].
Il 22 gennaio 2019, grazie alle rivelazioni dei due nuovi collaboratori di giustizia Filippo Colletti (boss di Villabate) e Filippo Bisconti (capo-mandamento di Belmonte Mezzagno), già arrestati nell'ultima operazione «Cupola 2.0», furono catturate altre sette persone, tra cui Leandro Greco, nipote del defunto Michele Greco detto "il Papa", e Calogero Lo Piccolo, figlio di Salvatore, con l'accusa di voler organizzare una nuova "Commissione" dopo l'arresto di Settimo Mineo[397][398][399].
La polemica sulle scarcerazioni "facili" durante la pandemia di COVID-19
Il 21 marzo 2020, nel pieno dell'emergenza pandemica di COVID-19, una circolare del D.A.P. invitava i direttori delle carceri di tutta Italia ad indicare all'autorità giudiziaria i nominativi di detenuti con particolari patologie o condizioni di salute (come l'età superiore ai 70 anni), così da valutare un'eventuale scarcerazione per prevenire il contagio da COVID-19 all'interno degli istituti di pena[400]. Il settimanale L’Espresso accostò questo documento alla possibile scarcerazione di diversi boss mafiosi, ricordando che 74 detenuti al 41-bis avevano più di 70 anni, e tra questi spiccavano capi importanti come Leoluca Bagarella, Benedetto Santapaola, Pippo Calò, Giuseppe "Piddu" Madonia e tanti altri[401]. Due magistrati componenti del Consiglio superiore della magistratura, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, contestarono la circolare del D.A.P. definendola un «indulto mascherato» e un «pericoloso segnale di distensione» nei confronti di Cosa nostra e delle altre mafie[402][403]. Anche i partiti d'opposizione, in particolare Lega e Fratelli d’Italia, attaccarono duramente il governo Conte, soprattutto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, sul tema delle scarcerazioni facili[404]. Particolare clamore infatti fece la decisione del Tribunale di sorveglianza di Milano di concedere gli arresti domiciliari a Francesco Bonura, boss mafioso del quartiere palermitano dell'Uditore, che stava scontando in regime di carcere duro una pena a 18 anni di reclusione[405][406], e il quotidiano La Repubblica rivelò che altri 61 mafiosi palermitani avevano già lasciato il carcere per motivi di salute[407]. Lo stesso Tribunale di sorveglianza di Milano negò invece i domiciliari a Benedetto Santapaola con la motivazione che il boss fosse più protetto dal rischio di contagio in carcere piuttosto che nella sua abitazione[408]. Travolto dalle polemiche, il direttore del D.A.P. Francesco Basentini rassegnò le dimissioni e il ministro Bonafede lo sostituì con il magistrato Bernardo Petralia e nominò suo vice Roberto Tartaglia, già impegnato nell'inchiesta sulla "trattativa Stato-mafia"[409]. Petralia e Tartaglia revocarono subito i domiciliari a Bonura e agli altri mafiosi scarcerati.[410] Inoltre il 30 aprile 2020 il Consiglio dei ministri approvò un nuovo decreto-legge, che vincolava i giudici di sorveglianza al parere della D.N.A. sulla concessione dei domiciliari e dei permessi ai detenuti in regime di 41-bis.[411][412]
La cattura di Messina Denaro
Il 16 gennaio del 2023, dopo trent'anni di latitanza, fu tratto in arresto dai carabinieri del R.O.S., con la collaborazione del G.I.S., il boss Matteo Messina Denaro, che si trovava in una clinica privata a Palermo per eseguire una seduta di chemioterapia.[413] Si scoprì che Messina Denaro si sottoponeva alle cure grazie alle prescrizioni di un compiacente medico curante e circolava con i propri connotati fisici (nonostante le dicerie diffuse negli anni su presunti interventi di chirurgia plastica per alterare la sua fisionomia)[414] e con un documento d'identità autentico fornitogli da un prestanome.[415][416]
Una serie di coincidenze avvenute a ridosso della cattura (la diagnosi di cancro all'ultimo stadio, la "profezia" di un suo prossimo arresto annunciata pochi mesi prima in tv da un ex favoreggiatore dei fratelli Graviano[417], nonché la condanna divenuta definitiva per l’ex sottosegretario Antonio D’Alì, ritenuto il suo "protettore" politico)[418] fecero nascere il sospetto che il latitante si fosse lasciato catturare[419], circostanza smentita dagli investigatori del R.O.S. che materialmente eseguirono l'arresto e dal procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia, che coordinò le indagini[420][421]: si sarebbe giunti a rintracciare Messina Denaro grazie al ritrovamento di un pizzino a casa della sorella che rivelava la malattia del super-latitante.[422]
Interrogato dall'autorità giudiziaria dopo la cattura, Messina Denaro negò sempre di far parte di Cosa nostra e qualsiasi coinvolgimento nelle stragi del biennio 1992-1993[423]. Morirà il 25 settembre successivo dopo l'aggravarsi del tumore, a soli otto mesi dal suo arresto.[424]
Note
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- ^ Mafia: 'pizzino' sorella portò a cattura Messina Denaro | ANSA.it, su www.ansa.it. URL consultato il 18 marzo 2024.
- ^ Lara Sirignano, Messina Denaro ai pm: «Da latitante giocavo a poker. Mai voluto offendere Falcone», su Corriere della Sera, 8 agosto 2023. URL consultato il 18 marzo 2024.
- ^ È morto Matteo Messina Denaro, l'ultimo stragista di Cosa Nostra - Notizie - Ansa.it, su Agenzia ANSA, 25 settembre 2023. URL consultato il 13 ottobre 2023.
Bibliografia